Letteratura romena/VII. Letteratura contemporanea

VI. Letteratura contemporanea

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VI. Nicola Iorga e il «Semănătorul» Indice dei nomi
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Capitolo VII.


LETTERATURA CONTEMPORANEA (1).


Al «seminatorismo» ed a quella sua varietà posteriore che fu detta «poporanism» (popolarismo) ed ebbe il suo critico in Garabet Ibăileanu (1878-1936) e la sua rivista nella «Viața Romînească» (La Vita Romena); si opposero da principio alcuni poeti quali Duiliu Zamfirescu, il cui discorso inaugurale all’«Accademia Romena» fu tutta una carica a fondo contro non solo il «poporanism» ma persino contro la poesia popolare; Alexandru Macedonski (18g4-1920), i cui due volumi di poesie: «Fiori sacre» (Fiori sacri) e «Cartea nestematelor» (Il libro delle Pietre Preziose) anticipano il simbolismo; e, in certo modo, l'Anghel, il cui spirito raffinato rifuggiva naturalmente dalla primitività della poesia popolare; finche Ovid Densusianu (18731938) professore di filologia romanza all’università di Bucarest e delicato poeta egli stesso (sotto lo pseudonimo di Erwin) con una lotta strenuamente combattuta per venti anni di seguito, nella sua rivista «Viața Nouă» (La Vita Nuova), affermò i diritti della nuova scuola simbolista, seguito più tardi da Eugen Lovinescu (n. 1881), allievo del Faguet ed impressionista dapprima, poi decisamente «modernista», che, nei suoi volumi: «Critice», «Istoria Literaturii Române Moderne» e nella sua rivista «Sburătorul», organo del cenacolo del medesimo nome; è anch’oggi il capo riconosciuto della letteratura romena d’avanguardia. Menzioniamo qui la critica «sociale» di C. Dobrogeanu-Gherea [p. 160 modifica] (1852-1920) e quella sistematica di Mihail Dragomirescu (nato 1868) professore di Estetica letteraria all’Università di Bucarest, autore di diversi volumi («Stiința literaturii», «Critica științifică și Eminescu», «Dela misticism la raționalism», «Dramaturgia română»), che, staccatosi a un certo punto dal Maiorescu e dalle «Convorbiri literare», fondò e diresse le «Convorbiri critice», inaugurando un sistema basato sulla teoria del «capolavoro» con accentuata tendenza a sistematizzare e a classificare le opere d’arte con distinzioni un po’ artificiali di «plasticità», «emotività», «tonalità», ecc., ma che scoperse anche molti talenti di prosatori, poeti e autori drammatici, che poi si svilupparono indipendenti da ogni scuola e son oggi tra i migliori rappresentanti della letteratura romena contemporanea. Tra i giovanissimi, van menzionati Ion Trivale, seguace del Dragomirescu e morto in guerra giovanissimo, Pompiliu Constantinescu, seguace del Lovinescu e soprattutto Gheorghe Călinescu, i cui recenti volumi sulla vita di Eminescu e di Ion Creangă rappresentan veri capolavori di serietà scientifica e di finissimo buon gusto.

La letteratura contemporanea oscilla tra i due poli del «tradizionalismo» e del «modernismo». Alla prima appartengono i prosatori Livio Rebreanu, il cui romanzo «Ion» è tale da potersi mettere accanto ai migliori della letteratura europea contemporanea, quale p. es. «I contadini» di Ladislao Reymont, che forse supera in organicità e perfezione di taglio; Cesar Petrescu («Lettere d’un piccolo proprietario di campagna», «La sinfonia fantastica», «L’uomo del sogno», «Oscuramento», eccetera), Camil Petrescu («Ultima notte d’amore, prima di guerra», «Il letto di Procuste»); Ionel Teodoreanu («A Medeleni», «La Torre di Milena», «La ragazza di Zlataust», «Ballo in maschera», «Golia», ecc.); Corneliu Moldovanu («Il Purgatorio»); Gheorghe Brăescu («Arriva il signor Generale colla Signora», «Due volponi», «Il maggiore Botzan», «Il generale Passaguai», «Ricordi d’infanzia», ecc.), umorista finissimo ne’ suoi bozzetti di vita militare e descrittore vivace della vita familiare in Moldavia; Mircea Damian, umorista amaro e originalissimo; Damian Stănoiu che ne’ suoi volumi: «Monaci e tentazioni», «I fastidii di Padre Gedeone», «II confessore del[p. 161 modifica]le monache», «L’elezione della badessa», «I discepoli di Sant’Antonio», «Ragazze e vedove», «Camere mobiliate», ecc.), si compiace soprattutto di mettere in rilievo i lati comici della vita monastica con un umorismo bonario che, mentre ride delle innocenti manie dei suoi protagonisti, ce li rende al tempo stesso simpatici; D. D. Patrascanu autore anche lui di riusciti bozzetti umoristici; I. Ardeleanu, Jean Bart (Eugen Botez), Victor Eftimiu, Al. Cazaban, ecc.

Liviu Rebreanu è senza dubbio, oggi come oggi, lo scrittore più degno di rappresentare la letteratura narrativa romena contemporanea. Il suo romanzo «Ion» in due volumi («La voce della terra» e «La voce dell’amore»), tradotto in italiano (Lanciano, Carabba, 1930) dalla signora Agnesina Silvestri-Giorgi e presentato da me ai lettori italiani, è tale opera da potersi mettere accanto alle migliori della letteratura straniera contemporanea. Il suo naturalismo è talvolta brutale, il suo stile manca di ogni lenocinio della forma: ma tutto ciò non urta; forse urterebbe il contrario. Narratore nato, creatore di un’infinità di tipi, ha meritato di essere incoronato dall’Accademia Romena, di cui ora è membro effettivo, col «Gran premio Năsturel» per questo suo romanzo che è, senza alcun dubbio, il capolavoro della letteratura narrativa romena. I romanzi successivi, ad eccezione del «Bosco degli impiccati», tradotto anch’esso in italiano da Enzo Loreti e presentato da Luigi Tonelli (Firenze, «La Nuova Italia», 1930) che, dal punto di vista dell’organicità e della tecnica, è forse persin superiore a «Ion» e di «Răscoala» in cui ha ritrovato il vigore del primo romanzo di cui è la continuazione; rappresentano piottosto degli studii e dei tentativi di rinnovamento che delle opere d’importanza capitale.

Pure, anche in «Adamo ed Èva», in cui si descrivon le successive reincarnazioni di due anime innamorate in paesi ed epoche diverse, in «Ciuleandrà», analisi psicologica impressionante di una passione che finisce col delitto e la pazzia, e in «Crăișorul» (Il piccole Re), vita romanzata di uno (Horia) e dei tre eroi contadini della rivoluzione transilvana contro gli Ungheresi: Horia, Cloșca e Crișan; si trovan pagine degne di antologia, figure magnificamente disegnate, paesaggi colti con una immedia[p. 162 modifica]tezza e una felicità da vero maestro. Il seguito di «Ion» è intitolato «Răscoala» (La ribellione) ed ha come sfondo la ribellione dei contadini romeni del 1907 che fu soffocata nel sangue e segna una data funesta nella storia romena contemporanea. L’autore ha lavorato ad essa per molti anni tenendolo chiuso nel cassetto per molto tempo dopo averla finita, senza alcuna fretta di darlo alle stampe e, meno qualche pagina di un realismo eccessivo, può considerarsi uno dei più riusciti romanzi romeni degli ultimi anni. Meno riusciti sono «Gorila» (Il gorilla) e «Jar» (Brace) che vennero dopo.


Da «Ion» di Livu Rebreanu.

I.

LA TERRA.


Il tempo si ridestava. L’inverno, simile a un vecchio cattivo, si rattrappiva tutto sentendo l’avvicinarsi della primavera, sempre più carezzevole. Il manto di neve si riduceva a brandelli, scoprendo ogni giorno più il corpo nero della campagna... Ion non aveva avuto la pazienza di aspettar questi giorni. Padrone ora di tutte le terre, anelava vederle, accarezzarle come tante innamorate fedeli. Nascoste sotto i mucchi della neve, a mala pena aveva potuto, durante l’inverno, raffigurarle. Il suo amore aveva bisogno del cuore della tenuta. Desiderava sentir l’argilla sotto i piedi, sentirvisi attaccar le «cioce», aspirarne l’odore, empirsi gli occhi del suo colore inebbriante... Uscì solo senza arnesi, in abito da festa, un lunedì. Salì diritto verso la collina, dov’era l’appezzamento di granturco più grande, il migliore, sul discrimine della collina... Come più s’avvicinava, più discerneva la sua tenuta spogliatasi della neve come una bella ragazza che si fosse tolta la camicia e mostrasse senza più veli il suo bel corpo nudo tentatore...

Aveva l’anima compresa di felicità, gli pareva di non desiderar più nulla e che neppure esistesse in tutto il mondo un’altra felicità che non fosse la sua. La terra s’inchinava a lui; tutta la terra... Ed era tutta sua, solo sua, ora... Si fermò in mezzo al campo. L’argilla nera, appiccaticcia, gl’inchiodava i piedi, appesantendoglieli; attirandolo come nelle braccia di una amante appassionata. Gli ridevano gli occhi, e il viso gli si era tutto bagnato di un sudore caldo, appassionato. Lo invase un desiderio selvaggio di abbracciar la terra, di inchiodarvi sopra i suoi baci. Tese le mani verso i solchi dritti, grassi e umidi. L’odore acre, fresco e fecondo gli accendeva il sangue... Si curvò, prese tra le mani una zolla e la franse tra le dita con un piacere quasi pauroso. Le mani gli rimasero unte nell’argilla appiccaticcia, come se le avesse nascoste in guanti neri da lutto. Aspirò l’odore, fregandosi le palme. Poi piano, religiosamente, senz’accorgersene, cadde in ginocchio, abbassò la fronte ed incollò le labbra con voluttà sulla terra umida. E in quel bacio furtivo sentì un brivido freddo, fu preso da un capogiro... Si rialzò di botto vergognoso e si guardò attorno per assicurarsi

[p. 163 modifica]che nessuno lo avesse veduto. Ma il volto gli rideva di un piacere infinito.

Incrociò le braccia al petto e si leccò le labbra, sentendo ancora il contatto freddo e la dolcezza amara della terra.

In villaggio, giù nella valle, lontano, sembrava un nido d’uccello nascosto in un solco per paura del nibbio.

Si vedeva ora grande e potente come un gigante leggendario che avesse vinto, in aspri combattimenti, centinaia di draghi paurosi. Infisse meglio i piedi nella terra, come se avesse voluto soffocare gli ultimi guizzi di un nemico abbattuto. E la terra sembrava barcollare, inchinarsi davanti a lui.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


II.

LE ELEZIONI.


