Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella LXIV

Terza parte
Novella LXIV

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Il marito d’una buona donna senza cagione divien geloso di lei


e a caso da quella è ammazzato, a la quale è mozzo il capo.


S`è molte fiate, signori miei, qui tra noi ragionato degli scandali che assai sovente accadono per la indebita gelosia che a l’uomo od a la donna s’appiglia. E devendovi ora narrare un pietoso caso, che non è molto a Roano avvenne, non mi par esser fuor di proposito che io del pestifero morbo de la gelosia alquanto vi ragioni. Ponno forse esser piú cagioni che inducono la persona ad ingelosire, ma per mio giudicio, qual egli si sia, credo che per l’ordinario siano due sorti d’uomini che diventino gelosi. Quelli che al nascer loro non ebbero il cielo molto favorevole e nacquero con debolissimo e sempre agghiacciato temperamento del corpo, non sará gran meraviglia che siano gelosi. Altri che averanno Venere per ascendente e nascono con tutte le membra loro forti e gagliarde, ed essendo di natura libidinosi e ne la giovinezza essendo stati violatori degli altrui letti, e non contentandosi mai d’una e di due donne, ma vogliono aver con tutte commerzio; questi tali, come si maritano, sono ordinariamente gelosi. I primi per la debolezza loro s’ingannano, perché credono che, non essendo forti a l’ufficio matrimoniale, la moglie debbia ricercar chi supplisca ai diffetti ed al poco valore che essi hanno; e però questa gelosia si vede abbracciata nei petti loro con inestirpabili radici. Né in minor errore sono i secondi, giudicando tutte le donne esser poco curiose de l’onore e che ciò che essi hanno con l’altrui donne fatto, che le donne loro facciano il medesimo con gli altri uomini. Ma se pensassero che per una o due che abbiano trovate arrendevoli agli appetiti loro, molto piú sono state quelle che hanno pregato indarno e non si sono lasciate corrompere, io porto ferma openione che non sarebbero sí facili ad aver cattiva openione de le donne ed ingelosire de le mogli. Deveriano pensare che né gli uomini né le donne sono d’un medesimo volere. Il dire che tutte le donne siano oneste e da bene, potria esser bugiardo per qualche particolare, e saria anche parola troppo presuntuosa. Non è anco lecito affermare che tutte siano disoneste, veggendosene per isperienza molte oneste e buone. E cosí, come tra gli uomini ce ne sono di buoni e di rei, il medesimo si può credere esser de le donne. Ma perché l’uomo è capo de la donna e gli appartiene il governo de la famiglia e de la casa, se egli per sorte s’abbatte in moglie leggera di cervello e che molto non si curi de l’onore, deve in questo caso il marito tener aperti gli occhi e levar via quelle occasioni che gli par che prestino la via a la donna d’esser meno che onesta, e mostrando di far ogni cosa eccetto ciò che ha ne l’animo, stia sempre vigilante e consideri minutamente tutti gli atti di quella. E veggendo che ella in effetto mostri qualche particolare affezione a chi si sia, non mostri né in parole né in atti a modo veruno accorgersene. Se ne sono visti di molti, che, dubitando che la moglie non fosse innamorata d’uno, hanno cominciato a borbottare per casa e poi averanno garrita essa moglie e dettole: – Tu non credi che io m’avveggia che tu ami il tale o il tale. Al sangue e al corpo, io farò e dirò! – Può esser di leggero che il marito talora s’inganni e che mai la donna a coloro non pensasse. Onde segue poi che ella metterá mente agli atti che quei tali faranno, e per le parole del marito a poco a poco ella s’accenderá d’un di loro, e il marito, non sel pensando, sará divenuto ruffiano de la moglie. Sí che guardisi di non biasimare mai a la presenza di lei persona de la quale dubiti quella esser invaghita. La donna, come ode che il marito vituperi alcuno, pensa che quel tale sia uomo di piú vertú d’esso marito e che egli per invidia o malevoglienza ne dica male e tema di lui; il che talora è cagione che ella deliberi di provare ciò che non deve. Ci sono alcune donne di sí fatta costuma e natura, che l’offesa di Dio e meno l’onore del mondo non istimano e vogliono tutto quello che vien loro in capo, e ancor che avessero il coltello a la gola, punto non si smoveranno dai loro disonesti appetiti. Con queste non so io che castigo si debbia né si possa usare, conoscendosi manifestamente che non temono pena, ancora che loro si desse la morte. Per questo io consiglierei che chi in tale diavolo incarnato s’abbatte, prenda gli occhi d’Argo e non dorma, ma con bel modo rimedii a tutte le azioni di quella. Il batter le mogli e con pugni e calci senza pettine carminarle, o buone o triste che siano, le mette in disperazione. Se son triste, vanno di mal in peggio e s’ostinano di voler fare tutto il contrario di quello che il marito vuole. Se elle sono buone, quando si veggiono a torto esser battute, è tanto e lo sdegno e il furore che entra loro in capo, che si deliberano di mandar i mariti in Cornovaglia. Ci sono di quelle che, o per natura o per creanza o per elezione, subito che conoscono la costuma del marito, e a conoscerla vi mettono ogni cura, a quella in tutto si sanno accomodare e si sforzano la volontá del marito far sua e voler tutto ciò ch’egli vuole. Per questo elle non faranno cosa che al marito dispiaccia giá mai. A queste non ha bisogno il marito di far molte prediche né di troppo ammonirle. Basta assai che egli le accenni il voler suo una volta