Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/41
Questo testo è completo. |
Traduzione dall'inglese di Davide Bertolotti (1820-1824)
◄ | 40 | Indice VII | ► |
CAPITOLO XLI.
[A. 533] Quando Giustiniano salì sul trono, circa cinquant’anni dopo la caduta dell’Impero di Occidente, i Regni de’ Goti e de’ Vandali avevano acquistato un solido e, per quanto potrebbe sembrare, legittimo stabilimento sì in Europa, che in Affrica. I titoli che la vittoria Romana erasi attribuita, furono con ugual giustizia cancellati dalla spada de’ Barbari; e la fortunata loro rapina trasse un più venerabil diritto dal tempo, dai trattati e da’ giuramenti di fedeltà ripetuti già da due o tre generazioni di ubbidienti sudditi. L’esperienza ed il Cristianesimo avevan confutato la superstiziosa speranza, che Roma fosse fondata dagli Dei per regnare in perpetuo sulle Nazioni della Terra. Ma la superba pretensione di perpetuo ed invulnerabil dominio che i suoi soldati non poteron più sostenere fu costantemente difesa da’ suoi Politici e Giureconsulti, le opinioni de’ quali son talvolta risorte e si son propagate nelle moderne scuole di Giurisprudenza. Dopo che la stessa Roma fu spogliata della Porpora Imperiale, i Principi di Costantinopoli assunsero il solo e sacrato scettro della Monarchia; dimandarono come legittima loro eredità le Province, che erano state soggiogate da’ Consoli o possedute da’ Cesari; e debolmente aspiravano a liberare i fedeli lor sudditi d’Occidente dall’usurpazione degli Eretici e dei Barbari. A Giustiniano fu riservata in qualche parte l’esecuzione di questo splendido disegno. Per i primi cinque anni del suo Regno esso fece con ripugnanza una dispendiosa e svantaggiosa guerra contro i Persiani, finattantochè l’orgoglio non cedè all’ambizione di esso e comprò al prezzo di quattrocento quarantamila lire sterline una precaria tregua, che nel linguaggio di ambedue le Nazioni fu decorata col nome d’eterna pace. La sicurezza dell’Oriente lasciò l’Imperatore in libertà d’impiegar le sue forze contro i Vandali; e lo stato interno dell’Affrica somministrò un onorevol motivo, e promise un efficace aiuto alle armi Romane1.
[A. 525-530] Il Regno Affricano, secondo il testamento del suo Fondatore, era per retta linea pervenuto in Ilderico, maggiore in età fra’ Principi Vandali. Una dolce indole fece inclinare il figlio d’un tiranno, ed il nipote d’un conquistatore a preferire i consigli di clemenza e di pace; ed il suo avvenimento al trono fu contrassegnato da un salutar editto, che restituì dugento Vescovi alle lor Chiese, e permise la libera professione del Simbolo Atanasiano2. Ma i Cattolici accettarono con fredda e passagiera gratitudine un favore tanto inferiore alle lor pretensioni, e le virtù d’Ilderico offesero i pregiudizi de’ suoi Nazionali. Il Clero Arriano cercò d’insinuare a’ Vandali ch’egli aveva rinunziato alla fede de’ suoi Maggiori, ed i soldati più altamente si dolsero, che avea degenerato dal coraggio di essi. Si sospettò ne’ suoi Ambasciatori una segreta e vergognosa negoziazione alla Corte Bizantina: ed il suo Generale, che si chiamava l’Achille3 de’ Vandali, perdè una battaglia contro i nudi e indisciplinati Mori. [A. 530-534] Gelimero, a cui l’età, l’origine e la fama militare dava un apparente diritto alla successione, esacerbò il mal contento: ei prese col consenso della Nazione le redini del Governo; ed il suo sfortunato Sovrano senza neppure un combattimento, precipitò dal trono in una prigione, dove fu rigorosamente guardato insieme con un fedel Consigliere, ed il suo malveduto nipote, l’Achille de’ Vandali. Ma l’indulgenza che Ilderico avea dimostrato a’ suoi sudditi Cattolici, lo raccomandò efficacemente al favore di Giustiniano, che per vantaggio della propria setta, poteva ammettere l’uso e la giustizia della tolleranza religiosa. Mentre il nipote di Giustino era tuttavia privato, si fomentò la loro alleanza col vicendevol commercio di doni e di lettere; e l’Imperator Giustiniano sostenne la causa della dignità reale e dell’amicizia. Egli ammonì l’usurpatore in due successive ambascierie a pentirsi del suo tradimento o almeno ad astenersi da ogni ulteriore violenza che provocar potesse l’ira di Dio, e de’ Romani; a rispettare le leggi della parentela e della successione; ed a lasciar, che un uomo vecchio ed infermo terminasse in pace i suoi giorni, o sul trono di Cartagine, o nel palazzo di Costantinopoli. Le passioni, ovvero la prudenza di Gelimero lo costrinsero a rigettar queste domande, che venivan fatte con calore nell’altiero tuono di minacce e di comandi, ed ei giustificò la sua ambizione in un linguaggio, che di rado tenevasi alla Corte di Bizanzio, allegando il diritto, che aveva un Popolo libero di rimuovere o di punire il suo principal Magistrato che avea mancato nell’esecuzione dell’ufizio Reale. Dopo questa inutile intimazione il prigioniero Monarca fu trattato con più rigore; al suo nipote furono levati gli occhi, ed il crudel Vandalo, confidando nella sua forza e distanza derideva le vane minacce, ed i lenti preparativi dell’Imperatore d’Oriente. Giustiniano dunque risolvè di liberare, o vendicare il suo amico; Gelimero di sostener la sua usurpazione; e la guerra, secondo l’uso delle Nazioni incivilite, fu preceduta dalle più solenni proteste, che ciascheduna delle parti desiderava sinceramente la pace. La notizia d’una guerra Affricana non fu grata che alla vana ed oziosa plebaglia di Costantinopoli di cui la povertà l’esentava da’ tributi, e la poltroneria ben di rado l’esponeva al servizio militare. Ma i Cittadini più savi, che dal passato giudicavano del futuro, riflettevano all’immensa perdita, sì di uomini che di danaro, dall’Impero sofferta nella spedizione di Basilisco. Le truppe che dopo cinque laboriose Campagne si erano richiamate dalle frontiere della Persia, temevano il mare, il clima e le armi d’un incognito nemico. I ministri delle Finanze calcolavano, per quanto eran suscettibili di calcolo, i bisogni d’una guerra nell’Affrica; le tasse, che bisognava trovare ed esigere per supplire ai tali esorbitanti bisogni; ed il pericolo che le proprie lor vite, o almeno i loro lucrosi impieghi non fossero responsabili della mancanza di ciò ch’era necessario. Giovanni di Cappadocia, mosso da tali cagioni del proprio interesse (giacchè non può sopra di lui cadere il sospetto d’alcuna sorte di zelo del pubblico bene), si avventurò ad opporsi in pieno consiglio alle inclinazioni del suo Signore. Confessò in vero, che una vittoria di tale importanza non potea mai comprarsi a troppo caro prezzo; ma ne rappresentò in un grave discorso le difficoltà certe, e l’incerto evento. „Se intraprendete, disse il Prefetto, l’assedio di Cartagine per terra, la distanza non è minore di cento quaranta giorni di cammino, e per mare bisogna che passi un intero annonota, prima 4 che voi possiate avere alcuna nuova della vostra flotta. Soggiogando l’Affrica, essa non potrebbe conservarsi senza la conquista anche della Sicilia, e dell’Italia. Il buon successo vi obbligherà a nuovi travagli; ed una sola disgrazia attirerà i Barbari nel cuore dell’esausto vostro Impero„. Giustiniano sentì il peso di questo salutevol consiglio; restò confuso dall’insolita libertà di un ossequioso servo; e forse si sarebbe abbandonato il disegno di far quella guerra, se non si fosse ravvivato il suo coraggio da una voce, che fece tacere i dubbi della profana ragione: „Ho avuto una visione (gridò un artificioso o fanatico Vescovo d’Oriente): è volere del Cielo, o Imperatore, che non abbandoniate la vostra santa impresa di liberare la Chiesa Affricana. Il Dio degli Eserciti precederà le vostre bandiere, e dispergerà i vostri nemici che sono i nemici del suo Figlio„. L’Imperatore potè facilmente tentarsi, ed i suoi consiglieri furon costretti a dar fede a questa opportuna rivelazione: ma essi trassero una più ragionevole speranza dalla rivolta, che gli aderenti di Ilderico o Atanasio avevano già eccitato a’ confini della Monarchia Vandalica. Pudenzio, suddito affricano, aveva segretamente manifestato le sue fedeli intenzioni, ed un piccol soccorso militare fece tornar la Provincia di Tripoli all’ubbidienza de’ Romani. Era stato affidato il Governo di Sardegna a Goda, valoroso Barbaro, che sospese il pagamento del tributo, negò di prestar omaggio all’usurpatore, e diede orecchio agli emissari di Giustiniano, che lo trovaron padrone di quella fertile Isola, alla testa delle sue guardie, e superbamente rivestito delle insegne Reali. Si diminuiron le forze dei Vandali dalla discordia e dal sospetto; e gli eserciti Romani furono animati dal coraggio di Belisario, uno di que’ nomi eroici, che son cogniti ad ogni tempo e ad ogni Nazione.
L’Affricano della nuova Roma era nato, e forse educato fra’ contadini della Tracia5 senz’alcuno di quei vantaggi, che avea formato le virtù del vecchio e del giovine Scipione, quali sono un’origine nobile, gli studj liberali, e l’emulazione d’uno stato libero. Il silenzio d’un loquace Segretario si può ammetter come una prova, che la gioventù di Belisario non potè somministrare alcun soggetto di lode: ei servì sicurissimamente con valore e riputazione fra le guardie private di Giustiniano; e quando il suo padrone divenne Imperatore, fu egli promosso al comando militare. Dopo un’ardita incursione nella Persarmenia, in cui divise la sua gloria con un collega, e ne fu arrestato il progresso da un nemico, Belisario si fermò nell’importante posto di Dara, dove presoe la prima volta al suo servizio Procopio, fedele compagno, e diligente istorico delle sue imprese6. [A. 529-532] Il Miranne di Persia con quarantamila uomini delle migliori sue truppe avanzossi per gettare a terra le fortificazioni di Dara; e indicò il giorno e l’ora, in cui dovevano i Cittadini preparargli un bagno per rinfrescarsi dopo le fatiche della vittoria. Incontrò egli un avversario uguale a lui nel nuovo titolo, che aveva avuto di Generale dell’Oriente; superiore nella perizia della guerra; ma molto inferiore nel numero, e nella qualità delle sue truppe, che non erano più di venticinquemila fra Romani e stranieri, rilassati nella disciplina militare, ed umiliati da recenti disastri. Siccome la pianura di Dara non ammetteva alcuna sorte di strattagemma, o d’imboscata, Belisario difese la sua fronte con una forte trincera, che prolungò prima in linee perpendicolari e poi parallele, per cuoprire le ali della cavalleria, situata vantaggiosamente in luogo da poter dominare i fianchi e la retroguardia del nemico. Attaccato che fu il centro de’ Romani, l’opportuno loro e rapido urto decise della battaglia: cadde la bandiera Persiana; gl’immortali fuggirono; l’infanteria gettò via gli scudi; ed ottomila de’ vinti restarono morti sul campo di battaglia. Nella seguente campagna fu invasa la Siria dalla parte del deserto; e Belisario, con ventimila uomini corse da Dara in soccorso di quella Provincia. Per tutta la state le abili sue disposizioni resero vani i disegni del nemico: lo costrinse a ritirarsi; ogni notte occupava il campo, che quello aveva lasciato il giorno avanti; e si sarebbe assicurato una vittoria senza spargimento di sangue, se avesse potuto resistere all’impazienza delle proprie truppe. Queste però nell’ora della battaglia debolmente mantennero la promessa fatta di portarsi valorosamente; l’ala destra rimase esposta per la proditoria e codarda diserzione degli Arabi cristiani; gli Unni, che formavano una truppa veterana di ottocento guerrieri, furon oppressi dalla superiorità del numero; la fuga degl’Isauri fu impedita, ma l’infanteria Romana restò ferma nella sinistra, perchè Belisario medesimo, smontato da cavallo, dimostrò loro che un’intrepida disperazione poteva unicamente salvarli. Voltarono essi le spalle all’Eufrate, e la faccia al nemico; un’immensa quantità di dardi strisciò senza effetto su’ loro scudi insieme stretti, ed ordinati a guise di tetto per ripararli; a’ replicati assalti della cavalleria Persiana fu opposta un’impenetrabile linea di picche; e dopo una resistenza di più ore, le truppe che rimasero, col favor della notte furono abilmente imbarcate. Il comandante Persiano si ritirò con disordine e vergogna a rendere stretto conto delle vite di tanti soldati, ch’egli aveva sacrificato in una steril vittoria; ma la fama di Belisario non fu contaminata da una disfatta, nella quale aveva egli solo salvato il suo esercito dalle conseguenze della temerità del medesimo. L’approssimarsi della pace lo dispensò dal guardare le frontiere Orientali, e la sua condotta nella sedizione di Costantinopoli ampiamente soddisfece alle obbligazioni, che aveva coll’Imperatore. Allorchè la guerra d’Affrica divenne il soggetto de’ discorsi popolari, e delle segrete deliberazioni, ciascheduno dei Generali Romani temeva, piuttosto che ambisse, quel pericoloso onore; ma appena Giustiniano ebbe dichiarato la preferenza, ch’ei dava al merito superiore di Belisario, si riaccese la loro invidia dall’unanime applauso, che fu fatto a tale scelta. L’indole della Corte Bizantina può avvalorare il sospetto, che l’Eroe fosse segretamente assistito dagl’intrighi della bella e scaltra Antonina sua moglie, che alternativamente godè la grazia, ed incorse nell’odio dell’Imperatrice Teodora. Antonina era d’origine ignobile, discendendo da una famiglia di cocchieri, e n’era stata macchiata la riputazione con le più brutte accuse. Nonostante regnò con lungo ed assoluto potere sull’animo dell’illustre di lei marito; e se non curò il merito della fedeltà coniugale, dimostrò per Belisario un’amicizia virile, avendolo accompagnato con intrepida fermezza in tutti i travagli e pericoli d’una vita militare7.
[A. 533] I preparativi per la Guerra d’Affrica non furono indegni dell’ultima contesa fra Roma e Cartagine. L’orgoglio ed il fior dell’esercito consisteva nelle guardie di Belisario, che secondo la perniciosa indulgenza di que’ tempi si obbligavano mediante un particolar giuramento di fedeltà al servizio del loro Capo. La loro forza e statura, per cause delle quali erano stati con gran cura scelti, la bontà de’ loro cavalli e delle armi, e l’assidua pratica di tutti gli esercizi militari gli rendeva capaci d’eseguire tutto ciò, che il loro coraggio poteva proporre; e questo coraggio esaltavasi dal sociale onore del loro grado, e dalla personale ambizione di favore e fortuna. Quattrocento de’ più bravi fra gli Eruli marciavano sotto la bandiera del fedele ed attivo Fara; l’intrattabile valore di questi si apprezzava assai più che la mansueta sommissione dei Greci e de’ Sirj; e si crede di tale importanza l’avere un rinforzo di seicento Massageti o Unni, ch’essi furono con la frode e coll’inganno allettati ad impegnarsi in una spedizione navale. S’imbarcarono a Costantinopoli cinquemila cavalli e diecimila fanti per la conquista dell’Affrica; ma l’infanteria, per la maggior parte reclutata nella Tracia e nell’Isauria, cedeva all’uso, che più dominava, ed alla riputazione della cavalleria; e l’arco Scitico era l’arme, in cui gli eserciti Romani erano in quel tempo ridotti a porre la loro principal fiducia. Procopio, per un lodevole desiderio di sostenere la dignità del suo tema, difende i soldati del suo tempo contro gli austeri critici, che limitavano quel rispettabile nome a’ guerrieri di grave armatura dell’antichità, e maliziosamente osservavano, che Omero adopera la parola Arciero come un termine di disprezzo8: „Tal disprezzo potè (dic’egli) forse meritarsi da que’ nudi giovani, che comparivano a piedi ne’ campi di Troia, e nascondendosi dietro a un sepolcro, o allo scudo d’un amico si tiravano al petto la corda dell’arco9, e scagliavano un debole e lento dardo. Ma i nostri arcieri (prosegue l’Istorico) cavalcano destrieri, ch’essi maneggiano con ammirabil perizia; hanno difeso il capo e le spalle da un elmo, o dallo scudo; portano delle difese di ferro alle gambe, e i loro corpi son guardati da una corazza di maglia; pende loro al fianco dalla destra parte una faretra, una spada dalla sinistra, e la loro mano è assuefatta nel combatter più da vicino a maneggiare una lancia, o un pugnale. I loro archi son forti e pesanti; scagliano in ogni direzione possibile, sì nell’avanzarsi, che nel ritirarsi, di fronte, per di dietro, e da ciaschedun lato; e siccome sono istruiti a tirar la corda dell’arco, non già al petto, ma all’orecchio diritto, bisogna, che sia bene stabile quell’armatura, che può resistere alla rapida forza del loro dardo„. Si riunirono nel porto di Costantinopoli cinquecento navi da trasporto con ventimila marinari d’Egitto, di Cilicia e di Ionia. La più piccola di queste navi può valutarsi di trenta tonnellate, e la più grande di cinquecento; e potrà accordarsi con una liberale sì, ma non eccessiva condiscendenza, che la vera portata di esse ascendesse a circa centomila tonnellate, ad oggetto di contenere trentacinquemila fra soldati e marinari, cinquemila cavalli, le armi, le macchine e provvisioni militari, ed una sufficiente quantità d’acqua, e di cibi per un viaggio forse di tre mesi. Le alte galere, che anticamente battevano il Mediterraneo con tante centinaia di remi, erano già da gran tempo sparite; e la flotta di Giustiniano fu scortata solo da novantadue piccoli brigantini, coperti da’ dardi nemici, e montati da duemila bravi e robusti giovani di Costantinopoli. Vi si trovano nominati ventidue Generali, la maggior parte de’ quali dipoi si distinse nelle guerre d’Affrica e d’Italia; ma il comando supremo, sì per terra che per mare, fu affidato al solo Belisario, con un’illimitata facoltà d’agire secondo il suo giudizio, come se fosse presente l’Imperatore medesimo. La separazione, che si è fatta della professione nautica dalla militare, è l’effetto nel tempo stesso e la causa dei moderni avanzamenti nella scienza della navigazione, e della guerra marittima.
[A. 535] Nel settimo anno del Regno di Giustiniano, e verso il tempo del solstizio estivo, fu disposta in marzial pompa tutta la flotta di seicento navi avanti a’ giardini del Palazzo. Il Patriarca la benedì, l’Imperatore manifestò gli ultimi suoi ordini, la trombetta del Generale diede il segno della partenza, ed ognuno, secondo i propri timori o desiderj esplorò con ansiosa curiosità gli augurj della disgrazia, e del buon successo. Si fece la prima fermata a Perinto o Eraclea, dove Belisario aspettò cinque giorni per ricevere alcuni cavalli Tracj, ch’erano un dono militare del suo Sovrano. Di là proseguì la flotta il suo corso per mezzo della Propontide; ma mentre si affaticavano per passar lo Stretto dell’Ellesponto, un vento contrario gli trattenne quattro giorni in Abido, dove il Generale diede una memorabil lezione di fermezza e di rigore. Due Unni, che in una contesa, cagionata dall’ebrietà, avevano ucciso uno de’ loro compagni, furono immediatamente mostrati all’armata sospesi da un’alta forca. I loro compatriotti, che non riconoscevan le Leggi servili dell’Impero, e adducevano il libero privilegio della Scizia, dove una piccola multa pecuniaria serviva per espiare i subitanei trasporti dell’intemperanza e dell’ira, si risentirono dell’ingiuria fatta alla Nazione. Erano speciose le loro querele, alti i loro clamori, ed a’ Romani non dispiaceva l’esempio del disordine e dell’impunità. Ma fu quietato il nascente tumulto per l’autorità ed eloquenza del Generale, che rappresentò alle truppe adunate l’obbligo della giustizia, l’importanza della disciplina, i premj della pietà e della virtù, e l’imperdonabil delitto dell’omicidio, che a suo giudizio veniva piuttosto aggravato che scusato dal vizio dell’ebrietà10. Nella navigazione dall’Ellesponto al Peloponneso, che i Greci dopo l’assedio di Troia avevan fatto in quattro giorni11, la flotta di Belisario era guidata nel suo corso dalla principal Galera di esso, visibile di giorno per le vele rosse, e di notte per mezzo di torcie accese sulla cima dell’albero. Era ufizio de’ Piloti, quando navigarono fra le Isole, e girarono i promontori di Malea e di Tenaro, il mantenere un ordine giusto, e delle regolate distanze fra tante navi; e siccome il vento fu piacevole e moderato, le loro fatiche riuscirono bene, e furono felicemente sbarcate le truppe a Metono sulla costa della Messenia, per farle riposare alquanto dopo i travagli del mare. In quest’occasione esse provarono quanto può l’avarizia, investita dell’autorità, prendersi giuoco delle vite di migliaia di Uomini, che valorosamente s’espongono pel servizio pubblico. Secondo l’uso militare il pane o biscotto de’ Romani era cotto nel forno due volte, e volentieri si soffriva la diminuzione d’un quarto per la perdita del peso. Per guadagnare questo miserabil vantaggio, e risparmiar la spesa delle legna, il Prefetto Giovanni di Cappadocia diede ordine, che si cuocesse il pane leggermente al medesimo fuoco, che faceva scaldare i bagni di Costantinopoli: e quando s’apriron le sacca fu distribuita una molle e muffita pasta all’esercito. Questo cibo insalubre, unito al caldo del clima e della stagione tosto produsse una malattia epidemica, che portò via cinquecento soldati. La diligenza di Belisario, che provvide dell’altro pane a Metona, e liberamente manifestò il suo giusto ed umano risentimento, rimediò alla loro salute: l’Imperatore ascoltò i suoi lamenti; fu lodato il Generale; ma il Ministro non fu punito. Dal porto di Metona i Piloti fecero vela lungo la costa occidentale del Peloponneso fino all’Isola di Zacinto o del Zante, prima d’intraprendere il viaggio (a’ loro occhi difficilissimo) di cento leghe sul mare Ionio. Poichè la flotta fu sorpresa da una calma, si consumarono sessanta giorni in quella lenta navigazione; ed anche l’istesso Generale avrebbe sofferto l’intollerabile ardor della sete, se l’ingegno d’Antonina non avesse conservato dell’acqua in boccie di vetro, ch’essa nascose profondamente nella sabbia in una parte della nave dove non potevano arrivare i raggi solari. Finalmente il porto di Caucana12 nella parte meridionale di Sicilia diede loro un sicuro ed ospitale rifugio. Gli Ufiziali Goti, che governavano l’Isola in nome della Figlia e del Nipote di Teodorico, ubbidirono agl’imprudenti loro ordini di ricever le truppe di Giustiniano come amiche ed alleate: furono loro generosamente date delle provvisioni, fu rimontata la cavalleria13, e Procopio presto tornò da Siracusa con un’esatta informazione dello stato e dei disegni de’ Vandali. Queste notizie determinarono Belisario ad affrettar le sue operazioni, e la savia di lui impazienza fu secondata da’ venti. La flotta perdè di vista la Sicilia, passò davanti all’Isola di Malta, scuoprì i promontori dell’Affrica, scorse lungo le coste con un forte vento di nord-est, e gettò finalmente l’ancora al Promontorio di Caput vada, circa cinque giornate di cammino al mezzodì di Cartagine14.
Se Gelimero fosse stato informato dell’avvicinarsi del nemico, egli avrebbe sicuramente differito la conquista della Sardegna per l’immediata difesa della propria persona e del Regno. Un distaccamento di cinquemila soldati, ed uno di cento venti galere si sarebbero uniti alle altre forze de’ Vandali, ed il discendente di Genserico avrebbe potuto sorprendere ed opprimere una flotta di navi da trasporto, molto cariche, incapaci d’agire, e di piccoli Brigantini, che sembravano solo atti alla fuga. Belisario aveva tremato internamente quando sentì, che i suoi soldati, nel passaggio, s’animavano l’uno coll’altro a confessare le loro apprensioni. Dicevano essi, che se potevano una volta porre il piede sul lido, speravano di sostenere il decoro delle loro armi; ma se fossero stati attaccati per mare, non arrossivano di confessare, che mancava loro il coraggio per combattere nell’istesso tempo coi venti, co’ flutti, e co’ Barbari15. La cognizione de’ loro sentimenti fece decidere Belisario a prender la prima occasione, che gli si presentò, di sbarcarli sulla costa dell’Affrica; ed in un Consiglio di guerra prudentemente rigettò la proposizione di entrare insieme con la flotta e l’esercito nel porto di Cartagine. Tre mesi dopo la loro partenza da Costantinopoli, furono felicemente sbarcati gli uomini ed i cavalli, le armi e gli arnesi militari, e si lasciaron cinque soldati per guardia su ciascheduna delle navi, che furon disposte in forma di semicerchio. Le altre truppe occuparono un campo sul lido del mare, che si fortificò secondo l’antico uso con un fosso e con un riparo; e la scoperta d’una fonte d’acqua fresca nel tempo che servì a smorzarne la sete, eccitò la superstiziosa fiducia de’ Romani. La mattina seguente, furono saccheggiati alcuni de’ giardini più prossimi; e Belisario, dopo aver gastigato i rei, prese quella occasione leggiera per se stessa, ma che si presentò in un momento decisivo, per inculcar le massime di giustizia, di moderazione, e di vera politica: „Quando accettai la commissione di soggiogar l’Affrica, disse il Generale, io contai molto meno sul numero, o anche sulla bravura delle mie truppe, che sull’amichevol disposizione degli abitanti, e sull’immortale lor odio contro de’ Vandali. Voi soli potete privarmi di questa speranza, se continuate ad estorcer con la rapina quel che potrebbe comprarsi per poco prezzo: tali atti di violenza riconcilieranno fra loro quest’implacabili nemici, e gli uniranno in una giusta e santa lega contro gl’invasori del loro paese„. Quest’esortazioni furono avvalorate da una rigorosa disciplina, della quale i soldati medesimi provaron ben tosto, e lodaron gli effetti. Gli abitanti invece di abbandonare le loro case, o di nascondere il loro grano, aprivano a’ Romani un comodo e copioso mercato; gli Ufiziali civili della Provincia continuarono ad esercitar le loro funzioni a nome di Giustiniano; ed il Clero, per motivi sì di coscienza che d’interesse, continuamente si affaticava a promuovere la causa d’un Imperatore Cattolico. La piccola Città di Sullette16, distante una giornata di cammino dal campo, ebbe l’onore d’esser la prima ad aprir le porte, ed a riassumer l’antica sua fedeltà: le altre maggiori Città di Leptis, e di Adrumeto ne imitaron l’esempio, subito che comparve Belisario; e questi senza opposizione avanzossi fino a Grasse, palazzo de’ Re Vandali, alla distanza di cinquanta miglia da Cartagine. Gli stanchi Romani si abbandonavano al sollievo di ombrosi boschi, di fresche fontane e deliziosi frutti; e la preferenza, che Procopio accorda a questi giardini sopra tutti quelli, ch’esso aveva veduto tanto in Oriente quanto in Occidente, si può attribuire o al particolar gusto, o alla fatica dell’istorico. In tre generazioni la prosperità, ed un clima caldo avevan rilasciato il duro valore dei Vandali, che a poco a poco divennero i più lussuriosi del Mondo. Nelle loro ville e giardini, che potevano ben meritare il nome Persiano di Paradisi17. essi godevano un fresco ed elegante riposo; e dopo il quotidiano uso del bagno, i Barbari s’assidevano ad una mensa, profusamente imbandita con le delizie della terra e del mare. Le loro vesti di seta liberamente ondeggianti all’uso de’ Medi erano ricamate d’oro: l’amore e la caccia erano le occupazioni della loro vita, e nelle rimanenti ore si divertivano con pantomimi e corse di cocchi, con la musica e le danze del Teatro.