In quel momento entrò nella piazza Herdélea, seguito da cinque elettori, col viso illuminato da un sorriso timido, guardando un po’ impaurito a destra e a sinistra. Alcuni gridarono: «Viva!», ma subito una voce profonda urlò: «Vergogna! Rinnegati! Abbasso!» e subito tutta la folla scoppiò in un solo urlo d’indignazione, e, di tra le baionette, i pugni si agitarono contratti, minacciosi. Herdélea, atterrito, sentì un tremito ai ginocchi, ed il sorriso gli sparve dalle labbra, quasi vi fosse dipinto... Il gruppo degli studenti liceali cominciò a cantare per scherno: «Requiescat in pace» con acuti e falsetti ridicoli da carnevale, mentre gli altri non la finivano di gridare: «Vergogna!».

Tito, preso di botto da un’immensa pietà, ai nascose dietro le spalle del gendarme, guardando preoccupato suo padre invecchiato innanzi tempo, il cui viso appariva ora così pallido, che a mala pena si distinguevano i baffi piccoli e canuti. «Rinnegato!... Vergogna!... Traditore!... Abbasso!» gridavano centinaia di voci intorno a Tito, che levava in alto le braccia istintivamente, vinto dall’emozione e come se avesse voluto e potuto fermare per aria quella pioggia d’insulti che cadeva senza pietà.

Grofșoru, che non la finiva più di discutere con l’ufficiale, come scorse Herdélea, si voltò e lo apostrofò indignato: «Peccato, signor Herdélea, che proprio lei...». Il maestro si fermò senza poter articolare una parola. Ma l’ufficiale intervenne:

«Pardon! Vi prego di non terrorizzare gli elettori! Qui non è permesso di far pressio!» disse, mettendosi fra Grofșoru ed Herdelea. Quindi soggiunse rivolto a quest’ultimo: «Avanti, avanti, signori...». — «Protesto contro questa nuova violazione della legge!» — gridò Grofșoru, incominciando un nuovo battibecco coll’ufficiale. Davanti al municipio, il delegato Chițu strinse la mano a Herdelea e gli presentò un signore basso e tarchiato, cogli occhi d’oro e i baffi gialli e radi:

«Signor candidato, ecco uno dei nostri amici!... Mi permette?».

Il candidato tese la mano al maestro dicendogli macchinalmente:

«Ho molto piacere... Sarò sempre a sua disposizione... Sempre...».

Herdelea, rianimato, ascoltò le parole dell’ungherese come si ascolta un incoraggiamento, ed entrò nell’ufficio del segretario comunale, dove, a una gran tavola, sedeva un giudice del tribunale di Bistrița, secco, sparuto, con un gran naso appuntito, certi occhi piccoli, maligni, e un lapis in [p. 164 modifica] mano. Il maestro lo conosceva. Accanto a lui altri due giudici, sempre del medesimo tribunale, scrivevano i voti in certi formularii stampati. La stanza era piena d’uomini che squadravano gli elettori con sguardi diffidenti.

Herdelea s’avvicinò alla tavola col cappello in mano e il sorriso sulle labbra. Il giudice presidente del seggio lo fissò con uno sguardo interrogativo.

— Voto per il signor candidato Beck! — disse il maestro, appoggiandosi colla mano all’orlo della tavola e guardando il giudice negli occhi come avesse voluto pregarlo di ricordarsi bene e d’intervenire in suo favore il giorno del processo. Gli uomini dai formularii registrarono il suo nome e il presidente domandò indifferentemente e stanco:

— Appresso?

Il maestro si trasse un po’ da parte per far posto ai compagni:

— Tutti di Pripàs — mormorò al giudice che pareva non ascoltasse ed anzi si grattava dietro l’orecchio colla matita, guardando i colleglli che registravano i voti. Alle sei di sera il seggio proclamò eletto il candidato Bela Beck, a maggioranza di cinque voti.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Cesar Petrescu, autore delle deliziose «Lettere d’un piccolo proprietario di campagna» (Scrisorile unui răzeș) (2) e novelliere fecondo, dallo stile snello e fluido, stranamente misto però di trascuratezza giornalistica e di immaginismo modernista, ha pubblicato, oltre ad alcuni volumi di novelle, «La strada tra i pioppi» (Bucarest, a Cultura Națională», 1928) «L’uomo del sogno» (Craiova, «Ramuri», 1926) tradotto in italiano da Gioacchino Miloia (Roma, Istituto per l’Europa orientale, 1929); «Taccuino estivo» (Craiova, «Ramuri», 1928); i seguenti romanzi: «Sinfonia fantastica» (Bucarest, Ciornei, 1929) trad. in italiano da Augusto Garsia (Perugia-Venezia, «La Nuova Italia», 1929), «Calea Victoriei» (Bucarest, Ciornei, 1930), «Oscuramento» (due grandi volumi sullo stato d’animo determinato in Romania dalla guerra europea e dalle sue immediate conseguenze), «Il ballo meccanico» (Bucarest, Cartea Românească, 1931), «Partito senza lasciar l’indirizzo» (Bucarest, Ciornei, 1932), «Luceafărul» (Bucarest, Ciornei, 1934-36) interessante ro[p. 165 modifica]manzo in tre volumi sulla vita di Eminescu. Scolaro da principio del Sadoveanu, nelle sue ultime cose si differenzia da lui per un sentimento inquieto del tragico e del misterioso che ha talvolta dell’allucinazione e ne fa una personalità a parte della più grande importanza.


Da «L’uomo del sogno» di Cesar Petrescu.


Dalla novella LA NEVE.


Rimasti soli, tutti e due si evitaron collo sguardo. Lisetta lisciava col palmo della mano la tovaglia, aspettando qualcosa, una parola, il primo segno della riconciliazione. Giovanni Sârbu, che quasi si arrostiva le mani appoggiate contro la stufa di maiolica, la guardò attraverso le sopracciglia aggrottate come un nemico, poi volse in fretta gli occhi sul quadro dirimpetto, una cattiva litografìa rappresentante Ofelia riversa sull’acqua coi capelli sciolti.

Quando ne staccò lo sguardo, Lisetta piangeva. Senza singhiozzi, col capo leggermente gittato all’indietro, colle mani aggrappate al tappeto che copriva il divano, colle labbra strette. Le lagrime scorrevano silenziose una dopo l’altra dai suoi occhi sgranati, scivolavano in perle rotonde sulle guance, gocciolavano sulla camicetta bianca; e questa disperazione muta, senza agitazione, sciolse d’un tratto, come un’ondata rovente, il cuore di Giovanni Sârbu.

Quasi senz’accorgersene, si staccò dalla stufa e le prese le tempie tra le mani, asciugandole coi baci le acri lagrime:

— Povera Lisa, Povera Lisetta mia...

Il braccio di Lisetta gli cinse il collo con disperazione, gli si attaccò col viso al viso, così vicino che sentiva battere le sue ciglia come una carezza muta e sottomessa. Nel petto di lei compresso contro il suo, i battiti del cuore pulsavano rapidi sotto il seno schiacciato dall’abbraccio: povero battito d’un essere spaventato, annidatosi in quel riparo da dove lui voleva scacciarlo... Tacevano, mentre ad ambedue le parole avrebbero potuto apportare il balsamo desiderato. Ma le parole non venivano. Non sapevano più parlarsi, loro due. C’era tra loro come l’ombra d’un bambino morto. Volle parlare, ma non riuscì che a balbettare: Lizon, Lizon!...

E nuovamente tacquero.

La strinse più forte per scacciare i tristi pensieri. Ma la donna si staccò lentamente per ascoltare. S’udivano i sonagli d’una slitta che scivolava sulla neve verso l’angolo della via.

— Come allora! — disse lei rabbrividendo e attaccandosi nuovamente alle sue labbra quasi per bergli il respiro.

«Come allora»; come in quel pomeriggio in cui per la prima volta eran giunti in quella città. La neve, morbida come adesso, era caduta da poco sulle case. La città silenziosa pareva il rifugio agognato per il loro amore. Non c’era pericolo d’imbattersi in un conoscente. Non c’era nessun amico da evitare. Nessuno conosceva la loro storia. Immaginavano ormai la vita come staccata dal resto del mondo, vissuta solo da loro.

[p. 166 modifica]Li aveva portati una slitta leggera per le vie laterali, fra i giardini dei sobborghi cinti da steccati di tavole, coperti di neve, fra il sordo latrar dei cani quando passavano accanto a un granaio. Nella campagna, tra la nebbia della lontananza, si vedeva un monte coperto di boschi azzurrastri, la striscia del fiume dalle rive strapiombanti; si vedeva su d’una collina un podere col suo giardino disteso sulla costa e con le righe nere, diritte e geometriche delle viti sepolte nella neve. Il fumo s’innalzava diritto dai camini; un contadino con una pesante slitta di legno, si fece da parte appoggiandosi con una mano ai buoi color fumo, e li salutò amichevolmente. Tutto pareva nitido, candido, quieto e semplice.

Erano entrati nella stanza riscaldata con ancora negli orecchi il tintinnare dei campanelli; lui le aveva slacciate le scarpette piccole come i sandali di un bambino; e poi vi fu quel bacio lungo e interminabile su quello stesso divano dove ora erano seduti. Allora non avrebbero creduto che sui cuscini sgualciti di quel divano avrebbero un giorno soffocato i loro singhiozzi.

Le lacrime della donna ricominciarono a scorrere. Solo allora egli capì che quello era il terzo anniversario.

· · · · · · · · · · ·

La pietà lo soffocava. Si alzò, senza coraggio, per guardarla negli occhi.

— Lisetta... vogliamo andare in slitta?

Lisetta lo guardò sfiduciata, con le mani sul grembo della gonna, con occhi di pianto. Giovanni Sârbu arrossì. Le sue parole avevano avuto un suono falso. Oramai nella loro convivenza tutto era bugia e finzione.

Fuori non nevicava più. Solo qua e là le farfalle di neve si cullavan sull’aria, cadute dalle nuvole che si ritiravano verso oriente, scoprendo una metà azzurra di cielo. Giovanni Sârbu si sentiva leggiero. Buono. Quasi felice. Rallentò il passo fino alla piazza dove stazionavano le slitte per chiarire la decisione presa.

Si sarebbero fatti portare per le medesime viuzze d’allora, attraverso gli stessi quartieri eccentrici. I luoghi, la neve, il ricordo li avrebbero aiutati a parlarsi una buona volta, a spiegarsi per il bene di ambedue che cosa pensassero l’una dell’altro. Camminava ora diritto, felice, deciso. Aveva vinto se stesso. Amava lei solo, solo lei avrebbe dovuto amare. Aveva sofferto tanto, era invecchiata innanzi tempo. Le palpebre le si erano arrossate e le umiliazioni, le tristezze non confessate le avevano inciso di rughe gli angoli degli occhi. Con quanta fierezza portava prima la sua bella testina e il suo corpo svelto nei salotti dove l’aveva conosciuta prima di amarla!... Giovanni Sârbu si fermò a comperar dei fiori. Qualche garofano rosa pallido, il fiore che lei preferiva. Sarebbe stato il segno definitivo della riconciliazione ultima, definitiva. La fioraia, dai capelli e dalle ciglia rosse, li avvolse nella carta velina, lasciando fuori le corolle che emanavano un odor fresco di spezie. Solo quando glieli ebbe messi in mano, si risovvenne di lui e sorrise aggrinzando il brutto viso sparso di lentiggini:

— Il signor professore è un pezzo che non viene più qui. Un tempo...