sola. E chi s’abbatte in moglie di cotal ottima natura, se egli è uomo da bene e tratti quella come si conviene, si potrá veramente dire che costoro averanno la piú tranquilla e la piú beata vita che si possa nel matrimonio desiderare, perché beato e felice è quel letto ove non sono questioni. Ma bisogna anco che il marito pensi che la moglie non gli è mica data per fantesca né per ischiava, ma per consorte e per compagna. Onde le deve far buona compagnia in ogni tempo, vestirla da par sua, secondo le facultá che egli ha, e dargli quella onesta libertá che al grado suo conviene, ed avvertire di tener sempre il mezzo, perché la vertú consiste nel mezzo e gli estremi ordinariamente sogliono esser viziosi. Sovra il tutto poi, e questa fia l’ultima conchiusione, avvertisca con sommissima diligenza di non ingiuriar la moglie con amar altra donna che quella. Tutte l’altre ingiurie fatte loro costumano le mogli assai con prudenza tolerare; ma veder l’acqua, che il loro giardino deveria innaffiare, stillar altrove, questa è la scure che taglia lor il capo e che non vogliono a verun patto sopportare. Egli mi sovviene aver altre volte udito ad un amico dire che, intendendo una gran gentildonna che suo marito ardentemente amava la moglie d’un altro, che fuor di misura adirata, disse: – A la croce di Dio, se mio marito cercherá altro pertugio che il mio per suo fratello, io per mia sirocchia mi procaccerò d’altra caviglia che de la sua. – Vi dico adunque, signori miei, che in Roano fu a’ nostri dí una buona donna, la quale si maritò in un malvagio uomo, che era giocatore, bestemmiatore, geloso e pieno di molti altri vizii; il quale, oltra che tutto il dí buttava via il suo e ciò che la donna in casa recato aveva, si dilettava piú de le donne altrui che de la propria. Sopportava il tutto in pace la buona donna, la quale era da tutta la vicinanza molto amata, e ciascuno l’aveva compassione de la pessima vita che il marito le faceva fare. Il malvagio uomo, che vedeva la moglie da tutti i vicini e vicine esser amata ed accarezzata, entrò in tanto sospetto di lei e tanta gelosia, senza sospizione alcuna d’indicio vero, che cominciò a tenerla chiusa in casa e darle ogni dí de le busse e carminarla senza pettine molto stranamente; di modo che la povera donna, che era da bene, venne in grandissima disperazione, e l’amore, che al marito portava, convertí in fierissimo odio, non potendo sofferire che egli sí sconciamente a torto la battesse. Come il marito non era in casa, i vicini e le vicine la visitavano e seco a le finestre ragionavano, consolandola a la meglio che potevano. Come ho detto, tutti le volevano gran bene, perché era di buonissima natura, festevole e piacevole molto, che in compagnia sempre teneva allegra la brigata. Ora un giorno di verno, essendo venuto il marito a casa e veduta la moglie a la finestra, che con una vicina parlava, entrò in casa, ed avendo forse perduto al giuoco, o in còlera d’altro, prese la meschinella per i capegli e con calci e pugni la batté fuor di modo. Non molto dopoi si misero tutti dui come cani e gatti, borbottando, al fuoco. Frugava il malvagio con un affocato tizzone nel fuoco ed anco con la paletta vi frugava la moglie. Avvenne che un affocato carbone saltò sul petto a la donna, la qual, pensando che il marito a posta avesse quello gettatole, perduta la pazienza ed accecata da l’ira, alzò la paletta e sí gran percossa diede al marito su la nuca del capo, con sí gran forza, che il misero subito cadde morto. Ella di cosí inopinato caso smarrita, dolente oltra modo del commesso omicidio, poi che vide non ci esser altro rimedio, prese il corpo, ed avendo levato il suo letto dal luogo dove soleva stare, quivi fece una buca a la meglio che puoté, e dentro vi sepellí il morto marito e di terra lo ricoperse. Indi ritornò il letto al consueto luogo. E non si veggendo dai vicini il marito, fu domandata ove egli fosse andato. Ella a tutti diceva il marito esser andato a la guerra del Piemonte, che tra francesi e spagnuoli si faceva; il che era creduto da ciascuno, né piú innanzi si cercava. Avvenne che la casa a la donna, non so come, s’abbrusciò sin ai fondamenti; onde ella deliberò da Roano partirsi e andar a casa di suo fratello fuora di Roano tre leghe. I vicini, a cui troppo doleva perder la pratica de la donna, convennero in uno e si misero tra loro una taglia che bastasse a riedificar la casa; e cosí la ritennero. E lavorandosi dai muratori, gli impose che quivi ove era sepellito il morto, non cavassero; e questo tante volte e sí efficacemente gli imponeva, che uno di loro entrò in sospetto che alcuna cosa lá non fosse ascosa. Il perché, essendo la povera donna a messa, colui si mise a cavargli e poco andò sotto che trovò il corpo, che ancora a le fattezze e a’ panni fu conosciuto. Il che da la giustizia inteso, fu la donna sostenuta, la quale senza aspettar tormenti confessò il tutto come era seguito. Né le valse ad escusazione sua allegare la malignitá de la vita del marito e le percosse che ogni dí le dava, e provar per tutta la vicinanza ciò che diceva, ché il senato di Roano giudicò che fosse decapitata. Ella, udita la determinata sentenza, si dispose al morire divotamente e da buona cristiana. Poi adunque che si fu al sacerdote con grandissima contrizione confessata, con general compassione di tutti le fu publicamente mozzo il capo. Onde vedete a che malvagio fine la gelosia del marito e l’ira de la moglie l’uno e l’altra condusse.