In una marcia di dieci o dodici giorni fu costantemente attenta e in azione la vigilanza di Belisario contro gl’incogniti suoi nemici, da’ quali poteva in ogni luogo e ad ogni ora esser improvvisamente attaccato. Giovanni l’Armeno, Ufiziale di confidenza e di merito, conduceva la vanguardia di trecento cavalli; seicento Massageti ad una certa distanza coprivano il lato sinistro e tutta la flotta navigando lungo la costa, rare volte perdeva di vista l’esercito che ogni giorno faceva circa dodici miglia, ed alloggiava la sera in forti campi, o in Città amiche. L’avvicinamento de’ Romani a Cartagine riempì l’animo di Gelimero d’ansietà e di terrore. Desiderava egli prudentemente di prolungare la guerra finattantochè il suo fratello tornasse con le veterane sue truppe dalla conquista di Sardegna; ed ebbe allora occasione di lamentarsi dell’inconsiderata politica de’ suoi Maggiori, che distruggendo le fortificazioni dell’Affrica non gli avevan lasciato che il pericoloso spediente di rischiare una battaglia nelle vicinanze della sua Capitale. I Conquistatori Vandali dal primitivo lor numero di cinquantamila, s’eran moltiplicati, senza includervi le donne e i fanciulli, fino a cento sessantamila combattenti: e tali forze, animate dal valore e dall’unione avrebber potuto impedire, al primo sbarco, le deboli ed esauste truppe del Generale Romano. Ma gli amici del Re prigioniero erano più inclinati ad accettar gl’inviti che a resister a’ progressi di Belisario; e molti altieri Barbari mascheravano la loro avversione alla guerra sotto il più specioso nome dell’odio, che portavano all’usurpatore. Ciò nonostante l’autorità e le promesse di Gelimero unirono insieme un formidabile esercito, ed i suoi disegni furono concertati con qualche sorte di perizia militare. Spedì un ordine ad Ammata, suo fratello, di raccoglier tutte le forze di Cartagine, e di opporsi alla Vanguardia dell’esercito Romano alla distanza di dieci miglia dalla Città; e Gibamondo, suo nipote, con duemila cavalli fu destinato ad attaccarne il fianco sinistro mentre il Monarca medesimo, che tacitamente seguitava i nemici, ne avrebbe attaccata la retroguardia in una situazione, che toglieva loro l’aiuto ed anche la vista della lor flotta. Ma la temerità d’Ammata riuscì fatale a lui medesimo ed al suo Paese. Egli anticipò l’ora dell’attacco, precedè i suoi lenti seguaci, e fu trafitto da una mortal ferita, dopo d’aver ucciso con le proprie mani dodici de’ suoi più arditi nemici. I suoi Vandali fuggirono a Cartagine; la strada maestra, per lo spazio di quasi dieci miglia fu ricoperta di cadaveri; e sembra incredibile, che tante persone fossero trucidate dalle spade di trecento Romani. Il nipote di Gelimero fu disfatto dopo un breve combattimento dai seicento Massageti: questi non giungevano neppure alla terza parte delle truppe di esso; ma ogni Scita veniva infiammato dall’esempio del suo Capo, che gloriosamente esercitò il diritto della propria famiglia, di correre il primo e solo a scagliare il primo dardo contro il nemico. Frattanto Gelimero, non sapendo quel ch’era seguito, ed ingannato dalla tortuosità de’ colli oltrepassò inavvertentemente l’esercito Romano, e giunse al luogo dov’era caduto Ammata. Pianse il destino del fratello e di Cartagine; attaccò con irresistibil furore gli squadroni, che s’avanzavano; ed avrebbe potuto proseguire e forse far decidere la vittoria in suo favore, se non avesse consumato quei preziosi momenti nell’adempire un inutile, quantunque pietoso, dovere verso il defunto. Mentre il suo spirito era abbattuto da questo luttuoso ufizio, udì la trombetta di Belisario, che lasciando Antonina, e la sua infanteria nel campo s’avanzò in fretta con le sue guardie e col resto della cavalleria per riunire le fuggitive sue truppe e rimetter la fortuna della giornata. In questa disordinata battaglia non potè molto aver luogo l’abilità d’un Generale; ma il Re fuggì d’avanti all’Eroe, ed i Vandali, assuefatti a combattere solo co’ Mori, non furon capaci di resistere alle armi ed alla disciplina de’ Romani. Gelimero precipitosamente si ritirò verso il deserto di Numidia; ma presto ebbe la consolazione di sapere, ch’erano stati fedelmente eseguiti i segreti suoi ordini per la morte d’Ilderico e de’ prigionieri suoi amici. La vendetta però del Tiranno fu solo vantaggiosa a’ nemici di esso. La morte d’un legittimo Principe risvegliò la compassione del suo Popolo; e mentre la sua vita avrebbe messo in perplessità i vittoriosi Romani, il Luogotenente di Giustiniano, per mezzo d’un delitto di cui era innocente, fu liberato dulia penosa alternativa di mancare all’onore, o di abbandonare le sue conquiste.
[A. 533] Tosto che fu quietato il tumulto, le varie parti dell’esercito reciprocamente si comunicarono gli accidenti seguiti in quel giorno; e Belisario piantò il suo campo nel luogo della vittoria, a cui la pietra, indicante la distanza di dieci miglia da Cartagine, aveva fatto prendere il nome latino di Decimo. Per un savio sospetto degli strattagemmi de’ Vandali, e de’ mezzi che avean di risorgere, esso marciò il giorno seguente in ordine di battaglia; la sera fermossi avanti le porte di Cartagine; e prese una notte di riposo per non esporre nell’oscurità e nel disordine la Città alla licenza de’ soldati, o i soldati medesimi alle segrete insidie della Città. Ma siccome i timori di Belisario erano il resultato dell’intrepida e fredda ragione, ben presto conobbe che potea confidare senza pericolo nel pacifico ed amichevole aspetto della Capitale. Cartagine fu illuminata da innumerabili torcie, segni della pubblica letizia; fu tolta la catena che guardava l’ingresso del porto; furono aperte le porte; ed il Popolo, con acclamazioni di gratitudine salutò ed invitò i Romani loro liberatori. La disfatta de’ Vandali e la libertà dell’Affrica, s’annunziarono alla Città la vigilia di S. Cipriano, allorchè le Chiese erano già ornate ed illuminate per la Festa del Martire, che tre secoli di superstizione aveva quasi innalzato ad una locale divinità. Gli Arriani, vedendo ch’era finito il lor regno, consegnarono il tempio ai Cattolici che riscattarono dalle mani profane il lor Santo, vi celebrarono i sacri riti, ed altamente vi proclamarono il simbolo d’Atanasio e di Giustiniano. Una terribile ora rovesciò le fortune de’ contrari partiti. I Vandali supplichevoli che si erano sì poco tempo avanti abbandonati a’ vizi de’ conquistatori, cercavano un umil rifugio nel santuario della Chiesa; mentre i Mercanti Orientali furono liberati fuor della più profonda prigione del Palazzo dallo spaventato loro custode che implorò la protezione de’ suoi prigionieri, e mostrò loro, per un’apertura nella muraglia, le vele della flotta Romana. Dopo essersi separati dall’esercito, i comandanti navali s’erano avanzati con cauta lentezza lungo la costa, finattantochè giunsero al promontorio Ermeo, ed ivi ebbero la prima notizia della vittoria di Belisario. In adempimento delle sue istruzioni, avrebbero essi gettato l’ancora alla distanza di circa venti miglia da Cartagine, se i più abili marinari non avessero rappresentato loro i pericoli del lido ed i segni d’una imminente tempesta. Ignorando però tuttavia la rivoluzione seguita, evitarono il temerario tentativo di forzar la catena del Porto; ed il contiguo porto e sobborgo di Mandracio furono insultati soltanto dalla rapacità d’un privato Ufiziale che disubbidì e disertò da’ suoi Capi. Ma la flotta Imperiale avanzandosi con un buon vento, passò per lo Stretto della Goletta, ed occupò nel profondo e capace lago di Tunisi un luogo sicuro distante circa cinque miglia dalla capitale18. Appena Belisario fu informato del loro arrivo che spedì ordini, che immediatamente la maggior parte de’ marinari sbarcasse per unirsi al trionfo, ed accrescere l’apparente numero de’ Romani. Avanti di permetter loro ch’entrassero nelle porte di Cartagine gli esortò in un discorso degno di lui e della circostanza presente, a non infamare la gloria delle loro armi, ed a ricordarsi che i Vandali erano stati i tiranni, ma che essi erano i liberatori degli Affricani, i quali dovevano allora esser rispettati come volontari ed affezionati sudditi del comune loro Sovrano. I Romani marciarono per le strade della Città in strette file, preparati sempre alla battaglia se fosse comparso qualche nemico; l’ordine, rigorosamente mantenuto dal Generale, impresse ne’ loro animi il dovere dell’ubbidienza; ed in un secolo, nel quale l’uso e l’impunità quasi santificava l’abuso della conquista, il genio d’un solo uomo represse le passioni d’un esercito vittorioso. Tacque la voce della minaccia e del lamento; il commercio di Cartagine non fu interrotto; mentre l’Affrica mutò padrone e Governo, continuarono le botteghe aperte e in azione; ed i soldati, dopo che furon poste sufficienti guardie ne’ luoghi opportuni, modestamente si ritirarono alle case destinate a riceverli. Belisario fissò la sua residenza nel Palazzo; si assise sul trono di Genserico; accettò e distribuì le spoglie de’ Barbari; concesse la vita a’ Vandali supplichevoli, e procurò di riparare il danno che nella notte precedente avea sofferto il sobborgo di Mandracio. A cena trattò i suoi principali Ufiziali con la magnificenza e la forma d’un Banchetto reale19. Il vincifu rispettosamente servito da’ prigionieri Ministri della Casa Reale; e in que’ momenti di solennità, nei quali gl’imparziali spettatori applaudivano alla fortuna ed al merito di Belisario, tore i suoi invidiosi adulatori segretamente spargevano il loro veleno sopra ogni parola ed ogni gesto, che poteva eccitar i sospetti di un geloso Monarca. Fu impiegata una giornata in questi pomposi spettacoli che non possono disprezzarsi come inutili, allorchè s’attirano la popolare venerazione; ma l’attività di Belisario che nell’orgoglio della vittoria potea temere anche una disfatta, avea già risoluto, che l’Impero de’ Romani sull’Affrica non dipendesse dagli accidenti delle armi o dal favore del Popolo. Le sole fortificazioni di Cartagine erano state immuni dalla general proscrizione; ma in un Regno di novanta cinque anni si erano lasciate cadere dagli spensierati e indolenti Vandali. Un più savio conquistatore restaurò con incredibil prestezza le mura ed i fossi della Città. La sua liberalità incoraggi gli artefici; i soldati, i marinari ed i cittadini facevano a gara l’uno coll’altro in quella salutevole opera; e Gelimero, che aveva temuto d’affidare la sua persona ad un’aperta città, mirò con istupore e disperazione il nascente vigore d’una inespugnabil Fortezza.
[A. 533] Quest’infelice Monarca dopo la perdita della sua Capitale, s’applicò a raccogliere i residui d’un’armata dispersa, piuttosto che distrutta dalla precedente battaglia; e la speranza della preda tirò alcune truppe moresche alle bandiere di Gelimero. Ei s’accampò campagne di Bulla in distanza di quattro giornate di cammino da Cartagine; insultò la Capitale, ch’ei privò dell’uso d’un acquedotto; propose un grosso premio per la testa d’ogni Romano; affettò di risparmiar le persone ed i beni degli Affricani suoi sudditi, e trattò segretamente co’ settari Arriani e con gli Unni confederati. In queste circostanze la conquista della Sardegna non servì che ad aggravar le sue angustie: rifletteva col più profondo dolore, ch’egli avea consumato in quell’inutile intrapresa cinquemila delle sue più brave genti; e lesse con dispiacere e vergogna le vittoriose lettere del suo fratello Zanone ch’esprimevano un’ardente fiducia che il Re, dietro l’esempio de’ suoi Maggiori, avesse già gastigato la temerità del Romano invasore. „Oimè, Fratello, replicò Gelimero, il Cielo si è dichiarato contro la nostra infelice Nazione. Nel tempo che tu hai soggiogato la Sardegna, noi abbiamo perduto l’Affrica. Appena comparve Belisario con un pugno di soldati, che il coraggio e la prosperità abbandonaron la causa de’ Vandali. Gibamondo tuo nipote, ed Ammata tuo fratello son morti per la codardia dei loro seguaci. I nostri cavalli, le nostre navi, la stessa Cartagine e tutta l’Affrica sono in poter del nemico. Pure i Vandali tuttavia preferiscono un ignominioso riposo, a costo di perdere le loro mogli ed i figli, i loro averi e la libertà. Ora non ci rimane altro che la campagna di Bulla e la speranza del vostro valore. Lascia la Sardegna; vola in nostro soccorso; restaura il nostro Impero, od al nostro fianco perisci„. Ricevuta questa lettera, Zanone comunicò il suo duolo a’ principali de’ Vandali ma ne nascose prudentemente la notizia a’ nativi dell’Isola. Si imbarcaron le truppe in centoventi galere nel porto di Cagliari, gettaron l’ancora il terzo giorno a’ confini della Mauritania, e proseguirono in fretta il loro cammino per riunirsi alle bandiere Reali nel campo di Bulla. Tristo ne fu l’incontro: i due fratelli s’abbracciarono; piansero in silenzio; nulla fu domandato della vittoria di Sardegna, nessuna ricerca si fece delle disgrazie dell’Affrica. Avevano essi d’avanti a’ lor occhi tutta l’estensione delle loro calamità; e l’assenza delle proprie mogli e de’ figli somministrava una luttuosa prova che era loro toccata o la morte o la schiavitù. Si risvegliò finalmente il languido spirito de’ Vandali, e si riunirono per l’esortazioni del loro Re, per l’esempio di Zanone, e per l’imminente pericolo che minacciava la loro Monarchia e Religione. La forza militare della Nazione s’avanzò alla battaglia; e tale fu il rapido loro accrescimento che prima che l’armata giungesse a Tricameron, circa venti miglia lontano da Cartagine, poteron vantare, forse con qualche esagerazione, che sorpassavano dieci volte le piccole forze de’ Romani. Queste forze però eran sotto il comando di Belisario, il quale, siccome conosceva il superiore lor merito, permise, che i Barbari lo sorprendessero in un’ora inopportuna. I Romani ad un tratto si posero in armi: un piccolo rio ne copriva la fronte: la cavalleria formava la prima linea, che aveva nel centro Belisario alla testa di cinquecento guardie: l’infanteria fu posta a qualche distanza in una seconda linea: e la vigilanza del Generale osservava la separata situazione e l’ambigua fede de’ Massageti che segretamente riserbavano il loro aiuto per i vincitori. L’Istorico ha riportato, ed il Lettore può facilmente immaginare i discorsi20 de’ Comandanti, che con argomenti i più acconci allo stato in cui erano, inculcavano l’importanza della vittoria e il disprezzo della vita. Zanone con le truppe che l’avevan seguitato nella conquista della Sardegna, fu posto nel centro; e se la moltitudine de’ Vandali avesse imitato l’intrepida loro fermezza, il trono di Genserico avrebbe potuto sostenersi. Gettate via le lancie e le armi da scagliare sfoderarono essi le spade, ed aspettaron l’attacco: la cavalleria Romana per tre volte passò il rio; essa fu per tre volte respinta; e si mantenne costante la pugna, finattantochè cadde Zanone, e si spiegò la bandiera di Belisario. Gelimero si ritirò al suo campo: gli Unni s’unirono ad inseguirlo, ed i vincitori spogliarono i corpi de’ morti. Pure non furon trovati sul campo più di cinquanta Romani e di ottocento Vandali: sì tenue fu la strage d’una giornata ch’estinse una Nazione, e trasferì l’Impero dell’Affrica. La sera Belisario condusse la sua infanteria all’attacco del campo, e la pusillanime fuga di Gelimero manifestò la vanità delle proteste poco avanti fatte, che per un vinto la morte era di sollievo, di peso la vita; e l’infamia si riguardava come l’unico oggetto di terrore. Fu segreta la sua partenza; ma tosto che i Vandali scoprirono che il loro Re gli aveva abbandonati, precipitosamente si dispersero, solleciti solo della loro personale salvezza, e non curando qualunque altr’oggetto ch’è caro o valutabile per gli uomini. I Romani entrarono senza resistenza nel campo; e nell’oscurità e confusion della notte restaron nascoste le più barbare scene di disordine. Fu crudelmente trucidato qualunque Barbaro, cui incontrarono le loro spade: le vedove e le figlie di quelli, abbracciate furono come ricche eredi o belle concubine da’ licenziosi soldati; e l’avarizia medesima restò quasi sazia de’ tesori d’oro e d’argento, frutti della conquista o dell’economia, accumulati in un lungo periodo di prosperità e di pace. In questa furiosa ricerca anche i soldati di Belisario dimenticarono la loro riservatezza e rispetto. Acciecati dalla cupidigia e dalla rapacità, esploravano in piccole partite o soli le addiacenti campagne, i boschi, gli scogli, e le caverne che potesser celare qualche cosa di prezzo; carichi di bottino abbandonarono i loro posti e andavano senza guida vagando per le strade, che conducevano a Cartagine; e se i fuggitivi nemici avessero ardito di tornare indietro, ben pochi de’ conquistatori sarebbero scampati. Belisario, profondamente penetrato dalla vergogna e dal pericolo, passò con apprensione una notte sul campo di battaglia; ed allo spuntar del giorno piantò la sua bandiera sopra di un Colle, riunì le sue guardie ed i veterani, ed appoco appoco restituì la moderazione e l’ubbidienza nell’esercito, Il Generale Romano prese uguale interesse nel sottomettere i Barbari nemici, che nel salvarli prostrati; ed i Vandali supplichevoli che si trovavano solo nelle Chiese, furon protetti dalla sua autorità, disarmati e situati separatamente in maniera che non potessero nè disturbar la pubblica pace, nè divenir le vittime della vendetta popolare. Dopo aver mandato un piccol distaccamento ad investigare le traccie di Gelimero, s’avanzò con tutta la sua armata per circa dieci giornate di cammino fino ad Ippone Regio che non possedeva più le reliquie di S. Agostino21. La stagione avanzata e la certa notizia che i Vandali eran fuggiti agl’inaccessibili paesi de’ Mori, determinò Belisario ad abbandonarne l’inutil ricerca, ed a stabilire in Cartagine i suoi quartieri d’inverno. Di là mandò il principale suo Luogotenente ad informare l’Imperatore, che nello spazio di tre mesi egli aveva compito la conquista dell’Affrica.
[A. 534] Belisario diceva il vero. I Vandali, che sopravvissero, cederono senz’altra resistenza le armi e la libertà: i contorni di Cartagine si sottomisero alla sua presenza; e le Province più lontane furono l’una dopo l’altra soggiogate dalla fama della sua vittoria. Tripoli si confermò nel volontario suo omaggio; la Sardegna e la Corsica s’arresero ad un Ufiziale, che invece della spada portò la testa del bravo Zanone; e le Isole di Maiorca, Minorca ed Ivica acconsentirono di rimanere un’umile appendice del Regno affricano. Cesarea, Città Reale che in una Geografia non tanto rigorosa può confondersi colla moderna Algeri, era situata trenta giornate di cammino all’occidente di Cartagine: per terra la strada era infestata da’ Mori; ma il mare era aperto, ed i Romani erano allora padroni del mare. Un attivo e prudente Tribuno s’avanzò fino allo Stretto dove occupò Septem, o Ceuta22, che s’alza sulla costa d’Affrica dirimpetto a Gibilterra: questa remota Piazza fu di poi adorna e fortificata da Giustiniano; e sembra, ch’ei secondasse in questo la vana ambizione d’estendere il suo Impero sino alle colonne d’Ercole. Esso ricevè l’annunzio della vittoria in quel tempo, in cui preparavasi appunto a pubblicar le Pandette della Legge Romana; ed il devoto o geloso Imperatore celebrò la divina bontà, e confessò in silenzio, il merito dell’abile suo Generale23. Impaziente d’abolire la temporale e spiritual tirannia de’ Vandali, procedè senza dilazione al pieno ristabilimento della Chiesa Cattolica. Ne furono restaurate ed ampliate generosamente la giurisdizione, la ricchezza e le immunità che sono forse la parte più essenziale della Religione Episcopale; fu soppresso il Culto Arriano; si proscrissero le adunanze de’ Donatisti24; ed il Sinodo di Cartagine per la voce di dugento diciassette Vescovi25, applaudì alla giustizia di quella pia rappresaglia. Non è da presumersi che in tale occasione mancassero molti de Prelati ortodossi, ma la tenuità del lor numero in paragone di quello degli antichi Concilj, ch’era stato due o anche tre volte maggiore, chiarissimamente indica la decadenza sì della Chiesa, che dello Stato. Mentre Giustiniano si dichiarava difensor della Fede, nutriva un’ambiziosa speranza, che il vittorioso suo Luogotenente fosse per estender ben presto gli angusti limiti del suo dominio a quello spazio che avevano, prima dell’invasione dei Mori e de’ Vandali; e Belisario ebbe ordine di stabilir cinque Duchi o Comandanti, nei posti opportuni di Tripoli, di Leptis, di Cirta, di Cesarea e di Sardegna, e di calcolar la quantità di Palatini, o di guarnigioni di frontiera che potessero esser sufficienti alla difesa dell’Affrica. Il Regno de’ Vandali meritò la presenza d’un Prefetto del Pretorio; e furon destinati quattro Consolari, e tre Presidenti per amministrar le sette Province, che si trovavan sotto la sua giurisdizione. Fu minutamente fissato il numero degli Ufiziali loro subordinati, de’ ministri e de’ messaggi o assistenti; trecento novantasei ne furono assegnati al Prefetto medesimo, cinquanta per ciascheduno de’ suoi Vicari; e la rigorosa determinazione delle loro tasse e salari fu più atta a confermare il diritto, che ad impedir l’abuso di essi. Potevano questi Magistrati essere oppressivi, ma non eran oziosi: e si propagarono all’infinito le sottili questioni di Gius e di pubblica Economia sotto il nuovo Governo, che si proponeva di far risorgere la libertà e l’equità della Repubblica Romana. Il Conquistatore fu sollecito ad esigere un pronto e copioso sussidio dagli Affricani suoi sudditi, ed accordò loro il diritto di ripetere, anche nel terzo grado, e dalla linea collaterale, le case e le terre, delle quali erano state le loro Famiglie ingiustamente spogliate da’ Vandali. Dopo la partenza di Belisario, che agiva in forza d’un’alta e special commissione, non fu fatto alcun ordinario provvedimento per un Capitan Generale delle Truppe: ma fu affidato l’ufizio di Prefetto del Pretorio ad un soldato; la potestà civile e militare s’unirono, secondo l’uso di Giustiniano, nel principal Governatore; e quello, che rappresentava l’Imperatore in Affrica ugualmente che in Italia, fu ben presto distinto col nome d’Esarca26.
