Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXXI
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Novella XXXI
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Amore di messer Gian Battista Latuate e l’errore
ov’era intricato, con l’arguta risposta de la sua innamorata.
Egli è una gran cosa, madama mia osservandissima, che ogni volta ch’io voglio parlar de la mia patria Milano, ci siano pur assai che cosí mal volentieri m’ascoltino, massimamente se io mi metto a voler lodar quella cittá. E nondimeno ce ne sono molti che non si ricordando avermi talora ripreso che io voglia lodar la mia patria, entrano, non se n’accorgendo, nel pecoreccio di voler metter sovra le stelle alcune patrie loro che Dio per me vi dica come mertano esser lodate. E se io domando loro per qual cagione non vogliono che io dica bene de la patria mia, altro insomma non mi sanno che rispondere se non che il parlar milanese è troppo piú goffo che parlar che s’usi in Lombardia, e quasi che non si vergognano chiamarlo piú brutto che il bergamasco. Ma io non trovo mai, – per l’ordinario, dico, – che i tedeschi parlino altro linguaggio che il loro, i francesi quello di Francia, e cosí ogni nazione il parlar suo nativo. Io non vo’ giá dire che la lingua cortegiana non sia piú limata de la milanese, ché mi crederei dir la bugia; ma bene mi fo a credere che nessuna lingua pura che s’usi del modo ov’è nata, che sia buona. Si pigli pure e la toscana e la napoletana e la romana o qual altra si voglia, che tutte, non ne eccettuando alcuna, hanno bisogno d’esser purgate e diligentemente mondate, altrimenti tutte tengono un poco del rozzo ed offendono gli orecchi degli ascoltanti. Cosí credo io che il parlar milanese sia da sé incolto, ma si può leggermente limare. Tuttavia io non saperei biasimare chiunque si sia che la lingua sua volgare parli, che insieme con il latte ha da’ teneri anni bevuta. Il primo cardinale Trivulzo, che nato e nodrito era stato in Milano a fu giá vecchio fatto cardinale, andò a star a Roma al tempo di papa Giulio secondo. Egli parlando non si poteva nasconder che non fosse milanese, sí schiettamente quel linguaggio parlava. Gli fu da molti detto che devesse mutar parlare ed accostumarsi a la lingua cortegiana; onde sorridendo rispose loro che gli mostrassero una cittá megliore e d’ogni cosa piú abondante di Milano, che alora egli imparerebbe quell’idioma; ma che ancor non aveva sentito dire che ci fosse un altro Milano. E ben diceva egli il vero, perciò che a lo stringer de le balle pochi Milani si trovano. Onde io che per l’Europa e per l’Affrica sono tanti anni ito errando, a parlar da gentiluomo e dire veramente ciò che ne sento, io reputo Milano aver poche cittá che il pareggino e siano d’ogni cosa al viver umano necessaria sí abondevoli come egli è. Il perché Ausonio Bordegalese nel catalogo de le cittá mirabilissimamente lo commenda e quasi lo fa pari a Roma, in quei tempi che ancora Roma da’ barbari non aveva ricevuto danno, ma intiera e bella fioriva. Se adunque un poeta guascone lo loda, non riputo che a me debbia esser disdicevole aver fatto il medesimo e farlo ogni volta che me ne venga l’occasione. Dico adunque che in Milano, ricco e copioso d’ogni buona cosa e pieno di grandissima e leggiadra nobiltá, non è molto tempo fu un giovinetto chiamato Gian Battista da Latuate che per la morte del padre era rimaso ricchissimo e si nodriva sotto la cura de la madre, madrona nobilissima dei Caimi, la quale poneva ogni diligenza, studio e sollecitudine in allevar questo suo unico figliuolo gentilmente e fare che insieme con le buone lettere riuscisse ornato d’ottimi costumi. Crebbe il giovinetto, e giá essendo di quindeci in sedeci anni, dava a tutti ottima speranza di farsi un compíto gentiluomo, praticando con altri giovini gentiluomini e spesso essercitandosi ora in cavalcare, ora in giocar a la palla ed ora su la scola de lo schermire, adattandosi meravigliosamente al maneggio d’ogni sorte d’armi. Aveva egli le paterne case, come