Il Bandello al gentilissimo


messer Galeazzo Valle vicentino

La novella che questi dí fu narrata ne l’amenissimo giardino dei nostri signori Attellani del piacevolissimo soldato Uomobuono, che da tutti è chiamato Cristo da Cremona, ci fece assai ridere, sí perché ella ha in sé non poco di risibile, ed altresí perché il modo e i gesti che Uomobuono faceva, e il suo puro e nativo parlar cremonese ci incitavano forte al riso. E voi, tra gli altri che quivi si trovarono ad udirla, rideste la parte vostra assai saporitamente. Io, partito che fui dal giardino, subito la scrissi, e pensando a cui donar la devessi, voi subitamente mi occorreste, parendomi che udendola narrare se tanto e sí di core rideste, che descritta e al nome vostro intitolata non vi debbia dispiacere. Ché veramente cotesti animali sono di natura loro molto ridicoli e fanno mille atti piacevoli; ma talora sono malvagi e fastidiosi, come avvenne questi anni passati qui in Milano ad un povero contadino, che forse in vita sua non deveva aver veduto simie giá mai. Aveva il signor Antonio Landriano, che fu tesoriero de lo sfortunato duca Lodovico Sforza, un simione grossissimo, di volto piú degli altri simile a l’uomo, e lo teneva per l’ordinario vestito con un saione indosso, fatto di panni di diversi colori, e legato nel cortile del palazzo suo. Avvenne che un contadino, venuto da le possessioni del signor tesoriero e non ci veggendo persona se non il simione, pensò che egli fosse alcuno dei servidori de la casa. Era il contadino uomo grossolano e goffo, con un viso piú contrafatto, che pareva proprio un Esopo. Accostatosi adunque al simione, lo domandò ove era il fattore del messere. Il simione, veggendo questo nuovo Squasimodeo, se gli avventò a dosso e lo cominciò con denti ed unghie senza pettine a carmignare. Il povero uomo gli uscí pure da le mani, e pensando tuttavia che egli fusse uomo, gli diceva in loquella ambrosiana: – Al corpo del vermecan, voi potreste ben esser gentiluomo, ma gli atti vostri sono da un ghiottone! Ed ora me n’accorgo, che vi veggio incatenato, ché se me ne fossi prima accorto, io non vi veniva giá appresso. – Ma tornando a la novella, voi, in cambio di questa, mi canterete un dí con la vostra citara a l’improviso di quel soggetto che io vi proporrò, essendo oggidí voi in Italia nel cantare a l’improviso da esser annoverato tra i primi, cosí sète facondo, copioso, dolce e presto al cantare. Un’altra parte avete che a me pare mirabilissima: che da ogni tempo e in ogni luogo sempre sète pronto a dire, non sofferendo d’esser pregato. State sano.