Giovanni Sârbu non rispose. «Un tempo...». Perchè tutti spiano ogni suo passo come se fosse un malfattore? Che occhi insopportabili aveva quell’ebrea! Rossi, come quelli dei conigli. Sbattè la porta a vetri. Si sprofondò nella neve fuori del sentiero battuto, troppo stretto, e si scoprì con gioia improvvisa. [p. 167 modifica]

— Ah, signor professore! Uccello raro!... — si meravigliò la passante.

La signorina Emilia, sorella del suo direttore, gli tese la mano, alzandola solo a metà, perchè al gomito, da una parte e dall’altra, le pendevano attaccati a due strisce sottili di cuoio i pattini, che nel movimento fecero risonar l’acciaio. Giovanni Sârbu baciò la punta delle dita inguantate e si mise a camminare accanto a lei, saltando sopra i mucchi di neve.

· · · · · · · · · · ·

Solo quando erano per lasciarsi alla porta del pattinaggio la signorina Emilia s’accorse dei fiori avvolti nella carta velina.

— Oh quanto son belli!

Giovanni Sârbu glieli porse in fretta:

— Se permettete...

— Signor professore, non sono per me! Non voglio...

Girò sui tacchi e a piccoli passi eguali si avviò per il viale del giardino, verso il lago gelato, in fondo, tra gli arbusti violacei.

Giovanni Sârbu vide la veste azzurra allontanarsi, voltare per le curve del viale, saltare svelta e giovane con agilità di cerbiatta, gli ostacoli di neve. La luce sopra l’acciaio dei pattini scintillava con luccichii d’arma.

Fu o gli parve che anche lei si fosse voltata? Quanto era giovane... E che ciglia lunghe aveva, e com’eran luminosi i suoi verdi occhi con le loro striature dorale... E com’era vellutata la sua pelle, là, sugli angoli neri degli occhi che Lisetta era costretta invece a coprire con della cipria azzurra...

Ritornò lentamente verso la piazza in cerca d’una slitta. Pensò con infinita noia che Lisetta l’aspettava da tempo a casa, col cappellino in testa, sollevando impaziente un angolo delle tendine per vedere se lui apparisse all’angolo della strada. Trascinava i passi sempre più stentatamente. Tutto ciò che aveva pensato poco prima sembrava ora vuoto, assurdo, senza forza. Cosa si sarebbero detto? Cosa potevan dirsi ancora?

Dirimpetto alla bottiglieria Petrov gli si fece incontro il maggior Steriade, colla mantellina svolazzante, masticando una cicca spenta d’avana. Era allegro. Era nei suoi giorni di baldoria. Aveva bevuto e si capiva da lontano.

— Ecco il nostro prigioniero d’amore! — tuonò, posandogli la mano sulla spalla in segno di protezione. — Non ascolto scuse. Vieni a bere un aperitivo. Te ne racconterò una bella di Lola Braun!

Sârbu si lasciò trascinare. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non tornare a casa. Dentro c’era tutta la combriccola. Zio Tasica, caduto probabilmente nella fase melanconica, taceva fissando il bicchiere vuoto. Stefanuccio, l’archivista comunale, raccontava qualcosa di molto scandaloso all’orecchio di Madame Petrov, che l’ascoltava tutta rossa, cogli occhi pudicamente abbassati sul registro dei conti di cassa.

Giovanni Sârbu rincasò tardi, inciampando, con le soprascarpe slacciate, reggendosi in piedi a mala pena. Davanti a casa sua si fermò. L’ombra dei rami tremolava, azzurra e immateriale, sulla neve illuminata dalla luce elettrica. Aveva ancora in mano i fiori. Erano grondanti di vino, appassiti a furia di strisciarli sul banco. Prima di aprir la porta, si fermò a respirare con voluttà l’aria fredda della notte. Allora, di lontano, nella fantasia o nella realtà, da una strada, risonarono allontanandosi i sonagli di una

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slitta, sempre più smorzati, più spenti: il richiamo moribondo di un ricordo.

Giovanni Sârbu guardò ancora una volta i fiori. Poi li buttò nella neve, calpestandoli pesantemente col piede.

(Cesar Petrescu, La neve. Trad. di Gioachino Miloia).


Ionel Teodoreanu, nato a Iași (Moldavia) il 1898, col suo gran romanzo in tre volumi «A Medeleni» ha ottenuto alcuni anni fa il più gran successo librario che conosca la letteratura romena. Ricco di vizii e di virtù, questo romanzo, scritto in uno stile troppo lirico e immaginifico, in cui la poesia della vita romena di campagna in un «conac» di famiglia nobile e ricca, ma indolente e leggiera, riesce ad illuminar della sua luce purificatrice persin pagine di esasperato sensualismo adolescente, che si vorrebbero in una edizione definitiva veder soppresse dai tre volumi; rivela senza dubbio un artista, che, quando si sarà definitivamente liberato (il che non mostra d’aver fatto nei recenti romanzi «La torre di Milena» e «La ragazza di Zlataust») del dolce fardello della sua fanciullezza e adolescenza; potrebbe aspirare a uno dei primissimi posti tra i romanzieri romeni contemporanei (3).


Da «A Medeleni» di Ionel Teodoreanu.


LA BAMBOLA DI MONICA.


Dalle voluttà prolungate sorge la malinconia come un angelo custode malato di mal di mare. Questa volta era sorta dalla panna delle meringhe — per Olguzza — e da quella del «cataif» per Danuz. All’infuori del signor Deleanu, tutti eran gravi e taciturni attorno alla tavola. Monica aveva assaggiato appena il «cataif», la signora Deleanu non l’aveva neppur toccato. E neppur Profira. Però gli occhi suoi, quando s’incontravan col candore della panna che si spandeva fuori delle fette abbrustolite dal «cataif», divenivano umani come quelli dei cani affamati.

— Mamma, posso alzarmi? — domandò Danuz evitando di guardare il «cataif» e Olguzza.

— Sì, alzatevi tutti. Mettetevi i paltoncini e andate a passeggiare un poco all’aria aperta. [p. 169 modifica]Monica s’avvicinò alla signora Deleanu, le baciò la mano e disse piano, guardando a terra:

Tante Alice, ti prego il permesso di andare a letto.

— Ti senti male, Monica?

— No... ho solo un po’ di mal testa.

Non vorrei che ti fossi raffreddata. Bene. Va’ a letto. Danuz, licenziati da Monica.

— Perchè? — domandò Danuz, fermandosi contrariato.

— Perchè tu parti domattina prestissimo e Monica dormirà ancora. Su, bambini, baciatevi!

Monica tese le labbra; Danuz la guancia.

«Non mangio più in vita mia il ”cataif„ — pensava Danuz, sottraendo la guancia alle labbra di Monica, il cui alito gli aveva ricordato l’odiato sapore dolciastro della panna. E tenne la parola, lasciando per ora non baciato e rosso di vergogna il viso di Monica sotto gli occhi suoi indifferenti.

Monica chiuse la porta. Accese la candela. Tirò una seggiola accanto al canterano, e, salita su di essa in punta di piedi, prese un pacco avvolto in della carta velina. Rimise a posto la seggiola. E, invece di spogliarsi lei, cominciò a spogliar la bambola: Monica piccola.

Per due notti di seguito, dopo che Olguzza s’era addormentata, Monica aveva lavorato a una vestina bianca di seta — il contenuto dell’involto nascosto sul canterano — che la bambola avrebbe dovuto indossare invece di quella di seta nera che la bambola aveva portato senza interruzione dal giorno della morte della nonna... fino alla partenza di Danuz.

Le infilò prima le calze e le scarpette bianche, togliendole all’altra bambola avuta in dono dalla signora Deleanu. Quando fu venuta la volta della vestina, le dita di Monica tremarono più forte... Se non le stesse bene? se fosse troppo corta? «Dio, fa’ che le stia bene! Dio, fa’ che le stia bene!».

Le abbottonò l’ultimo bottone dietro le spalle e la pose sul tavolino da notte sotto la luce della candela.

— Dio quanto è bella!

Grassoccia, troppo rossa in viso e rigida nella sua attitudine ridicola, la bambola sembrava una miniatura di contadinotta in abito da sposa davanti al fotografo.

— Monica, tu sai perchè nel «basm» Făt-Frumos bacia Ileana Cozinzeana? Perchè Ileana Cozinzeana era bella, come bella era la bambola vestita a festa colla sua vestina di seta bianca.

Le guance di Monica ardevano. Il cuore le batteva forte. E quasi quasi le veniva da piangere, guardando la bambola, ch’era tanto bella, mentre lei...

Si guardò allo specchio. Vedendo la sua vestina nera e le scarpe impolverate, chinò gli occhi a terra. Non si guardò in viso.

Era troppo bella la bambola... E Danuz, e Danuz, — il cuore di Monica batteva come dopo una corsa — e Danuz si sarebbe innamorato della sua bambola.

Scotendo il capo, incominciò a spogliarsi in fretta. Si mise la carnicina da notte, si disfece le trecce, prese la bambola per le due mani, e, stringendola al petto, si guardò di nuovo nello specchio.

La bambola aveva la vestina bianca...

Monica aveva la camicia bianca...

La bambola aveva i riccioli biondi... [p. 170 modifica]Monica sorrise, — e arrossì, respirando profondamente. La bambola le somigliava. Aveva gli occhi neri, le ciglia compatte, una fossetta nel mento. Aveva dei riccioli biondi..., ma corti. Povera bambola! I suoi capelli non potevan servir da briglia a Danùz. — Ma sei così ben vestita! — la consolò Monica.

Rasserenata, tolse la candela dal comodino e la posò sullo scrittoio. Tutto era pronto fin dal giorno prima: e l’asticciuola col pennino nuovo, e l’inchiostro, e la lettera; una lettera di quelle minuscole, piccola come la cartina di una sigaretta, colorata, con un trifoglio sulla busta.

Lentamente, con una calligrafia appassionata, scrisse sul fogliettino a due righe:

«Monica ama Danùz con tutto il cuore...».

Sette vecchie parole su d’un fogliettino azzurro, sette cieli tropicali immensamente stellati.

Finito dì scrivere, si riposò, rilesse, ed aggiunse in lettere piccolissime: «Non andare in collera, Danùz!».

La vestina bianca della bambola aveva un solo segreto: una piccola tasca per la lettera d’amore. L’anima di Monica era bianca come la veste della bambola.

(Ionel Teodoreanu, A Medeleni. Trad. di Ramiro Ortiz).