ancor ha, ne la strada di Brera; e cavalcando sovente per la cittá a diporto ora su una mula ed ora sovra generosi cavalli, avvenne che passando per la contrada del Borgo Nuovo vide una giovanetta, che era ad una finestra che aveva una gelosia dinanzi, e quivi se ne stava a veder chiunque per la via passava. Parve a Gian Battista di non aver mai piú veduta fanciulla cosí bella né cosí vezzosa, e di tal maniera in quella prima vista s’abbagliò e tanto gli piacque la giovanetta, che altrove che a quella non poteva rivolger l’animo. Onde due e tre volte quell’istesso giorno le passò per dinanzi e sempre al medesimo luogo la vide, e quanto piú la vedeva tanto piú gli pareva che la bellezza e la grazia in lei agumentasse. Fatto poi spiare da uno dei suoi servidori chi fosse il padre di quella, intese che era un gentiluomo non molto ricco ma persona da bene e di buona fama. Tutto quel dí e la seguente notte ad altro non pensava l’innamorato giovine che a la veduta fanciulla, e tutti i suoi pensieri erano pur fitti in un solo pensiero: di poter parlar con quella. Cominciò adunque ogni dí, ora a piedi ed ora a cavallo come piú in destro gli veniva, a corteggiarla, ed ogni volta che quella vedeva, che quasi era ogni tratto che per la contrada passava, le faceva con la berretta in mano riverenza, e di maniera con gli occhi a quella fisi la vagheggiava che di leggero chi veduto l’avesse del suo amore accorto si sarebbe. Ella che cortese e costumatissima era, ogni volta che il giovine gli faceva onor di berretta, modestamente col capo alquanto chino e con lieto viso l’onor ricevuto gli rendeva, di che Gian Battista meravigliosa consolazione sentiva, parendogli che ella non avesse a sdegno esser da lui amata. Durò alquanti dí questa pratica, ogni dí piú infiammandosi il giovine, e riposo nessuno non ritrovando se non tanto quanto la vedeva. Ebbe modo col mezzo d’una vecchia di scriverle un’amorosa lettera, ne la quale le diceva come ferventissimamente quella amava, con quelle affettuose ed amorevoli parole che questi giovinetti di prima piuma sogliono a le innamorate loro scrivere. Accettò la fanciulla la lettera e la lesse, ma altra risposta non le rese. Replicò l’innamorato Gian Battista un’altra lettera tutta piena d’amorose parolette, di suplichevoli preghiere, e le faceva instanzia grandissima che ella degnasse di prestargli una udienza segreta, perché le faria intender molte cose che non era da esser commesse a la scrittura e che le sarebbero care. A la giovanetta punto non dispiaceva d’esser vagheggiata ed amata da cosí nobile e ricco giovine, ed ancor che pari suo non fosse, sperava perciò che di leggero egli cosí potesse invaghirsi che per moglie la prenderebbe. Ella era ingegnosa ed avveduta molto, e chiaro comprese ciò che importava il gergo de l’audienza segreta. Gli rescrisse adunque ella ringraziandolo de l’amor che diceva di portarle, e che ella amava lui quanto ad onesta fanciulla apparteneva: di segreta audienza da lei avere, che non sperasse giá mai, perciò che cotali audienze da lei si serbavano a colui che il padre le daria per marito. Avuta questa savia risposta, Gian Battista, essendo da l’amorosa tarantola morso ed il veleno troppo a dentro penetrato, tuttavia piú si sentiva accendere, e tanto piú andava di mal in peggio quando che la fanciulla ogni volta che lo vedeva tutta allegra gli faceva buonissimo viso e pareva che volentieri si lasciasse vedere. Essendo adunque egli in questi termini e rimedio al suo amore non ritrovando, conchiuse tra sé di parlar al padre di lei e chiederla per moglie. Fatta questa deliberazione e presa l’oportunitá, ritrovò il padre de la sua innamorata e gli disse, dopo che salutato l’ebbe: – Messer Ambrogio, per non entrar ne l’orto de le belle parole e de le cerimonie, io con voi parlerò a la libera. So che voi sapete ciò che io mi sono e che non vi accaderá andar cercando informazione de’ casi miei. Quando a voi piaccia di darmi vostra figliuola Laura per moglie, io volentieri la sposerò, perché