NOVELLA LXV


Una simia, essendo portata una donna a sepellire, si veste a modo

de la donna quando era inferma e fa fuggire quelli di casa.


Al tempo che lo sfortunato duca Lodovico Sforza governava il ducato di Milano, per quanto giá mi narrò mio padre, che era capo di squadra ne la guardia del castello de la cittá di Milano, era in detto castello una simia molto grossa, che, per esser piacevole, ridicola e non far mai danno a nessuno, non si teneva legata, ma, lasciata in libertá, andava per tutto il castello. E non solamente in castello, ma usciva fuori, e ne le case de le contrade Maine, di Cusano e di San Giovanni sul muro, conversava molto spesso. Ciascuno le faceva carezze e le dava de le frutte ed altre cose a mangiare, sí per rispetto del duca, come anco perché era piacevolissima e faceva mille cose e giuochi da ridere, senza far male né morder persona. Ora tra l’altre case ove frequentava piú, era la casa d’una vecchia gentildonna, che aveva l’abitazione ne la contrada de la parrocchia di San Giovanni sul muro. Aveva la buona donna dui figliuoli, dei quali il primo era maritato, e molto volentieri vedeva la simia andar per casa e sempre le dava alcuna cosa da mangiare, e si prendeva grandissimo piacere de le sciocchezze che la simia faceva, e scherzava sovente seco come con un cagnolino averebbe fatto. I figliuoli, che vedevano la vecchia madre loro, che quasi era decrepita, tanto volentieri trastullarsi con quella bestiola, ne prendevano somma contentezza, come buoni ed amorevoli figliuoli ch’erano; e se essa simia fosse stata d’altri che del signor duca, l’averiano piú che volentieri per ricreazione de la madre comperata. Onde comandarono in casa a tutti che nessuno avesse ardire di batter né molestare la buona simia, ma che tutti le facessero carezze e le dessero da mangiare. Per questo la simia frequentava piú la casa de la vecchia che l’altre dei vicini, perché in quella era meglio trattata e vi ritrovava miglior pastura. Ogni sera però ella tornava in castello al suo consueto albergo e covile. Ora avvenne che la buona vecchia, consumata dagli anni ed anco inferma, cominciò a non uscire di letto. I figliuoli facevano attender a la madre con ogni diligenza, e di medici, medicine e cose ristorative non le mancavano in conto alcuno. La simia secondo il suo solito frequentava la casa, e fu menata ne la camera ove l’inferma giaceva, la quale mostrava d’aver gran piacere di veder essa simia e cominciò a darle di molti confetti. Sapete naturalmente coteste bestiole esser fortemente ghiotte de le cose dolci, e massimamente amar le confetture. Il perché monna simmia era quasi di continovo al letto de la buona vecchia e mangiava assai piú confetto che non faceva l’inferma, la quale, essendo fieramente da la infermitá aggravata e dagli anni consunta, dopo l’essersi confessata e riceuti i santi sagramenti de la Chiesa, la communione e l’estrema unzione, passò a meglior vita. Ora, mentre che la pompa de le essequie si preparava, secondo la consuetudine di Milano, le donne lavarono il corpo de la morta e con la cuffia e bende le abbigliarono il capo come ella era solita, e poi la vestirono. Stette sempre monna simia presente al tutto. Come il corpo fu vestito, fu ne la funebre bara deposto; né guari si stette che la chieresia invitata venne e con le solite ambrosiane cerimonie a torno ad essa bara si celebrò l’officio, e poi, levato il corpo, fu portato a la parrocchia non molto lontana. Mentre queste cose si facevano, monna bertuccia attese a votar le scatole e gli alberelli che erano su la tavola. E poi che a suo bell’agio s’ebbe empito il corpo, le montò uno strano capriccio in capo, come le suole sovente avvenire de le cose che simil bestie sogliano veder fare. Aveva ella, come v’ho detto, veduto acconciar il capo a la morta vecchia, quando la volevano metter ne la bara. Il perché la buona simia, presa quella cuffia e quelle bende sucide che sovra il letto erano rimase, avendo con quelle di bucato le donne acconcia la vecchia, ella cominciò ad abbigliarsi con le restate bende e cuffia il suo capo, come avevano le donne fatto a la morta, di modo che pareva che cento anni avesse fatto quel mestiero. Indi si corcò nel letto e con sí bel garbo vi si mise, coprendosi, che pareva a punto la madonna che in letto riposasse. Vennero le fantesche di sopra per nettar la camera e dar ordine a le cose che dentro v’erano; ma come videro la bertuccia in letto, parve loro senza dubio veruno veder la vecchia morta. Il perché, fieramente turbate e spaventate, dando grandissimi gridi, con gran fretta