[A. 534] Era per altro imperfetta la conquista dell’Affrica, finattantochè il precedente di lei Sovrano non fosse, o vivo o morto, caduto in poter de’ Romani. Gelimero, dubbioso dell’evento, aveva segretamente ordinato che una parte del suo tesoro fosse trasportata in Ispagna dove sperava di trovare un sicuro asilo alla Corte del Re de’ Visigoti. Ma si renderono vani questi disegni dal caso, dal tradimento e dalle istancabili ricerche de’ suoi nemici, che impediron la fuga di esso dalla parte del mare, e cacciarono il disgraziato Monarca, con alcuni suoi fedeli seguaci, fino all’inaccessibil montagna di Papua27, nell’interno della Numidia. Ei vi fu immediatamente assediato da Fara, Ufiziale di cui tanto più lodavasi la fede e la sobrietà, quanto erano tali qualità più rare fra gli Eruli, tribù la più corrotta di tutte le altre fra’ Barbari. Belisario affidato aveva alla sua vigilanza quest’importante incarico; e dopo un ardito tentativo di scalar la montagna, nel quale perdè centodieci soldati, Fara aspettò l’effetto, che l’angustia e la fame, durante un assedio invernale, avrebbe operato nell’animo del Re Vandalo. Dall’uso de’ più molli piaceri, e dall’illimitata dominazione sopra l’industria e la ricchezza, fu egli ridotto a partecipare della povertà de’ Mori28, che si rendea loro soffribile solo per l’ignoranza, in cui erano di una condizion più felice. Nelle rozze loro capanne di fango e di creta, che ritenevano il fumo, ed escludevan la luce, promiscuamente dormivano sul suolo, o al più sopra pelli di pecore, insieme con le loro mogli, co’ figli e col bestiame. Le loro vesti eran sordide e scarse; non conoscevan l’uso del pane e del vino; e certe focacce d’avena o di orzo, che malamente si facevan cuocere nella cenere, si divoravano quasi crude dagli affamati selvaggi. A questi straordinari ed insoliti travagli doveva cedere la salute di Gelimero, qualunque si fosse la causa, per cui li soffriva; ma l’attual sua miseria veniva di più amareggiata dalla memoria della passata grandezza, dalla continua indolenza dei suoi protettori, e dal giusto timore, che i leggieri e venali Mori s’inducessero a tradire i diritti dell’ospitalità. La conoscenza della situazione di esso dettò l’umana ed amichevol lettera di Fara: „Pensate a voi medesimo (gli scrisse il Capo degli Eruli). Io sono un ignorante Barbaro; ma parlo il linguaggio del buon senso e dell’onestà. Volete voi persistere ad un’ostinazione senza speranza? Perchè volete voi rovinar voi medesimo, la vostra Famiglia e la vostra Nazione? Per amor della libertà e per abborrimento alla schiavitù? Oimè, carissimo Gelimero, non siete voi ora il peggior degli schiavi, lo schiavo della più vile Nazione de’ Mori? Non sarebbe da scegliersi piuttosto di menare a Costantinopoli una vita di povertà e servitù, che di regnare da Monarca assoluto della montagna di Papua? Stimate voi una vergogna l’esser suddito di Giustiniano? Lo è Belisario, e noi medesimi, la nascita de’ quali non è inferiore alla vostra, non ci vergogniamo di ubbidire all’Imperator Romano. Questo generoso Principe vi darà il possesso di ricche terre, un posto nel Senato, e la dignità di Patrizio: queste sono le sue graziose intenzioni, e voi potete con piena sicurezza contare sulla parola di Belisario. Finattantochè il Cielo ci condanna a soffrire, la pazienza è una virtù; ma se rigettiamo la liberazione, che ci offre, degenera in una cieca e stupida disperazione.„ „Io conosco (replicò il Re de’ Vandali) quanto è ragionevole e da amico il vostro consiglio. Ma non posso persuadermi a divenir lo schiavo d’un ingiusto nemico che ha meritato l’implacabile mio odio. Io non lo ho mai offeso nè in parole nè in fatti: pure ha mandato contro di me, non so da qual parte, un certo Belisario, che mi ha precipitato dal trono in questo abisso di miseria. Giustiniano è un uomo, ed è un Principe; non teme ancor egli un simil rovescio della fortuna? Io non posso scriver di più: il mio dolore mi opprime. Vi prego, mio caro Fara, di mandarmi una Lira29, una spugna ed un pane.„ Dal messaggio Vandalo seppe Fara i motivi di questa singolar domanda. Era gran tempo che il Re dell’Affrica non aveva gustato pane; aveva una flussione agli occhi, effetto della fatica e del continuo suo pianto; e desiderava di sollevar la malinconia cantando sulla Lira la trista istoria delle sue disgrazie. Fara si mosse a compassione, e gli mandò quegli straordinari tre doni; ma la stessa sua umanità l’indusse a raddoppiare la vigilanza delle guardie per poter più presto costringere il suo prigioniero ad abbracciare una risoluzione vantaggiosa in vero a’ Romani, ma salutare anche a lui stesso. L’ostinazione di Gelimero cedè finalmente alla necessità ed alla ragione; furono ratificate in nome dell’Imperatore le solenni promesse di sicurezza e d’onorevole trattamento dall’ambasciatore di Belisario; ed il Re dei Vandali scese dalla montagna. Il primo pubblico incontro seguì in uno de’ sobborghi di Cartagine; e quando il Reale schiavo si accostò al suo vincitore, proruppe in uno scroscio di risa. Il volgo potè naturalmente credere che l’estremo dolore avesse privato Gelimero di senno; ma in quel tristo stato l’inopportuna letizia insinuò a’ più intelligenti osservatori, che le vane e transitorie scene dell’umana grandezza sono indegne d’una seria attenzione30.
[A. 534] Il disprezzo di esse fu tosto giustificato da un altro esempio d’una volgar verità, che l’adulazione seguita la potenza, e l’invidia il merito superiore. I Capi dell’esercito Romano ardirono di reputarsi rivali di un Eroe. Le lettere private maliziosamente riferivano che il Conquistatore dell’Affrica, sostenuto dalla propria sua fama e dall’amore del pubblico, aspirava a sedere sul trono de’ Vandali. Giustiniano vi diede troppo facile orecchio, ed il suo silenzio fu effetto della gelosia, piuttosto che della confidenza. Fu in vero lasciata all’arbitrio di Belisario l’onorevole alternativa, o di restare nella Provincia o di tornare alla Capitale; ma egli saviamente dedusse dalle lettere intercettate, e dalla cognizione che aveva del carattere del suo Sovrano che bisognava ch’esso o rinunziasse la vita, o innalzasse la bandiera di ribellione, o confondesse con la sua presenza e sommissione i propri nemici. L’innocenza ed il coraggio gli dettaron la scelta; furon prestamente imbarcate le sue guardie, gli schiavi, e i tesori; e fu così prospera la navigazione, che il suo arrivo a Costantinopoli precedè qualunque certa notizia della sua partenza da Cartagine. Una lealtà così schietta allontanò le apprensioni di Giustiniano; l’invidia fu fatta tacere, e sempre più venne infiammata dalla pubblica gratitudine; ed il terzo Affricano ottenne gli onori del Trionfo, cerimonia, che la Città di Costantino non avea mai veduta, e che l’antica Roma, fin dal Regno di Tiberio, avea riservata per le armi felici de’ Cesari31. La processione, partendo dal Palazzo di Belisario, si condusse per le principali strade fino all’Ippodromo; e questa memorabil giornata parve che vendicasse le ingiurie di Genserico; ed espiasse la vergogna de’ Romani. Si posero in mostra la ricchezza delle Nazioni ed i trofei del lusso marziale o effemminato, vale a dire ricche armature, troni d’oro, ed i cocchj di parata, ch’erano stati d’uso della Regina de’ Vandali; i massicci serviti del banchetto Reale, lo splendore delle pietre preziose, l’eleganti figure delle statue e dei vasi, il tesoro più effettivo dell’oro, ed i sacri arnesi del Tempio Giudaico che, dopo la lunga lor pellegrinazione, furono rispettosamente depositati nella Chiesa Cristiana di Gerusalemme. In una lunga serie i più nobili dei Vandali posero con ripugnanza in mostra l’alta loro statura, ed il viril portamento. Gelimero si avanzava con lentezza vestito di porpora, e tuttavia conservava la maestà di un Re. Non gli scappò dagli occhi una lacrima, non ne fu sentito un singhiozzo; ma l’orgoglio o la pietà del medesimo traeva una segreta consolazione da quelle parole di Salomone32, ch’ei più volte pronunciò: Vanità, vanità, tutto è vanità! Invece di salir sopra un carro trionfale tirato da quattro cavalli o elefanti, il modesto Conquistatore andò a piedi alla testa dei suoi bravi commilitoni. Forse la sua prudenza evitar volle un onore troppo cospicuo per un suddito; e la sua magnanimità sdegnò forse giustamente quel che era stato sì spesso macchiato da’ più vili tiranni. Entrò quella gloriosa processione nell’Ippodromo; fu salutata dalle acclamazioni del Senato e del Popolo, e fermossi avanti al Trono, su cui sedevano Giustiniano e Teodora per ricever gli omaggi del Monarca prigioniero e dell’Eroe vittorioso. Ambedue fecero la solita adorazione e prostrandosi al suolo rispettosamente toccaron il piano, dove posavano i piedi d’un Principe che non avea mai sguainata la spada, e d’una prostituta che ballato avea sul teatro: dovè usarsi qualche piacevol violenza per piegare il duro spirito del nipote di Genserico; e per quanto assuefatto fosse alla servitù, il genio di Belisario segretamente dovè ripugnare a tal atto. Esso fu immediatamente dichiarato Console per l’anno seguente, ed il giorno della sua inaugurazione fu simile ad un secondo trionfo; la sua sella curule fu portata sulle spalle da’ Vandali schiavi, e furono profusamente sparse fra la plebe le spoglie della guerra, come coppe d’oro e ricche fibbie.
[A. 535] Ma il premio più puro di Belisario consistè nella fedel esecuzione d’un trattato, per cui s’era impegnato il suo onore col Re de’ Vandali. Gli scrupoli religiosi di Gelimero, ch’era attaccato all’eresìa Arriana, non erano conciliabili con la dignità di Senatore o di Patrizio; ma ei ricevè dall’Imperatore un ampio territorio nella Provincia di Galazia, dove il deposto Monarca si ritirò con la sua famiglia e con gli amici a vivere in pace abbondantemente, e forse anche contento33. Le figlie d’Ilderico furon trattate con quella rispettosa tenerezza, ch’era dovuta alla età, ed alla disgrazia di esse; e Giustiniano e Teodora accettaron l’onore di educare, e d’arricchire le discendenti del Gran Teodosio. I più prodi fra’ giovani Vandali furon distribuiti in cinque Squadroni di cavalleria che adottarono il nome del loro benefattore, e nelle guerre Persiane sostennero la gloria de’ loro antenati. Ma queste rare eccezioni, che furon il premio della nascita o del valore, sono insufficienti a spiegare il destino d’una Nazione il numero della quale, avanti una breve non sanguinosa guerra, montava a più di seicentomila persone. Dopo l’esilio del proprio Re e de’ Nobili, la vile plebaglia avrà comprato la sua sicurezza con abiurare la sua religione ed il proprio carattere e linguaggio, e la degenerata di lei posterità si sarà appoco appoco mescolata con la comune turba de’ sudditi Affricani. Pure, anche nel nostro secolo, e nel cuore delle tribù moresche, un curioso viaggiatore ha scoperto la carnagione bianca, ed i lunghi capelli biondi d’una razza settentrionale34, ed anticamente fu creduto che i più arditi fra’ Vandali fuggissero dal potere o anche dalla cognizione de’ Romani per godere la solitaria lor libertà su’ lidi dell’Oceano Atlantico35. L’Affrica che ne aveva formato l’Impero, divenne la loro prigione, non potendo essi avere speranza, e neppure alcun desiderio di tornare alle rive dell’Elba, dove i loro fratelli, d’un genio meno arrischioso, andavano sempre vagando per le native loro foreste. Per i codardi era impossibile di sormontare gli ostacoli d’incogniti mari, e di ostili Barbari; e per i valorosi era impossibile d’esporre la loro nudità e disfatta agli occhi de’ loro Nazionali, di descrivere i regni che avevan perduti, e di chiedere una parte di quel tenue patrimonio, che, in un tempo più felice, avevano quasi di comune accordo rinunziato36. Nella Regione ch’è fra l’Elba, e l’Oder, vari popolati villaggi della Lusazia sono abitati da’ Vandali: essi conservano ancora il proprio linguaggio, i loro costumi e la purità del lor sangue; soffrono con qualche impazienza il giogo Sassone o Prussiano, e servono con segreto volontario omaggio il discendente degli antichi lor Re, che nell’abito e nel presente suo stato si confonde col minimo de’ suoi Vassalli37. Il nome e la situazione di questo infelice Popolo potrebbe indicare la loro discendenza da un comune stipite con i conquistatori dell’Affrica: ma l’uso di un dialetto Slavo più chiaramente gli rappresenta come l’ultimo residuo delle nuove colonie, che successero ai veri Vandali, già dispersi o distrutti al tempo di Procopio38.
Se Belisario si fosse lasciato tentare ad esitare nella sua fedeltà, avrebbe potuto insistere, anche in faccia dell’Imperatore medesimo, sull’indispensabil dovere di liberar l’Affrica da un nemico più barbaro de’ Vandali. L’origine de’ Mori si perde nell’oscurità, giacchè da essi non conoscevasi l’uso delle lettere39. Non se ne possono precisamente determinare neppure i confini: aprivasi a’ pastori della Libia un immenso Continente; la mutazione delle stagioni e de’ pascoli regolava i lor movimenti; e le rozze baracche co’ pochi utensili si trasportavano con la medesima facilità che le lor armi, famiglie e bestiami composti di pecore, di bovi e di camelli40. Finattantochè fu in vigore la Potenza Romana, si tennero in una rispettosa distanza da Cartagine e dal lido del mare; sotto il debole Regno de’ Vandali invasero le Città di Numidia, occuparono la costa marittima da Tangeri a Cesærea, e piantarono impunemente il loro campo nella fertile Provincia di Bizacio. La formidabile forza e l’artificiosa condotta di Belisario s’assicurò della neutralità de’ Principi Mori, la vanità de’ quali aspirava a ricevere in nome dell’Imperatore le insegne della Real dignità41. Essi restaron sorpresi al rapido successo, e tremarono alla presenza del loro Conquistatore. Ma la prossima sua partenza tosto diminuì le apprensioni d’un Popolo selvaggio e superstizioso; il numero delle mogli che avevano, permetteva loro di non curar la salvezza de’ propri figli dati in ostaggio; e quando il General Romano sciolse le vele dal porto di Cartagine, udì le grida, e quasi vide le fiamme della desolata Provincia. Persistè nonostante nella sua risoluzione, e lasciando solo una parte delle sue guardie per rinforzar le guarnigioni più deboli, affidò il comando dell’Affrica all’Eunuco Salomone42, che si dimostrò non indegno di succedere a Belisario. Nella prima invasione de’ Mori furon sorpresi ed intercettati alcuni distaccamenti con due iniziali di merito; ma Salomone prestamente adunò le suo’ truppe, marciò da Cartagine nell’interno del loro paese, ed in due gran battaglie distrusse sessantamila Barbari. I Mori contavano sulla lor moltitudine e velocità, e sulle inaccessibili loro montagne; e si dice, che l’aspetto e l’odore de’ loro cammelli producessero qualche confusione nella Cavalleria Romana43. Ma tosto che fu comandato loro di smontare, si risero di questo debole ostacolo: appena le colonne montarono i colli, quella nuda e disordinata ciurma restò abbagliata dallo splendore dello armi, e dalle regolari evoluzioni; e replicatamente adempissi la minaccia delle lor Profetesse, che i Mori dovevano essere sconfitti da un nemico senza barba. Il vittorioso Eunuco avanzossi alla distanza di tredici giornate da Cartagine ad assediare il Monte Aurasio44, ch’era la cittadella, e nell’istesso tempo il giardino della Numidia. Quella catena di colline, ch’è un ramo del grande Atlante, nella circonferenza di cento miglia contiene una rara varietà di suolo e di clima; le valli che sono fra mezzo di esse, e l’elevate pianure abbondano di ricchi pascoli, di perenni rivi, e di frutti d’un gusto delicato e di straordinaria grandezza. Questa bella solitudine è decorata dalle rovine di Lambesa città Romana, una volta sede di una Legione e capace di quarantamila abitanti. Il tempio Ionico d’Esculapio è circondato di capanne Moresche; ed il bestiame ora si pascola in mezzo ad un anfiteatro sotto l’ombra di colonne Corintie. S’alza perpendicolarmente un aspro scoglio sopra il livello della montagna, dove i Principi Affricani depositavano le mogli ed il tesoro; ed è un proverbio famigliare fra gli Arabi, che può mangiare il fuoco quell’uomo che ardisce d’attaccare le dirupate balze, ed i selvaggi abitanti del monte Aurasio. Fu due volte tentata questa difficile impresa dall’Eunuco Salomone: la prima si ritirò con qualche vergogna; e la seconda tanto la sua pazienza quanto le provvisioni erano già quasi esauste, e bisognava ch’ei di nuovo si ritirasse se non avesse ceduto all’impetuoso coraggio delle sue truppe, che audacemente scalarono, con sorpresa de’ Mori, la montagna, il campo nemico e la cima della rocca Geminia. Vi fu eretta una cittadella per assicurare quest’importante acquisto, e per rammentare ai Barbari la loro disfatta: e siccome Salomone proseguì la sua marcia all’occidente, la provincia della Mauritania Sitifi, da gran tempo perduta, fu di nuovo annessa all’Impero Romano. La guerra co’ Mori continuò per più anni dopo la partenza di Belisario; ma gli allori, ch’ei lasciò ad un fedel Luogotenente, si possono attribuir giustamente al proprio di lui trionfo.
L’esperienza de’ passati errori, che può talvolta correggere l’età matura d’un individuo, rare volte riesce di vantaggio alle successive generazioni della stirpe umana. Le Nazioni dell’antichità, non curando la reciproca salvezza l’una dell’altra, furono separatamente vinte e fatte schiave da’ Romani; questa formidabil lezione avrebbe dovuto istruire i Barbari dell’Occidente ad opporsi con opportuni consigli, e con armi confederate all’ambizione illimitata di Giustiniano. Eppure fu ripetuto l’istesso sbaglio, se ne provarono le medesime conseguenze, ed i Goti tanto d’Italia quanto di Spagna, insensibili al loro imminente pericolo, mirarono con indifferenza, ed anche con allegrezza, la rapida caduta dei Vandali. Mancata la stirpe Reale, Teude, valoroso Capitano, montò sul trono di Spagna, ch’egli avea precedentemente amministrato in nome di Teodorico e dell’infame di lui nipote. Sotto il suo comando i Visigoti assediarono la Fortezza di Ceuta sulla costa Affricana: ma mentre passavano il giorno festivo in pace e devozione, una sortita della Città invase la pia sicurezza del loro campo, e l’istesso Re scampò, con qualche difficoltà e pericolo, dalle mani d’un sacrilego nemico45. Non passò gran tempo, che fu soddisfatto il suo orgoglio e risentimento, mediante una supplichevole ambasciata dell’infelice Gelimero che nelle sue angustie implorò l’aiuto del Monarca Spagnuolo. Ma invece di sacrificare queste indegne passioni ai dettami della generosità e della prudenza, Teude lusingò gli ambasciatori, finattantochè non fu segretamente informato della caduta di Cartagine; ed allora gli licenziò, con l’oscuro e sprezzante avviso di cercare nel nativo loro paese una vera notizia dello stato de’ Vandali46. La lunghezza della guerra Italica differì la punizione de’ Visigoti, e Teude chiuse gli occhi prima ch’essi gustassero i frutti di quest’erronea politica. Dopo la sua morte si disputò lo scettro di Spagna con una guerra civile. Il Candidato più debole ricorse alla protezione di Giustiniano, ed ambiziosamente sottoscrisse un trattato d’alleanza, che profondamente ferì l’indipendenza e la felicità della sua Patria. [A. 550-620] Varie città sull’oceano e sul mediterraneo furon cedute alle truppe Romane, che in seguito ricusarono di rilasciar questi pegni per quanto sembra o di sicurezza o di pagamento; e siccome venivano rinforzate con continui sussidj dall’Affrica, mantennero le inespugnabili loro stazioni per il malizios’oggetto d’accendere le civili e religiose fazioni de’ Barbari. Passarono settant’anni prima che si potesse trarre questa penosa spina dal seno della Monarchia; e finattantochè gl’Imperatori ritennero una parte di que’ remoti ed inutili possessi, la loro vanità enumerò la Spagna nella lista delle loro Province, ed i successori d’Alarico fra’ loro Vassalli47.
[A. 534] L’errore de’ Goti, che regnavano in Italia, fu meno scusabile di quello de’ loro fratelli di Spagna, e la pena, che ne soffrirono, fu anche più immediata e terribile. Per causa d’una vendetta privata lasciarono che il più pericoloso loro nemico distruggesse il più pregevole alleato che avessero. Si era maritata una sorella del gran Teodorico a Trasimondo Re dell’Affrica48: in quest’occasione s’era consegnata a’ Vandali la Fortezza di Lilibeo in Sicilia49, e la Principessa Amalafrida fu accompagnata da una scorta militare di mille Nobili, e di cinquemila soldati Goti, che segnalarono il loro valore nelle guerre contro i Mori. Fu esaltato in quell’occasione il proprio merito da loro medesimi e forse disprezzato da’ Vandali: i Goti guardarono il Paese con invidia, ed i conquistatori con isdegno; ma la reale o fittizia loro cospirazione fu prevenuta da un macello. I Goti restaron oppressi; e la prigionia d’Amalafrida fu tosto seguita dalla segreta e sospetta sua morte. S’impiegò l’eloquente penna di Cassiodoro a rimproverare alla Corte Vandalica la crudel violazione d’ogni pubblico e social dovere; ma poteva essa ridersi impunemente della vendetta, ch’ei minacciò in nome del suo Sovrano, finattantochè l’Affrica era difesa dal mare, ed i Goti mancavano d’una flotta. Nella cieca impotenza del dolore e dell’ira, essi lietamente applaudirono all’arrivo de’ Romani, accolsero la flotta di Belisario nei porti della Sicilia, e furono ben presto rallegrati o commossi dalla sorprendente notizia, che s’era eseguita la lor vendetta oltre la misura delle speranze, o forse anche delle brame, che avevano. L’Imperatore doveva alla loro amicizia il Regno dell’Affrica, ed i Goti potevano con ragione pensare, ch’essi avevano diritto di pigliare il possesso d’un nudo scoglio sì di fresco separato, come un dono nuziale, dall’Isola di Sicilia. Presto però furon disingannati dall’altiero comando di Belisario, ch’eccitò il tardo loro ed inutile pentimento: „La Città ed il Promontorio di Lilibeo (disse il Generale Romano) apparteneva a’ Vandali, ed io gli pretendo per diritto di conquista. La vostra sommissione può meritare il favor dell’Imperatore; ma l’ostinazione provocherà il suo sdegno ed accenderà una guerra, che non può terminare che coll’ultima vostra rovina. Se voi ci costringerete a prender le armi, noi combatteremo non già per riprendere una sola Città, ma per ispogliarvi di tutte le Province che voi avete ingiustamente sottratte al legittimo loro Sovrano„. Una Nazione di dugentomila soldati avrebbe potuto ridersi della vana minaccia di Giustiniano, e del suo Luogotenente; ma dominava in Italia lo spirito di discordia e di malcontento, ed i Goti soffrivano, con ripugnanza, la indegnità d’un Regno donnesco50.
La nascita di Amalasunta, Reggente e Regina d’Italia51 riunì le due più illustri Famiglie dei Barbari. Sua madre, sorella di Clodoveo, discendeva da’ capelluti Re della stirpe Merovingica52; la Real successione degli Amali fu illustrata nell’undecima generazione dal gran Teodorico suo Padre, il merito del quale, avrebbe potuto nobilitare anche un’origin plebea. Il sesso della sua figlia l’escludeva dal Trono de’ Goti; ma la vigilante affezione, ch’egli aveva per la propria Famiglia, e per il suo Popolo, gli fece scuoprir l’ultimo erede della schiatta Reale, i cui Antenati si erano rifuggiti in Ispagna; ed il fortunato Eutarico fu tosto esaltato al grado di Console e di Principe. Ma egli non godè che per breve tempo il possesso d’Amalasunta, e la speranza della successione; ed essa, dopo la morte del marito e del Padre, fu lasciata custode del proprio figlio Atalarico e del Regno d’Italia. All’età di circa ventotto anni, le qualità della mente e della persona di lei erano giunte alla perfetta loro maturità. La sua bellezza, che secondo l’apprensione di Teodora medesima, le avrebbe potuto disputar la conquista d’un Imperatore, era animata da sentimento, attività e fermezza virile. L’educazione e l’esperienza ne avevan coltivato i talenti; i suoi studj filosofici erano immuni dalla vanità; e quantunque si esprimesse con ugual eleganza e facilità nella lingua Greca, nella Latina e nella Gotica, la figlia di Teodorico mantenne sempre ne’ suoi consigli un discreto ed impenetrabil silenzio. Mediante la fedele imitazione delle virtù del Padre, fece risorgere la prosperità del suo Regno; mentre con pia sollecitudine procurò d’espiarne gli errori e di cancellare l’oscura memoria della decadente sua età. Ai figli di Boezio, e di Simmaco fu restituita la paterna loro eredità; l’estrema sua piacevolezza non acconsentì mai ad infliggere ai Romani suoi sudditi alcuna pena corporale o pecuniaria; e generosamente sprezzò i clamori de’ Goti, che in capo a quarant’anni risguardavano sempre i Popoli d’Italia come loro schiavi o nemici. Le salutari sue determinazioni eran dirette dalla saviezza, e celebrate dall’eloquenza di Cassiodoro; essa richiese, e meritò l’amicizia dell’Imperatore; ed i Regni d’Europa, sì in pace che in guerra, rispettarono la maestà del Trono Gotico. Ma la futura felicità della Regina e dell’Italia, dipendeva dall’educazione del suo figlio, ch’era destinato fin dalla nascita a sostenere i differenti e quasi non conciliabili caratteri di Capo d’un esercito Barbaro, e di primo Magistrato d’una incivilita Nazione. Si principiò all’età di dieci anni53 ad istruire Atalarico diligentemente nelle arti e nelle scienze utili o d’ornamento per un Principe Romano; e si scelsero tre venerabili Goti per istillare principj di virtù e d’onore nell’animo del giovine loro Re. Ma il fanciullo, che non sente i vantaggi dell’educazione, ne aborrisce il rigore; e la sollecitudine della Regina, che dall’affetto rendevasi ansiosa e severa, offese l’intrattabil natura del figlio e de’ sudditi. In occasione d’una solenne festa, mentre i Goti erano adunati nel Palazzo di Ravenna, il fanciullo Reale scappò dall’appartamento di sua madre, e con lacrime d’orgoglio e di sdegno si dolse d’uno schiaffo, che l’ostinata sua disubbidienza l’aveva provocata a dargli. I Barbari s’irritarono per l’indegnità, con cui trattavasi il loro Re; accusarono la Reggente di cospirare contro la vita e la corona di esso; ed imperiosamente domandarono, che il nipote di Teodorico fosse liberato dalla vile disciplina delle donne e dei pedanti, ed educato come un valoroso Goto in compagnia de’ suoi uguali e nella gloriosa ignoranza dei suoi Maggiori. A queste rozze grida importunamente ripetute come la voce della Nazione, Amalasunta fu costretta a cedere, contro la propria ragione e contro i più cari desiderj del suo cuore. Il Re d’Italia s’abbandonò al vino, alle donne ed a’ grossolani sollazzi; e l’imprudente disprezzo dell’ingrato giovine scuoprì i maliziosi disegni de’ suoi favoriti e de’ nemici di essa. Circondata da’ nemici domestici, essa entrò in una segreta negoziazione coll’Imperator Giustiniano; ebbe la sicurezza d’essere amichevolmente ricevuta; ed aveva già depositato a Dirrachio nell’Epiro un tesoro di quarantamila libbre d’oro. Sarebbe stato bene per la sua fama e sicurezza, se si fosse quietamente ritirata dalle fazioni barbare a goder la pace e lo splendore di Costantinopoli: ma l’animo di Amalasunta era infiammato dall’ambizione e dalla vendetta; e mentre le sue navi stavano all’ancora nel porto, essa aspettava il successo d’un delitto, che le sue passioni scusavano o applaudivano come un atto di giustizia. Erano stati separatamente mandati alle frontiere dell’Italia tre de’ più pericolosi malcontenti sotto il pretesto di fedeltà e di comando: furono questi assassinati da’ segreti di lei emissari; ed il sangue di que’ nobili Goti rese la Regina madre, assoluta nella Corte di Ravenna, e giustamente odiosa ad un Popolo libero. Ma se erasi essa lagnata de’ disordini del figlio, ben presto ne pianse l’irreparabile perdita; e la morte di Atalarico, che all’età di sedici anni si consumò da una prematura intemperanza, la lasciò priva di ogni stabil sostegno o legittima autorità. In vece di sottomettersi alle Leggi della sua Patria, che avevano per massima fondamentale, che la successione non potesse mai passar dalla lancia alla conocchia, la figlia di Teodorico immaginò l’impraticabil disegno di dividere con uno de’ suoi cugini il titolo Reale, e conservar per sè la sostanza della suprema Potestà. Ei ricevè la proposizione con profondo rispetto e con affettata gratitudine; e l’eloquente Cassiodoro annunziò al Senato ed all’Imperatore, che Amalasunta e Teodato eran saliti sul trono d’Italia. La nascita di esso poteva considerarsi come un titolo imperfetto, giacchè era figlio d’una sorella di Teodorico, e la scelta d’Amalasunta fu con maggior forza diretta dal disprezzo ch’ella aveva per la sua avarizia e pusillanimità, che l’avevan privato dell’amore degl’Italiani, e della stima de’ Barbari. Ma Teodato fu inasprito dal disprezzo, ch’ei meritava: la giustizia della Regina aveva represso, e gli aveva rimproverata l’oppressione ch’egli esercitava contro i Toscani suoi vicini; ed i principali fra’ Goti, riuniti dalla colpa e dallo sdegno comune, cospirarono ad instigare la lenta e timida sua disposizione. Appena si eran mandate le lettere di congratulazione, che la Regina d’Italia fu imprigionata in una piccola Isola del lago di Bolsena,54 dove la medesima, dopo un breve confino, fu strangolata nel bagno per ordine, o con la connivenza del nuovo Re, che in tal modo istruì i turbolenti suoi sudditi a spargere il sangue de’ loro Sovrani.