sono giá molti dí che ella meravigliosamente mi piace e tra me ho fatta ferma deliberazione di seco maritarmi. – Messer Ambrogio si meravigliò molto di questa domanda, e conoscendo la nobiltá e le gran ricchezze del giovine, che sapeva che in Milano averebbe molto meglior partito e piú nobiltá e roba ritrovato, restò un poco sospeso, e poi cosí gli rispose: – Signor Gian Battista, a me non accade pigliar informazione de’ casi vostri, sapendo molto bene quello che voi sète. E per questo non posso se non grandemente meravigliarmi de la domanda vostra, che vogliate abbassarvi a prender mia figliuola, che se bene è nata nobile pur è figliuola di povero padre, ché le mie facoltá non son tali ch’io possa darle a gran pezza la dote che a voi si conviene. – Non mi parlate di dote, – disse l’amante, – perciò che, la Dio mercé, io ho roba assai per lei e per me, a non vi chieggio né dote né altro se non Laura sola, a la quale io farò conveniente dote e tale, quale ad un par mio appartiene. Risolvetevi pure a darmi vostra figliuola, e del resto non vi prendete né cura né fastidio. Averò ben caro che mia madre per ora nulla ne sappia. Ma per sicurezza vostra io sposerò Laura in presenza di quattro a cinque dei vostri piú prossimi parenti. – Messer Ambrogio alora gli rispose: – Signor mio, egli è ben fatto che in un caso di tanta importanza voi ci pensate suso meglio cinque o sei dí ancora, ed io altresí penserò ai casi miei. – Pensate pure,– disse il giovine, – esser i sei giorni passati, ché io lungamente tra me ho pensato sovra questo e sono determinato di quanto mi piace di fare. – Or via, – soggiunse messer Ambrogio, – un altro dí ne parleremo a piú bell’agio. – Ed andato l’uno in qua e l’altro in lá, scrisse il fervente e sollecito amante a la sua innamorata quanto col padre di lei aveva ragionato, del che ella si trovò meravigliosamente lieta. Messer Ambrogio, pensando a quello che il giovine chiesto gli aveva, dubitò che credendo di far amicizia e parentado non acquistasse una eterna nemicizia. Egli conosceva la diseguaglianza che tra le parti era, e giudicava cotal matrimonio non deversi fare. Il perché diligentemente al tutto lungamente pensato, ebbe modo di parlar con madonna Francesca, – ché tale era il nome de la madre de l’innamorato giovine, – e puntalmente le narrò tutto il ragionamento che con il giovine era passato. Si trovò assai di mala voglia madonna Francesca di cotal nuova, e ringraziò pur assai messer Ambrogio che le avesse la voluntá del figliuolo fatta intendere, e lo essortò a maritar Laura e non perder tempo. Si strinse ne le spalle il povero gentiluomo e si scusò dicendo che la possibilitá non ci era e che Laura ancor era fanciulletta e non passava il tempo. Li domandò madonna Francesca quanto egli soleva dar di dote a le sue figliuole. A cui egli rispose: – Io, signora, ne ho maritate due e ho dato a ciascuna di loro mille ducati. Al presente mi resta Laura, a la quale vo’ dar il medesimo quando sará il tempo, ché volendola adesso maritare non averei il modo di pagar cento fiorini. – Disse alora madonna Francesca: – Messer Ambrogio, a ciò che voi conosciate quanto m’è stato caro l’avviso che dato m’avete del desiderio del mio figliuolo, cercate partito uguale a vostra figliuola, e quanto piú tosto lo farete sará meglio; ed io vi presterò tutti i mille ducati de la dote, i quali voi mi restituirete con vostra comoditá in cinque o sei anni. Né altro da voi voglio che uno scritto di vostra mano. – A questa sí cortese e larga proferta rese messer Ambrogio quelle grazie che seppe le maggiori, e promise a madonna Francesca non mancar d’usar ogni diligenza per maritar Laura. E cosí restarono d’accordio. Sollecitava tuttavia Gian Battista con lettere ed ambasciate la sua Laura, e tante volte quante in destro gli veniva passava per la contrada, ed ogni volta che a la finestra la vedeva gli pareva veder un nuovo paradiso aperto, sentendo da quelle viste una interna e meravigliosa consolazione. Madonna Francesca, che aveva paura