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dell'impero romano cap. xli. 381

[A. 533] Tosto che fu quietato il tumulto, le varie parti dell’esercito reciprocamente si comunicarono gli accidenti seguiti in quel giorno; e Belisario piantò il suo campo nel luogo della vittoria, a cui la pietra, indicante la distanza di dieci miglia da Cartagine, aveva fatto prendere il nome latino di Decimo. Per un savio sospetto degli strattagemmi de’ Vandali, e de’ mezzi che avean di risorgere, esso marciò il giorno seguente in ordine di battaglia; la sera fermossi avanti le porte di Cartagine; e prese una notte di riposo per non esporre nell’oscurità e nel disordine la Città alla licenza de’ soldati, o i soldati medesimi alle segrete insidie della Città. Ma siccome i timori di Belisario erano il resultato dell’intrepida e fredda ragione, ben presto conobbe che potea confidare senza pericolo nel pacifico ed amichevole aspetto della Capitale. Cartagine fu illuminata da innumerabili torcie, segni della pubblica letizia; fu tolta la catena che guardava l’ingresso del porto; furono aperte le porte; ed il Popolo, con acclamazioni di gratitudine salutò ed invitò i Romani loro liberatori. La disfatta de’ Vandali e la libertà dell’Affrica, s’annunziarono alla Città la vigilia di S. Cipriano, allorchè le Chiese erano già ornate ed illuminate per la Festa del Martire, che tre secoli di superstizione aveva quasi innalzato ad una locale divinità. Gli Arriani, vedendo ch’era finito il lor regno, consegnarono il tempio ai Cattolici che riscattarono dalle mani profane il lor Santo, vi celebrarono i sacri riti, ed altamente vi proclamarono il simbolo d’Atanasio e di Giustiniano. Una terribile ora rovesciò le fortune de’ contrari partiti. I Vandali supplichevoli che si erano sì poco tempo avanti abbandonati a’ vizi de’ conquistatori, cercavano un umil rifugio