[A. 535] Giustiniano vedeva con piacere le dissensioni dei Goti, e la mediazione dell’alleato celava, e favoriva le ambiziose mire del conquistatore. I suoi Ambasciatori, nella pubblica loro udienza richiesero la Fortezza di Lilibeo, dieci Barbari fuggitivi, ed una giusta compensazione per il saccheggio d’una piccola Città sui confini dell’Illirico; ma segretamente trattarono con Teodato la resa della provincia di Toscana, e tentarono Amalasunta di trarsi fuori dal pericolo e dalla perplessità, mediante una libera restituzione del Regno d’Italia. La Regina prigioniera sottoscrisse con ripugnanza una lettera falsa e servile, ma i Senatori Romani, mandati a Costantinopoli, manifestarono la vera di lei situazione, e Giustiniano per mezzo d’un nuovo Ambasciatore, intercesse più efficacemente per la libertà, e per la vita di essa. Le segrete istruzioni però dell’istesso Ministro eran dirette a servire la crudel gelosia di Teodora, che temeva la presenza e le superiori attrattive d’una rivale: egli insinuò, con artificiosi ed ambigui cenni, l’esecuzione d’un delitto così vantaggioso a’ Romani55; ricevè la notizia della morte della Regina con dispiacere e con isdegno; ed in nome del suo Padrone dichiarò immortal guerra contro il perfido di lei assassino. In Italia, ugualmente che in Affrica il delitto d’un usurpatore parve, che giustificasse le armi di Giustiniano; ma le forze ch’egli apparecchiò, non eran sufficienti per rovesciare un potente Regno, se il piccolo numero di esse non si fosse aumentato dal nome, dallo spirito e dalla condotta d’un Eroe. Una scelta truppa di guardie a cavallo armate con lancie e scudi, accompagnavano la persona di Belisario; la sua cavalleria era composta di dugento Unni, di trecento Mori, e di quattromila Confederati; e l’infanteria consisteva in soli tremila Isauri. Il Console Romano dirigendo il suo corso come nella prima spedizione, gettò l’ancora avanti a Catania in Sicilia per osservare la forza dell’Isola, e per determinare, se dovea tentarne la conquista o pacificamente proseguire il suo viaggio per la costa di Affrica. Ei vi trovò un fertil terreno, ed un Popolo amichevole. Nonostante la decadenza dell’agricoltura, la Sicilia sosteneva sempre i granai di Roma; gli affittaiuoli di essa erano graziosamente esentati dall’oppressione de’ quartieri militari; ed i Goti, che affidavano la difesa dell’Isola a’ suoi abitanti, ebber ragione di dolersi, che la lor fiducia fu ingratamente tradita. Invece di chiedere ed aspettare l’aiuto del Re d’Italia, essi alle prime intimazioni prestarono volentieri ubbidienza; e questa Provincia, ch’era stata il primo frutto delle guerre Puniche, dopo una lunga separazione fu nuovamente unita all’Imperio Romano56. La guarnigione Gotica di Palermo, che sola tentò di resistere, dopo un breve assedio fu ridotta ad arrendersi, mediante un singolare strattagemma. Belisario introdusse le sue navi nell’intimo recinto del porto; i loro battelli furono a forza di cavi e di carucole alzati fino alla cima de’ loro alberi, e furono empiti di arcieri, che da quel luogo dominavano le mura della Città. Dopo questa facile e fortunata campagna il Conquistatore entrò in Siracusa trionfante, alla testa delle vittoriose sue truppe, gettando al Popolo delle medaglie d’oro, nel giorno in cui gloriosamente finiva l’anno del suo Consolato. Ei passò la stagione invernale nel palazzo degli antichi Re in mezzo alle rovine d’una colonia Greca, che una volta estendevasi ad una circonferenza di ventidue miglia57; ma nella primavera, dopo la festa di Pasqua, fu interrotto il proseguimento de’ suoi disegni da una pericolosa sommossa delle truppe Affricane. Si salvò Cartagine per la presenza di Belisario, che immediatamente sbarcovvi con mille guardie; duemila soldati di dubbiosa fede tornarono alle bandiere dell’antico lor Comandante; ed ei fece senza esitare più di cinquanta miglia per cercare un nemico, che affettava di compassionare, e di sprezzare. Ottomila ribelli tremarono all’avvicinarsi di esso; furono messi in rotta al primo incontro dalla destrezza del loro Signore; e questa ignobil vittoria restituito avrebbe la pace all’Affrica, se il Conquistatore non fosse stato richiamato in fretta nella Sicilia per quietare una sedizione, che si era accesa durante e la sua assenza nel proprio Campo58. Il disordine e la disubbidienza erano le malattie comuni di que’ tempi. Non risedevano che nell’animo di Belisario il talento per comandare, e la virtù di obbedire.
[A. 534-536] Quantunque Teodato discendesse da una stirpe di Eroi, non sapeva l’arte della guerra, e ne abborriva i pericoli; e quantunque avesse studiato gli scritti di Platone e di Tullio, la Filosofia non fu capace di purgare il suo spirito dalle più basse passioni dell’avarizia e del timore. Egli aveva comprato uno scettro per mezzo dell’ingratitudine e dell’uccisione: e alla prima minaccia d’un nemico, avvilì la propria maestà, e quella di una Nazione, che già sprezzava il suo indegno Sovrano. Sorpreso dal fresco esempio di Gelimero, si vedeva tratto in catene per le strade di Costantinopoli; l’eloquenza di Pietro, Ambasciator Bizantino accrebbe i terrori, che ispirava Belisario; e quell’audace e sottile Avvocato lo persuase a sottoscrivere un trattato, troppo ignominioso per servir di fondamento ad una pace durevole. Fu stipulato, che nelle acclamazioni del Popolo Romano sempre si proclamasse il nome dell’Imperatore avanti a quello del Re Goto, e che ogni volta che s’innalzava in bronzo o in marmo la statua di Teodato, gli fosse posta alla destra la divina immagine di Giustiniano: invece di conferire gli onori del Senato, il Re d’Italia era ridotto a sollecitarli; ed era indispensabile il consenso dell’Imperatore, prima ch’ei potesse eseguir la sentenza di morte, o di confiscazione contro d’un Prete, o d’un Senatore. Il debol Monarca rinunziò al possesso della Sicilia; offerì, come un annuo segno della sua dipendenza, una corona d’oro del peso di trecento libbre; e promise di somministrare, alla richiesta del suo Sovrano, tremila Goti ausiliari per servizio dell’Impero. Soddisfatto di queste straordinarie concessioni, l’abile agente di Giustiniano affrettò il suo ritorno a Costantinopoli; ma appena era giunto alla villa Albana59, che fu richiamato dall’ansietà di Teodato; e merita d’esser riportato nell’originale sua semplicità questo dialogo fatto fra il Re e l’Ambasciatore: „Siete voi di sentimento, che l’Imperatore ratificherà questo Trattato? Forse. Qualora ei ricusi, qual conseguenza ne verrà? La guerra. Tal guerra sarà ella giusta o ragionevole? Sicurissimamente: ognuno agirebbe secondo il suo carattere. Che intendete di dire? Voi siete un filosofo; Giustiniano è Imperator de’ Romani: mal converrebbe al discepolo di Platone spargere il sangue di più migliaia di uomini per una sua privata contesa; ma il successore d’Augusto dovrebbe rivendicare i suoi diritti, e ricuperare con le armi le antiche Province del suo Impero„. Questo ragionamento non è per avventura molto convincente, ma servì per mettere in agitazione e per vincer la debolezza di Teodato, che tosto discese all’ultima sua offerta di rinunziare per il meschino prezzo d’una pensione di quarantottomila lire sterline il Regno de’ Goti e degl’Italiani, e d’impiegare il resto de’ suoi giorni negl’innocenti piaceri della filosofia e dell’agricoltura. Affidò ambedue i trattati all’Ambasciatore, sulla fragile sicurezza d’un giuramento di non manifestare il secondo, finattantochè non si fosse positivamente rigettato il primo. Se ne può facilmente prevedere l’evento. Giustiniano richiese ed accettò l’abdicazione del Re Goto. L’instancabile suo agente da Costantinopoli tornò a Ravenna con ampie istruzioni, e con una bella lettera, che lodava la saviezza e generosità del Reale Filosofo, gli accordava la pensione, con assicurarlo di quegli onori, dei quali poteva esser capace un suddito Cattolico, e prudentemente fu commessa la finale esecuzion del Trattato alla presenza ed autorità di Belisario. Ma nel tempo che restò sospeso, due Generali Romani, che erano entrati nella Provincia di Dalmazia, furon disfatti ed uccisi dalle truppe Gotiche. Teodato, da una cieca ed abbietta disperazione, capricciosamente passò ad una presunzione senza fondamento e fatale<ref name=pag425>Si produceva un oracolo sibillino, che diceva Africa capta, mundus cum nato peribit; sentenza di portentosa ambiguità (Gothic. l. I c. 7), che fu pubblicata in caratteri<ref>, ed osò di ricevere con minacce e disprezzo l’ambasciatore di Giustiniano, che insistè nella sua promessa, sollecitò la fedeltà de’ suoi sudditi, ed arditamente sostenne l’inviolabile privilegio del proprio carattere. La marcia di Belisario dissipò quest’orgoglio immaginario; e siccome fu consumata la prima campagna60 nel soggiogar la Sicilia, Procopio assegna l’invasione d’Italia al secondo anno della Guerra Gotica61.
[A. 537] Dopo aver Belisario lasciato sufficienti guarnigioni in Palermo e in Siracusa, imbarcò le sue truppe a Messina, e le sbarcò senza resistenza sui lidi opposti di Reggio. Un Principe Goto, che avea sposato la figlia di Teodato, stava con un esercito a guardar l’ingresso d’Italia; ma esso imitò senza scrupolo l’esempio d’un Sovrano, che mancava a’ suoi pubblici e privati doveri. Il perfido Ebermore disertò con i suoi seguaci al campo Romano, e fu mandato a godere i servili onori della Corte Bizantina62. La flotta e l’esercito di Belisario s’avanzarono quasi sempre in vista l’una dell’altro da Reggio a Napoli, per quasi trecento miglia lungo la costa del mare. Il Popolo dell’Abruzzo, della Lucania e della Campania, che abborriva il nome e la religione de’ Goti, profittò dello specioso pretesto che le rovinate lor mura erano incapaci di difesa; i soldati pagavano un giusto prezzo di ciò che compravano sugli abbondanti mercati; e la sola curiosità interrompeva le pacifiche occupazioni degli agricoltori o degli artefici. Napoli, ch’è divenuta una grande e popolata Capitale, conservò lungamente il linguaggio ed i costumi di colonia Greca63: e la scelta, che ne fece Virgilio, aveva nobilitato quest’elegante ritiro, che attraeva gli amatori del riposo e dello studio, allontanandogli dallo strepito, dal fumo e dalla laboriosa opulenza di Roma64. Appena fu investita per mare e per terra la piazza, Belisario diede udienza ai deputati del Popolo, che l’esortavano a non curare una conquista indegna delle sue armi, a cercare in un campo di battaglia il Re dei Goti, e dopo d’averlo vinto, a ricevere come Sovrano di Roma l’omaggio delle Città dipendenti. „Quando io tratto co’ miei nemici, replicò il Capitano Romano con un altiero sorriso, io son più assuefatto a dare, che a ricever consiglio: ma tengo in una mano l’inevitabil rovina, e nell’altra la pace e la libertà, come ora gode la Sicilia„. L’impazienza della dilazione lo mosse ad accordar le più liberali condizioni, ed il suo onore ne assicurava l’effettuazione: ma Napoli era divisa in due fazioni, e la democrazia Greca era infiammata da’ suoi Oratori, i quali con molto spirito e con qualche verità rappresentarono alla moltitudine, che i Goti avrebber punito la lor mancanza di fede, e che Belisario medesimo dovea stimare la loro lealtà e valore. Le deliberazioni però che facevansi, non erano perfettamente libere; la Città era dominata da ottocento Barbari, le mogli ed i figli de’ quali si ritenevano a Ravenna come pegni della lor fedeltà; e fino gli Ebrei, ch’erano ricchi e numerosi, opponevansi con disperato entusiasmo alle intolleranti leggi di Giustiniano. In un tempo assai posteriore, la circonferenza di Napoli65 non era più di duemila trecento sessantatre passi66: le fortificazioni eran difese da precipizi o dal mare; se si tagliavano gli acquedotti, poteva supplirsi con l’acqua de’ pozzi e de’ fonti; e la quantità delle provvisioni era sufficiente a stancar la pazienza degli assedianti. Al termine di venti giorni era quasi esausta quella di Belisario, ed erasi accomodato alla vergogna d’abbandonar l’assedio per poter marciare, avanti l’inverno, contro Roma, ed il Re de’ Goti. Ma fu la sua ansietà soddisfatta dall’ardita curiosità d’un Isauro, ch’esplorò il canale asciutto d’un acquedotto, e segretamente riferì, che potevasi aprire un passaggio per introdurre una fila di soldati armati nel cuore della Città. Quando l’opera fu tacitamente eseguita, l’umano Generale rischiò la scoperta del suo segreto con un ultimo ed infruttuoso avviso dell’imminente pericolo. Nell’oscurità della notte, quattrocento Romani entrarono nell’acquedotto, s’introdussero per mezzo d’una fune, che legarono ad un ulivo, nella casa o nel giardino d’una solitaria matrona, suonarono le loro trombette, sorpreser le sentinelle, ed ammessero i loro compagni, che da ogni parte scalaron le mura, ed aprirono le porte della Città. Fu commesso, come per diritto di guerra, ogni delitto che si punisce dalla giustizia sociale; gli Unni si distinsero per la crudeltà ed il sacrilegio, ed il solo Belisario comparve per le strade, e nelle Chiese di Napoli a moderar la calamità, ch’egli aveva predetto. „L’oro e l’argento, esclamò più volte, sono i giusti premj del vostro valore; ma risparmiate gli abitanti: essi son Cristiani, son supplichevoli, e son ora vostri concittadini. Restituite i figli a’ loro Genitori; le mogli a’ loro mariti; e dimostrate loro, mediante la vostra generosità di quali amici hann’ostinatamente privato se stessi„. La Città fu salvata per la virtù, e per l’autorità del suo Conquistatore67; e quando i Napoletani tornarono alle loro case, trovarono qualche sollievo nel segreto godimento de’ nascosti loro tesori. La guarnigione Barbara s’arruolò al servizio dell’Imperatore; la Puglia e la Calabria, liberate dall’odiosa presenza de’ Goti, riconobbero il suo dominio; e L’Istorico di Belisario curiosamente descrive le zanne del Cignale Calidonio, che tuttavia si mostravano a Benevento68.
[A. 536-540] I Soldati e Cittadini fedeli di Napoli avevano indarno aspettato d’esser liberati da un Principe, che restò inoperoso, e quasi indifferente spettatore della loro rovina. Teodato si assicurò dentro le mura di Roma, mentre la sua cavalleria si avanzò quaranta miglia sulla via Appia, e si accampò nelle paludi Pontine, le quali, mediante un canale lungo diciannove miglia erano state recentemente seccate, e convertite in eccellenti pasture69. Ma le Fortezze principali dei Goti eran disperse nella Dalmazia, nella Venezia, e nella Gallia, ed il debole spirito del loro Re era confuso dall’infelice evento d’una divinazione, che sembrava presagir la caduta del suo Impero70. I più abbietti schiavi hanno (talvolta) processato il delitto, o la debolezza d’uno sfortunato padrone; ma il carattere di Teodato fu rigorosamente esaminato da un libero, e quieto campo di Barbari, consapevoli del lor diritto e potere; fu esso dichiarato indegno della sua razza, della Nazione e del trono, ed il loro Generale Vitige, che avea segnalato il proprio valore nella guerra Illirica, fu innalzato con unanime applauso sopra gli scudi de’ suoi compagni. Al primo romore di ciò, il deposto Monarca fuggì dalla giustizia de’ propri Nazionali; ma fu inseguito dalla vendetta privata. Un Goto, ch’egli aveva offeso nel suo amore, sorprese Teodato sulla via Flaminia, e senza riguardo alle non virili sue strida, lo scannò, mentre stava prostrato sul suolo, come una vittima (dice l’Istorico) a piè dell’Altare. L’elezione del Popolo è il titolo migliore e più puro per regnare sopra di esso; pure tal è il pregiudizio d’ogni tempo, che Vitige impazientemente desiderò di tornare a Ravenna per poter ivi prendere, con la ripugnante mano della figlia di Amalasunta, una debole ombra di ereditario diritto. Si tenne immediatamente un Concilio Nazionale, ed il nuovo Monarca dispose l’impaziente spirito dei Barbari ad un passo vergognoso, che la cattiva condotta del suo predecessore avea reso indispensabile e savio. I Goti acconsentirono a ritirarsi in faccia d’un vittorioso nemico; a differire fino alla primavera seguente le operazioni d’una guerra offensiva: a richiamare le sparse loro truppe; ad abbandonare i lontani loro stabilimenti, e ad affidare anche la stessa Roma alla fede de’ suoi abitanti. Lauderi attempato guerriero, fu lasciato nella Capitale con quattromila soldati: debole guarnigione, che avrebbe potuto secondare lo zelo de’ Romani, quantunque fosse incapace d’opporsi ai desiderj di essi. Ma si accese ne’ loro animi un momentaneo entusiasmo di religione e di patriottismo: essi furiosamente esclamarono che la Sede Apostolica non dovea più lungamente profanarsi dal trionfo, o dalla tolleranza dell’Arrianismo, che non si dovevan più calpestare le tombe de’ Cesari da’ selvaggi del Settentrione; e senza riflettere, che l’Italia dovea divenire una Provincia di Costantinopoli, con trasporto applaudirono alla restaurazione d’un Imperator Romano, come, ad una nuova epoca di libertà e di prosperità. I Deputati del Papa e del Clero, del Senato e del Popolo invitarono il Luogotenente di Giustiniano ad accettare il loro volontario omaggio, e ad entrare nella Città, di cui si sarebbero aperte le porte per riceverlo. Tosto che Belisario ebbe fortificato le sue nuove conquiste di Napoli e di Cuma, si avanzò per circa venti miglia fino alle rive del Vulturno, contemplò la decaduta grandezza di Capua, e si fermò dove la via Latina si separa dall’Appia. L’opera del Censore, dopo l’uso continuo di nove secoli, tuttavia conservava la sua primitiva bellezza, e neppure, una fessura potea scuoprirsi nelle grandi e levigate pietre, delle quali era quella solida, sebbene stretta via, sì stabilmente composta71. Belisario però preferì la via Latina, che lontana dal mare e dalle paludi continuava per lo spazio di centoventi miglia lungo il piede delle montagne. [A. 556] I suoi nemici erano spariti. Quando egli fece il suo ingresso per la porta Asinaria, la guarnigione partì senz’alcuna molestia per la via Flaminia; e la Città, dopo sessant’anni di servitù, fu liberata dal giogo de’ Barbari. Il solo Leuderi, per un motivo d’orgoglio o di mal contento, non volle accompagnare i fuggitivi; ed il Capitano de’ Goti, ch’era egli medesimo un trofeo della vittoria, fu mandato con le chiavi di Roma al Trono dell’Imperator Giustiniano72.
[A. 537] I primi giorni, che corrispondevano agli antichi Saturnali, consacrati furono alla vicendevol congratulazione, ed alla pubblica gioia; ed i Cattolici si preparavano a celebrare, senza rivali, la prossima festa della Natività di Cristo. Nella famigliar conversazione d’un Eroe, acquistarono i Romani qualche cognizione delle virtù, che l’Istoria attribuiva a’ loro Maggiori, furono edificati dell’apparente rispetto di Belisario per il successor di S. Pietro; e la rigida sua disciplina assicurò loro, in mezzo alla guerra, i vantaggi della tranquillità e della giustizia. Essi applaudirono al rapido successo delle sue armi, che invasero l’addiacente campagna, fino a Narni, Perugia e Spoleto; ma tremò il Senato, il Clero ed il Popolo imbelle all’udire, ch’egli aveva risoluto, e presto sarebbe stato nel caso di sostenere un assedio contro le forze della Monarchia Gotica. Furono eseguiti nella stagione invernale i disegni di Vitige con diligenza ed effetto. I Goti dalle rustiche loro abitazioni e dalle lor guarnigioni più distanti, adunaronsi a Ravenna per difesa del loro Paese; e tale ne fu il numero, che dopo averne distaccata un’armata in aiuto della Dalmazia, marciarono sotto le bandiere Reali ben cento cinquantamila combattenti. Secondo i vari gradi del posto o del merito, il Re Goto distribuì armi e cavalli, ricchi doni e liberali promesse: ei si mosse lungo la via Flaminia, evitò gl’inutili assedj di Perugia e di Spoleto, rispettò l’inespugnabile Rocca di Narni, ed arrivò lontano due miglia di Roma, a piè del Ponte Milvio. Quello stretto passo era fortificato con una torre, e Belisario avea contato l’importanza di venti giorni, che bisognava consumare nel costruire un altro ponte. Ma la costernazion de’ soldati della torre, che o fuggirono o disertarono, sconcertò le sue speranze, ed espose la sua persona al più imminente pericolo. Il Generale Romano, alla testa di mille cavalli, uscì dalla porta Flamminia per notare il luogo d’una vantaggiosa posizione, e per osservare il campo de’ Barbari; ma mentre li credeva sempre dall’altra parte del Tevere, fu ad un tratto circondato ed assalito dagl’innumerabili loro squadroni. Il destino d’Italia dipendeva dalla sua vita; ed i disertori si dirigevano all’appariscente cavallo baio73 con la faccia bianca, ch’ei cavalcava in quella memorabil giornata: „Mira al cavallo baio„ era il grido universale. Ogni arco era teso, ed ogni dardo appuntato contro quel fatale oggetto, e veniva ripetuto ed eseguito quest’ordine da migliaia di persone, che ne ignoravano il vero motivo. I più arditi Barbari si avanzarono al più onorevol combattimento delle spade e delle lance, e la lode d’un nemico ha onorato la caduta di Visando, che portando la bandiera74 mantenne il suo posto avanti degli altri, finattantochè non rimase trafitto da tredici ferite, per mano forse di Belisario medesimo. Il Generale Romano era forte, attivo e destro; da ogni parte scagliava i pesanti e mortali suoi colpi; le fedeli sue guardie ne imitarono il valore, e ne difesero la persona; ed i Goti, dopo una perdita di mille uomini, fuggirono innanzi alle armi d’un Eroe. Furono temerariamente inseguiti fino al lor campo, ed i Romani, oppressi dalla moltitudine, fecero una lenta ed alla fine precipitosa ritirata verso le porte della Città, le quali si chiusero in faccia de’ fuggitivi; ed il pubblico terrore s’accrebbe dalla notizia, che Belisario era stato ucciso. Era in vero sfigurato il suo aspetto dal sudore, dalla polvere, e dal sangue; rauca n’era la voce, e quasi esausta la forza; ma tuttavia gli restava l’invincibile suo coraggio: ei lo partecipò agli abbattuti compagni; ed il disperato loro ultimo sforzo si sentì da’ Barbari, posti nuovamente in fuga come se fosse uscito dalla Città un altro vigoroso ed intero esercito. Fu aperta la porta Flamminia ad un vero trionfo; ma non potè Belisario esser persuaso dalla moglie e dagli amici a prendere il necessario ristoro di cibo e di sonno, prima d’aver visitato ogni posto, e provveduto alla pubblica sicurezza. Nello stato più perfetto dell’arte della guerra, è raro che un Generale abbia bisogno, o che anche gli sia permesso di mostrare la personal sua prodezza di soldato; e può aggiungersi quello di Belisario a’ rari esempi di Enrico IV, di Pirro e d’Alessandro.