grandissima che il figliuolo non sposasse Laura, tenne segretamente modo di parlar con monsignor l’abbate Caimo suo fratello, uomo d’autoritá e di riputazione, e con altri suoi parenti; e medesimamente parlò con alcuni zii e congiunti di sangue del figliuolo, e a tutti fece intender l’amorosa pratica di quello e ciò che ella con messer Ambrogio fatto aveva, e a tutti, cosí suoi come attinenti del figliuolo, chiese conseglio ed aita a ciò che col minor male che fosse possibile si provedesse che a modo veruno Gian Battista non prendesse Laura per sua moglie. Cose assai si dissero e mille partiti furono proposti, dicendo ciascuno il parer suo. A la fine si risolsero tutti in questo: che il meglior rimedio che ci fosse era di mandar per alcun tempo Gian Battista fuor di Milano e in quel mezzo maritar Laura. A questo partito s’accordarono tutti, ancor che madonna Francesca come piacevole e tenera madre non molto volentieri vi s’accordasse: amava ella l’unico figliuolo tenerissimamente e le pareva senza quello non poter vivere, perciò che se stava due e tre ore che nol vedeva si sentiva morire il cor nel petto. Nondimeno dal fratello e dagli altri amici e parenti essortata e fatta capace che questo solo era il salutifero rimedio per vietar che il figliuolo in tutto si ritirasse da quella impresa amorosa, vi s’accordò anch’ella. Restarono adunque in questa concordia tutti: che monsignor l’abbate Caimo invitasse Gian Battista ed altri parenti con dui tutori suoi a desinar seco il giorno seguente, e dopo il desinare che l’essortassero a partirsi da Milano e andare a la corte di Roma per alcun tempo. Fu fatto l’invito e di brigata desinarono in casa de l’abbate. Poi che si fu desinato, disse uno dei tutori al giovine: – Dimmi, Gian Battista: come ti piace la pratica de la nostra cittá? – Rispondendo il giovine che assai, soggiunse colui: – Io non ti vo’ giá dire che non sia buona, ma se tu provassi una volta la corte de la cittá romana, egli non ti verrebbe forse voglia di tornar cosí tosto in qua. – Io non so tante Rome, – disse il giovine; – ma a me pare che tutti i piaceri del mondo siano in questa nostra patria. – E travarcando d’uno in altro parlare pure circa questa materia, l’abbate disse: – Vedi, nipote: se tu vuoi andar a stare a Roma alcuni mesi, a me dá il core di far che mia sorella sará contenta e ti sará provisto di danari onoratamente. Ben t’assicuro che tu diventerai un altro uomo, ché se tu sei gentile, tu diverrai gentilissimo, ed imparerai mille bei costumi e vederai le piú belle cose del mondo. E se una volta ci vai, non vorresti per quanto oro sia al mondo non ci esser ito. – Insomma egli con buona licenza de la madre disse che era contento d’andarvi. Tutti alora di brigata andarono a ritrovar madonna Francesca, pregandola a contentarsi di questo viaggio. Ella ancor che si mostrasse renitente, a la fine pure disse che si contentava che per cinque o sei mesi il figliuolo andasse ove piú gli era a grado. Deliberata l’andata, il giovine del tutto avvisò la sua Laura, pregandola che di lui si ricordasse e stesse salda in amarlo, perché in breve torneria e farebbe tanto che il padre gliela darebbe per moglie. Messo adunque ad ordine di quanto bisognava, onoratamente accompagnato si partí il giovine da Milano e s’inviò verso Roma. Come egli fu partito, mandò madonna Francesca a chiamar messer Ambrogio e volle saper da lui a che termine si trovava per maritar la figliuola. – Tre partiti, – rispose egli, – ho io, madonna, per le mani, i quali tutti tre sono al grado mio convenienti e quasi ugualmente mi piaceno. Ma poi che voi, la mercé vostra, degnate accomodarmi del denaro, io mi delibero elegger quello per genero che piú a voi parrá al proposito. – E detti i nomi e i cognomi di tutti tre e le facultá che avevano, dopo molte parole convennero in un di loro; onde madonna Francesca, secondo la promessa fatta prestando i mille ducati al buon messer Ambrogio, fu cagione che egli in dui o tre giorni conchiuse il matrimonio de la