Corneliu Moldovanu, n. a Bârlad (Moldavia) il 15 agosto 1863, ha fatto i suoi studii al «Liceul Internat» di Iași e all’università di Bucarest. La sua attività letteraria è svariata: poeta, romanziere, critico teatrale, giornalista. Ha preso parte alla fondazione delle riviste: «Pagoda Literară» ( «La Pagoda Letteraria») e: «Făt-Frumos» ( «Il Reuccio») della sua città. È stato critico teatrale dei grandi quotidiani: «Universul» («L’universo») e: «Viitorul» ( «L’Avvenire»). Per qualche tempo ha occupato la cattedra di «Letteratura Drammatica» al «Conservatorio di Musica e Arte Drammatica» di Bucarest. Più volte Direttore del «Teatrul National» di Bucarest, ha inaugurato l’epoca delle fastose messe in scena, come p. es. quella del «Faust» goethiano e nello stesso tempo dei bilanci attivi, equilibrando da ottimo amministratore le entrate colle uscite. È stato anche più volte Presidente della «Società degli Scrittori Romeni» (SSR).

Cultore del poemetto filosofico di tipo eminesciano, flaubertianamente estetizzante nel «Negoziante d’aromi», novella più lirica che narrativa e che però è da mettere colle poesie, Cornelio Moldovanu, «seminatorista» e descrittivo da principio, finì sotto l’influsso di Eminescu e del Cerna, e della critica razionalista dal Dragomirescu, col cader nella poesia filosofica, che trattò con dignitosa e spesso raffinata eloquenza. Poeta un po’ privo di [p. 171 modifica] slancio, ha, nella sua prima fase «seminatorista», sonetti deliziosi ispirati alla vita di campagna e ai costumi nazionali romeni. La figura del bifolco, che, sotto la tettoia della capanna, arrota soprappensieri la scure, quella del «boiardo», che, a capo della scalinata, dà gli ordini al colono e distribuisce il lavoro agli assalariati, chiama in fretta il fattore e gli domanda se ha cominciato la falciatura della segala («se la falce è entrata nella segala»); della principessa, che, amando contro la ferrea volontà paterna, ne teme i fulmini e crede

veder già un calesse
salir pian piano verso il monastero;


son vive e sentite e per di più disegnate con rara abilità ed eleganza di tratto. Poeta eminentemente classico nel culto della forma esteriore del verso sapientemente cesellato, dalla rima rara, abbondante e spontanea; le sue poesie, anche filosofiche, han tutte il decoro e il nitore di una nobile materia perfettamente dominata, lavorata e condotta alla massima finitezza formale.

Nel gran romanzo di costumi bucarestini «Il Purgatorio», di cui riportiamo una pagina, il Moldovanu non riesce che raramente a dar vita alle sue figure, che appaiono un po’ troppo ricalcate su quelle della realtà attuale e che perciò c’interessano fino a un certo punto. Bisogna però tenergli conto del tentativo coraggioso di darci un romanzo cittadino ben più difficile di quello rusticano che, dopo «La vita in campagna» di Duilio Zamfirescu e la splendida e feconda opera del Sadoveanu, ha ormai la sua tradizione letteraria; e della creazione di un dialogo romeno di salotto; mentre nei salotti romeni d’ordinario non si parla che... francese! E questo è molto di certo. Pagine degne di antologia non mancano in questo romanzo (che nella seconda edizione ha ottenuto un gran successo) ed anzi son copiose. Squisita e magistralmente scritta quella che riportiamo tradotta, in cui si descrive il rito pasquale della «Risurrezione» in una chiesa ortodossa della capitale, frequentata dall’aristocrazia. La fine purificatrice di questo romanzo, in cui tante brutture cittadine sono descritte a colori volutamente crudi, impressiona ed eleva (4). [p. 172 modifica] Da «Il purgatorio» di Cornelio Moldovani.


LA NOTTE DI RESURREZIONE ALLA CHIESA CRETZULESCU.


La notte sarebbe stata tiepida e tranquilla, se, di tanto in tanto, il venticello fresco d’aprile non avesse fatta sentire l’aspra carezza del suo soffio, scendendo dalle nere altitudini iridate dallo scintillante pallore delle lampade adamantine appese alla cupola gigantesca del cielo. Una quiete misteriosa palpitava nei vasti spazii della notte, rotta di tanto in tanto da candide luci, in cui gli occhi dei fedeli, spalancati verso il cielo, credevano intravedere sorrisi d’angeli ed ali di cherubini...

Ascoltando il consiglio dell’architetto, s’avvicinarono tutti alla porta del «pridvor» (5) ad ascoltar l’eco dei canti della funzione religiosa... Sanda, come se fosse la prima volta che andasse in chiesa, si sentiva l’anima come avvolta in un’ombra, inquieta, piena di meraviglia, come quando si visita un tempio sconosciuto. Con un misto di commozione e di curiosità, s’alzò in punta di piedi sugli scalini di pietra per poter vedere nell’interno ed ascoltare i cantici più da vicino, poi si fece largo, tra la folla... Nella chiesa dominava una semioscurità piena di mistero... Le figure dei fedeli sembravano sprofondate nell’ombra come i contorni dei vecchi santi, attenuati dal tempo e dal fumo, irrigiditisi negli affreschi murali. I candelabri spenti sembravan facessero oscillare i loro rami di bronzo coperti di gocce di cera, nell’attesa di essere accesi... Negli stalli scolpiti, dalla vernice caduta, sonnecchiavano teste di vecchi e beghine dalle guance flaccide, che a mala pena si tenevano in piedi, curve sotto il peso degli anni. In fondo si scorgeva la sfilata dei martiri e degli apostoli dipinti nelle nicchie dell’«iconostàs» (6) illuminate qua e là dalla fiammella di qualche lampada sgocciolante... Le «porte imperiali» (7), coi loro piccoli battenti di legno scolpito a colonnine attorcigliate, erano ancora coperte dal velo sacro, impedendo agli sguardi curiosi di penetrar nel recinto dell’altare, nel «sancta sanctorum» dove, in quella notte benedetta, doveva realizzarsi il simbolo supremo della redenzione del genere umano.

Mircea Trestian, nell’animo del quale — col ricordo dell’educazione religiosa che sua madre gli aveva infiltrata nel sangue fin dalla più tenera

[p. 173 modifica] età — s’eran destate tutte le voci della fede — risonanza d’una profonda eredità religiosa che si sprofondava nel passato sotto l’aspetto di innumerevoli «popi», «protopopi», monaci e pellegrini al Santo Sepolcro suoi antenati — fu presto conquistato dalla profonda commozione che la forza dell’atavismo aveva steso su tutti i suoi istinti, e, prendendo Sanda per mano, si fece largo tra la folla per avvicinarsi all’altare; poi tutti e due ascoltarono tendendo l’orecchio a capo basso in atteggiamento di preghiera, la funzione preliminare della Risurrezione... L’architetto, col viso illuminato da una luce interiore, vinto dal calore dei ricordi, riviveva nel passato gl’istanti indimenticabili di aspirazioni mistiche dolorose, di segreto ardore religioso, di fede ingenua, spontanea, irrazionale...

Quando Sanda, che s’era perduta anch’essa in una specie di fantasticheria religiosa, si volse verso di lui, vide gli occhi di Mircea Trestian brillar tra le lagrime senza che alcuna ombra di dolore ne avesse oscurata la serenità. Con uno sguardo in cui tremava tutta la tenerezza che in quel momento sentiva per lui, gli rivolse una tacita domanda ed egli rispose come sottovoce, sorridendo estatico; — Oh, nulla!... I ricordi!...

In quell’attimo le tende di seta disparvero senza far rumore e i battenti della porta imperiale dipinte con icone di santi si apersero. Dall’altare la luce invase la chiesa passando tra lo spazio vuoto rimasto tra i due battenti dorati, verso i quali si fissavan gli sguardi di tutti i fedeli... Un vescovo dai capelli bianchissimi, ma vigoroso, dalla ’ barba lunga, candida, e pettinata con molta cura, con in capo una mitra d’oro costellata di pietre preziose, dalle quali partivan raggi di fuoco, con sugli omeri una clamide di broccato a fiori di porpora e orlata d’un merletto d’oro lucentissimo; avanzò lento e solenne, scandendo ogni passo con un colpo del pastorale battuto sulla predella. Fermatosi davanti agli scalini tra i due grandi candelabri d’argento, benedisse con uno sguardo sovrano, non esente da certa teatralità, la folla dei fedeli, quindi ruppe il silenzio nella cadenza della formula tradizionale pronunziata con sonorità e fasto, mentre con cristiana liberalità tendeva verso la folla la fiaccola accesa:

— Venite a prender la luce!

Un fascio di candele si protese in fretta verso la fiaccola episcopale e fu lì lì per spegnerla... Il prelato sorrise forzatamente, poi, dopo uno sguardo di rimprovero, ritrasse la mano bruscamente, come volesse dire:

— «Accendete anche l’uno alla candela dell’altro!» — e, collo stesso passo solenne, ritmato dai colpi del pastorale sul pavimento, discese i gradini dell’altare e si diresse verso la porta del «pridvòr», attento a mettere i piedi solo sul tappetto scarlatto steso fino all’uscita come un sentiero di sangue.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Gheorghe Brăescu ed anzi «il maggiore Brăescu» come lo chiamano tutti (non tenendo conto della sua promozione a colonnello!) coi suoi bozzetti, novelle, e romanzi di vita militare è senza dubbio il più grande umorista ed uno dei più grandi narratori romeni contemporanei. Scrittore spontaneo e oggettivo, [p. 174 modifica] osservatore profondissimo, pieno di particolari desunti dal vero, ma selezionati da grande artista, felicissimo nella «punta finale; il Brăescu non è solo un osservatore della vita militare, ma anche di quella dei contadini che ci presenta oggettivamente coi loro vizii e le loro virtù (allontanandosi in ciò dal «seminatorismo») e della piccola borghesia romena. Nè è soltanto un umorista. C’è nella sua arte un elemento di tenerezza discreta, ma profondamente sentita ed affiorante delicata e poetica anche di sotto il velo pudico dell’ironia; che, coltivato, potrà purificare (come il lirismo del coro nella commedia greca) quel tanto di crudo e di volgare che è fatalmente connesso al comico. Non conosco in nessun altro scrittore nulla di più delicato dei «Ricordi d’infanzia» che il Brăescu vien pubblicando (8) nelle colonne della «Revista fundațiilor regale» e credo che abbia da guadagnare, non da perdere uscendo dal campo del puro umorismo e abbordando il romanzo di costumi. I capitoli del suo nuovo romanzo «I signorini», che ricordo aver uditi leggere da lui (meraviglioso lettore!) nel cenacolo dello «Sburătorul», ne son la prova migliore. Ciò non vuol dire che, ora come ora, il nome del Brăescu non s’immedesimi con quei veri gioielli d’arguzia che sono: «Viene il signor Generale colla signora», «Due volponi», «I cani di guerra», «Le due scuole», «La legge del progresso», «Il ballo della Prefettura» e tanti altri piccoli e grandi capolavori (fra cui il recente romanzo «II general Passaguai», il cui solo titolo ci fa ridere, ricordandoci le nostre più allegre ore di lettura, e, meglio ancora, il godimento spirituale squisito di quando, nel cenacolo dello «Sburătorul» abbiamo avuta la fortuna di ascoltarli dalla voce stessa dell’autore, lettore insuperabile, pieno di abilità e di malizia.