Dopo questo primo ed infelice sperimento de’ nemici, tutto l’esercito dei Goti passò il Tevere e formò l’assedio della Città, che continuò più d’un anno, fino all’ultima loro partenza. Per quanto possa spaziar l’immaginazione, l’esatto compasso del Geografo determina il circuito di Roma ad una linea di dodici miglia e di trecento quarantacinque passi; e questo circuito, eccettuata la parte ch’è nel Vaticano, è stato invariabilmente il medesimo dal trionfo di Aureliano, fino al pacifico, ma oscuro Regno de’ moderni Papi75. Ma nel tempo della sua grandezza, lo spazio compreso dentro le mura era pieno di abitazioni e di abitanti; ed i popolati sobborghi, che s’estendevano lungo le pubbliche strade, partivano come tanti raggi da un centro comune. Le avversità le tolsero questi estranei ornamenti, e lasciarono desolata e nuda anche una parte considerabile de’ sette Colli. Nondimeno, Roma, nel presente suo stato, potrebbe mettere in campo sopra trentamila uomini atti a militare76; e nonostante la mancanza di disciplina e d’esercizio, la massima parte di essi, assuefatta a’ travagli della povertà, sarebbe capace di portar le armi per la difesa della patria e della religione. La prudenza di Belisario non trascurò questo importante ripiego. Furono alquanto sollevati i suoi soldati dallo zelo e dalla diligenza del Popolo, che vegliava mentr’essi dormivano, e lavorava mentr’essi riposavano; egli accettò il volontario servizio della più brava e indigente gioventù Romana; e le compagnie di cittadini talvolta rappresentavano, in un posto vacante, le truppe, che si eran mandate a fare operazioni di maggiore importanza. Ma la giusta sua fiducia era posta ne’ veterani, che avevan combattuto sotto le sue bandiere nelle guerre di Persia o dell’Affrica; e sebbene quella valorosa truppa fosse ridotta a cinquemila uomini, con sì tenue numero intraprese a difendere un recinto di dodici miglia contro un esercito di cento cinquantamila Barbari. Nelle mura di Roma, che Belisario costruì o restaurò, si possono ancora discernere i materiali dell’antica architettura77; e fu compita l’intera fortificazione, a riserva d’un apertura, che sempre esiste fra le porte Pincia e Flamminia, e che i pregiudizi de’ Goti e de’ Romani lasciavano sotto l’efficace custodia di S. Pietro Apostolo78. I bastioni erano fatti ad angoli acuti; un fosso largo e profondo difendeva il piede della muraglia; e gli arcieri sopra di essa erano aiutati dalle macchine militari, come dalla Balista, forte arco in forma di croce, che scagliava corti, ma grossi dardi, e dagli Onagri, o asini selvaggi che a guisa di fionde gettavano pietre e palle di enorme grandezza79. Sì tirò una catena a traverso il Tevere; si resero impervj gli archi degli acquedotti; e la mole o il sepolcro d’Adriano80 fu per la prima volta convertito in una Cittadella. Questa venerabile Fabbrica, la quale conteneva le ceneri degli Antonini, era una Torre circolare, che s’alzava sopra una base quadrangolare; era coperta di marmo bianco di Paros e decorata da statue di Numi e di Eroi; e l’amatore delle arti dee leggere sospirando, che le opere di Prassitele o di Lisippo fossero staccate dagli alti lor piedestalli, e gettate nel fosso sulle teste degli assedianti81. A ciascuno de’ suoi Luogotenenti Belisario assegnò la difesa d’una porta, con la savia e perentoria istruzione, che qualunque muovimento potesse farsi, essi restassero costantemente a’ rispettivi lor posti, e lasciassero al Generale il pensiero della salvezza di Roma. Il formidabil’esercito de’ Goti non fu sufficiente ad abbracciar l’ampio circuito della Città; di quattordici porte non ne furono investite che sette dalla via Prenestina fino alla Flamminia; e Vitige divise le sue truppe in sei campi, ciascheduno dei quali era fortificato con un fosso ed un muro. Dalla parte del fiume verso la Toscana, formossi un settimo accampamento nel campo o circo del Vaticano, per l’importante oggetto di dominare il ponte Milvio, ed il corso del Tevere; ma s’accostavano con devozione alla vicina Chiesa di S. Pietro, e durante l’assedio, la soglia de’ Santi Apostoli fu rispettata da un nemico Cristiano. Ne’ secoli delle vittorie, ogni volta che il Senato decretava qualche distante conquista, il Console dichiarava la guerra con aprire in solenne pompa le porte del Tempio di Giano82. La guerra domestica rese in quest’occasione superfluo l’avviso, e la ceremonia erasi abolita dallo stabilimento d’una nuova Religione: ma rimaneva tuttora in piedi nel Foro il tempio di bronzo di Giano, ch’era di una grandezza capace di contener solamente la statua di quel nume alta cinque cubiti, di figura umana, ma con due faccie, dirette all’Oriente ed all’Occidente. Le doppie porte erano parimente di bronzo; ed un inutile sforzo per girarle su’ rugginosi lor cardini, manifestò lo scandaloso segreto, che v’erano de’ Romani tuttavia attaccati alla superstizione de’ loro Maggiori.
Gli assedianti consumaron diciotto giorni a provveder tutti gl’istrumenti d’attacco, che aveva inventato l’antichità. Si prepararon delle fascine per empiere i fossi, e delle scale per salir sulle mura; i più grossi alberi della foresta somministraron le travi di quattro arieti, che avevano le teste armate di ferro; essi eran sospesi per mezzo di cavi, e maneggiati da cinquant’uomini per ciascheduno. Le alte torri di legno si muovevano sopra delle ruote o de’ rulli e formavano una spaziosa piattaforma al livello della muraglia. La mattina del decimonono giorno, fu fatto un generale attacco dalla Porta Prenestina fino alla Vaticana: s’avanzarono all’assalto sette colonne Gotiche con le loro macchine militari; ed i Romani che stavano in fila sulle mura, prestavano con dubbiezza ed ansietà orecchio alle vive assicurazioni de’ lor Comandanti. Appena il nemico s’accostò al fosso, Belisario medesimo scagliò il primo dardo; e tale fu la sua forza e destrezza, che trafisse il primo de’ condottieri barbari. Un rimbombo d’applauso e di vittoria andò eccheggiando lungo le mura. Tirò egli un secondo dardo, ed il colpo ebbe il medesimo successo e la medesima acclamazione. Allora il Generale Romano diede ordine, che gli arcieri mirassero a’ luoghi dov’erano attaccati i bovi, e questi furono immediatamente coperti di mortali ferite; le torri, ch’essi tiravano, restarono inutili ed immobili; ed un solo momento sconcertò i laboriosi progetti del Re dei Goti. Malgrado di questo smacco, Vitige continuò tuttavia, o finse di continuare l’assalto della porta Salaria per divertir l’attenzione del suo avversario, mentre le principali sue forze più fortemente attaccavano la porta Prenestina, ed il sepolcro d’Adriano alla distanza di tre miglia da quella. Vicino alla prima, le doppie mura del Vivarium83 erano basse o rotte: le fortificazioni dell’altro erano guardate debolmente: si eccitava il vigore de’ Goti dalla speranza della vittoria e della preda; e se avesse ceduto un sol posto, i Romani e Roma stessa erano irreparabilmente perduti. Questa pericolosa giornata fu la più gloriosa nella vita di Belisario: in mezzo al tumulto ed allo spavento era distintamente presente al suo spirito tutto il piano dell’attacco e della difesa; osservava le mutazioni d’ogni istante; pesava ogni possibil vantaggio; accorreva ne’ luoghi di pericolo; e comunicava il suo coraggio con tranquilli e decisivi ordini. Il combattimento mantennesi fieramente dalla mattina fino alla sera; i Goti furon rispinti da tutte le parti ed ogni Romano potè vantarsi d’aver vinto trenta Barbari, se pur la strana sproporzione del numero non fu contrabbilanciata dal merito d’un sol uomo. Trentamila Goti, secondo la confessione de’ propri lor Capitani perirono in questa sanguinos’azione, e la quantità de’ feriti fu uguale, a quella de’ morti. Allorchè si avanzarono all’assalto, lo stretto loro disordine non permise che un sol giavelotto andasse a vuoto; e quando si ritirarono, s’unì la plebaglia della Città ad inseguirli, e trafisse impunemente le schiene dei fuggitivi loro nemici. Belisario immediatamente sortì dalle porte, e mentre i soldati celebravano il nome e le vittorie di lui, furono ridotte in cenere le macchine di guerra ostili. Tale fu la perdita e la costernazione de’ Goti, che dopo quel giorno l’assedio di Roma degenerò in un tedioso e indolente blocco; e furono essi continuamente inquietati dal Generale Romano, che in frequenti scaramucce distrusse più di cinquemila uomini delle loro più valorose truppe. La cavalleria de’ Goti non era pratica nell’uso dell’arco; i loro arcieri militavano a piedi; e questa forza così divisa non fu capace di contendere co’ loro avversari, le lancie ed i dardi de’ quali erano ugualmente formidabili sì da lontano che da vicino. La consumata perizia di Belisario gli faceva abbracciar tutte le occasioni favorevoli; e siccome sceglieva il luogo ed il momento, insisteva nell’attacco o suonava la ritirata a proposito84, così rare volte gli squadroni, ch’ei distaccava, ebber cattivo successo. Questi particolari vantaggi sparsero un impaziente ardore fra i soldati, ed il Popolo che principiava a sentir gl’incomodi dell’assedio, ed a non curare i pericoli d’una mischia generale. Ogni plebeo s’immaginò d’essere un eroe, e l’infanteria, che dopo la decadenza della disciplina erasi rigettata dalla linea di battaglia, aspirava agli antichi onori della legione Romana. Belisario lodò il coraggio delle sue truppe, condannò la lor presunzione, cedè a’ loro clamori e preparò i rimedi d’una disfatta, la possibilità della quale egli solo ebbe il coraggio di sospettare. Nel quartiere del Vaticano, i Romani prevalsero; e se nel saccheggio del campo non avessero consumato degli irreparabili momenti, avrebber potuto occupare il ponte Milvio, ed attaccar l’esercito Gotico nella retroguardia. Dall’altra parte del Tevere s’avanzò Belisario dalle porte Pincia e Salaria; ma la sua armata, forse di quattromila soldati, si perdè in una spaziosa pianura e fu circondata ed oppressa da fresche truppe, che continuamente supplivano le rotte file de’ Barbari. I valorosi condottieri dell’infanteria, non sapendo vincere, morirono; una precipitosa ritirata fu coperta dalla prudenza del Generale; ed i vincitori si sottrassero con spavento dal formidabile aspetto d’una muraglia armata. La riputazione di Belisario non fu macchiata da una disfatta; e la vana confidenza de’ Goti non fu meno vantaggiosa pe’ suoi disegni, che il pentimento e la modestia delle truppe Romane.
Fin dal momento in cui Belisario erasi determinato a sostenere un assedio, l’assidua sua cura fu di metter Roma al coperto dal pericolo della fame, più terribile che le armi de’ Goti. Vi s’era introdotta dalla Sicilia una straordinaria quantità di grano; le raccolte della Campania e della Toscana furono a forza destinate per l’uso della Città; e si violarono i diritti della proprietà privata per la forte ragione della salvezza pubblica. Era ben facile a prevedersi che il nemico tagliato avrebbe gli acquedotti e la mancanza de’ mulini a acqua fu il primo incomodo che prestamente si rimosse, legando insieme delle gran barche, e fissandovi delle macine lungo la corrente del fiume. Questo però fu tosto imbarazzato di tronchi di alberi e contaminato di cadaveri; ma le precauzioni del General Romano tornarono sì efficaci, che le acque del Tevere continuarono sempre a dare il moto a’ mulini e la bevanda agli abitanti; a quartieri più lontani supplivano i pozzi domestici, ed una Città assediata poteva senza impazienza soffrire la privazione de’ suoi pubblici Bagni. Una gran parte di Roma, dalla porta Prenestina fino alla Chiesa di S. Paolo, non fu mai investita da’ Goti; si frenavano le loro scorrerie dall’attività delle truppe Moresche; e la navigazione del Tevere, e le strade Latina, Appia ed Ostia erano libere e senza molestia per l’introduzione del grano e del bestiame, o per la ritirata degli abitanti, che cercavan rifugio nella Campania o in Sicilia. Belisario, desideroso di sgravarsi d’una inutile divorante moltitudine, diede i suoi perentorj ordini per la subita partenza delle donne, de’ fanciulli e degli schiavi. Volle che i suoi soldati licenziassero i loro serventi, sì maschi che femmine, e regolò in modo il loro stipendio, che ne ricevessero una metà in provvisioni, e l’altra in danaro. La sua previdenza fu giustificata dall’aumento della pubblica strettezza, tosto che i Goti ebber occupato due posti importanti nelle vicinanze di Roma. Mediante la perdita del porto, o come si dice adesso, della città di Porto, restò chiuso il paese alla destra del Tevere, e tolta la miglior comunicazione col mare; ed il Generale rifletteva con dispiacere o con isdegno, che con trecent’uomini, se avesse potuto risparmiare sì tenue quantità di truppa, avrebbe potuto difenderne le inespugnabili fortificazioni. Alla distanza di sette miglia dalla Capitale, fra la via Appia e la Latina, due principali acquedotti, replicatamente incrociandosi fra loro, chiudevano dentro i solidi ed alti loro archi un luogo fortificato85, dove pose Vitige un campo di settemila Goti per intercettare i convogli della Sicilia e della Campania. Si esaurirono appoco appoco i granai di Roma; l’addiacente campagna era stata devastata dal ferro e dal fuoco; e quegli scarsi sussidi, che si potevan ottenere per mezzo di frettolose scorrerie, servivan di premio al valore, ed erano il prezzo della ricchezza: non mancò mai veramente il foraggio per i cavalli, ed il pane per gli uomini: ma negli ultimi mesi dell’assedio il Popolo trovossi esposto alle miserie della carestia, ad un cibo malsano86, ed al disordine del contagio. Belisario scorgeva e compassionava i lor patimenti; ma egli avea preveduto, e stava osservando in essi la diminuzione della fedeltà ed il progresso del malcontento. L’avversità avea risvegliato i Romani da’ sogni di grandezza e di libertà, ed aveva insegnato loro l’umiliante lezione, che poco importava per la reale felicità loro, che il nome del padrone a cui dovevano ubbidire, derivato fosse dalla lingua Gotica o dalla Latina. Il Luogotenente di Giustiniano ascoltò le giuste loro querele, ma rigettò con isdegno l’idea della fuga, o della capitolazione; represse la clamorosa loro impazienza di combattere; gli lusingò col prospetto d’un sicuro e pronto soccorso; ed assicurò se medesimo e la Città dagli effetti della disperazione o del tradimento di essi. Due volte il mese mutava il posto degli Ufiziali, a’ quali era commessa la custodia delle porte; impiegò più volte le varie precauzioni di pattuglie, della parola, de’ fanali e della musica per scoprire tutto ciò, che seguiva sulle mura; furon poste delle guardie avanzate di là dal fosso; e la fedel vigilanza de’ cani suppliva alla più dubbiosa fedeltà degli uomini. Fu intercettata una lettera, che assicurava il Re de’ Goti, che la porta Asinaria, annessa alla Chiesa Lateranense si sarebbe segretamente aperta alle sue truppe. Sulla prova dunque o sul sospetto di tradimento furon banditi più Senatori, e fu citato il Pontefice Silverio a portarsi dal Rappresentante del suo Sovrano, al principal quartiere di esso nel Palazzo Pinciano87. Gli Ecclesiastici, che seguitavano il loro Vescovo, furono ritenuti nel primo e nel secondo appartamento88, ed egli solo fu ammesso alla presenza di Belisario. Il Conquistatore di Roma e di Cartagine sedeva modestamente a piè d’Antonina che riposava sopra un magnifico letto: il Generale tacque ma uscì la voce del rimprovero e della minaccia dalla bocca dell’imperiosa sua moglie. Accusato da testimoni degni di fede e della prova della propria sua sottoscrizionenota il successor di S. Pietro fu spogliato dei
89 suoi ornamenti Pontificali, vestito da semplice monaco; e senza dilazione imbarcato per un lontano esilio in Oriente. Per ordine poi dell’Imperatore, il Clero di Roma procedè alla scelta d’un nuovo Vescovo, e dopo una solenne invocazione dello Spirito Santo, elesse il diacono Vigilio, che avea comprato la sede Papale con un donativo di dugento libbre d’oro. S’imputò a Belisario il profitto, e per conseguenza la colpa di questa simonìa: ma l’Eroe ubbidiva agli ordini della sua moglie; Antonina serviva alle passioni dell’Imperatrice; e Teodora prodigamente spargeva i suoi tesori con la vana speranza d’ottenere un Pontefice contrario, o almeno indifferente per il Concilio di Calcedonia90.
La lettera di Belisario all’Imperatore annunciava la vittoria, il pericolo e la fermezza di esso. „Secondo i vostri ordini sono entrato (dic’egli) ne’ dominj de’ Goti, ed ho ridotto alla vostra ubbidienza la Sicilia, la Campania e la Città di Roma: la perdita però di tali conquiste sarà più vergognosa di quel che ne fosse glorioso l’acquisto. Fin qui abbiamo felicemente combattuto contro sciami di Barbari, ma la lor moltitudine può alla fin prevalere. La vittoria è dono della provvidenza; ma la reputazione de’ Re e de’ Generali dipende dal buono o cattivo successo de’ loro disegni. Permettetemi di parlare con libertà: se volete che viviamo, mandateci viveri; se desiderate che facciamo conquiste, mandateci armi, cavalli, e uomini. I Romani ci hanno ricevuto come amici e liberatori; ma nella nostra presente angustia, o saranno essi traditi per la loro fiducia, o noi resterem oppressi dal tradimento e dall’odio di essi. Quanto a me, la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a riflettere, se in questa situazione la mia morte contribuirà alla gloria, ed alla prosperità del vostro Regno„. Forse quel Regno sarebbe stato ugualmente prospero, se il pacifico Signor dell’Oriente si fosse astenuto dalla conquista dell’Affrica e dell’Italia: ma siccome Giustiniano era ambizioso di fama, egli fece alcuni sforzi, sebbene deboli e languidi, per sostenere e liberare il vittorioso suo Generale. Martino e Valeriano condussero un rinforzo di mille seicento Schiavoni ed Unni; e siccome si erano riposati nella stagione invernale ne’ porti della Grecia, non s’era la forza degli uomini e de’ cavalli diminuita dalle fatiche d’un viaggio per mare, ed essi distinsero il lor valore nella prima sortita contro gli assedianti. Verso il tempo del solstizio estivo sbarcò a Terracina Eutalio con grosse somme di danaro per il pagamento delle truppe: proseguì cautamente il suo cammino lungo la via Appia, ed entrò in Roma questo convoglio per la porta Capena91, mentre Belisario, da un’altra parte, divertiva l’attenzione de’ Goti mediante una vigorosa e felice scaramuccia. Questi opportuni aiuti, l’uso e la riputazione de’ quali destramente si maneggiarono dal Generale Romano, ravvivarono il coraggio, o almen le speranze de’ soldati e del Popolo. Fu mandato l’Istorico Procopio con una importante commissione a raccoglier le truppe e le provvisioni, che potea somministrar la Campania, o si eran mandate da Costantinopoli; ed il segretario di Belisario fu tosto seguito da Antonina medesima92, che arditamente traversò i posti del nemico, e tornò coi soccorsi Orientali in aiuto del suo marito e dell’assediata Città. Una flotta di tremila Isauri gettò l’ancora nella baia di Napoli, ed in seguito ad Ostia; più di duemila cavalli, una parte de’ quali erano Traci, sbarcarono a Taranto; e dopo la riunione di cinquecento soldati della Campania, e d’una quantità di carri carichi di vino e di farina, essi presero il loro cammino per la via Appia, da Capua verso Roma. Le forze, che arrivarono per terra e per mare, erano tutte unite all’imboccatura del Tevere. Antonina dunque adunò un consiglio di guerra, dove fu risoluto di vincere a forza di vele e di remi la contraria corrente del fiume; ed i Goti non ardirono disturbare con alcuna temeraria ostilità la negoziazione, a cui Belisario accortamente avea dat’orecchio. Credettero essi troppo facilmente di non vedere che la vanguardia d’una flotta e di un’esercito che già copriva il mare Ionio e le pianure della Campania; e fu sostenuta quest’illusione dal superbo linguaggio, che tenne il Generale Romano, allorchè diede udienza agli Ambasciatori di Vitige. Dopo uno specioso discorso per dimostrar la giustizia della lor causa essi dichiararono, che per amor della pace eran disposti a rinunziare il possesso della Sicilia. „L’Imperatore non è meno generoso,„ rispose con un sorriso di sdegno il suo Luogotenente, „in contraccambio d’un dono, che voi più non possedete, vi regala un’antica provincia dell’Impero; rinunzia egli a’ Goti la sovranità dell’Isola Britannica„. Belisario con ugual fermezza e disprezzo rigettò l’offerta d’un tributo; ma concesse agli Ambasciatori Goti di sentire il loro destino dalla bocca di Giustiniano medesimo; ed acconsentì con apparente ripugnanza ad una tregua di tre mesi, dal solstizio d’inverno fino all’equinozio di primavera. Potea la prudenza certamente diffidare sì de’ giuramenti, che degli ostaggi dei Barbari; ma la nota superiorità del Capitano Romano si manifestò nella distribuzione delle sue truppe: ogni volta che il timore o la fame costrinse i Goti a lasciare Alba, Porto, e Civitavecchia, fu immediatamente occupato il lor posto; si rinforzarono le guarnigioni di Narni, di Spoleto e di Perugia; ed i sette campi degli assedianti furono appoco appoco circondati dalle calamità d’un assedio. Le preghiere ed il pellegrinaggio di Dazio, Vescovo di Milano, non furono senza effetto; ed egli ottenne mille Traci ed Isauri per sostenere la rivolta della Liguria contro l’Arriano di lei tiranno. Nell’istesso tempo Giovanni il Sanguinario93, nipote di Vitaliano, fu distaccato con duemila cavalli scelti, prima per Alba sul lago Fucino, e poi per le frontiere del Piceno sul mare Adriatico: „In quella provincia, disse Belisario, i Goti hanno depositato le lor famiglie ed i loro tesori, senz’alcuna guardia o sospetto di pericolo. Senza dubbio essi violeranno la tregua; vi trovino dunque presenti prima che abbiano notizia de’ vostri movimenti. Risparmiate gl’Italiani; non vi lasciate dietro le spalle alcuna piazza ostile fortificata; e conservate fedelmente la preda per farne un uguale e comune riparto. Non sarebbe ragionevole, soggiunse con un sorriso, che mentre noi travagliamo per distruggere i calabroni, i nostri più fortunati fratelli portassero via e godessero il miele„.
S’era unita tutta la Nazione degli Ostrogoti per l’attacco di Roma, e restò quasi tutta consumata nell’assedio di questa Città. Se qualche fede si dee prestare ad un intelligente spettatore, fu distrutto almeno un terzo dell’enorme loro esercito ne’ frequenti e sanguinosi combattimenti seguiti sotto le mura di essa. Alla decadenza dell’agricoltura e della popolazione potevano già imputarsi la cattiva fama, e le perniciose qualità dell’aria della state; ed i mali della carestia e della pestilenza furono aggravati dalla propria loro licenza, e dalla non amichevol disposizione del Paese. Mentre Vitige combatteva con la sua fortuna, mentre stava dubbioso fra la vergogna e la rovina, le domestiche vicende ne accelerarono la ritirata. Il Re de’ Goti fu informato da tremanti messaggi, che Giovanni il sanguinario estendeva la devastazione di guerra dall’Appennino fino all’Adriatico; che le ricche spoglie e gl’innumerabili schiavi del Piceno erano dentro le fortificazioni di Rimini; e che quel formidabile Capitano avea disfatto il suo zio, insultato la sua Capitale e sedotto, per mezzo di una segreta corrispondenza, la fedeltà dell’imperiosa figlia d’Amalasunta, sua moglie. Pure avanti di ritirarsi, Vitige fece un ultimo sforzo d’assaltare o di sorprendere la Città: fu scoperto un segreto passaggio in uno degli acquedotti; s’indussero due cittadini del Vaticano per mezzo di doni ad inebriare le guardie della porta Aurelia; fu meditato un attacco sulle mura di là dal Tevere in un luogo che non era fortificato con torri; ed i Barbari s’avanzarono con torce, e con scale a dar l’assalto alla porta Pincia. Ma fu reso vano qualunque tentativo dall’intrepida vigilanza di Belisario, e della sua truppa di Veterani, che ne’ più pericolosi momenti non si sgomentarono per l’assenza de’ loro compagni; ed i Goti, privi di speranza, non meno che di sussistenza, insisteron clamorosamente sulla ritirata, prima che spirasse la tregua, e di nuovo s’unisse la Romana cavalleria. Un anno e nove giorni dopo il principio dell’assedio, un esercito poco prima sì forte e trionfante bruciò le sue tende, e tumultuariamente ripassò il ponte Milvio. Non lo ripassò per altro impunemente. L’affollata moltitudine, oppressa in un luogo angusto, fu rovesciata nel Tevere da’ propri timori, e dal nemico, che l’inseguiva; ed il Generale Romano, fatta una sortita dalla porta Pincia, fece un forte e vergognoso sfregio alla ritirata dei Goti. Un esercito infermo ed abbattuto, che dovea marciar lentamente, fu a stento condotto lungo la strada Flamminia, dalla quale i Barbari furon talvolta costretti a deviare per paura di non incontrare le guarnigioni nemiche, le quali guardavano la strada maestra verso Rimini e Ravenna. Ciò nonostante questa armata fuggitiva era sì forte, che Vitige destinò diecimila uomini per difender quelle Città, che più gli premeva di conservare, e distaccò Uraia suo nipote con una sufficiente forza per gastigare la ribelle Milano. Alla testa poi della sua principale armata egli assediò Rimini, ch’era solo trentatre miglia distante dalla Capitale de’ Goti. Una debol muraglia ed un tenue fosso si sostennero per la perizia e il valore di Giovanni il Sanguinario, che partecipava il pericolo e la fatica del minimo soldato, ed emulava, in un teatro meno illustre, le virtù militari del suo gran Comandante. Le torri e le macchine de’ Barbari si resero inutili, se ne rispinser gli attacchi; ed il tedioso blocco, che ridusse la guarnigione all’ultima estremità della fame, diede tempo all’unione ed alla marcia delle forze Romane. Una flotta, che aveva sorpreso Ancona, navigò lungo la costa dell’Adriatico in soccorso dell’assediata città; l’eunuco Narsete sbarcò nel Piceno con duemila Eruli, e cinquemila delle più brave truppe d’Oriente. Fu forzata la rocca dell’Apennino; diecimila veterani girarono il piè delle montagne sotto il comando di Belisario medesimo: e comparve una nuova armata che s’avanzava lungo la via Flamminia, gli accampamenti della quale risplendevano d’innumerabili lumi. I Goti oppressi dallo stupore e dalla disperazione, abbandonaron l’assedio di Rimini, le loro tende, le lor bandiere ed i lor condottieri; e Vitige, che diede o seguitò l’esempio della fuga, non si fermò finattantochè non trovò un ricovero nelle mura e nelle paludi di Ravenna.
