Novelle (Bandello)/Prima parte/Novella XLIII

Prima parte
Novella XLIII

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Francesco Totto innamorato di madonna Bartolomea Calora,


per gelosia di quella disperato, s’impicca.


Parrá forse ad alcuni, pietose donne e voi discreti uomini, che io da la favola d’Ifi prendendo argomento, m’abbia questa istoria che io ora narrar v’intendo finta. Nondimeno la cosa è stata verissima e in questa nostra cittá accaduta, ne la quale tutti sanno come morí Francesco Totto nostro cittadino, ma forse non sanno la cagione. E perché le donne gran profitto cavar ne ponno imparando ad esser nel parlar modeste, e i giovini non potranno se non riceverne giovamento moderando gli sfrenati appetiti, io ho deliberato né piú né meno come la cosa fu adesso dirvi. Dico adunque che questi anni prossimamente passati essendo Francesco Totto nostro cittadino senza padre, e trovandosi assai agiato d’oneste facultá e fieramente innamorato d’una nostra gentildonna chiamata madonna Bartolomea Calora, che tutti conoscete, ad altro non attendeva che a questo suo ferventissimo amore. Aveva onoratamente maritata una sorella che senza piú aveva, e lasciava la cura domestica de la casa a sua madre, ed egli tutto il giorno in casa de la Calora dimorava, il cui marito viveva a la carlona e lasciava correr l’acqua a l’ingiú, permettendo che la moglie continovamente stesse in giuochi e piaceri. Ché non passava personaggio nessuno per Modena che tratto da la fama de la Calora non l’andasse a vedere, e volendo giocar qualche somma di danari, ella, a le carte e dadi cosí bene come qual uomo gran giocator si fosse, giocava. Ella era tra tutte le donne modenese stimata la piú bella. E sapete pur che generalmente questa nostra cittá ha fama d’aver bellissime donne. Era poi la Calora quella che di continovo trovava nuove fogge ne le vestimenta, e tutti i giorni di festa era cagione che si ballasse e si stesse sui piaceri. Il Totto le praticava tutto il dí in casa, e con la pratica venne in grandissima domestichezza seco e il suo amore le discoperse. La donna non si corrucciò punto d’esser dal giovine amata, anzi mostrò aver caro il suo amore, di modo che il Totto, lasciata dopo le spalle ogn’altra cura, solamente a servir madonna Bartolomea attendeva e tutto il dí in casa le stava. Il che gli era assai facile, non mettendo mente il marito a cosa che in casa sua si facesse. E veramente egli era ben fatto, secondo quello che i vicini dicono, che noi modenesi non pensiamo de le nostre donne mai male, stiano con gli uomini quanto si vogliano, pur che non le veggiamo con i maschi nel letto. Alora dicono che sospettiamo un poco di male. Ma queste son ciancie che il volgo dice senza fondamento. Essendo adunque il Totto entrato nel laberinto amoroso e ad altro non pensando che a la bella Calora, deliberò non pigliar mai moglie, e inebriato de l’amor di lei le fece libera donazione inter vivos di tutti i suoi beni, e si sforzò che questa donazione stesse piú segreta che potesse, non si avendo riservato se non l’usufrutto dei suoi beni fin che viveva. Io non voglio ora dir quanto circa ciò ho sentito parlar da molti, cioè se egli era de la donna possessore o no, giudicando molti che egli non l’averia donato il suo se non si fosse ritrovato in possesso dei beni de la donna. Basta che egli aveva in quella casa una grandissima libertá; e se bene il marito di lei vedeva il Totto con la moglie in camera, non diceva parola, perciò che ella portava le brache. Visse il Totto con la Calora piú di tre anni, che mai tra loro non occorse una minima paroluccia di sdegno o altra amaritudine. Ma non so come, in questo ferventissimo amore del giovine entrò il frigido veleno de la gelosia, di modo che cominciò a temere di non esser per altri da la donna abbandonato. E ben che egli il piú del tempo con lei dimorasse, nondimeno lasciò entrarsi nel petto questo pestifero verme che giorno e notte accerbissimamente il rodeva, parendo a lui che ella a tutti mostrasse lieto volto ed altrui piú di lui accarezzasse. Ella era sempre vivuta in grandissima libertá, ed essendo lieta, baldanzosa e festevole, molto con tutti scherzava e con bei motti or questi or quelli destava. Era poi allegra di viso che pareva che sempre ridesse. Il Totto che non averebbe voluto vederla cosí domestica con tutti, una e due volte seco se ne dolse. Ella sempre gli rispose che egli s’ingannava e che non troverebbe mai che altri piú di lui amasse. Ma questo era niente, perciò che essendo da molti ella corteggiata e tutto il dí visitata, e con tutti come pur soleva motteggiando scherzevolmente e loro domestica mostrandosi, fu cagione che l’amante estremamente ingelosisse, di maniera che ogni