L’ISPEZIONE DEL COMANDANTE

di Gheorghe Brăescu


Sulla strada maestra di Cotroceni soldati cenciosi, sentinelle bene equipaggiate, corvées di uomini sudati, a piedi o su carri tirati da muli nostalgici, s’incrocian con cavalleggieri, carretti di lattai, carrozze di comandi guidate alla carlona, automobili rovinati che passano a grande velocità. Nuvole di polvere gigantesche oscuran l’aria, s’innalzano, si spandono, si [p. 175 modifica] dissipano all’orizzonte come la cenere di un vulcano in eruzione. Sui marciapiedi, all’ombra delle siepi, reclute dal berretto tirato indietro sulla nuca, parlottan sottovoce coi parenti venuti dal villaggio, uomini che nella fretta han calzato le scarpe dimenticando le calze, fuman col pensiero alle strettezze che han lasciato dietro di loro; donne bruciate dal sole, col fazzoletto da testa non annodato, colle piante dei piedi screpolate dal molto camminare, li guardan con occhi d’affetto, offrendo chi una gallina arrosto, chi uova sode rottesi nella bisaccia, chi pezzi di pane color di terra.

Un fischio stridulo annunzia l’arrivo di un comandante superiore. Comandi, strilli, bestemmie, scoppian da tutte le parti. I carrettieri, presi da panico, incitano i buoi che camminan lenti, ruminando calmi, con filamenti di bava pendenti dal muso, argentei e sottili come fili di ragni. La sentinella del cancello presenta le armi, il trombettiere suona a distesa, disperatamente. e la carrozza scompare, con gran rumore di ruote sul ponte del fossato, nell’ombra del viale. Ai piedi della scalinata è uscito incontro al comandante l’ufficiale di picchetto, che rapporta «che il servizio si è svolto conforme al regolamento e... agli ordini ricevuti», avrebbe voluto aggiungere, ma il comandante, vecchio e calvo, taglia corto con un gesto, e, lasciando l’ufficiale nel cortile della caserma, entra nella «segreteria» accompagnato da un sergente che ha in mano una mazza di nocciuolo tesa lungo i pantaloni.

— Bravo, Văcar, quell’animale poi non è stato di parola!

— Vedo anch’io che non è stato di parola...

— Ha finito le botti?

— Non le ha finite.

— Come sarebbe a dire: non le ha finite?

— Signor no; non le ha finite.

— Che dici? Com’è possibile che non le abbia finite?... S’era rimasti d’accordo che le avrebbe finite per sabato sera.

— Le avrebbe finite se ci fosse stato anche quell’altro, ma è rimasto solo quello delle doghe,... l’altro ha disertato...

— Se n’intendeva?

— Non se n’intendeva troppo chè era stagnaio...

— E quando pensa di farle?...

— Credo che le finirà presto.

— Bada, Vacar, sta’ attento. La settimana ventura comincio la vendemmia...

non voglio saper nulla... sei tu responsabile.

— Signorsì, ho capito.

— Hai mandati gli uomini alla vigna?

— Son partiti ieri.

— Per i polli chi hai mandati?

— Ho mandato Turlàn.

— Se n’intende?

— Io credo che se n’intenda... ha fatto la quarta elementare.

— Sa come si allevano?

— Come diavolo non dovrebbe saperlo?

— Che non te li rubino, sai! Che non muoian di sete, chè ne rispondi tu!

— Quelli sono affidati a me...

— Fatti tuoi; io non c’entro. Se muoiono, sarà meglio non comparisca più davanti a mia moglie.

[p. 176 modifica]

— Lo so; ho parlato ieri colla madrina.

— Il porco che fa?

— Fa... bene.

— Ha da mangiare?

— Gli avanzi del rancio.

— Gli bastano?

— Ne resta abbastanza.

— Perchè ne resta? Non è buono?

— È buono, ma ai soldati non piace.

— Hai altro da dirmi?

— Niente... Fate fare un rapporto perchè ci diano altri due uomini.

Non abbiamo più con chi fare il cambio della guardia.

— Ma dove sono gli uomini?

— Non lo sapete?... Quattro alla vigna, due da voi. a casa, uno...

— Fa’ un po’ di economia, Văcàr. Prendi quello del porco e fagli pascere anche i tacchini...

— No, quello lasciatelo stare dove si trova, chè ci sta bene. Se poi muore il porco, bella figura che ci fo io...

— Hai ragione anche tu. In fin dei conti, lascia le cose come stanno. Non è colpa nostra se dalla Divisione non ci danno gli uomini necessari!...

— Ce ne han chiesti anzi anche dalla Brigata...

— Questo poi!... Ma dici davvero? Cose proprio da pazzi!... Non si rendon conto che... Tu, giovanotto, che vuoi?

— Con rispetto, signor comandante, — dice con parole strascicate, soffocato dall’emozione, un soldato dall’aria melensa, mettendosi sull’attenti, colle scarpe tutte a brandelli. — Io, soldato Gurgui Nastase sono uscito a rapporto perchè mi diate il permesso di andare a casa in licenza, chè non ci sono stato dal Natale dell’anno scorso ed ho padre vecchio, e madre vedova ed altri fratelli non ho, chè son piccini, e non solo...

— Silenzio! E la guardia alla caserma chi la fa? Il Metropolita? Escimi fuor dai piedi, poltrone!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Mircea Damian, umorista amaro e sarcastico nei volumi «Io o mio fratello?» (Craiova, «Ramuri», 1924) e «Due uomini e un cagnolino» (Bucarest, «Cugetarea». s. d.), il cui umorismo un po’ alla Mark Twain, basato su situazioni assurde artificiali e meccaniche appar costruito a freddo e perciò assolutamente privo sì d’osservazione che d’umanità; nei suoi più recenti volumi «La cellula numero 13» (Bucarest, «Vremea», 1932) — interessante descrizione della prigionia sofferta per un suo coraggioso articolo in cui protestava contro i troppo numerosi incidenti automobilistici di un altissimo personaggio di cui rimanevan vittime 1 passanti — «Di traverso» (Bucarest, «Alcalay», 1936) e «Uomo» (Bucarest, «Alcalay», 1936); si rivela uno dei più interessanti e originali romanzieri romeni contemporanei. Ribelle e ina- [p. 177 modifica] dattabile, ma dotato di fortissima volontà e fiducia in se stesso, il loro protagonista riesce ad imporre la sua personalità e costruirsi, pur navigando contro corrente e non cedendo mai alle convenzioni sociali, un suo focolare e una sua felicità domestica, la sola cui sembri aspirare e che reputi degna degli sforzi di un uomo. Le pagine in cui appena uscito di prigione e senza un soldo in tasca, torna alla casa patema, e, tra lo scetticismo universale, comincia a dar disposizioni per i restauri dell’edificio caduto quasi in rovina, dichiara che d’ora innanzi amministrerà lui la tenuta oberata di debiti e progetta persino l’acquisto di una vigna, poi si butta a lavorare e riesce a mantenere quanto ha promesso; si leggono colla soddisfazione con cui si leggono tutte le vittorie dello spirito contro la realtà nemica.


Dal volume: «Io o mio fratello» Mircea Damian.


LE CONSEGUENZE DI UNA BUONA IDEA.

State a sentire.

Non avevo a quell’epoca alcuna occupazione. D’altronde non ne ho mai avuta. Nè arte, nè parte. Perciò ero libero come gli uccelli del cielo. E come gli uccelli vivevo. Non potete farvi un’idea di quanto sia bello non aver nè padroni nè servi. È vero che qualche volta la miseria mi schiacciava. Ma che vuol dire? Non ha detto Plutarco (se debbo dir la verità non posso giurar che l’abbia detto lui o un altro; ma il suo nome è stato il primo a venirmi in mente) che è bene abituar lo stomaco alla fame e l’animo al dolore?...

Dunque ero libero. La mattina m’ero svegliato con un’idea geniale, una di quelle idee che sfavillano assai di rado in una mente umana... E a mezzogiorno (sapete? quando le autorità ricevono in udienza) mi presentai colla mia idea nell’anticamera del podestà.

L’usciere mi domandò con cortesia:

— Il signore?

— Voglio parlare col signor Podestà.

— Il vostro nome?

— Tal dei Tali.

— Tal dei Tali?

— Sì, Tal dei Tali!

— Occupazione?

— Questa è bella! Non vi pare d’essere indiscreto? Che v’importa a voi della mia occupazione? E perchè poi ognuno dovrebbe avere un’occupazione?

— Scusate ma questo è l’uso. Il signor Podestà...

— Ebbene dite al signor Podestà che la mia occupazione è quella di vagabondo!

Avete capito? Di vagabondo! [p. 178 modifica]

L’usciere non mi credette. Dal suo sorriso impacciato compresi che non mi credeva. Lui — l’idiota! — pensava che volessi far dello spirito.

Finalmente il signor Podestà mi ricevette. Dopo, si capisce, avermi fatto attendere qualche minuto, perchè il signor Podestà dev’essere sempre molto occupato!... Lo trovai che passeggiava in su e in giù per il suo gabinetto, fischiettando e facendosi crocchiar le dita. «In fin dei conti» — pensai — «ogni uomo è libero di fare a casa sua quel che gli pare e piace!». Ed il signor Podestà era a casa sua. Bella stanza! Pitture, tappeti, la fotografia del Consiglio Comunale col Podestà proprio nel centro, il ritratto del Ministro degli Interni, alcune poltrone rivestite di pelle e uno scrittoio stile Luigi non so quantesimo...

— È bene esser Podestà, non è vero?

Il padre della città mi guardò meravigliato come una pecora sperduta, poi prese un atteggiamento grave e parlò:

— Egregio signore, prima di saper con chi ho l’onore di parlare, vi prego di non essere insolente, avete capito?

Non mi sentii offeso. Perchè avrei dovuto risentirmi? Quella era la sua opinione: che ero stato insolente. Benissimo. Io rispetto le opinioni.

— Piano, signor Podestà! — gli dico — non vi scagliate contro di me come un cane di macellaio. Dobbiamo discutere di cose molto gravi.

E mi sprofondai comodamente nelle braccia della mia poltrona di pelle.

— Oh come ci si sta bene da voi! — aggiungo per farmelo amico ed accendo una sigaretta fina, profumata, che tolgo da una scatola che il signor Podestà aveva sul tavolino.

— Ma,... signore! — protestò il padre del Comune — dite presto quel che avete a dirmi, e, vi ripeto, ricordatevi dove vi trovate e agite da persona bene educata.

Tacqui. S’usa così; quando s’hanno a dir cose importanti, bisogna pensare a lungo prima di parlare. È vero che il signor Podestà non fischiettava più, anzi osservai che teneva i pugni stretti.

— Son venuto con intenzioni pacifiche, signor Podestà, non vi preoccupate.

— Insomma, che volete?

— Non ho alcuna occupazione, non esercito alcun mestiere...