[A. 538] A queste mura e ad alcune Fortezze prive d’ogni comunicazione fra loro era in quel tempo ridotta la Monarchia Gotica. Le Province d’Italia avevano abbracciato il partito dell’Imperatore; ed il suo esercito, reclutato di mano in mano fino al numero di ventimila uomini, avrebbe dovuto compire una rapida e facil conquista, se le invincibili sue forze non si fossero indebolite dalla discordia de’ Generali Romani. Avanti che terminasse l’assedio, un atto sanguinoso, ambiguo ed indiscreto macchiò la bella fama di Belisario. Presidio, fedele Italiano, mentre fuggiva da Ravenna a Roma, fu duramente arrestato da Costantino, Governator militare di Spoleto e spogliato anche in una Chiesa di due pugnali riccamente intarsiati d’oro e di pietre preziose. Passato che fu il pubblico pericolo, Presidio si lagnò della perdita e dell’ingiuria ricevuta: fu ascoltata la sua querela; ma fu disubbidito all’ordine di restituire dall’orgoglio, e dall’avarizia dell’offensore. Inasprito dalla dilazione Presidio fermò arditamente il cavallo del Generale, mentre passava pel Foro; e col coraggio d’un Cittadino richiese il comun benefizio delle Leggi Romane. Fu impegnato in quest’affare l’onore di Belisario: ei convocò un consiglio; ricercò l’ubbidienza de’ suoi subordinati Ufiziali; e fu provocato da un’insolente risposta a chiamare in fretta l’assistenza delle sue guardie. Costantino, riguardando la loro entrata come un segnale di morte, sfoderò la sua spada, e corse contro il Generale che destramente evitò il colpo, e fu difeso da’ suoi amici; mentre il disperato assassino fu disarmato, tratto in un’altra camera e decapitato, o piuttosto trucidato dalle guardie all’arbitrario comando di Belisario94. In questo precipitoso atto di violenza non fu più rammentato il delitto di Costantino; la disperazione e la morte di quel valoroso Ufiziale segretamente imputaronsi alla vendetta d’Antonina; e ciascheduno de’ suoi colleghi, rimproverandosi la medesima rapina, temeva il medesimo evento. Il timore d’un nemico comune sospese gli effetti della loro invidia e malcontentezza, ma nella speranza della vicina vittoria, intrigarono un potente rivale ad opporsi al Conquistatore di Roma e dell’Affrica. Dal servizio domestico del Palazzo, e dell’amministrazion delle rendite private, l’eunuco Narsete fu innalzato ad un tratto alla testa d’un esercito; e lo spirito d’un Eroe, che in seguito uguagliò il merito e la gloria di Belisario, servì solo ad imbarazzare le operazioni della guerra Gotica. Il soccorso di Rimini fu attribuito ai suoi prudenti consigli da’ Capi della malcontenta fazione, ch’esortaron Narsete ad assumere un indipendente e separato comando. La lettera di Giustiniano in vero gli aveva ingiunto l’ubbidienza al Generale, ma quella pericolosa eccezione „finattantochè possa esser di vantaggio al pubblico servigio„ riservava qualche libertà di giudizio al discreto favorito, che sì di fresco era venuto dalla sacra, e famigliar conversazione del suo Sovrano. Nell’esercizio di questo dubbioso diritto, l’eunuco sempre dissentì dalle opinioni di Belisario; e dopo aver ceduto con ripugnanza all’assedio d’Urbino, abbandonò di notte il suo Collega e marciò alla conquista della provincia Emilia. Le feroci e formidabili truppe degli Eruli erano attaccate alla persona di Narsete95; diecimila Romani e confederati si lasciaron persuadere a marciare sotto le bandiere; ogni malcontento abbracciò questa bella occasione di vendicare i privati o immaginari suoi torti; e le rimanenti truppe di Belisario eran divise e disperse dalle guarnigioni di Sicilia fino a’ lidi dell’Adriatico. La sua perizia e perseveranza peraltro superò qualunque ostacolo: fu preso Urbino; s’intrapresero e vigorosamente si proseguirono gli assedj di Fiesole, d’Orvieto e d’Osimo, e finalmente l’eunuco Narsete fu richiamato alle cure domestiche del Palazzo. Tutte le dissensioni furon quietate, e fu vinta ogni opposizione dalla temperata autorità del Generale Romano, a cui non potevano i suoi stessi nemici ricusare la loro stima; e Belisario inculcò sempre quella salutar lezione, che le forze d’uno Stato dovrebber comporre un solo corpo ed essere animate da un solo spirito. Ma nel tempo della discordia fu permesso a’ Goti di respirare; si perdè un’importante stagione; fu distrutto Milano; e le Province settentrionali d’Italia furono afflitte da un’inondazione di Franchi. Allorchè Giustiniano principiò a meditar la conquista d’Italia, egli mandò ambasciatori a’ Re de’ Franchi, e gli scongiurò per i comuni vincoli dell’alleanza e della Religione ad unirsi nella santa sua impresa contro gli Arriani. I Goti, essendo pressati da più urgenti bisogni, usarono una maniera di persuadere più efficace, e vanamente cercarono con doni di terre e di denaro, di comprar l’amicizia, o almeno la neutralità d’una leggiera e perfida Nazione96. Ma le armi di Belisario, e la rivolta degl’Italiani ebbero appena scosso la Monarchia Gotica, che Teodeberto d’Austrasia, il più potente e guerriero de’ Re Merovingici, fu persuaso a soccorrer le loro angustie, mediante un indiretto ed opportuno aiuto. Diecimila Borgognoni, recenti suoi sudditi, senz’aspettare il consenso del loro Sovrano, discesero dalle Alpi, e s’unirono alle truppe, che Vitige avea mandato a gastigar la rivolta di Milano. Dopo un ostinato assedio, la Capitale della Liguria fu costretta ad arrendersi per la fame; ma non potè ottenersi altra capitolazione, che per la salva ritirata della guarnigione Romana. Dazio, Vescovo Ortodosso, che aveva indotto i suoi compatriotti alla ribellione97, ed alla rovina, fuggì a godere il lusso e gli onori della Corte Bizantina98; ma il Clero, forse il Clero Arriano, fu trucidato a piè degli Altari dai difensori della Fede Cattolica. Si disse, che vi fossero uccisi trecentomila maschi99; le femmine e la preda più preziosa furon lasciate a’ Borgognoni; e le case, o almeno le mura di Milano furono livellate al suolo. I Goti negli ultimi loro momenti, si vendicarono con la distruzione d’una Città, che non cedeva che a Roma nella grandezza ed opulenza, nello splendore delle sue fabbriche, o nel numero degli abitanti: ed il solo Belisario compatì il destino degli abbandonati e devoti suoi amici. Teodeberto medesimo, incoraggito da questa fortunata scorreria, nella seguente primavera invase le pianure d’Italia con un’armata di centomila Barbari100. Il Re, ed alcuni suoi scelti seguaci erano a cavallo, ed armati di lance: l’infanteria, senz’archi nè picche, si contentava d’uno scudo, d’una spada, e d’una scure da guerra a due tagli, che nelle lor mani era un’arme mortale, che non cadeva mai in fallo. L’Italia tremò al muovimento de’ Franchi; e tanto il Principe Goto, quanto il General Romano, ignorando del pari i loro disegni, sollecitarono con speranza e terrore l’amicizia di questi pericolosi alleati. Fino a tanto che non si fu assicurato del passaggio del Po sul ponte di Pavia, il nipote di Clodoveo nascose le sue intenzioni, che alla fine dichiarò, assaltando, quasi nel medesimo istante, i campi ostili de’ Romani e de’ Goti. Invece d’unire insieme le loro armi, essi fuggirono con ugual precipitazione, e le fertili quantunque desolate Province della Liguria e dell’Emilia restarono abbandonate ad un licenzioso esercito di Barbari, il furore dei quali non veniva mitigato da pensiero alcuno di stabilimento o di conquista. Fra le Città, ch’essi rovinarono, si conta particolarmente Genova, non ancora fabbricata di marmi: e sembra che la morte di più migliaia di persone, secondo l’ordinario uso della guerra, eccitasse minore orrore, che alcuni idolatrici sacrifizi di donne e di fanciulli, che furono impunemente fatti nel campo del Re Cristianissimo. Se non fosse una trista verità, che i primi e più crudeli patimenti debbon toccare agl’innocenti ed a’ deboli, potrebbe rallegrarsi alquanto l’Istoria nella miseria de’ conquistatori, che in mezzo alle ricchezze restaron privi di pane e di vino, essendosi ridotti a ber le acque del Po, ed a cibarsi della carne di bestie inferme. La dissenteria distrusse un terzo del loro esercito; e le grida de’ suoi sudditi, ch’erano impazienti di ripassar le Alpi, disposero Teodeberto ad ascoltar con rispetto le blande esortazioni di Belisario. Si perpetuò nelle medaglie della Gallia la memoria di questa non gloriosa e distruttiva guerra; e Giustiniano, senza sfoderar la spada, prese il titolo di conquistatore de’ Franchi. Il Principe Merovingico s’offese della vanità dell’Imperatore; affettò di compassionare le cadute fortune dei Goti; e l’insidiosa sua offerta d’una confederazione fu corroborata dalla promessa, o dalla minaccia di scender dalle Alpi alla testa di cinquecentomila uomini. I suoi disegni di conquista erano illimitati, e forse chimerici. Il Re d’Austrasia minacciò di gastigar Giustiniano e di marciare alle porte di Costantinopoli101: ma egli fu gettato a terra ed ucciso102 da un toro salvatico103, mentre andava a caccia nelle foreste Belgiche o Germaniche.
Tostochè Belisario trovossi libero da’ suoi esterni ed interni nemici, seriamente impiegò le proprie forze nel sottomettere intieramente l’Italia. Nell’assedio d’Osimo, il Generale mancò poco che non fosse trafitto da un dardo, se non si fosse riparato il mortal colpo da una delle sue guardie, che in questo pietoso ufizio perdè l’uso d’una mano. I Goti d’Osimo, in numero di quattromila guerrieri, con quelli di Fiesole e delle Alpi Cozie, furon fra gli ultimi che sostennero la loro indipendenza; e la valorosa resistenza che fecero, e che quasi stancò la pazienza del Conquistatore, meritò la stima di esso. La sua prudenza negò di conceder loro il salvo condotto, che dimandavano per unirsi a’ loro confratelli di Ravenna; ma per mezzo d’un’onorevol capitolazione salvarono almeno la metà de’ propri averi con la libera alternativa, o di ritirarsi pacificamente alle lor terre, o d’arruolarsi nella milizia dell’Imperatore per servir nelle sue guerre Persiane. Le truppe, che tuttavia militavano sotto le bandiere di Vitige, erano molto più numerose delle Romane; pure nè le preghiere, nè la diffidenza, nè l’estremo pericolo de’ suoi più fedeli sudditi poteron trarre il Re Goto dalle fortificazioni di Ravenna. Queste in fatti non potevano espugnarsi nè per mezzo dell’arte nè della violenza; ed allorchè Belisario investì la Capitale, fu tosto convinto, che la sola fame avrebbe potuto ammansire l’ostinato spirito de’ Barbari. Dalla vigilanza del Generale Romano si guardavano il mare, la terra ed i canali del Po, e la sua morale estendeva i diritti della Guerra all’uso di avvelenar le acque104, e di bruciare segretamente i granai105 d’una Città assediata106. Mentre stringeva li blocco di Ravenna restò sorpreso all’arrivo di due Ambasciatori, che vennero da Costantinopoli con un trattato di pace, che Giustiniano imprudentemente avea sottoscritto senza degnarsi di consultare l’autore della sua vittoria. Mediante questo vergognoso e precario accordo si divideva l’Italia ed il tesoro Gotico, e si rilasciavano le Province di là dal Po col titolo Reale al successore di Teodorico. Gli Ambasciatori s’affrettarono ad eseguire la salutare lor commissione; il prigioniero Vitige accettò con trasporto l’inaspettata offerta d’una corona; presso i Goti prevalse all’onore la mancanza e il desiderio del cibo; ed i Capitani Romani, che mormoravano per la continuazion della guerra, professarono una cieca sommissione a’ comandi dell’Imperatore. Se Belisario non avesse avuto che il coraggio d’un soldato, gli sarebbe stato strappato di mano l’alloro da’ timidi ed invidiosi consigli; ma in quel decisivo momento risolvè, con la magnanimità d’un uomo di Stato, di solo sostenere il pericolo e il merito d’una generosa disubbidienza. Ciascheduno de’ suoi Ufiziali diede in iscritto il suo sentimento, che l’assedio di Ravenna era impraticabile, e senza speranza: allora il Generale rigettò il trattato di divisione, e dichiarò la sua risoluzione di condur Vitige in catene a’ piedi di Giustiniano. I Goti si ritirarono con dubbiezza e spavento; questa perentoria negativa gli privò dell’unica sottoscrizione, a cui potevano affidarsi; e riempiè le loro menti d’un giusto timore, che un sagace nemico avesse conosciuto in tutta la sua estensione il deplorabile loro stato. Essi paragonarono la fama e la fortuna di Belisario con la debolezza del disgraziato lor Re; e tal confronto suggerì uno straordinario progetto, a cui Vitige con apparente rassegnazione fu costretto ad acconsentire. La divisione avrebbe rovinato la forza della Nazione, l’esilio l’avrebbe disonorata; essi dunque offerivan le loro armi, i tesori, e le fortificazioni di Ravenna, se Belisario avesse voluto non più riconoscer l’autorità d’un padrone, ma accettar la scelta dei Goti, e prender, come meritava, il Regno d’Italia. Quand’anche il falso splendor d’un diadema avesse potuto tentar la lealtà d’un suddito fedele, la sua prudenza avrebbe dovuto preveder l’incostanza de’ Barbari, e la ragionevole sua ambizione dovea preferire il sicuro ed onorevole posto di Generale Romano. La pazienza medesima, e l’apparente soddisfazione, con cui esso trattò un progetto di tradimento, sarebbe stata capace d’una maligna interpretazione. Ma il Luogotenente di Giustiniano sapeva la propria rettitudine; egli entrò in un oscuro e tortuoso sentiero, quale avrebbe potuto condurre alla volontaria sommissione de’ Goti; e la sua destra politica li persuase, ch’egli era disposto a compiacere i lor desiderj, senza però impegnarsi ad alcun giuramento o promessa per la conclusione d’un trattato, ch’ei segretamente abborriva. Dagli Ambasciatori Gotici fu determinato il giorno della resa di Ravenna; una flotta, carica di provvisioni, quasi un graditissimo ospite, fu introdotta nel più interno recinto del porto; furono aperte le porte all’immaginario Re d’Italia; e Belisario, senza incontrare neppure un nemico, passeggiò in trionfo per le strade d’un’inespugnabil Città107. I Romani furon sorpresi del loro successo; le truppe degli alti e robusti Barbari restaron confuse all’aspetto della propria loro pazienza; e le donne d’animo più virile, sputando in faccia de’ propri figli e mariti, facevan loro i più amari rimproveri per aver abbandonato il dominio e la libertà loro a que’ pimmei del mezzogiorno, spregevoli pel numero, e di statura sì piccola. Avanti che i Goti potessero rientrare in se stessi dalla prima sorpresa, e chieder l’adempimento delle incerte loro speranze, il vincitore assicurò il suo potere in Ravenna dal pericolo del pentimento e della rivolta. Vitige, che forse avea tentato di fuggire, fu onorevolmente guardato nel suo palazzo108; fu scelto il fiore della gioventù Gotica per il servizio dell’Imperatore; il resto del Popolo fu rimandato alle pacifiche sue abitazioni nelle Province meridionali: e fu invitata una colonia d’Italiani a riempire la spopolata Città. S’imitò la sottomissione della Capitale nelle Città e villaggi d’Italia, che non furono soggiogati, e neppur veduti da’ Romani; e gl’indipendenti Goti, che rimasero in armi a Pavia ed in Ve- furono solo ambiziosi di sottomettersi a Belisario. Ma l’inflessibile di lui fedeltà rigettò di accettare, in altra qualità che di delegato di Giustiniano, i loro giuramenti d’omaggio; e non si offese del rimprovero dei loro deputati, ch’ei volesse piuttosto essere schiavo che Re.
Dopo la seconda vittoria di Belisario, di nuovo sussurrò l’invidia, a cui Giustiniano diè orecchio, e l’Eroe fu richiamato. „Quel che restava della guerra Gotica (si disse) non era più degno della sua presenza; il grazioso Sovrano era impaziente di premiare i suoi servigi, e di consultarne la saviezza, ed ei solo era capace di difender l’Oriente contro le innumerabili armate della Persia„. Belisario conobbe il sospetto, accettò la scusa, imbarcò a Ravenna le sue spoglie e trofei, e con la sua pronta ubbidienza provò, che tale improvvisa remozione dal governo d’Italia non era meno ingiusta di quel che avrebbe potuto essere imprudente. L’Imperatore ricevè con onorevole cortesia tanto Vitige, quanto la sua più nobil consorte; e siccome il Re de’ Goti uniformossi alla fede Atanasiana, ottenne insieme con un ricco appanaggio di terre nell’Asia il grado di Senatore e di Patrizio109. Ogni spettatore ammirava senza pericolo la forza e la statura de’ giovani Barbari: essi adoraron la maestà del Trono, e promisero di spargere il sangue in servizio del loro Benefattore. Giustiniano depositò nel Palazzo Bizantino i tesori della Monarchia Gotica: un Senato adulatore fu ammesso qualche volta ad osservare quel magnifico spettacolo; ma il medesimo fu invidiosamente tolto alla pubblica vista; ed il Conquistatore dell’Italia rinunziò, senza mormorare, e forse anche senza un sospiro, ai ben meritati onori d’un secondo trionfo. La sua gloria infatti s’era innalzata sopra ogni pompa esterna; ed alle tenui ed incerte lodi della Corte, anche in un secolo servile, il rispetto e l’ammirazione della sua Patria. Ovunque compariva Belisario nelle strade, e nelle pubbliche piazze di Costantinopoli, attraeva e soddisfaceva gli occhi del Popolo. L’alta statura, ed il maestoso portamento di lui corrispondevano all’espettazione, che avevano d’un Eroe; le sue gentili e graziose maniere incoraggivano i minimi suoi concittadini; ed il marzial treno, che seguitava i suoi passi, lasciava la sua persona più accessibile, che in una giornata di battaglia. Si mantenevano al servizio, ed a proprie spese del Generale settemila uomini a cavallo, che non avevan gli uguali per la bellezza, e pel valore110; la loro prodezza era sempre visibile ne’ combattimenti a corpo a corpo, o nelle prime file; ed ambedue le parti confessavano, che nell’assedio di Roma le sole guardie di Belisario avevan vinto l’esercito Barbaro. Il loro numero veniva continuamente accresciuto da’ più bravi e fedeli fra’ nemici, ed i fortunati suoi schiavi, i Vandali, i Mori ed i Goti emulavano l’attaccamento de’ domestici di lui seguaci. Congiungendo insieme la liberalità e la giustizia, egli acquistò l’amor de’ soldati senz’alienarsi l’affetto del Popolo. Gli ammalati e feriti venivan soccorsi con medicine e danaro, e più efficacemente ancora, con le visite ed accoglienze salutari del loro Comandante. La perdita d’un arme, o d’un cavallo era subito risarcita, ed ogni atto di valore premiavasi coi ricchi ed onorevoli doni d’un’armilla o d’una collana, che il giudizio di Belisario rendea più preziosi. Egli era caro agli agricoltori per la pace ed abbondanza, che essi godevano, all’ombra delle sue bandiere. In vece d’esser maltrattata la campagna, arricchivasi dalla marcia degli eserciti Romani; e tanto era esatta la disciplina del loro campo, che non coglievano neppure un frutto dagli alberi, nè si sarebbe potuta trovare un’orma di essi nei campi di grano. Belisario era casto e sobrio. Nella licenza d’una vita militare, nessuno potè vantarsi d’averlo mai veduto inebriato dal vino: s’offerirono a’ suoi abbracciamenti le più belle schiave delle razze Gotiche o Vandale; ma esso girava altrove lo sguardo, allontanandolo dalle lor grazie, e non cadde mai sul marito d’Antonina il sospetto d’aver violato le leggi della coniugal fedeltà. Lo spettatore ed istorico delle sue geste ha osservato, che in mezzo a’ pericoli della guerra egli era intraprendente senza temerità, prudente senza timore, tardo o rapido secondo le occorrenze del momento; che nelle massime angustie era animato da reale o apparente speranza; ma era modesto ed umile nella più prospera fortuna. Per mezzo di queste virtù egli uguagliò, o anche superò gli antichi maestri dell’arte militare. La vittoria per mare e per terra seguitò le sue armi. Egli soggiogò l’Affrica, l’Italia e le Isole a quelle addiacenti; condusse via schiavi i successori di Genserico e di Teodorico; empiè Costantinopoli delle spoglie de’ loro Palazzi; e nello spazio di sei anni ricuperò la metà delle Province dell’Impero Occidentale. Nella fama e nel merito, nella ricchezza e nel potere fu senza rivale il primo de’ sudditi Romani: la voce dell’invidia non potè che amplificare la pericolosa importanza di tal uomo; e l’Imperatore dovette applaudire al proprio discernimento nell’avere scoperto ed innalzato il genio di Belisario.
L’uso de’ trionfi Romani era, che si collocasse uno schiavo dietro al cocchio per rammentare al Conquistatore l’instabilità della fortuna, e le debolezze della natura umana. Procopio ne’ suoi Aneddoti, si è addossato, rispetto a Belisario, questo servile ed odioso ufizio. Può il generoso lettore toglier di mezzo la satira; ma resterà l’evidenza de’ fatti attaccata alla sua memoria; e dovrà, sebbene con ripugnanza, confessare, che la fama, ed anche la virtù di Belisario furon macchiate dalla lascivia e crudeltà della sua moglie, e che quest’Eroe meritò un nome, che non dee cader dalla penna d’un decente Istorico. La madre d’Antonina111 era una prostituta di teatro, e tanto il padre che l’avo di essa esercitarono in Tessalonica e Costantinopoli la vile, quantunque lucrosa professione di cocchieri. Nelle varie situazioni della lor fortuna, essa divenne la compagna, la nemica, la serva, e la favorita dell’Imperatrice Teodora: queste due dissolute ed ambiziose donne si eran collegate insieme per la somiglianza de’ piaceri, furon separate dalla gelosia del vizio, e finalmente riconciliate fra loro dalla partecipazione della colpa. Prima che si maritasse con Belisario, Antonina ebbe un marito, e parecchi amanti; Fozio, figlio dello prime sue nozze, era in età da distinguersi all’assedio di Napoli; e non fu che nell’autunno della sua età e bellezza112, ch’ella s’abbandonò ad una scandalosa passione per un giovine Trace. Teodosio era stato educato nell’eresia Eunomiana; il viaggio Affricano fu santificato dal battesimo, e dall’avventuroso nome del primo soldato, che s’imbarcò, ed il proselito fu adottato nella famiglia di Belisario ed Antonina, suoi spirituali parenti113. Avanti che si toccassero i lidi dell’Affrica, questa santa parentela degenerò in amor sensuale; e siccome Antonina presto passò i confini della modestia e della cautela, il Generale Romano era il solo, che non sapesse il proprio disonore. Nel tempo che stavano in Cartagine, ei sorprese una volta i due amanti soli, riscaldati, e quasi nudi in una camera sotterranea. Balenò l’ira da’ suoi occhi; ma „coll’aiuto di questo giovine (disse Antonina senz’arrossire) io nascondeva i nostri più preziosi effetti agli occhi di Giustiniano„. Il giovine riprese le sue vesti, ed il pio marito acconsentì a non prestar fede alla testimonianza de’ suoi propri sensi. Di tal piacevole, e forse volontaria illusione Belisario fu risvegliato a Siracusa dall’officiosa informazione di Macedonia; e questa servente, dopo aver richiesto un giuramento per la sua sicurezza, produsse due camerieri, che avevan più volte veduto, come ella medesima, gli adulterj di Antonina. Una precipitosa fuga nell’Asia salvò Teodosio dalla giustizia d’un ingiuriato marito, che aveva dato ad una delle sue guardie l’ordine della morte di esso; ma le lacrime d’Antonina, e le artificiose di lei seduzioni assicurarono il credulo Eroe della sua innocenza; ed ei si piegò, contro la data fede ed il proprio giudizio, ad abbandonare quegl’imprudenti amici, che avevano ardito d’accusare, o di porre in dubbio la castità della sua moglie. La vendetta d’una donna colpevole è implacabile e sanguinosa: la disgraziata Macedonia con i due testimonj furono segretamente arrestati da’ ministri della sua crudeltà; fu tagliata loro la lingua, ne furono ridotti i corpi in piccoli pezzi, e gettati nel mare di Siracusa. Restò profondamente impresso nell’animo d’Antonina un detto ardito, quantunque giudizioso, di Costantino che „egli avrebbe piuttosto punito l’adultera, che il giovine„ e due anni dopo, quando la disperazione ebbe armato quell’Ufiziale contro il suo Generale, il sanguinario di lei consiglio fece decidere, ed affrettò la sua esecuzione. Neppure allo sdegno di Fozio si perdonò da sua madre; l’esilio del proprio figlio preparò il richiamo dell’amante; e Teodosio condiscese ad accettare il pressante ed umile invito del Conquistatore d’Italia. Il favorito giovine, nell’assoluta direzione della sua casa, ed in varie importanti commissioni di pace e di guerra114, prestissimo acquistò uno stato di quattrocentomila lire sterline; e dopo che furon tornati a Costantinopoli, la passione, almeno d’Antonina, continuava sempre ardente e vigorosa. Ma il timore, la devozione, e forse la stanchezza inspirarono a Teodosio pensieri più serj. Gli fece spavento l’affaccendato scandalo della Capitale, e la indiscreta tenerezza della moglie di Belisario; fuggì da’ suoi abbracciamenti; e ritiratosi ad Efeso, si rase il capo, e si riparò nel santuario d’una vita Monastica. La disperazione della nuova Arianna si sarebbe appena scusata dalla morte del proprio marito: essa pianse, si strappò i capelli, empiè il palazzo delle sue grida: „aveva perduto il più caro degli amici, un tenero, un fedele, un laborioso amico!„ Ma le sue calde premure, fortificate dalle preghiere di Belisario, non furon sufficienti a trarre il santo monaco dalla solitudine d’Efeso. Finattantochè il Generale non si mosse per la guerra Persiana, Teodosio non potè indursi a tornare a Costantinopoli; ed il breve intervallo, che passò fra la partenza di Belisario e quella d’Antonina medesima, fu arditamente consacrato all’amore ed al piacere.