dí egli a lei di lei amorosamente si rammaricava. E tanto crebbe questa sua seccaggine e continovo fastidio di querelarsi ora per ora con lei, che ella seco un dí quasi duramente si turbò, parendole che indegnamente egli di lei avesse simil sospetto preso. Avvenne dunque un giorno che la donna giuocò a tavole con un gentiluomo e che tutta ridente e festeggevole due o tre volte pigliandogli il tratto dei dadi, gentilmente gli prendeva la mano dicendo: – Io vi piglio questo tratto. – Il Totto che stava a vedere, non potendo questi suoi atti sofferire, si levò e andò altrove. Finito il giuoco e partito colui che aveva giocato, il Totto, pieno d’amarissima passione e da gelosia infuriato, quasi lagrimando le disse: – Padrona mia, voi m’ingannate, e non sta bene, essendovi io sí fedele ed ubidiente servidore. Voi tenete piú conto degli altri che di me. – Rispondendo la donna che ella sovra tutti l’amava e non cessando egli di rammaricarsi, poi che ella e tre e quattro volte gli ebbe umanamente risposto, a la fine veggendolo tanto ostinato in questo suo farnetico di gelosia, salita in grandissima colèra iratamente cosí gli rispose: – Lassa me, che fastidio è il vostro? voi sète piú fastidioso e rincrescevole che il mal del corpo. Andate col malanno e impiccatevi! Cessaranno mai questi tanti vostri sospetti? – Il giovine udendo le parole de la sua donna: – Poca fatica, – rispose, – mi sará questa, quando io sappia di farvi cosa grata. – Né piú disse, ma si stette tutto pieno di malissimi pensieri d’ora in ora piú ingelosendo e divenendo piú malinconico, di modo che stette dui giorni senza parlar con la sua donna, ancora che egli in casa di lei secondo il suo consueto venisse, perciò che in un cantone mettendosi e con nessuno tenendo proposito sospirava, e ai suoi fieri pensieri dando luogo diveniva quasi forsennato, certi atti facendo come fanno gli sciocchi. La donna a cui senza fine rincrescevano questi fastidiosi modi de l’amante, a lui tutta piacevole s’accostava e con dolci parole ed amorevoli carezze si sforzava tenerlo allegro. Ma egli, in vece di parole, focosi sospiri le rendeva. Durò questa dolorosa vita de l’appassionato amante molti dí, nei quali se uno o dui giorni egli stava con la sua donna in festa, tutto il rimanente poi in lagrime ed in sospiri consumava. E ben che egli per la veritá in lei cosa di certezza non vedesse, nondimeno d’ogni fuscello che tra’ piedi gli dava fieramente ingelosiva. Onde giocando ella un giorno a scacchi perdette una discrezione con un gentiluomo, come assai spesso si costuma. Egli di questa cosa, come se in braccio in letto al gentiluomo veduta l’avesse, cominciò seco a farne il maggior rammarico del mondo, sempre dicendole che egli s’accorgeva bene che ella il tutto faceva per farlo disperare e levarselo dinanzi agli occhi. La donna pazientemente il sofferí piú volte e lasciavalo dire, sperando pur che devesse cessare. Ma egli fuor di modo lamentandosi, tanta seccaggine di fastidiose parole le diede che ella, perdutane la pazienza, con un turbato viso gli disse: – Oimè, che morte è cotesta? Voi sète oggimai diventato un di quelli de l’inferno. Andate col malanno e non mi rompete piú il capo con queste vostre false imaginazioni. Mò che febre peggio che continova è la vostra? Io non potrò ormai piú con voi vivere. Se avete gelosia de le mosche che per l’aria volano, che ve ne posso fare? Andatevi ad impiccare, e uscirete di questi vostri chimerici affanni. – Il giovine rispondendo: – Madonna, poi che me lo comandate, ed io lo farò, – partí di sala ove erano, e andò ne la camera de la Calora e quivi dentro si chiuse. Era in camera il calamaio con inchiostro e carta, onde egli, come poi si puoté conietturare, tolse de la carta e scrisse una cedula con queste formali parole. – Poi che io volontariamente ho deliberato morire, con quella instanzia che per me si può maggiore prego il reverendo priore e i frati de la venerabil chiesa di San Domenico che vogliano seppellire il mio corpo ne la sepoltura dei miei avi. – Questo scritto egli si mise ne la scarpa sinistra di modo che pendeva fuor la metá. Scrissene poi un altro di questo tenore: – Con ciò sia cosa che questi anni passati io Francesco Totto volontariamente per mano di publico notaio facessi libera donazione d’ogni mia facultá a la valorosa madonna Bartolomea Calora in ricompensa di molti beneficii da lei ricevuti, per questa cedula scritta e sottoscritta di mia mano, di nuovo faccio detta donazione e la confermo, e voglio che senza impedimento alcuno abbia luogo. – Questo scritto egli ritenne ne la mano sinistra. Fece poi il terzo bollettino che diceva cosí: – Morendo io di propria voglia, e a la morte non essendo da nessuno astretto se non dal