— Non ho posti vacanti! — s’affrettò a interrompermi.

— Fatti vostri. Che volete che me n’importi a me se al Comune ci sono o no posti vacanti? Non son venuto a chiedervi nessun posto!...

— Ma, signore!

— Vedete? Perchè vi agitate?

— Ma dite una buona volta che cosa volete da me!

— Signor Podestà, io son vagabondo... di professione, come si suol dire. Non ho parenti e non posseggo un centesimo; non ho nulla: nè moglie nè casa... in una parola comincio ad annoiarmi e, oltre a ciò, son povero in canna e mezzo nudo... come potete ben constatare. Ed ho pensato che — in fin dei conti -— perchè non dovrei vivere anch’io nell’abbondanza almeno per una settimana? Ovvero, se ciò non fosse possibile... finirla una buona volta e per sempre colle miserie della vita.

— Ma che diavolo m’andate dicendo? — si meravigliò il padre del Comune, un po’ rabbonito.

— Son venuto da voi — continuai, accendendo un’altra sigaretta — a proporvi un affare.

[p. 179 modifica]

Pausa e fumo.

— Dite!

— I vagabondi (non è vero?) si sotterrano a spese del Comune.

— Sì, a spese del Comune — rispose il signor Podestà molto incuriosito.

— E a qual somma, presso a poco, ammonta il totale delle spese per le esequie di tali individui?

— Che ve ne importa a voi?

— Me ne importa. A qual somma?

II Podestà mi disse una somma fantastica per la mia povertà. Sorrisi.

Si sarebbe potuto viver benino con quella somma per parecchi mesi.

— Ed ora ecco l’affare che vi propongo.

— Sentiamo!

— Se io mi suicidassi, bisognerebbe che voi mi faceste seppellire a spese del Comune. È vero o non è vero?

Il Podestà protestò di nuovo:

— Finitela una buona volta, caro signore!

— Come finirla, se voi non mi rispondete? È vero o non è vero che sarei seppellito a spese del Comune?

— Certo, se voi non avete nessuno che...

— Bene. L’affare è questo: io consento a vivere, se voi mi fate pagare dal cassiere la somma che dovreste spendere per il funerale di un vagabondo di prima classe. Giacché io sono un vagabondo d’eccezione... In ultima analisi, potrei cointeressarvi all’affare...

— Osate ripetere! — e cominciò ad agitarsi sulla seggiola.

— Pensateci bene, signor Podestà; se mi suicido, avrete molto filo da torcere: processo verbale, cassa da morto, carro funebre, corona di fiori, discorsi... invece così come vi dico io è semplicissimo: mi fate pagare dal cassiere la somma che dovreste spendere in tutte queste stupidaggini, ed io non mi suicido più...

Il Podestà barcollò come se qualcuno gli avesse assestato un pugno poderoso al cervelletto. Poi divenne livido, aggrottò le sopracciglia... in una parola prese in tutti i particolari l’aspetto di un uomo completamente uscito fuor dei gangheri. E cominciò a urlare:

— Voi siete pazzo! Fuori! Fuori! FUORI!

· · · · · · · · · · ·

Seguì una scena incomprensibile. Confesso di avere una memoria di ferro, ma non posso ricordare come mi son trovato in istrada! Ma quanto ad arrivarci, c’ero arrivato. E, senza alcun dubbio, molto velocemente. Mentre un vecchio signore compassionevole mi puliva il vestito dalla polvere — giacché si vede che avevo sceso le scale in posizioni diverse — m’accorsi che dicevo ad alta voce:

— Non capisco perchè ci debbano essere al mondo uomini tanto nervosi!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Damian Stanoiu, efficace rivelatore di certi aspetti comici dei monasteri ortodossi romeni, ha scontato il gran successo de’ suoi primi volumi, dei quali il primo («Monaci e tentazioni») fu premiato dall’«Accademia Romena», il secondo («I fastidii [p. 180 modifica] di padre Gedeone») dalla rivista parigina «Foemina»; con una attitudine sempre più riservata della critica verso le sue ultime produzioni, accusate, talvolta a torto, di prolissità nei lunghi discorsi d’argomento e stile ecclesiastico, nei quali invece consiste tutto il sapore del suo comico, che sprizza apunto dal contrasto tra quel linguaggio arcaico, solenne, tutto citazioni bibliche e sentenze evangeliche, e gli argomenti banali e non sempre edificanti che ne forman la materia. Certo, a furia di batter sullo stesso chiodo, e data la ristrettezza e l’uniformità dell’ambiente monacate, dal quale, pur avendolo tentato, non ha saputo evadere che per darci quadretti gustosi di vita contadinesca: lo Stămoiu ha finito coll’esaurime le risorse; ma, ciò non di meno, i primi volumi e molte altre pagine anche degli ultimi (come p. es, in quelle dei «Discepoli di Sant’Antonio», in cui i monaci di un monastero si propongono durante la quaresima di far digiunare anche gli animali colle conseguenze che si posono agevolmente immaginare, mentre essi stessi finiscono col lasciarsi tentare dalla gola) rappresentano una gustosa e bonaria satira della vita monacale che interessa e diverte. Pagine riuscite si trovano anche in «Fete și văduve» («Ragazze da marito e vedove») in cui i contadini sono — come talvolta nel Brăescu — visti nei loro lati comici, non idealizzati, come appaion di solito nella letteratura romena, specie degli autori appartenenti alla corrente del «Semănătorul» (9).

Damian Stănoiu. Dal romanzo «Il Confessore delle monache».


LE MONACHE SI PRENDON GIUOCO DI PADRE MACARIO,

LORO CONFESSORE.


La conversa di Suor Eudossia entrò all’improvviso, come una folata di vento, nella cella di Padre Macario, con un piatto ravvolto in un tovagliuolo, e s’inginocchiò davanti al confessore. [p. 181 modifica]

— Reverendo Padre, datemi la vostra benedizione e perdonatemi se son venuta a quest’ora... che forse Vostra Potemità sarà stanco...

— Non fa nulla, suor Nizza, chè nelle cose dello spirito non è la stanchezza che può esser causa di dannazione, ma la pigrizia e il sonno. Non mi dispiace d’esser destato all’improvviso e non esito neppur nel cuor della notte ad aprir la porta della mia cella, se qualcuno batte ad essa per motivi spirituali; giacché esistono spiriti notturni che turbano i pensieri e portan tentazioni; e il confessore verbigrazia, dev’esser pronto ad ogni istante a prestare il suo soccorso a tutti coloro che cercano il porto senza tempeste.

Suor Nizza scoperse il piatto.

— Guardi, reverendo Padre, Suor Eudossia vi manda qualche fetta di torta, perchè la vostra paternità se ne consoli.

Padre Macario rivolse uno sguardo interrogativo a Suor Anna.

— Accettatela, revendo Padre — l’incoraggiò Suor Anna — chè non è bene rifiutare i doni delle monache. Ne riceverete degli altri. Basta che abbiate stomaco buono.

Il vecchio palpò una delle fette, sempre più rischiarandosi nel volto, poi impartì alla torta la benedizione e le dette un morso.

— Sarebbe a dire, è ripiena di formaggio?

— Di formaggio, revendo Padre.

— Bene, suor Nizza. Dirai a Suor Eudosia che la ringrazio e che non certo per tentazione degli occhi nè per avidità dello stomaco ho accettato il dono della sua santità; ma perchè non si conviene rifiutar l’amor del prossimo. Sai che è proprio gustosa? Tieni, Suor Anna!

E porse il piatto vuoto alla conversa addetta al suo servizio.

Ma Suor Nizza non aveva finito. Si rovistò le tasche e ne trasse fuori una bottiglina di Cointreau.

— Ecco, reverendo Padre, anche questo vi manda Suor Eudossia.

Il vecchio restò colla mano in aria che teneva ancora stretto fra le dita un pezzo di torta e rivolse di nuovo uno sguardo interrogativo a Suor Anna, che strinse forte le mascelle per non iscoppiar dalle risa.

— Accettala, reverendo Padre, chè questa è una bevanda dolce che non fa male affatto... ed è molto indicata contro i raffreddori. Non è vero, Suor Nizza?

La conversa addetta al servizio di Suor Eudossia capì e represse a stento una risata:

— Proprio così, revendo Padre,...s’è accorta Suor Eudossia, mentre la confessavate, che la voce vostra era un po’ rauca...

Il confessore prese la bottiglina e la guardò con attenzione, facendola girar tra le dita e sforzandosi a capir qualche parola dell’etichetta francese.

— Sarebbe a dire, è buona contro il raffreddore?

— È buona, reverendo Padre.

— Se così è, sarebbe a dire, è giunta a tempo. Chè anche la gola, quando è malata, ha bisogno di medicine e così Suor Anna, poveretta, non sarà obbligata a prepararmi una farinata di latte, uova e zucchero.

La conversa del confessore portò un cavatappi e stappò la bottiglina. Padre Macario gustò un sorso e parve soddisfatto.

— Non è vero, revendo Padre, che accarezza la gola?

Padre Macario bevve un altro sorso.

— È vero, ma ho paura che, per quanto dolce e carezzevole, non sia anche inebbriante... chè in tal caso, sarebbe a dire, il raffreddore passerebbe ma Satana danzerebbe.

[p. 182 modifica]

— Non lo pensate neppure, reverendo Padre, — lo incoraggiaron le suore.

(Padre Macario, nella buona intenzione di guarir presto dal raffreddore, beve a sorso a sorso tutta la bottiglina e gli effetti non tardano a farsi sentire: il reverendo padre incomincia a cantar l’ufficio dei morti com’era solito fare quando, temendo d’esser caduto vittima di qualche tentazione, voleva ricordare a se stesso che l’uomo è mortale e non sa l’ora della sua morte. Le monache, vedendolo ubbriaco, diventano più ardite).

— Reverendo Padre, — saltò su Suor Anna all’improvviso — perchè avete un naso così a peperone?

Il vecchio si toccò il naso colla mano, come se volesse sincerarsi della verità del paragone e rispose colla massima calma, senza mostrarsi punto offeso:

— Il mio naso, Suor Anna, è, come sarebbe a dire, come Dio ha voluto che fosse e non è colpa mia nè de’ miei genitori se non è uscito più bello. Ma, sarebbe a dire, credi forse, sorella, che il naso rappresenti qualcosa d’importante nella vita d’un uomo? Aiuta esso forse alla salvazione dell’anima? O ti può dar maggior saggezza di quella che Dio ha posta in te? O per avventura un soccorso o un consiglio quando l’anima fosse in pericolo di commettere peccato mortale? Neppur per sogno! Non è che una parte del corpo umano, di cui ti puoi servire, sarebbe a dire, indifferentemente, o che sia appuntito, o schiacciato, o a peperone come il mio; e chi giudica l’uomo dal naso mostra di non essere in stato di capire che cosa c’è nella testa dell’uomo cui il naso appartiene. Tu, Suor Anna, hai un nasino quanto è possibile grazioso. Ma, se, all’infuori del naso, il sommo Iddio non ti ha concesso altro bene, di quale utilità potrai essere a te stessa e a’ tuoi simili? E con qual viatico ti porrai in viaggio, quando sarà l’ora della morte? E che diresti di una monaca che bisbigliasse a un’altra: «Non voglio confessarmi a questo confessore, perchè brutto naso ha e fatto a mo’ di peperone?