Un Filosofo può compatire e perdonar le debolezze del sesso femminile, da cui egli non riceva alcuna reale ingiuria; ma è spregevole il marito, che sente e soffre la sua propria infamia in quella della sua moglie. Antonina perseguitò il proprio figlio con implacabile odio, ed il valoroso Fozio115 fu esposto alle segrete persecuzioni di essa nel campo di là dal Tigri. Irritato dalle proprie ingiurie, e dal disonor del suo sangue, si spogliò ancor esso de’ sentimenti naturali, e manifestò a Belisario la turpitudine d’una donna, che aveva violato tutti i doveri di madre e di moglie. Dalla sorpresa e dall’ira del General Romano apparisce, che la precedente sua credulità fosse sincera: egli abbracciò le ginocchia del figlio d’Antonina, lo scongiurò a rammentarsi le sue obbligazioni piuttosto che la sua nascita, ed essi confermarono avanti l’altare i loro santi voti di vendetta e di reciproca difesa. S’era diminuito il dominio d’Antonina dall’assenza; e quando essa incontrò il marito nel ritorno di lui da’ confini della Persia, Belisario nei primi e transitorj suoi moti confinò la persona, e minacciò la vita della medesima. Fozio fu più risoluto a punire, e meno pronto a perdonare. Volò ad Efeso, trasse a forza di bocca da un confidente eunuco di sua madre la piena confessione della colpa di essa; arrestò Teodosio, ed i suoi tesori nella Chiesa di S. Giovanni Apostolo, e nascose i prigionieri, de’ quali fu solamente differita l’esecuzione, in una sicura e remota Fortezza di Cilicia. Un oltraggio sì fiero contro la pubblica giustizia non potea passare impunito; e la causa d’Antonina fu sostenuta dall’Imperatrice, di cui avea essa meritato il favore, mediante i recenti servigi dell’infamia d’un Prefetto, e dell’esilio ed uccisione d’un Papa. Al termine della campagna Belisario fu richiamato, ed egli ubbidì secondo il solito, al comando Imperiale. Il suo animo non era disposto alla ribellione; la sua ubbidienza, per quanto contraria fosse a’ dettami dell’onore, era coerente ai desiderj del suo cuore; e quando per ordine, e forse in presenza dell’Imperatrice, abbracciò la sua moglie, l’amoroso marito era ben disposto a perdonare o ad esser perdonato. La bontà di Teodora riservava per la sua compagna un favor più prezioso: „Ho trovato, disse ella, mia carissima Patrizia, una gemma d’inestimabil valore; non è stata per anche veduta da alcun occhio mortale; ma la vista ed il possesso di questa gioia è destinata per la mia amica„. Accesa che fu la curiosità e l’impazienza d’Antonina, s’aprì la porta d’un Gabinetto, ed essa vide il suo amante, che la diligenza degli eunuchi avea ritrovato nella segreta di lui prigione. La tacita di lei meraviglia scoppiò in tenere esclamazioni di gratitudine e di letizia; e chiamò Teodora sua Regina, sua benefattrice e sua salvatrice. Il monaco d’Efeso fu nutrito nel Palazzo con lusso ed ambizione; ma invece d’assumere, come gli era stato promesso, il comando degli eserciti Romani, Teodosio spirò nelle prime fatiche d’un amoroso congresso. Il cordoglio d’Antonina non potè alleggerirsi, che mediante i patimenti del proprio figlio. Un giovine di condizione Consolare, e d’una debole costituzione, fu punito senza processo come un malfattore ed uno schiavo; pure tale fu la costanza dell’animo suo, che Fozio sostenne i tormenti più forti senza violare la fede, che aveva giurato a Belisario. Dopo questa inutile crudeltà, il figlio d’Antonina, mentre sua madre si divertiva coll’Imperatrice, fu sepolto nelle sotterranee prigioni di questa, che non ammettevano distinzione alcuna fra la notte ed il giorno. Egli scappò due volte a’ più venerabili santuari di Costantinopoli, alle Chiese di S. Sofia, e della Vergine: ma le sue tiranne non eran sensibili nè alla religione nè alla pietà; ed il misero giovine, fra i clamori del Clero e del Popolo, fu per due volte dall’Altare tratto alla prigione. Il terzo di lui tentativo fu più fortunato. In capo a tre anni, il Profeta Zaccaria, o qualche mortale suo amico, gl’indicò la maniera di fuggire; deluse le spie e le guardie dell’Imperatrice; giunse al santo sepolcro di Gerusalemme, abbracciò la professione di Monaco; e l’Abate Fozio, dopo la morte di Giustiniano, fu impiegato a riconciliare fra loro, e regolare le Chiese dell’Egitto. Il figlio d’Antonina soffrì tutto quello, che un nemico può infliggere: ma il paziente di lei marito si sottopose alla più vergognosa miseria di violare la sua promessa, e d’abbandonare l’amico. Nella seguente campagna, Belisario fu di nuovo mandato contro i Persiani: ei salvò l’Oriente; ma offese Teodora, e forse l’Imperatore medesimo. Una malattia di Giustiniano avea colorito il rumore della sua morte; ed il Generale Romano, sulla supposizione di questo probabile avvenimento, parlò col libero linguaggio proprio d’un Cittadino, e d’un soldato. Buze, suo Collega, che concorse ne’ medesimi sentimenti, il suo grado, la libertà, e la salute per la persecuzione dell’Imperatrice: ma la disgrazia di Belisario fu alleggerita dalla dignità del proprio di lui carattere, e dall’influenza della sua moglie, che desiderava per avventura d’umiliare, ma non poteva bramar di rovinare il compagno delle sue fortune. La stessa sua remozione si colorì dalla protesta, che il cadente stato d’Italia non potrebbe sostenersi, che dalla presenza del Conquistatore di quella. Ma appena fu egli tornato solo e senza difesa, fu mandata una ostil commissione in Oriente di prender possesso dei suoi tesori, e di processarne le azioni; le guardie ed i veterani, che seguitavano la privata di lui bandiera, si distribuiron fra i Capitani dell’esercito; e fino gli eunuchi presunsero di partecipare nella divisione dei suoi marziali domestici. Quando egli passò con un piccolo e sordido seguito per le strade di Costantinopoli, la sua negletta comparsa eccitò la sorpresa e la compassione del Popolo. Giustiniano e Teodora lo riceverono con fredda ingratitudine; la servile turba con insolenza e disprezzo; e la sera si ritirò con passi tremanti al suo abbandonato palazzo. Una finta o reale indisposizione avea confinato Antonina nel suo appartamento: ed essa passeggiava sdegnosamente tacendo nel vicino portico, mentre Belisario si gettò sul letto, ed in un’agonia di cordoglio e di terrore aspettava la morte, che aveva tante volte sfidata sotto le mura di Roma. Lungo tempo dopo il tramontar del sole, fu annunziato al medesimo un messaggio mandato dall’Imperatrice; ed egli aprì con ansiosa curiosità la lettera, che conteneva la sentenza del suo destino: „Voi non potete ignorare (diceva) quanto avete meritato il mio dispiacere. Io però non sono insensibile a’ servigi d’Antonina. Ai meriti, ed all’intercessione di essa io vi ho accordato la vita, e vi permetto di ritenere una parte delle vostre ricchezze, che giustamente si potrebbero confiscare. Si manifesti la vostra gratitudine a chi è dovuta, non già in parole, ma col vostro contegno per l’avvenire„. Io non so come fare a credere, o a riferire i trasporti, co’ quali si dice, che l’Eroe ricevesse quest’ignominioso perdono. Ei cadde prostrato avanti la sua moglie, baciò i piedi della sua salvatrice, devotamente promise di vivere come un grato e sommesso schiavo d’Antonina. Fu imposta una multa di cento ventimila lire sterline su beni di Belisario, e coll’ufizio di Conte, o di Soprintendente delle stalle Reali egli accettò la condotta della guerra d’Italia. Alla partenza di esso da Costantinopoli, i suoi amici, ed anche il Pubblico eran persuasi, che tostochè avesse ricuperato la libertà, rinunziato avrebbe alla dissimulazione, e che la sua moglie, Teodora, e forse l’Imperatore medesimo, sarebbero stati sacrificati alla giusta vendetta d’un virtuoso ribelle. Restaron deluse però le loro speranze; e l’invincibil pazienza e lealtà di Belisario sembra, che fosse o sotto o sopra il carattere d’un Uomo116.
fine del volume settimo.
Note
- ↑ Procopio riferisce tutta la serie della guerra Vandalica in un’elegante e regolar descrizione (L. I c. 1, 25. L. II c. 1, 13): ed io sarei ben felice, se potessi seguitar sempre le tracce d’una tal guida. Per l’intera e diligente lettura, che ho fatto del Testo Greco, ho diritto di pronunciare, che uno non può ciecamente fidarsi delle Traduzioni Latina e Francese di Grozio, e di Cousin. Eppure il Presidente Cousin spesso è stato lodato, ed Ugone Grozio fu il primo letterato d’un secolo erudito.
- ↑ Vedi Ruinart Hist. Persecut. Vandal. c. XII p. 589. La sua miglior prova è tratta dalla vita di S. Fulgenzio composta da uno de’ suoi discepoli, trascritta in gran parte negli Annali del Baronio, e stampata in varie gran collezioni (Catalog. Bibliot. Bunaviaenae Tom. I Vol. II p. 1258).
- ↑ Per qual proprietà dello spirito o del corpo? Per la velocità, per la bellezza, o per il valore? In qual idioma i Vandali leggevan Omero? Parlava egli lingua Germanica? I Latini ne avevan quattro traduzioni (Fabricio Tom. I L. II c. 3 p. 297): pure malgrado le lodi di Seneca (Consol. c. 26) sembra, che fossero più felici nell’imitare, che nel tradurre i Poeti Greci. Ma il nome d’Achille poteva essere famoso e comune anche fra gl’ignoranti Barbari.
- ↑ Un anno? che assurda esagerazione! La conquista dell’Affrica può dirsi, che principiasse il dì 14 settembre dell’anno 533 ed è celebrata da Giustiniano nella Prefazione delle sue Istituzioni, che furon pubblicate il dì 21 di novembre del medesimo anno. Tal computo, compresovi il viaggio ed il ritorno, potrebbe veramente applicarsi al nostro Impero dell’Indie.
- ↑ Ωρμητο δε ο βελισαριος εκ Γερμανιας, Θρακωντε και Ιελλυριων μεταξυ κειται (Belisario veniva di Germania, che giace fra’ Traci, e gl’Illirici) Procopio Vandalic. L. I. c. 1l. l’Alemanno, ch’era un Italiano, potè facilmente confutare (not. ad Anecdot. p. 5) la Germanica vanità del Gifanio, e del Velserio, che bramavano d’attribuire alla loro Patria quest’eroe: ma la sua Germania, Metropoli della Tracia, io non l’ho potuta trovare in alcun catalogo Civile o Ecclesiastico delle Province e città.
- ↑ Le prime due Campagne Persiane di Belisario sono bene e copiosamente descritte dal suo Segretario (Persic. L. I c. 12, 18).
- ↑ Vedi la nascita, ed il carattere d’Antonina negli Aneddoti c. 1 ed ivi le note dell’Alemanno p. 3.
- ↑ Vedi la Prefazione di Procopio. I nemici degli arcieri potevan citare le accuse di Diomede (Iliad. V, 385 etc.) e quel permittere vulnera ventis, di Lucano (VIII, 384); ma i Romani non potevano sprezzar le frecce de’ Parti; e nell’assedio di Troia, Tindaro, Paride, e Teucro ferirono que’ superbi guerrieri, che gl’insultavano come femminelle o fanciulli.
- ↑ Νευρην μεν μαζώ πελασεν, τοξω δε σιδηρον (Iliad. Δ 123) „Accostò il nervo al petto, e il ferro all’arco„. Quanto è precisa, quanto è bella l’intiera pittura! Io vedo le attitudini dell’arciero; sento lo scocco dell’arco: Λιγξε βιος, νευρη δε μεγ’ ιαχεν, αλτο δ’ οιστος. Stridè l’arco, il nervo fece grande strepito, e volò via la saetta.
- ↑ Ho letto, che un Legislatore Greco stabilì una pena doppia per i delitti commessi nello stato d’ubbriachezza; ma sembra che si convenga, che questa fu piuttosto una pena politica che morale.
- ↑ O anche in tre, poichè la prima sera si fermarono alla vicina Isola di Tenedo: il secondo giorno navigarono fino a Lesbo; il terzo fino al Promontorio d’Eubea, e nel quarto giunsero ad Argo (Odiss. L. 130, 133. Wood Saggio sopra Omero p. 40, 46). Un pirata navigò dall’Ellesponto sino al porto di Sparta in tre giorni (Senofonte Hellenic. l. II c. 1).
- ↑ Caucana, vicino a Camarina, è distante almeno 50 miglia (350 o 400 Stadi) da Siracusa (Claver. Sicil. antiq. p. 191).
- ↑ Procopio Gothic. l. I c. 3. Tibi tollit hinnitum apta quadrigis equa, ne’ pascoli Siciliani di Grosfo (Horat. Carm. II, 16) Acragas.... magnanimum quondam generator equorum (Virgil. Aeneid. III, 704). I Cavalli di Ierone, di cui Pindaro fece le vittorie immortali, furon nutriti in questo Paese.
- ↑ Il Caput vada di Procopio (dove Giustiniano in seguito fondò una Città, De Aedif. L. VI c. 6) è il Promontorio d’Ammone presso Strabone, il Brachodes di Tolomeo, ed il Capaudia de’ moderni, vale a dire una lunga e stretta lingua di terra, che sporge in mare (Shaw Viag. p. 111).
- ↑ Un Centurione di Marc’Antonio espresse, quantunque in un modo più virile, il medesimo contraggenio al mare, ed alle battaglie navali Plutarc. in Antonio p. 1730 Edit. Henr. Steph.).
- ↑ Sullette è forse la Turris Annibalis, antica fabbrica, presentemente grande quanto la Torre di Londra. La marcia di Belisario a Leptis, Adrumeto ec. viene illustrata dalla campagna di Cesare (Hirtius de Bello Afric. con l’analisi di Guichardt) e da’ viaggi di Shaw (p. 105-113) nel medesimo Paese.
- ↑ Παραδεισος καλλισος απαντων ων ημεις ισμεν. (Paradiso più bello di tutti quelli che conosciamo). I Paradisi, nome ed usanza presa dalla Persia, posson rappresentarsi per mezzo de’ Giardini Reali d’Ispahan (Viag. d’Olear. p. 774.) Vedasi ne’ romanzi Greci il più perfetto modello di essi (Longus Pastoral. l. IV p. 99-101; Achilles Tatius l. I p. 22 ec. )
- ↑ Nelle vicinanze di Cartagine il mare, la terra, ed i fiumi son quasi tanto mutati quanto le opere umane. L’istmo, o collo della Città ora è confuso col continente: il porto è una secca pianura: ed il lago o stagno non è più che un pantano con sei o sette piedi d’acqua nel canale di mezzo: Vedi Danville (Geograph. anc. Tom. III pag. 82.), Shaw (viagg. p. 77, 84), Marmol. (Description de l’Afrique T. II. p. 465) e Tuano (LVIII 12 i. III p. 334).
- ↑ Da Delfi ricevè il nome di Delphicum tanto in Greco quanto in Latino un tripode: e per una facile analogia fu estesa in Roma, in Costantinopoli, ed in Cartagine la stessa denominazione al luogo, dove si facevano i Banchetti reali (Procop. Vandal. lib. I. c. 21: Du Cange Gloss. Graec. p. 277 v. Δελφικον, ad Alexiad. p. 412).
- ↑ Queste orazioni esprimono sempre i sentimenti di quei tempi, ne’ quali son fatte, ed alle volte quelli degli attori. Io ho estratto questi sentimenti, ed ho tralasciata la declamazione.
- ↑ Le reliquie di S. Agostino da’ Vescovi Affricani furon trasportate al loro esilio di Sardegna (an. 500), e nell’ VIII secolo fu creduto che Liutprando Re de’ Longobardi le trasferisse (an. 721) da Sardegna a Pavia. Nell’anno 1695 i Frati Agostiniani di quella Città trovarono una volta di mattoni, un’urna di marmo, una cassa d’argento, delle involture di seta, delle ossa, del sangue ec., e forse un’Iscrizione d’Agostino in caratteri Gotici. Ma quest’utile scoperta è stata contrastata dalla ragione, e dalla gelosia (Baronio Annal. an. 725 n. 2, 9. Tillemont Mem. Eccles. Tom. XIII p. 944. Montfaucon Diar. Ital. p. 26, 30, Muratori Antiq. Ital. med. aevi Tom. V Dissert. LVIII p. 9, che ne aveva composto un Trattato a parte, prima che si facesse il Decreto del Vescovo di Pavia, e del Pontefice Benedetto XIII).
- ↑ Τα της πολιτειας προσιμια (le prime terre dell’Impero) dice Procopio de Aedif. L. VI c. 7 Ceuta, che è stata poi disfigurata da’ Portoghesi, fiorì, sotto il regno più prospera degli Arabi, nell’agricoltura, e nelle manifatture, decorata di nobili edifizi e di Palazzi (V. L’Afrique de Marmol T. II p. 236).
- ↑ Vedi il secondo e il terzo preambolo a’ Digesti, o alle Pandette, promulgate il 16 decembre dell’anno 533. Giustiniano, o piuttosto Belisario, avevan acquistato un giusto diritto a’ titoli di Vandalico, ed Affricano; quello di Gotico era prematuro; ed il Francico falso ed offensivo d’una gran Nazione.
- ↑ Vedi gli atti originali presso il Baronia (Aq. 535 n. 21, 54). L’Imperatore applaudisce alla sua clemenza verso gli Eretici cum sufficiat eis vivere.
- ↑ Dupin (Geograph. Sacra Africana p. LIX ad Optat. Milev.) nota e compiange l’Episcopal decadenza. Nel tempo più prospero della Chiesa egli vi aveva contato 690 Vescovati: ma per quanto piccole fossero le Diocesi, non è probabile, che vi esistessero tutti nel medesimo tempo.
- ↑ Le leggi Affricane di Giustiniano sono illustrate dal suo Germano Biografo (Cod. Lib. I Tit. 27 Novell. 36, 37, 131 Vit. Justinian. p. 349-377).
- ↑ Il monte Papua si pone dal Danville (Tom. III p. 92 e Tabul. Imp. Rom. Occident.) presso Ippone Regio, ed il mare: tal situazione però mal s’accorda con le lunghe ricerche fattene al di là d’Ippone, e con le parole di Procopio (L. II c. 4). Εν τοις Νουμιδιαρς εσχατοις (negli estremi della Numidia).
- ↑ Shaw (Viagg. p. 220) descrive con somma accuratezza i costumi de’ Bedwini, e de’ Kabili, gli ultimi de’ quali secondo il loro linguaggio, sono i residui de’ Mori: pure quanto son mutati questi moderni selvaggi, quanto si sono inciviliti! Fra loro sono abbondanti le provvisioni, ed il pane è comune.
- ↑ Da Procopio si chiama Lira: l’Arpa sarebbe forse stata più nazionale. Gl’istromenti di musica si distinguono da Venanzio Fortunato in tal modo: Romanusque Lyra tibi plaudat, Barbarus harpa.
- ↑ Erodoto elegantemente descrive gli strani effetti della afflizione in un altro schiavo Reale, cioè in Psammetico Re d’Egitto, che pianse alle minori, e tacque alle maggiori sue calamità (L. III c. 14). Belisario potea studiar la sua parte nell’incontro di Paolo Emilio e di Perseo: ma è probabile, che non avesse mai letto nè Livio nè Plutarco: ed è certo, che la sua generosità non avea bisogno d’alcun modello.
- ↑ Dopo che il titolo d’Imperatore ebbe perduto l’antico suo senso militare, e gli auspizj Romani furono aboliti dal Cristianesimo (Vedi la Bleterie, Mem. de l’Acad. Tom. XXI p. 302, 332) poteva con minore incoerenza accordarsi un Trionfo ad un Generale privato.
- ↑ Se pure l’Ecclesiaste è veramente un’opera di Salomone, non già, come il Poema di Prior, una pia e morale composizione fatta ne’ tempi più moderni in suo nome, ed in occasione del suo pentimento. Quest’ultima è l’opinione dell’erudito, e franco Grozio (Opp. Theolog. T. I p. 258): ed in vero l’Ecclesiaste, ed i Proverbi dimostrano un’estensione di pensare, e d’esperienza, maggiore di quella che sembri poter esser propria d’un Giudeo o d’un Re.
- ↑ Nel Belisario di Marmontel s’incontrano, cenano, e conversano insieme il Re col Conquistatore dell’Affrica, senza rammentarsi l’uno dell’altro. Egli è senza dubbio un difetto di quel romanzo il supporre, che avesser perduto gli occhi o la memoria non solamente l’Eroe, ma anche tutti quelli, che l’avevano sì ben conosciuto.
- ↑ Shaw p. 59. Siccome però Procopio (L. II c. 13) parla d’un Popolo del monte Atlante come già distinto per la bianchezza del corpo, ed il giallo color de’ capelli, questo fenomeno (che si vede similmente nelle Andi del Perù, Buffon Tom. III p. 504) può naturalmente attribuirsi alla elevazione del suolo, ed alla temperatura dell’aria.
- ↑ Il Geografo di Ravenna (L. III c. XI p. 129, 130, 131. Paris 1688) descrive la Mauritania Gaditana (opposta a Cadice) ubi Gens Vandalorum, a Belisario devicta in Africa, fugit, et numquam comparuit.
- ↑ Un solo avea protestato, e Genserico rimandò, senza una risposta formale, i Vandali di Germania: ma quelli di Affrica derisero la sua prudenza, ed affettarono di sprezzare la povertà delle loro foreste (Procopio Vandal. lib. I c. 22).
- ↑ Tollio descrive per bocca del grand’Elettore (nel 1687) il segreto regno, e lo spirito ribelle de’ Vandali del Brandemburgo, che potevan contare cinque o seimila soldati, che, si erano procurati de’ cannoni ec. (Itinerar. Hungar. p. 42 ap. Dubos Hist. de la Monarchie Francoise Tom. I p. 182, 183). Si può con ragione dubitare della veracità non già dell’Elettore, ma di Tollio medesimo.
- ↑ Procopio (lib. I c. 22) n’era totalmente all’oscuro: ουδε μνημη τιστουδε ονομα ες εμε σωξεται (Non se ne conserva presso di me nè alcuna memoria nè il nome). Sotto il regno di Dagoberto (an. 630) le Tribù Slave de’ Sorbi, e de’ Venedi già confinavano con la Turingia (Mascou Istor. de’ Germani XV, 3, 4,5).
- ↑ Sallustio rappresenta i Mori come un residuo dell’armata d’Èrcole (de Bello Iugurt. c. 21) e Procopio (Vandal. l. II c. 10) come la posterità de Cananei, che fuggirono dal ladro (λησης) Giosuè. Ei cita due colonne con un’Iscrizione Fenicia. Io ammetto le colonne, dubito dell’Iscrizione, e rigetto la discendenza.
- ↑ Virgilio (Georgic. III, 339), e Pomponio Mela (I, 8) descrivono la vita errante de’ Pastori Affricani simile a quella degli Arabi, e de’ Tartari: e Shaw (p. 222) è il migliore commentatore sì del Poeta che del Geografo.
- ↑ I doni consueti, che loro si facevano, erano uno scettro, una corona o berretta, una veste bianca, una tunica e delle scarpe con figure, il tutto adornato d’oro, e d’argento: nè questi preziosi metalli erano lor meno accolti in forma di moneta (Procop. Vandal. L. I c. 25).
- ↑ Vedi il Governo d’Affrica, ed i fatti militari di Salomone presso Procopio (Vandal. L. II c. 10, 11, 12, 13, 19, 20). Ei fu richiamato, e mandatovi di nuovo: e l’ultima sua vittoria porta la data dell’anno XIII di Giustiniano (an. 539). Un accidente l’aveva reso eunuco nella sua puerizia (L. I c. 11), ma gli altri Generali Romani erano ampiamente forniti di barbe, πωγονος επιπλαμενοι (Lib. II cap. 8).
- ↑ Questa naturale antipatia de’ cavalli contro i cammelli si asserisce dagli Antichi (Xenoph. Cyropaed. l. VI p. 438 l. VIII p. 483, 492 Edit. Hutchinson: Polyaen. Stratagem. VII, 6 Plin. Hist. Nat. VIII, 26 Aelian. de Nat. animal. I. III c. 7): ma vien contraddetta dalla quotidiana esperienza, e derisa dagli Orientali, che ne sono i migliori giudici (Voyage d’Olearius p. 553).
- ↑ Procopio è il primo, che descriva il monte Aurasio (Vandal. l. II c. 13 de Aedif. l. VI c. 7). Ei si può confrontare con Leone Affricano (Dell’Affrica P V presso Ramusio Tom. I fol. 77 rect.), con Marmol (Tom. II p. 430) e con Shaw (p. 56, 59).
- ↑ Isidoro Chron. p. 722 Edit. Grot. Mariana Hist. Hispan. l. V c. 8 p. 173. Secondo Isidoro però l’assedio di Ceuta, e la morte di Teude seguì l’anno dell’Era Ispanica 586, di Cristo 548, e la piazza non fu difesa da’ Vandali, ma da’ Romani.
- ↑ Procopio Vandal. l. I c. 24.
- ↑ Vedi la Cronica originale d’Isidoro, ed i libri V e VI dell’Istoria di Spagna del Mariana. I Romani furono finalmente cacciati da Suintila Re de’ Visigoti (l’anno 621, 626) dopo che si furon questi riuniti alla Chiesa Cattolica.
- ↑ Vedi il matrimonio, e il destino d’Amalafrida in Procopio (Vandal. l. I c. 8, 9); ed in Cassiodoro (Var. IX, 1) la richiesta del reale di lei fratello. Si confronti parimente la Cronica di Vittore Tunnunense.
- ↑ Lilibeo fu fabbricato da’ Cartaginesi nell’Olimpiade XCV. 4 e nella prima guerra Punica la forte situazione e l’eccellente suo porto rese quel luogo un oggetto importante per ambedue le nazioni.
- ↑ Si paragonino fra loro i differenti passi di Procopio (Vandal L. II c. 5 e Gothic. l. 1 c. 3).
- ↑ Intorno al regno e carattere d’Amalasunta vedi Procopio (Gothic. l. I c. 2, 3, 4: ed Anecdot. c. 16 con le note dell’Alemanno): Cassiodoro (Var. VIII, IX, X et XI, 1): e Giornandes (de Reb. Getic. c. 56 et de successione Regnor presso il Muratori Tom. I p. 241).
- ↑ Il matrimonio di Teodorico con Audefleda, sorella di Clodoveo, si può collocare nell’anno 495 subito dopo la conquista d’Italia (Buat Hist. des Peuples Tom. IX p. 213). Le nozze d’Eutarico e d’Amalasunta si celebrarono l’anno 515 (Cassiodoro in Chron. p. 453).
- ↑ Alla morte di Teodorico si descrive da Procopio Atalarico, suo nipote, come un fanciullo di circa otto anni οκτω γεγονως ετη. Cassiodoro coll’autorità e con la ragione ve ne aggiunge due; Infantulum adhuc vix decennem.