mio volere, prego mia madre e tutti i miei parenti ed amici che non cerchino de la mia morte far contra persona che sia vendetta, perché nessuno ci ha colpa se non io solo che per amore ho voluto darmi la morte. – Questo bollettino egli si mise in bocca da quel capo ove niente era scritto. Erano tutti tre i bollettini sottoscritti col suo nome, e col dí, mese ed anno che furono fatti, che fu del millecinquecentoventi. Ordinati gli scritti, prese le sue cinture de le calze e la cinta de la spada che a lato portava, e di quelle fece un laccio, il capo del quale attaccò ad un chiodo che pendeva fuor d’un trave, essendo salito suso un alto cascione, e il laccio si annodò al collo e lasciossi giú cadere, di modo che il collo al misero amante si fiaccò. La donna poi che gran pezza stette e vide che l’amante secondo il solito non riveniva, disse ad una sua fanticella: – Tu va, vedi ciò che fa quel pazzo e dilli che venga qua. – Andò la fante e trovò chiusa la camera e picchiò due e tre volte. La Calora sentendo picchiare disse: – Egli bisogna che io vada, – e giunta a l’uscio, bussato buona pezza e chiamato l’amico molte fiate per nome, sapendo la chiave esser ne la camera, fece chiamar i servidori di casa, dubitando de l’amante e quasi presaga del suo male. L’uscio fu crollato due e tre volte per levarlo di gangheri. In questo arrivò il marito de la donna e sovravenne anco un servidore del Totto. Fu gettata la porta a terra, e nel cadere di quella apparve il misero ed orrendo spettacolo del giovine che fiaccatosi il collo da la trave pendeva. Il perché, senza fine tutti spaventati e smarriti, non ebbero ardire d’entrar dentro. Fu mandato a chiamar la madre e sorella ed altri parenti del disgraziato ed infelicissimo giovine ed anco avvisato messer Francesco Guicciardino, che a nome di Leone decimo pontefice massimo era governatore di Modena. Venne il Guicciardino e fu il primo ch’entrò in camera, e vide di che modo il giovine s’era impiccato, e i tre scritti guardò e di sua mano prese quello che da la scarpa pendeva fuori. Fece poi distaccar il corpo e prese gli altri dui bollettini. Erano quivi al romore di cosí strano accidente concorsi molti cittadini e parenti del morto. La dolente madre come arrivò e vide il figliuolo in terra, su quello si gettò e da estrema doglia assalita tramortí. Il pianto si levò grande tra i parenti ed amici del giovine. La Calora miseramente si affligeva battendosi il petto ed altamente piangendo. Furono gli scritti letti dal governatore e mostrati ai parenti del morto, i quali tutti affermavano quelli senza dubio esser di mano del povero giovine. Il servidore d’esso Totto, chiamato dal governatore se sapeva come il fatto fosse stato, narrò la cosa come era seguita, perciò che egli s’era trovato presente a le parole del padrone e de la donna. Essendo poi anco la Calora appartatamente essaminata, disse precisamente il fatto com’era, onde fu giudicato che il povero giovine s’era molto scioccamente lasciato dominare da l’umor malinconico. La sconsolata e dolente madre con amarissime e calde lagrime la cosí vituperosa perdita del figliuolo lungo tempo pianse. Il che fecero altresí i suoi parenti ed amici. La Calora piú e piú giorni stette in quella camera ove il caso era occorso, e senza fine pianse la morte del suo servidore, se stessa assai riprendendo che cosí rigidamente gli avesse dato risposta conoscendolo tanto sospettoso e malinconico. Poi deposte tutte le fogge e le pompe, si ridusse ad un abito molto dimesso e quasi da vedova. E quanto era dinanzi quella che di continovo in giuoco, in feste, in balli e in trastulli se ne stava, tanto piú ora se ne guarda ed ha lasciato il giocare, e vive quasi una vita solitaria, poche volte per la cittá comparendo; e quando se ne va a messa si copre tutta la faccia, né piú lascia veder quelle bellezze che al misero suo amante sono di cosí abominevol morte state cagione. Il che ha dato assai da mormorare al volgo. So che alcuni altramente questa istoria narrano, ma io che era alora in Modena e il fatto volli con somma diligenza intendere e a lungo ne parlai col Guicciardini, che sapete quanto era rigido e ne le cose de la giustizia diligentissimo inquisitore, trovai il successo del tutto essere come ora vi ho narrato. Cotal fine adunque ebbe il misero Francesco Totto del suo poco regolato amore. Cosí Dio ne guardi tutti d’amare di questa maniera, perché in effetto tutte l’azioni nostre, come si discostano dal diritto de la ragione, non ponno esser buone, e per l’ordinario sempre la fine di quelle sará cattiva, secondo che per mille esperienze tutto ’l dí avvenir si vede. Ami dunque ciascuno temperatamente e il freno de la ragione mai non lasci in poter degli appetiti.