scesero a basso e dissero la donna morta esser in letto e stare come prima soleva. Erano di poco ritornati da la chiesa i dui fratelli e seco si trovavano alcuni loro parenti. Di brigata adunque salirono le scale ed entrarono in camera; ed ancora che avessero grand’animo per esser in compagnia, nondimeno a tutti se gli arricciarono i capelli in capo di paura, e subito, stupidi e pieni di grandissimo spavento, discesero a basso. E poi che alquanto la paura cessò, mandarono a chiamar il loro parrocchiano, facendogli intender il caso che era intervenuto. Il buon prete, che era persona da bene e divota, fece dal chierico suo pigliar la croce e l’acqua santa, ed egli con la cotta e la stola al collo se ne venne, cominciando a dir i sette salmi con varie orazioni. Come fu entrato in casa, confortò i fratelli, essortandogli a non temere, perché conosceva molto bene la madre loro giá lungo tempo, e che l’aveva confessata infinite volte e che certamente era donna da bene. Disse loro poi che se in camera avevano veduto cosa alcuna, o che s’erano ingannati nel vedere, come spesso avviene, o che per aventura erano illusioni diaboliche; ma che stessero di buon animo, ché egli benediria tutta la casa e con gli essorcismi costringeria, con l’aiuto di nostro signore Dio, gli spiriti e gli faria andar altrove. Cominciando poi a dire sue orazioni, prese l’aspersorio e con l’acqua santa andava aspergendo per tutto. Cosí col chierico suo salí in alto, non ci essendo persona che volesse o, per dir meglio, osasse accompagnarlo. Come egli fu in camera e vide monna bertuccia che se ne stava in un gran contegno, se gli rappressentò la vecchia morta e seppelita, ed ebbe pure un poco di paura; nondimeno, fatto buon animo, s’accostò assai vicino al letto e, avendo l’aspersorio, cominciò a dire: – Asperges me, Domine, – e gettar de l’acqua a dosso a la simia. Ella, come vide il prete dimenar l’aspersorio quasi in forma di volerla battere, cominciò a digrignare i denti e battergli insieme. Il che veggendo il domine e fermamente credendo esser alcuno spirito, ebbe grandissima paura e, lasciato cascar l’aspersorio, si mise a fuggire. Ma prima di lui il suo chierico, gettata per terra la croce e l’acqua santa, se ne fuggí giú per la scala con tanta fretta che, cadendo, andò giú a gambe riverse, ed il prete dietro a lui, di tal maniera che anco egli cadette a dosso al suo chierico, e andarono tomando a l’ingiú, come fanno le glomerate anguille nel lago di Garda, dagli antichi chiamato Benaco, quando esse, come dicono i paesani, «vanno in amore». Teneva pur detto messer lo prete: – Iesus, Iesus! Domine, adiuva me. – Al romore che i dui caduti giú per la scala facevano, corsero i dui fratelli con gli altri che in casa erano, ed aggiunsero in quella che essi, mezzo sciancati, erano al fondo tombati. Gli dimandavano i dui fratelli che cosa fosse questa e ciò che gli era accaduto. Pareva il prete col suo chierico, a guardarlo in viso, che fosse stato tratto alor alora fuor di sepoltura, sí era pallido e smarrito; di modo che stette buona pezza che mai non puoté formar parola. Medesimamente il chierico pareva spiritato ed aveva rotto il viso in piú di tre luoghi. A la fine il buon prete, che si sentiva rotta tutta la persona, tratto un grandissimo sospiro, disse tremando: – Oimè, i miei figliuoli, ché io ho visto il demonio in forma di madonna vostra madre! – Monna bertuccia, che era uscita fuori del letto, s’era messa a visitar le scatole dei confetti, e saltellando scese giú da la scala in quello che il domine aveva cominciato a parlare. Ella aveva in capo la cuffia e bende de la vecchia ed involte al corpo alquante pezze di tela. Come fu in fondo de la scala, ella saltò nel mezzo di quelli che quivi erano e fu quasi per farli fuggir di paura, perciò che in effetto in viso rassembrava a la morta vecchia. Ma, riconosciuta da uno dei fratelli, fu cagione che la paura degli astanti si convertisse in riso, e tanto piú gli faceva ridere, che ella in quell’abito cominciò a trescare e saltellare or qua ora lá, facendo i piú strani atti del mondo. Né contenta d’aver trastullato quelli che prima aveva spaventato, ella, saltellando, né si volendo a nessuno lasciar prendere, facendo mille moresche se n’uscí di casa e con quell’abito a torno se ne corse in castello, facendo molto ridere tutti quelli che la videro. E secondo che in casa dei dui fratelli si deveva star di mala voglia, come loro si rapprensentava la bertuccia con quegli atti ridicoli, erano tutti sforzati a ridere, gabbandosi l’uno e l’altro de la paura che avuta avevano.