- ↑ Questo lago dalle vicine Città d’Etruria chiamavasi o Vulsiniensis (ora di Bolsena) o Tarquiniensis. Esso è circondato da bianchi scogli, ed abbondante di pesce, e di salvaggiume. Plinio il Giovane (Epist. II, 96) celebra due selvose isole, che galleggiavano sulle acque. Se questa è una favola, quanto eran creduli gli Antichi! Se poi è un fatto vero, quanto son trascurati i Moderni! Pure dal tempo di Plinio in qua le isole possono essersi fissate per mezzo di nuove e successive aggregazioni.
- ↑ Procopio però (Anecdot. c. 16) abbatte la sua propria testimonianza, confessando che nella sua Storia pubblica non avea detto la verità. Vedi le lettere scritte dalla Regina Gundelina all’Imperatrice Teodora (Var. X, 20, 21, 23 e si osservi una parola sospetta, de illa persona ec.) con l’elaborato Commercio di Buat (Tom. X p. 177, 185).
- ↑ Intorno alla conquista di Sicilia si confronti la narrazione di Procopio con le doglianze di Totila ( Gothic. l. I c. 5. l. III c. 16). La Regina de’ Goti aveva ultimamente sollevato quell’ingrata isola (Var. IX, 10, 11).
- ↑ Descrivesi l’antica grandezza e splendore de’ cinque quartieri di Siracusa da Cicerone (Act. II in verrem L. IV c. 52, 53), da Strabone (L. VI p. 415), e dal Dorville (Sicula Tom. II p. 174, 202). La nuova città, restaurata da Augusto, si ristrinse verso l’isola.
- ↑ Procopio (Vandalic. l. II c. 14, 15) riferisce così chiaramente il ritorno di Belisario in Sicilia (p. 146 Edit. Hoeschelii), che restò attonito allo strano sbaglio, ed a’ rimproveri d’un erudito Critico (Oeuvres de la Mothe le Vayer Tom. VIII p. 162, 163).
- ↑ L’antica Alba fu distrutta nella prima età di Roma. Nel medesimo luogo, o almeno nelle vicinanze di quella, successivamente s’alzarono, 1. la villa di Pompeo ec. 2. un campo delle Coorti Pretoriane: 3. la moderna città Episcopale d’Albano (Procopio Goth. l. II c. 4. Cluver. Ital. ant. Tom. II. p. 914).
- ↑ Procopio nella sua Cronologia, imitando in qualche modo Tucidide, comincia dalla primavera gli anni di Giustiniano, e della guerra Gotica: e la prima sua epoca corrisponde al primo d’aprile 535 non 536 secondo gli Annali del Baronio (Pagi Crit. Tom. II p. 555 seguitato dal Muratori, e dagli Editori del Sigonio). Pure in alcuni passi non sappiamo conciliare le date di Procopio con lui medesimo, e con la Cronica di Marcellino.
- ↑ Da Procopio (L. I c. 5, 29. L. II c. 1, 30. L. III c. 1) si riferiscono gli avvenimenti della prima guerra Gotica fino alla schiavitù di Vitige. Coll’aiuto del Sigonio (Opp. Tom. I. De Imp. Occid. L. XVII, XVIII), e del Muratori (Annali d’Italia Tom. V) vi ho aggiunto alcuni pochi fatti di più.
- ↑ Giornandes de reb. Gotic. c. 60 p. 702 Edit. Grot. e Tom. I p. 221: Muratori de success. regn. p. 241.
- ↑ Nero (dice Tacito Annal. XV, 35) Neapolim quasi Graecam urbem delegit. Cento cinquant’anni dopo, al tempo di Settimo Severo, Filostrato loda l’Ellenismo de’ Napolitani: γενος Ελληνες και αστυκοι, οθεν και τας σπουμδας των λογον Ελληνικοι εισι (d’origine son Greci ed urbani, onde anche nell’uso delle parole grecizzano (Icon. L. I pag. 763 Edit. Olear.).
- ↑ Si celebra l’otium di Napoli da’ Poeti Romani, come da Virgilio, da Orazio, da Silio Italico, e da Stazio ( Cluver. Ital. Ant. l. IV p. 1149, 1150). Quest’ultimo in una elegante lettera (Sylv. l. III, 5 p. 94, 98 Edit. Markland.) tenta la difficile impresa di trar la sua moglie da’ piaceri di Roma a quel tranquillo ritiro.
- ↑ Questa misura fu presa da Ruggiero I dopo la conquista di Napoli (An. 1139), ch’ei fece la Capitale del suo nuovo Regno (Giannone Istor. Civ. Tom. II p. 169). Questa città, ch’è la terza nell’Europa Cristiana, ha presentemente almeno dodici miglia di circuito (Jul. Caes. Capaccii Hist. Neapol. L. I p. 47), e contiene in questo spazio più abitanti (vale a dire 350,000) che qualunque altro luogo nel Mondo conosciuto.
- ↑ Non geometrici ma comuni, cioè passi di 22 pollici Francesi l’uno (Danville Mesures itinerair. p. 7, 8): 2363 di essi non fanno un miglio Inglese.
- ↑ Belisario fu condannato dal Papa Silverio per la strage; egli per altro ripopolò Napoli, ed introdusse colonie di prigionieri Affricani nella Sicilia, nella Calabria, e nella Puglia (Hist. Miscell. L. XVI presso il Muratori Tom. I p. 106, 107).
- ↑ Benevento fu fabbricato da Diomede, Nipote di Meleagro (Cluver. Tom. II p. 1195, 1196). La caccia Calidonia è una pittura della vita selvaggia (Ovid. Metamorph. L. VIII). Trenta o quaranta eroi si collegarono contro un cignale: i bruti (non il cignale) contendevano con una donna per la testa.
- ↑ Il Decennovium è stranamente confuso dal Cluverio (Tom. II p. 1007) col fiume Ufente, Esso era veramente un canale di diciannove miglia, dal Foro d’Appio fino a Terracina, sul quale Orazio imbarcossi di notte. Il Decennovium, di cui fan menzione Lucano, Dione Cassio, e Cassiodoro, è stato in vari tempi successivamente rovinato, restaurato, e cancellato (Danville, Analyse de l’Italie p. 185 ec.).
- ↑ Un Ebreo volle soddisfare il disprezzo e l’odio che avea per tutti i Cristiani, rinchiudendo tre mandre, ciascheduna delle quali conteneva dieci porci, ed eran distinte coi nomi di Goti, di Greci e di Romani. I primi furon trovati quasi tutti morti; quasi tutti i secondi eran vivi: e de’ terzi la metà eran morti, ed il rimanente avevan perduto le loro setole. Emblema non incoerente all’evento.
- ↑ Bergier (Hist. des grands chemins des Romains T. I p. 221, 228, 440, 444) n’esamina la struttura ed i materiali, mentre Danville (Analyse de l’Italie p. 200, 213) ne determina la situazione geografica.
- ↑ L’anno 536 della prima ricuperazione di Roma è certo, piuttosto per la serie de’ fatti, che poi testo corrotto o interpolato di Procopio: il mese (di Dicembre) viene assicurato da Evagrio (L. IV c. 19): ed il giorno (10) può ammettersi sulla debole testimonianza di Niceforo Callisto (L. XVII c. 13). Di questa esatta Cronologia siam debitori alla diligenza, ed al criterio del Pagi (Tom. II pag. 559, 560).
- ↑ Un Cavallo di color baio o rosso chiamavasi φαλιος da’ Greci, Balan da’ Barbari, e Spadix da’ Romani. Honesti Spadices, dice Virgilio (Georg. L. III, 72 con le osservazioni di Martin, e di Heyne). Σπαδιξ o Βαιον significa un ramo di palma, il cui nome Φοινιξ della quale i sinonimo di rosso (Aul. Gellius II, 26).
- ↑ Interpetro la voce βανδαλαριος non come un nome proprio, ma d’ufizio, quasi portatore della bandiera, da Bandum (vexillum) parola barbara adottata da’ Greci e da’ Romani (Paol. Diacon L. I c. 20 p. 760. Grot. Nomina Gothica p. 575. Du-Cange Glossar. Latin. Tom. I pag. 539, 540).
- ↑ Il Danville nelle Memorie dell’Accademia per l’anno 1756 (Tom. XXX p. 198, 236) ha dato un Piano di Roma di minor proporzione, ma molto più accurato di quello, che aveva delineato nel 1738, per l’Istoria del Rollin. L’esperienza ha perfezionato la sua cognizione, ed invece della Topografia del Rossi, ha usato la nuova ed eccellente carta del Nolli. La vecchia misura di 13 miglia di Plinio si dee ridurre a 8. Egli è più facile alterare un testo, che muovere i colli o le fabbriche.
- ↑ Nell’anno 1709, Labat (Voyages en Italie Tom. III p. 218) contò 138,568 anime di Cristiani oltre, 8, a 10,000 Ebrei forse senz’anima? Nell’anno 1763 la popolazione passava i 160,000.
- ↑ L’occhio diligentissimo del Nardini (Roma antica L. I. c. 8. p. 31) potè distinguere le tumultarie opere di Belisario.
- ↑ La fessura, e la pendenza nella parte superiore del muro, che osservò Procopio (Goth. L. I c. 23), è visibile anche adesso (Donati Roma vet. L. I. c. 17 p. 53, 54).
- ↑ Lipsio (Opp. Tom. III Poliorcet. L. III) non conosceva questo chiaro e cospicuo passo di Procopio (Goth. L. I c. 21). La macchina si diceva οναγρος (asino selvaggio) a calcitrando (Heur. Steph. Thesaur. Linguae Graec. Tom. II p. 877). Io ho veduto un ingegnoso modello, immaginato ed eseguito dal General Melville, che imita o sorpassa l’arte dell’antichità.
- ↑ La descrizione, che fa Procopio (L. I c. 25) di questo Mausoleo, è la prima e la migliore. S’alza sopra le mura σχεδον ες λιθου βολην (quasi un tiro di pietra). Nel gran disegno del Nolli i lati di quello sono 260 piedi Inglesi.
- ↑ Prassitele era eccellente ne’ Fauni, e quello d’Atene era il suo capo d’opera. Roma ora ne contiene più di trenta del medesimo carattere. Quando fu purgato il fosso di Castel S. Angelo sotto Urbano VIII, gli artefici trovarono il Fauno, che dorme, del Palazzo Barberini, ma si era rotta una gamba, una coscia, ed il braccio destro di quella bella Statua (Winckelman Istor. dell’art. ec. Tom. II pag. 52 Tom. III p. 265).
- ↑ Procopio ha dato la miglior descrizione del Tempio di Giano, Divinità nazionale del Lazio (Heyne Excurs. V ad L. VII Aeneid.). Esso formava anticamente una porta nella primitiva città di Romolo e di Numa (Nardini Pag. 13, 256, 329). Virgilio ha descritto quest’antico rito da Poeta e da Antiquario.
- ↑ Il Vivarium era un angolo nella nuova muraglia chiuso per le fiere (Procopio Goth. L. I c. 23). Il luogo è sempre visibile presso il Nardini (L. IV c. 2 p. 159, 160), e nella gran pianta di Roma del Nolli.
- ↑ Per la trombetta Romana, ed i suoi vari segnali si consulti Lipsio De militia Romana (Opp. Tom. III L. IV Dial. X p. 125, 129). Una maniera di distinguer l’attacco per mezzo d’una trombetta a cavallo di solido bronzo, e la ritirata per mezzo d’una trombetta a piedi di cuoio e di legno leggiero, fa commendata da Procopio, e adottata da Belisario.
- ↑ Procopio (Goth. L. II c. 3) si è dimenticato di nominar questi acquedotti; nè tal doppia intersezione a quella distanza di Roma si può chiaramente fissare dagli scritti di Frontino, del Fabretti, e dell’Eschinard de aquis, et de agro Romano, o dalle carte locali del Lameti e del Ciugolani. Sette o otto miglia (50 Stadi) lontano dalla Città, sulla via d’Albano, fra le strade Latina ed Appia, io discerno i residui d’un acquedotto (probabilmente di quello di Settimio), ed una serie di archi (per 630 passi) alti venticinque piedi (υψηλω εσαναν) d’un’eccessiva altezza.
- ↑ Fecero delle salsiccie αλλατας di carne di mulo; malsane senza dubbio, se gli animali eran morti di peste; fuori di questo caso per altro le famose salsiccie di Bologna si dice, che son fatte di carne d’asino (Voyages de Labat, Tom. II p. 218).
- ↑ Il nome del palazzo, del colle, e dell’annessa porta tutti eran derivati dal Senator Pincio. Alcuni recenti vestigi di tempj, e di chiese si sono adesso livellati al suolo nel giardino de’ Minimi della Trinità del Monte (Nardini L. IV c. 7 p. 196. Eschinard p. 209, 210 la vecchia pianta del Bufalini, e la gran pianta del Nolli). Belisario avea stabilito il suo quartiere fra le porte Pincia e Salaria (Procop. Goth. L. I c. 15)
- ↑ Dal farsi qui menzione del primo e del secondo velum parebbe, che Belisario, quantunque assediato, rappresentasse l’Imperatore, o conservasse l’altiero ceremoniale del Palazzo Bizantino.
- ↑ Dove ha egli trovato il Sig. Gibbon, che Silverio fosse accusato da testimoni degni di fede, e convinto dalla prova della sua sottoscrizione? Gli Autori che cita nella nota (1 p. 444) non dicono questo. Procopio, ch’era presente al fatto, così lo riferisce „Essendo nato sospetto (υποψιας), che Silverio Vescovo di Roma tramasse un tradimento co’ Goti, subito lo relegò in Grecia ec.„ ma questo pare al N. A. un testimone troppo secco e ripugnante a tal atto, quasi che Procopio fosse un uomo devoto e scrupoloso, o che nelle sue opere si dimostrasse addetto a’ Romani Pontefici, più che a Belisario: non sarebbe anzi più ragionevole il supporre, che il Segretario ed encomiatore del Generale avesse usato quella maniera di dire secca e concisa per cuoprirne quanto potea l’ingiustizia, e che in verità vi fosse anche meno che un sospetto contro la fedeltà di Silverio? Ma udiamo gli altri scrittori citati dal Sig. Gibbon: Augusta (dice Anastasio in vit. Silverii) misit jussiones ad Vilisarium Patricium per Virgilium Diaconum ita continentes: vide aliquas occasiones in Silverium Papam, et depone illum ab Episcopatu, aut certe festinus trasmitte eum ad nos.... Et tunc suscepit jussionem Vilisarius Patricius dicens; Ego quidem jussionem facio, sed ille, qui interest in nece Silverii Papae, ipse rationem reddet de factis suis Domino Nostro Jesu Christo. Et urgente jussione exierunt quidam falsi testes: qui et dixerunt: quia nos multis vicibus invenimus Silverium Papam scripta mittentem ad Regem Gothorum:. . . . . . . . . . . . . . . Asinaria, juxta Lateranas, et Civitatem tibi trado, et Vilisarium Patricium. Quod autem Vilisarius non credebat: Sciebat enim, quod per invidiam haec de eo dicebantur. Sed dum multi in eadem accusatione persisterent, pertimuit etc. Son questi i testimoni degni di fede? questa è la propria sottoscrizion di Silverio? Gibbon dirà, che questa descrizione è appassionata. Vediamo dunque Liberato: Belisarius vero (dic’egli) Romam reversus, evocans Silverium ad Palatium, intentabat ei calumniam, quasi Gothis scripsisset, ut Romam introirent. Fertur enim Marcum quemdam Scholasticum, et Julianum quemdam Praetorianum fictas de nomine Silverii composuisse litteras Regi Gothorum scriptas, ex quibus convinceretur Silverius Romanam velle prodere Civitatem. Secreto autem Belisarius et ejus conjux persuadebant Silverio implere praeceptum Augustae, ut tolleretur Chalcedonensis synodus, et per epistolam suam haereticorum firmaret fidem ec. Se anche questa è una testimonianza appassionata, noi domanderemo al Sig. Gibbon, quali son dunque le narrazioni vere ed imparziali, dalle quali esso ha tratto la notizia de’ credibili testimoni, che accusaron Silverio, e della propria di lui sottoscrizione? E frattanto ch’ei trova altre autorità opportune per il suo intento, avremo tutta la ragione d’approvar come giuste l’esecrazioni del Card. Baronio contro la patente e sacrilega ingiustizia di Belisario.
Nota dell’Editore Pisano.
- ↑ Procopio (Goth. L. I c. 25) è un testimone secco e ripugnante a quest’atto di sacrilegio. Le narrazioni di Liberato (Breviar. c. 22) e d’Anastasio (de. vit. Pont. p. 39) sono caratteristiche, ma appassionate. S’odano l’esecrazioni del Cardinal Baronio (An. 536 n. 123. An. 538 n. 4, 20) portentum, facinus omni execratione dignum.
- ↑ La vecchia porta Capena fu trasportata da Aureliano alla moderna porta di S. Sebastiano, o lì vicino (Vedi la pianta del Nolli). Quel memorabile luogo è stato decorato dal bosco Egerio, dalla memoria di Numa, da archi trionfali, da’ sepolcri degli Scipioni, e de’ Metelli ec.
- ↑ L’espression di Procopio contiene un tratto invidioso: Τυην εκ του ασφαλους την σφισι συμβησομενην καραδοκειν (Goth. l. II. c. 4) per osservare da un luogo sicuro il destino che loro accadesse. Egli parla però d’una donna.
- ↑ Anastasio (p. 40) gli ha conservato questo titolo di Sanguinario che potrebbe far onore ad una tigre.
- ↑ Questo fatto vien riferito nella pubblica Storia (Goth. l. II. c. 8) con candore o cautela: negli Aneddoti (c. 7) con malevolenza o libertà: Marcellino però, o piuttosto il suo Continuatore (in Chron.), getta un’ombra di premeditato assassinio sulla morte di Costantino. Egli aveva fatto buon servizio in Roma, ed in Spoleto (Procop. Goth. L. I c. 7 14). Ma l’Alemanno lo confonde con un Costanziano Comes stabuli.
- ↑ Dopo la partenza di lui non vollero più militare: venderono a’ Goti i loro schiavi e bestiami: e giurarono di non più combattere contro di loro. Procopio fa una curiosa digressione sopra le maniere e le avventure di questa vagante Nazione, una parte di cui finalmente passò a Tule, o nella Scandinavia (Goth. l. II c. 14, 15).
- ↑ Questo nazional rimprovero di perfidia (Procop. Goth. Lib. II cap. 25) offende l’orecchio di la Mothe le Vayer (Tom. VIII p. 163, 165) che critica l’Istorico Greco, come se non l’avesse mai letto.
- ↑ Il Baronio applaudisce al suo tradimento, e giustifica i Vescovi Cattolici, qui ne sub haeretico Principe degant, omnem lapidem movent: Cautela veramente utile! Il Muratori, più ragionevole (Annali d’Ital. Tom. V p. 54), accenna il delitto di spergiuro, e biasima almeno l’imprudenza di Dazio.
- ↑ S. Dazio fu più felice contro i diavoli, che contro i Barbari. Ei viaggiò con un numeroso seguito, ed occupò un’ampia casa in Corinto (Baronio An. 538 n. 89. An. 539 n. 20).
- ↑ Μοριαδες τριακοντα (trenta miriadi) Vedi Procopio (Goth. L. II c. 7, 21). Tal popolazione però è incredibile: e la seconda o terza Città d’Italia non dee lagnarsi, se noi solamente decimiamo il numero di questo testo. Tanto Milano quanto Genova risorsero in meno di trent’anni (Paolo Diacono De Gestis Longobard. L. II c. 38).
- ↑ Oltre Procopio, forse troppo Romano, vedansi le Croniche di Mario, e di Marcellino, Giornandes (in success. regn. presso il Muratori Tom. I pag. 241), e Gregorio di Tours (L. III c. 32 nel Tom. II degl’Istorici di Francia). Gregorio suppone una disfatta di Belisario, che presso Aimoino (De Gestis Franc. L. II c. 23 nel Tom. III p. 59) è ucciso da’ Franchi.
- ↑ Agatia L. I p. 14, 15. Quand’egli avesse potuto sedurre o soggiogare i Gepidi, o i Lombardi della Pannonia, il Greco Istorico crede, che sarebbe stato necessariamente distrutto nella Tracia.
- ↑ Il Re diresse la sua lancia, il toro gli rovesciò un albero sul capo, ed ei spirò nel medesimo giorno. Tal’è il racconto d’Agatia: ma gl’Istorici originali di Francia (T. II p. 202, 403, 558, 667) attribuiscono la sua morte ad una febbre.
- ↑ Senza perdermi in un laberinto di specie e di nomi, come di aurochi, di uri, di bisoni, di bubali, di bonasi, di bufali ec. (Buffon Hist. nat. Tom. XI e Supplem. Tom. III VI); egli è certo, che nel sesto secolo si cacciava una grossa specie di bestiame a corna salvatico nelle gran foreste dei Vosgi in Lorena, e nelle Ardenne (Greg. Turon. Tom. II L. X c. 10 p. 369).
- ↑ Nell’assedio d’Osimo a principio cercò di demolire un vecchio acquedotto, e quindi gettò nell’acqua, 1. de’ cadaveri: 2. dell’erbe nocive: e 3. della calce viva, che si chiama (dice Procopio L. II c. 29) τιτανος dagli antichi, e dai moderni ασβεσος. Pure ambedue queste voci si usano come sinonime da Galeno, da Dioscoride, e da Luciano (Henr. Steph. Thes. Ling. Graec. Tom. III p. 748).
- ↑ I Goti sospettarono, che Matasuiuta fosse complice del fatto, che forse fu cagionato da un incendio accidentale.
- ↑ A rigor filosofico sembra, che una limitazione de’ diritti di guerra nel nuocere al nemico implichi non senso e contraddizione. Grozio medesimo si perde in una distinzione fra il Gius di natura e quello delle Genti, fra il veleno e l’infezione. Ei pondera da una parte della bilancia i passi d’Omero (Odyss. A. 259 ec.) e di Floro (L. II c. 10 n. 7 ult.), e dall’altra gli esempi di Solone (Pausan. L. X c. 37) e di Belisario. Vedi la sua grand’Opera de Jure Belli et Pacis L. III c. 4 §. 15, 16, 17, e nella Traduzione di Barbeyrac Tom. II p. 257 ec. Io capisco però il vantaggio e la validità d’una convenzione, tacita o espressa, di vicendevolmente astenersi da certe specie di ostilità: Vedi il giuramento Anfizionico presso Eschine, da falsa Legatione.
- ↑ Ravenna fu presa non già nell’anno 540 ma nel fine del 539, ed il Pagi (Tom. II p. 169) è corretto dal Muratori (Annali d’Ital. Tom. V p. 62) che prova con un documento originale in papiro (Antiq. Ital. med. aevi Tom. II Diss. 32 p. 999, 1007, Maffei Istor. Diplom. p. 155, 160), che prima del 3 gennaio 540 era ristabilita la pace e la corrispondenza libera fra Ravenna e Faenza.
- ↑ Ei fu preso da Giovanni il Sanguinario, ma fu prestato un giuramento per la sua sicurezza nella Basilica di Giulio (Hist. Miscell. L. XVII presso il Muratori Tom. I p. 107.): Anastasio (in Vit. Pontif. p. 40) ne dà un’oscura, ma probabile relazione. Mascou (Istor. de’ Germani XII, 21) cita il Montfaucon per uno scudo votivo rappresentante la schiavitù di Vitige, che ora è nella Collezione del Sig. Landi a Roma.
- ↑ Vitige visse due anni a Costantinopoli ed Imperatoris in affectu convictus (ovvero coniunctus) rebus excessit humanis. Matasueuta, sua Consorte, che fu moglie e madre de’ Patrizi, Germano il Vecchio, ed il Giovane, unl il sangue Anicio con quello degli Amali. (Jornand, c. 60 p. 221 presso il Muratori Tom. I).
- ↑ Procopio Goth. L. III c. 1. Aimoino, Monaco Francese del secolo XI, che avea acquistato e sfigurato alcune autentiche notizie di Belisario fa menzione in suo nome di 12,000 pueri o schiavi, quos propriis alimus stipendiis, oltre 18,000 Soldati (Istorici di Franc. Tom. III. De Gestis Franc. L. II c. 6 p. 48).
- ↑ La diligenza dell’Alemanno non potè aggiunger che poco a’ quattro primi e più curiosi capitoli degli Aneddoti. Di questi straordinari aneddoti una parte può esser vera perchè probabile; e l’altra perchè improbabile. Procopio deve aver saputo la prima, e difficilmente potè inventar la seconda.
- ↑ Procopio ci fa sapere (Anecd. c. 4), che quando Belisario tornò in Italia (an. 543) Antonina avea l’età di sessant’anni. Una costruzione forzata, ma più gentile, che riferisce quella data al momento, in cui egli scriveva (anno 559), sarebbe compatibile con la virilità di Fozio (Goth. L. I c. 10) nel 536.
- ↑ Si confronti la guerra Vandalica (L. I c. 12) con gli Aneddoti (cap. 1), e l’Alemanno (pag. 2, 3). Questa specie di battesimale adozione fu rimessa in uso da Leone il Sapiente.
- ↑ Nel novembre del 537 Fozio arrestò il Papa (Liberat. Breviar. c. 22 Pagi Tom. II p. 562). Verso il fine del 539 Belisario mandò Teodosio τον τη οικια τη αυτου εφεσωτα (che presedeva alla sua casa) per una importante e lucrativa commissione a Ravenna (Goth. L. II c. 18).
- ↑ Teofane (Chronogr. p. 204) lo chiama Fotino, e genero di Belisario: ed è copiato dall’istoria Miscella, e da Anastasio.
- ↑ Il Continuator della Cronica di Marcellino esprime in poche decenti parole la sostanza degli Aneddoti. Belisarius de Oriente evocatus in offensam periculumque incurrens grave, et invidiae subiacens, rursus remittitur in Italiam (p. 54).
e comune. Vedi L’Art de verifier les dates, Dissert. Prelim. p. III, XII Dictionaire diplomat. Tom. I p. 329, 337. Opere d’una laboriosa società di Monaci Benedettini.
Demosthenem ap. Reiske Orat. Graec. Tom. IV p. II p. 34). Riducendo il numero delle navi da 500 a 50, e traducendo μεδιμνοι per mine, o libbre, il Cousin ha generosamente accordato 500 tonnellate a tutta la flotta Imperiale! doveva mai neppur cadergli ciò nella mente?
ignoti da Opsopeo, editore di Oracoli. Il P. Maltret ha promesso di farvi un commentario: ma tutte le sue promesse sono state vane ed infruttuose.