— Benedite e perdonate, reverendo Padre! — disse Suor Anna, tutta rossa di vergogna, inginocchiandosi davanti al confessore.

— Benedetta e perdonata sii da Gesù Cristo nostro Signore chè troppo giovane sei e troppo sciocchina. Ma non creder, sorella, che le parole che m’hai rivolte m’abbian ferito. Il saggio non si offende mai: neppure se un pazzo, irritato d’essere incespicato in un sasso, lo raccoglie e glielo scaglia in capo. E, quanto a rattristarsi, si rattrista solo quando le sue parole non son comprese da chi dovrebbe comprenderle. Inoltre io questa sera mi sento un po’ filosofo. Giacché non è bene che il confessore sia solo un tiranno che dà l’assoluzione o infligge penitenze gravi e difficili a osservare. Egli deve talvolta essere un po’ filosofo...

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Tra i poeti crediamo dover segnalare Dimitrie Nanu, Corneliu Moldovianu, G. Talaz, G. Gregorian, e soprattutto Nichifor Crainic («I doni della terra», «Pianure natie», ecc.), che, con Ion Pillat («Sogni pagani», «Il giardino tra i muri», «Risalendo il corso dell’Argeș», «Limpidezze», ecc.) rappresenta la personalità più importante della tendenza «tradizionalista». [p. 183 modifica]Dimitrie Nanu è poeta nobilissimo, ma rimasto un po’ nell’ombra per non esserci deciso a riunire a tempo le sue poesie10 in volume. Più ispirato e affettivo del Cerna, avrebbe potuto conquistare una fama ben maggiore di quella di cui gode attualmente, se avesse saputo profittar dell’atmosfera poetica di trent’anni fa, quando il poemetto filosofico di tipo eminesciano era ancora di attualità. Oggi, piuttosto che a «Gli atolli» noi ci fermiamo alle poesie crepuscolari intitolate «Un nido» (la vecchia casa paterna di Câmpulung) e «Ritorno al focolare» (dopo la guerra) che son vive anche per noi e ci ricordano in certo senso la «Casa paterna» di G. F. Damiani con in più un vivo senso di attaccamento alla terra per cui il poeta si sente una cosa stessa coll’albero che ne succhia l’umore e come lui ne vive:

Sono le linfe ascose
che mi ribollon nel sangue che l’ha succhiate,
nella foglia e nel cervello son penetrate,
e il loro corso in noi è ininterrotto.

Bevemmo alle stesse sorgenti fredde,
col vostro frutto la mia fame soddisfeci,
della foresta i violini ascosi
e me e voi rasserenarono.

(«Ritorno al focolare». Trad. di Ramiro Ortiz).


UN NIDO

di Dimitrie Nanu

La mia casetta non è fabbricata in pietra,
non ha scale di marmo, e neppur tende.
Solo due nonni ridon miti alle pareti
e sembran vivi quando il fuoco palpita.

Intorno a casa mia non ci son parchi,
fontane con zampilli argentei di spume,
recessi verdi ombrosi dai quali amorini
di marmo tendan l’arco.

Lontano, in fondo agli anni, veggo la fanciullezza...
Una frotta di monelli rumorosi
da noi viene ogni sera, che nell’aia
e nella nostra casa ride l’allegria.

[p. 184 modifica]

Di luglio il giardinetto è silenzioso;
sui grandi rosai si radunati l’api,
penzolan rossi i grappoli del ribes
e nei viali è una cara pace.

Un nido di ricordi è la casetta mia:
e un sogno sussurra al cuore, carezzevole:
— «Se torni a varcar la vecchia soglia,
resta con noi, fanciullo, eternamente.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Di Corneliu Moldovanu abbiamo già parlato. Diamo qui per intero la poesia «La Principessa» che appartiene alla fase «seminatorista» che ci par la migliore del nostro poeta:


LA PRINCIPESSA.

di Corneliu Moldovanu

Nell’ombra si sprofonda la corte boìeresca,
s’odono ai cancelli cader le saracinesche,
nelle sale le fiaccole si spengono ad una ad una,
ed i servi cominciano a sonnecchiare.

Cade dall’alto dei cieli il pio don della pace,
s’addorme la natura in sogni luminosi,
ma alla finestra della torre che s’apre sul giardino
una principessa piange col capo tra le mani.

Violenta è la passione d’un cuore innamorato,
crudele è del genitore l’inflessibile volontà:
attraverso il velo delle lagrime le par vedere un calesse
salir lento la via del monastero.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


La poesia di Gheorghe Talaz (Gheorghe Antonescu), pur essendo anch’essa più epica che lirica, ha un accento nuovo, per cui entra a far parte della poesia contemporanea. Sia che descriva l’origine, la vita e la morte di una sorgente («Cantico d’una sorgiva»), che, dopo mille affannose avventure si perde nella gran pace del mare, dove però non è più sè stessa; sia che descriva «Il sonno della serpe», che dormendo succhia il tossico che le stilla dai denti e diventa sempre più velenosa, mentre, al disopra del suo nascondiglio sotterraneo, «ode» (e ne sente l’«urto sul capo») come «passa veloce il fremito della vita»; sia che racconti («Sole») come, dopo aver sfaccettato un dia[p. 185 modifica]mante con lungo lavoro, si accorga che, senza la luce dell’astro caldo e radioso, la sua gemma è scura come un granello d’argilla; si tratta sempre d’una proiezione nel cosmico di un fatto naturale, che finisce per diventare un simbolo. Ineguale nello stile, qua e là raffinato, spesso trasandato e prosaico, G. Talaz può definirsi col Lovinescu (1) «un poeta descrittivo delle forze ctoniche».

Riportiamo di lui due belle strofe:

Mi traversano e legano
nervature di fiamma
e tutta la mia creta
si strugge nel fuoco.

E per che in noi splendori,
o immensità, tu innalzi,
e il cielo canti in me
un inno alla sua luce.

(Da «Purificazione». Trad. di Ramiro Ortiz).


Eloquente, ed anzi di tanto in tanto retorica, ossessionata dalle idee di «infinito», «caos», «nulla», «voragine», «vuoto», «sogno», la poesia di George Gregoriàn (n. 1886) è più filosofica, ma meno moderna di quella del suo fratello d’arte Talaz. Il Dragomirescu, facendo la solita confusione tra fondo e forma, la definisce così: «Dotato di una profondità innegabile, che ha la sua radice nella regione mistica del nostro spirito, il pessimismo del Gregoriàn si differenzia da quello di Eminescu per una sfumatura di psicologismo patetico e di serenità olimpica, che gli assicurano uno dei primi posti nella nostra poesia contemporanea». Il che sarà vero, ma riguarda la materia, non la forma poetica del Gregoriàn, che, come abbiam detto, è più che altro retorica, nel senso tutt’altro che peggiorativo che a me piace dare a questo aggettivo.

Un bel brano di «eloquenza» se non di poesia pura è il sonetto intitolato «Nel nulla», di cui tentiamo dare una traduzione:

NEL NULLA

di George Gregorian

Sull’alba ho calzato sandali d’acciaio
e senza meta in via mi son messo
per strade lunghe d’oro, e son ristato
ai confini della terra, sotto il cielo.

[p. 186 modifica]

L’occhio m’era di spazio affamato,
m’ardeva folle la sete del mistero,
ed ho osato chiedere all’Abisso
una manciata del suo granaio colmo.

Volevo saziarmi l’anima, e di nuovo
per strade lunghe d’oro camminare
verso i margini della terra, ad occidente.

Radioso volevo giungere come un messo,
ma il confin della terra dà nel vuoto
ed ivi son restato, eterno pellegrino.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


La poesia di Nichifor Crainic ricorda talvolta gli accenti maschi e melanconici della poesia carducciana. Le «Terzine per gli amici» e le «Terzine patriarcali» soprattutto rappresentano l’equivalente (non più che l’equivalente) di «Davanti San Guido» e dell’ «Idillio maremmano». Persino nelle lodi del vino, dell’amicizia e nel modo di rappresentar la figura di Gesù (nei meravigliosi distici di «Gesù tra il grano») si sente un’anima carducciana, forte, ottimista, strettamente legata alla nazione che gli ha dato i natali, adoratrice della tradizione, qua e là visibilmente melanconica. Nichifor Crainic ama la vita e non può pensare alla morte che con dolore:

Queste vette d’abeti,
che dal cielo fan cadere la resina,
queste viti che si piegano,
verde cascata, oltre il muro;
io domani non le vedrò più,
domani io non le vedrò più!

(Da «Elegia» Trad. di Ramiro Ortiz).


Le pianure dalle linee ondulate, dai fertili solchi, in cui il meriggio sembra addormentarsi stanco all’orizzonte e giacere nel caldo dell’estate nell’infinito della sua indeterminatezza, gli stan sempre davanti agli occhi, gli suggeriscon quadri di paesaggio che rivaleggiano con quelli del Grigorescu:

Portando carichi di spighe passan carri pesanti
coi buoi muti lungo le strade polverose
e la «dóina» che nel fuoco del cielo si dilegua
mi torna in mente cogli anni della fanciullezza;
(«Pianure natie»).

[p. 187 modifica]

modellano la sua sensibilità e il suo carattere:

Io non conosco la rivolta con divincolamenti di tempesta:
la mia sensibilità scorre senza ribollir d’onde,
come i nostri fiumi si contenta e si placa
col lungo abbraccio delle sponde.
(«Pianure natie»).

Nichifor Crainic non è infatti un ribelle. Figlio di contadini, legato alla terra, ne comprende le leggi eterne, buone e sagge, lasciandosi trasportar dalle onde del fiume della vita, senza mai nuotar contro corrente, convinto che «tutto scorre» e che l’infelicità consiste proprio nel nuotar contro corrente. La stessa poesia per lui non è qualcosa di molto diverso dall’arare:

Quando tu aravi con un trillo di «dóina» in bocca,
sotto l’arco dei cieli ondulati,
ho imparato il ritmo del verso
dalla simmetria dei solchi arati,


dice al padre in quel gioiello di poesia ch’è «Il poeta», e, poco appresso:

Tu scrivi anch’oggi coll’aratro la primavera
e della terra la feconda poesia,
io — grave ma dolce — ho accettato il compito
di dipinger la divina sua grandezza.


Il suo sogno è quello del Carducci nell’«Idillio maremmano»:

Una casa — sogno bianco degli anni fuggiti —
mi par veder piegarsi un poco obliqua
sul molle pendio dell’Argeș inclinata.