figliuola, e fu fatto lo sponsalizio e le nozze. Indi a poco tempo lo sposo, che stava ne la contrada dei Biglia, menò la sposa a casa sua. Prima che Gian Battista si partisse, come giá v’ho detto, scrisse piú volte a Laura e con le lagrime sugli occhi passando dinanzi a la casa di lei le fece riverenza, quasi da lei che a la finestra era prendendo congedo. Aveva poi lasciato un suo servidore consapevole di questo suo amore, che fosse diligente in spiare ed intender tutto ciò che Laura faceva. Andò Gian Battista a Roma e ne l’andare vide di belle cittá e donne. A Roma poi ne vide pur assai ma nessuna mai ne vide che gli paresse sí bella come Laura. La madre di lui, come vide fatte le nozze di Laura, subito scrisse al figliuolo che ritornasse, il quale non aspettate le seconde lettere a buone giornate tornò a casa. Come fu smontato, abbracciata la madre, si ridusse a la camera a cavarsi i panni cavalcareschi e vestirsi; e domandò al servidore che era di Laura. – Male, – rispose egli, – perché è maritata nel tale e le nozze son fatte. – Credette Gian Battista a questa nuova morire. Pur fatto buon animo, montò a cavallo a andò a trovar Laura, e la ritrovò che era in porta con una parente di suo marito. Come la vide, subito la conobbe, ma si meravigliò forte che la vide con un occhio accecato. E giunto dove era, la salutò ed ella gli disse che fosse il ben ritornato. Egli si rallegrò seco che fosse maritata, mostrando allegrezza dei piaceri di lei; poi gli disse che si condoleva de la disgrazia che l’era accaduta. – E qual disgrazia? – disse ella. – La disgrazia de l’occhio – soggiunse egli – che io vi veggio aver perduto. – La giovane, che era accorta, alor gli disse: – Ed io vosco di core mi rallegro che abbiate ricuperati tutti dui gli occhi vostri. – Era fin da piccolina sempre stata Laura con un occhio guasto; ma o fosse il giovine troppo accecato ne l’amor di lei o la gelosia che era a la finestra l’avesse impedito, mai non se n’era accorto. Cosí adunque Amore gli incauti amanti acceca
Il Bandello al molto magnifico in ogni dottrina eccellente
il signor Giulio Cesare Scaligero
Sogliono spesse fiate avvenir alcuni impensati casi, ai quali con difficultá grandissima i piú saggi uomini che si siano saperiano provedere, e nondimeno un subito accidente avverrá che in un tratto al tutto ottimamente rimedia. E se questo in varie cose occorre come a la giornata si vede, par perciò che nei casi d’amore piú frequentemente occorra. Onde essendo venuta una gentilissima compagnia di signori guasconi e di bellissime dame a godere in questi giorni fastidiosi canicolari il sito e l’aria fresca di questo castello di Bassens con madama Gostanza Rangona e Fregosa mia padrona, e su l’ora del merigge ragionandosi degli infortunevoli casi d’amore, poi che variamente se ne fu ragionato, messer Girolamo Aieroldo gentiluomo milanese e maestro di stalla del serenissimo re di Navarra, veggendo che quasi ciascuno si taceva, disse: – Illustrissima madama e voi, dame e signori, io vi vo’ narrare un accidente che non è guari in Guascogna è avvenuto, ove vederete che talora il caso o sia fortuna mette rimedio e provede ove Salomone col suo sapere si sarebbe perduto. Ma per convenienti rispetti io mi tacerò i veri e proprii nomi de le persone che bisogneria nomare, e m’aiuterò con qualche nome finto. – E cosí con piacere de l’onorata compagnia in lingua francese narrò la sua novella, non v’essendo nessuno di noi italiani che, per la lunga dimora che qui fatta abbiamo, non intenda la detta lingua. Io quel dí stesso scrissi la novella da l’Aieroldo recitata e deliberai che sotto il vostro dotto nome fusse veduta, non giá certamente che io l’istimi cosa degna del valor vostro, de la dottrina e de l’antica e nobilissima vostra progenie, ché non sono cosí sciocco; ma per mostrarvi con questa mia piccola dimostrazione il desiderio de l’animo mio, che di molto maggior cosa vorria potervi onorare, conoscendovi per le infinite vostre doti d’ogni gran cosa meritevole. State sano.