Il Bandello al magnifico messer


Agostino Aldegatto


Egli è pur mirabil cosa il considerar la malignitá di molti uomini, i quali in modo alcuno non vogliono astenersi da far le sconce e vituperose opere, ancor che tutto il dí vedano uno esser impiccato; uno, tagliatogli il capo, esser smembrato in quattro parti; altri esser abbrusciati ed altri col tormento crudelissimo de la rota esser fatti penare, morendo miseramente, ed altri con mille altre specie di suplicii perder la vita, che a noi deveria sovra ogni tesoro terreno esser cara: il che c’insegna la natura, la quale ci spinge con tutti i modi che a noi sono possibili. Quella debbiamo conservare, come gli animali senza ragione creati fanno, i quali piú che ponno, per non lasciarsi prendere od ammazzare, con quelle armi si difendono che loro la natura ha concesso. Era stato, non è molto, in Tolosa da quel senato fatto squartare uno di sangue gentiluomo per suoi misfatti che commessi aveva; il quale in vero aveva vituperosissimamente tralignato, per i suoi pessimi costumi, da l’antica nobiltá dei suoi maggiori. Del caso di costui ragionandosi in una buona compagnia di molte persone, vi si ritrovò uno mercadante inglese, per nome chiamato Edimondo Eboracense, il quale praticava molto spesso in Francia e massimamente a Bordeos, ove ogni anno, quando è pace tra Francia ed Inghilterra, suole venire per comprar vini e condurgli a Londra. Egli in persona vien qui su l’Agenense a Bassens, al Porto Santa Maria, e qua intorno in queste contrade, ove si ricogliono i piú generosi vini de l’Aquitania, e gli va scegliendo a modo suo. Qui adunque narrò egli certe magre astuzie, che volle usar un mercadante di Santonge, e la punizione che ne guadagnò. Ora essa novella ho voluto, al nome vostro intitolata, donarvi, a ciò che per effetto conosciate che io di voi e di tante vostre cortesie a me usate sono ricordevole. E veramente la natura v’ha fatto tale, quale a me pare che ogni leale e da bene mercadante deveria sforzarsi d’essere. Feliciti nostro signor Iddio tutte le cose vostre. State sano.