Il Bandello al molto magnifico e vertuoso signore


il signor conte Baldassare Castiglione


Venne non è molto in Milano la gentilissima signora Bianca da Este, giá consorte del signor Amerigo Sanseverino, la quale per alcune sue liti vi dimorò molti giorni. Ella fu molto onoratamente da diversi gentiluomini milanesi accarezzata e festeggiata con sontuosi banchetti, musiche ed altri onesti intrattenimenti. E tra gli altri che magnificamente l’onorarono ne fu uno il graziosissimo avvocato che la sua lite aveva ne le mani, messer Benedetto Tonso. Vi fu poi il signor Lucio Scipione Attellano, persona come sapete cortesissima e vertuosa, il quale con un desinare ed una cena luculliana liberalissimamente l’onorò, avendo alcune nobilissime donne ed onorati gentiluomini invitato. Era la stagione di luglio, nel tempo che i giorni canicolari sogliono esser alquanto fastidiosi. Si recitò una farsa non giá molto lunga, ma ben sommamente dilettevole, la quale buona pezza tenne la gioiosa compagnia in grandissimo piacere. Si ballò e si fecero di molti piacevoli giuochi, ed essendo circa il mezzogiorno era un ardentissimo aere. Ed ancor che si fosse in una sala terrena che le finestre aveva verso levante ed era assai fresca, tuttavia si lasciò di ballare e si cominciò da la lieta brigata ad entrar in diversi ragionamenti. La signora Camilla Scarampa, che un’altra Saffo a’ nostri tempi si può con veritá chiamare, disse a tutti che non sarebbe stato fuor di proposito che quell’ora sí calda e fastidiosa si dispensasse in piacevoli ragionamenti. Il che da tutti lodato, cominciò essa signora Camilla e narrò una novelletta assai dilettevole, dopo la quale alcune altre ne furono da donne e da uomini recitate. Ultimamente la signora Bianca ne recitò una che a me parve per gli accidenti suoi molto notabile. Il perché io che presente vi era, avendola ben notata la scrissi e la collocai con l’altre mie. Ora parendomi degna per il soggetto che ha, di venir ne le man vostre, quella vi mando, la quale terrete per testimonio del mio amore e riverenza verso voi, non sapendo io né potendo in altro manifestarvi e lasciar testimonio al mondo quanto io sia vostro. Parmi anco avendomi voi mandata quella vostra bellissima elegia, che io alcuna cosetta de le mie vi debbia mandare, non per scambio, perché le mie ciancie non sono da esser paragonate a le vostre coltissime muse, ma perché conosca ciascuno che io sono e sempre sarò di voi ricordevole. State sano.