· · · · · · · · · · ·

Là nella casa bianca e familiare,
sotto i rami curvi dall’abbondanza dei frutti,
ritmati da una profonda vita concorde,

· · · · · · · · · · ·

con notti tra ragnateli di silenzio,
su cui tu tessa con filo di «borangic»
bei veli fini come un soffio di zefiro,

· · · · · · · · · · ·

per avvolger l’icona di un santo martire
come faceva mia madre, quando
io ero un bimbo semplice ed ignaro

· · · · · · · · · · ·

e stanchi viatori per strade di campagna
da noi si fermino gli uni dopo gli altri
a gustar la tua voce familiare.

[p. 188 modifica]Bel sogno; ma la poesia finisce con un verso amaro;

Oh, se fossi stata quella che non eri!


che ci fa pensare alla fine anch’essa amara dell’«Idillio maremmano».

Non possiamo però chiuder queste parole sulla poesia di Nichifor Crainic senza citare almeno qualche verso di «Gesù tra il grano», che rappresenta la corda mistica della sua cetra:

Tra il grano maturo dove corre il serpeggiante mio sentiero,
che fugge lontano nell’oro glorioso del tramonto,

mi è sembrato, Gesù, che tu passassi come facevi quando
gustavi camminando l’amicizia dei pescatori di Galilea..

...Passavi e sanguinava in te la caccia degli oscuri sinedri,
all’orizzonte ti aspettavan gigantici con rami difensori i cedri.

E a me pareva seguirti nello stuolo dei discepoli
e anch’io stritolavo per cena le spighe tra le palme.

Ero — penso — troppo del mondo e troppo poco tuo
poi che terrene cure, Signore, m’avevan ritardato per via.

Sul medesimo grano d’oro scende il medesimo glorioso tramonto
ma non ascolto più le tue parole che gli evangelisti non han dette.

Passaron secoli e con essi m’è parso che tu di nuovo passi
e cerco la tua orma luminosa nel fango per baciarla.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Un poeta intimamente tradizionalista — se pure in forme nuove — è, senza dubbio, Ion Pillat, rievocatore del passato in «Risalendo l’Argeș» e in «Dal mio villaggio». Imparentato colla storica famiglia dei Brătianu, il Pillat si sente legato alla terra de’ suoi avi, simpatizza col pastore, col bifolco, persino con l’ebreo del suo villaggio, testimoni tutti di un’umile vita secolare, che assurge, ne’ suoi versi, a dignità di simbolo; ma non dimentica («I nostri vecchi») le grandi figure storiche del suo paese. Non molti anni fa ci ha dato un libro di poesia sentimentalmente religiosa: «Il racconto della Madonna».

Diamo qui per intero «Qui arrivò un giorno» e qualche poesia dei suoi ultimi volumi che ci sembran degne d’esser conosciute dai lettori italiani. [p. 189 modifica]

QUI ARRIVO’ UN GIORNO...

di Ion Pillat

Nella casa del ricordo con persiane e terrazze,
i ragni han messo le grate ai cancelli.

Ma il camino non fama più, pigro, la sua pipa
da quando lottaron nel bosco gendarmi e briganti.

Camminando verso l’orizzonte, invecchiarono i pioppi.
Qui arrivò altra volta mia nonna Calliope

e impaziente il nonno scrutò dalla terrazza
se mai vedesse dondolarsi la berlina tra i campi di segala.

Non c’eran treni allora com’oggi e, dalla berlina,
saltò a terra leggera una giovinetta in larga crinolina.

Mirando con lei la luna splender sui campi come su Tonde,
le recitò mio nonno «Le lac» di Lamartine.

Lei ascoltava in silenzio guardando lontano cogli occhi suoi di pervinca
e tutto era romantico come nelle fiabe,

Ma, mentre era accanto, sonò una campana
(a festa o a morto?) dal campami del villaggio.

Da molto è morto il nonno, la nonna è vecchia...

Che cosa strana: il tempo! A un tratto sul muro
tu vedi persone vere nei pallidi ritratti.

Ti riconosci in essi, ma non colle tue sembianze,
che se il corpo tuo t’oblia, tu obliar non lo puoi...

Ma, se ieri giunse la nonna,... oggi sei tu che giungi
e dietro la sua berlina la tua carrozza sta.

La stessa strada ti portò attraverso i campi di segala,
come lei alla scala t’awii passando sotto il porticato.

Lieve sfiori la sabbia su cui posò il suo piede.
Colle cicogne in essa il tramonto si fermò.

Ed hai trovato, sorridendo, che troppo ingenuo ero
quando t’ho sussurati i versi del buon Francis Jammes.

E, quando a notte il piano fu lago steso sotto la luna,
e ti recitai la «Ballata alla luna» di Horia Furtuna,

m’ascoltasti pensosa con occhi d’ametista
e ti parvi romantico e forse simbolista.

E, mentr’eravamo accanto, sonò una campana
(a festa o a morto?) al campanti del villaggio.

(Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 190 modifica]

ELEGIA

di Ion Pillat

Se mai morrò lontano dalla città
nel solco nero dell’aratro, nel campo mio
lasciatemi giacer supino, nudo
con una ghianda di quercia in mano...

E la mia forma d’argilla che non seppe
esser l’anima di un tempio
dissolverà l’inutile suo compito
nel seno della terra accoglitrice.

Ma la ghianda germinerà. D’anno in anno
sempre più fonde cresceran le radici
e da me uscirà un albero
dai giovani rami protesi verso il sole.

Ciò cui non giunsi con mille poesie
ecco otterrà una frasca tesa al sole
facendo tremolar l’ombra sua fresca
sul riposo delle greggi che verranno...

(Trad. di Ramiro Ortiz).


OVIDIO

di Ion Pillat

La prima stella occhieggiò all’orizzonte. Il vento
soffiò tra i canneti con ala d’uccello palustre,
poi ristette. S’udì all’improvviso
muggir lontano l’onda del mare
salendo sempre dalla parte della costa.
Quando lo vidi venir lento e solo
colla testa china, un po’ com’uno
che da molti anni discorre col deserto,
m’allegrai, che da molto atteso avea l’incontro.
Attraverso gli stagni in cui tristi giuncheti
sospiran lungamente con voce umana
l’intero giorno cacciato avea e, col fucile
sull’omero, verso la città tornavo
che Tomi fu una volta ed oggi è altra.
Per la pianura riarsa dall’autunno
sapevo che sarebbe venuto l’atteso
poeta, che, oltre la morte, piange il suo dolore.
Ma gli occhi suoi, vecchi di tanti secoli,
non mi videro. Sotto le lor bianche ciglia
guardavan fissi verso la sponda, dove nella notte
chiara s’udia la nettunia voce del mare.

[p. 191 modifica]

Allora dai giuncheti folti una bianca
ala si levò straniera a volo
e il cigno selvatico nel gran mistero
di questo cielo, tra le stelle autunnali
si librò un istante come tenuto
da tremolanti fili d’ombra,
poi sparve con un grido così umano
che il vento spaurito si tacque ed a me l’anima
si strinse quando, verso l’orizzonte,
scivolò colle grandi ali tese
nella notte, verso una terra di luce
dal sole caldo, sotto cui colonne
nivee crescono su cui fiorisce l’acanto...

Scomparso era il candido volo nell’ombra e solo
il mio passo rompeva la solitudine.
Un faro brillò lontano. Di verso il mare
la sirena d’un piroscafo muggì annunziando la partenza.
Nella stazione di Palàs locomotive
sbuffavan lente. Passò un treno in corsa.
Sulla steppa notturna il fragore
dei vagoni si spense. Solo il mare
restò a levare il suo grido antico
sotto le costellazioni d’autunno.
Solo il mare!

(Dal volume «Limpidezze». Trad. di Ramiro Ortiz).


Ma non vogliamo lasciare la poesia di Ion Pillat senza presentare ai lettori italiani «Ilie, il pastore»:

Appoggiato al mio bastone sto ritto su tre piedi
nella mia pelliccia di pecora irsuto come un orso.
Sto qui da quando la terra sta sotto il sole...
Intorno a me son passati pecore e secoli.
E un pensiero m’è venuto nella notte lunga:
che forse anche lassù un pastore
munge tutte le pecore dell’ovile
e perciò la Via Lattea scorre in cielo.

(Dal volume «Il mio vllaggio». Trad. di Ramiro Ortiz).


Degli scrittori drammatici appartengono alla corrente tradizionalista B. P. Hăsdeu («Răsvan și Vidra»), Alexandru Davilă (1862-1929), il cui dramma storico «Vlaicu Vodà» è uno dei capolavori del teatro romeno, Mihail Sorbu (n. 1885), che con «Patima roșie» (La passione rossa) si è affermato come drammaturgo potente e vigoroso; Victor Eftimiu che con «Inșiră-te [p. 192 modifica] mărgărite» (Infilatevi, perline), «Cocoșul negru» (Il gallo nero) e numerosissime altre produzioni, ha ottenuto successi clamorosi; A. De Hertz, autore garbato di commediole di tipo francese; Caton Theodorian («La famiglia dei Bujorești»), Zaharia Bârsan («Le rose rosse»), C. Ciprian, il cui «Omul cu mârțoaga» (L’uomo dal ronzino) ha ottenuto una decina d’anni fa enorme successo, Victor Ion Popa, di cui ricordiamo «Ciuta» (La capriola) e la delicatissima «Mușcata din fereastra» (Il geranio del davanzale). Octavian Goga che in «Domnul notar» (Il signor segretario comunale) ci ha dato un quadro riuscito della vita e delle sofferenze dei romeni di Transilvania sotto il giogo ungherese.


Da «Răsvan și Vidra» di B. P, Hasdeu.


Dal «Canto II»: LA VENDETTA.


Tănase:

A Iasci, giovanotto, si raccontan su di te
molte storielle, buone e cattive, tante
quante neppure immaginar potresti!
Gli uni ti lodano assai qual guerriero coraggioso,
gli altri (voglio dire i «boieri») ti calunniano con livore;
e quanto a’ tuoi zingari... pietà! mi taglierò la lingua,
che altrimenti, qualunque pena le dessi,
sarebbe inutile: direbbe sempre il vero!

Răzvan:

Seguita, nonno, seguita! Non me l’ho mica a male.

Tănase:

Quand’è così, gli zingari strillan che sei il lor profeta:
i lor ceppi infrangerai, laverai i lor peccati,
in te è ogni speranza, senza te non c’è giustizia;
una matta d’indovina ha lor detto d’aver sognato
ch’un giorno sarai non solo «giudice», ma Re!...

Răzvan:

Strano!

Tănase:

Una vera bestemmia! Ma guarda un po’ se è possibile!
Una menzogna più zingaresca neppure il diavolo inventerebbe.
Ma lasciamo andar la zingara... Orbene, ti dicevo,
rimasto solo al mondo, privo de’ miei figliuoli,
senza un amico, senza tetto e senza focolare,
peggio degli zingari che almeno vagabondano insieme,
ho cominciato a riflettere ai casi miei, a far dei piani,

[p. 193 modifica]

ed ora eccomi qui da te, felice d’averti trovato!...
Non guardare che son vecchio: nella mia gioventù
con molte belve ho combattuto, tutte feroci e false,
or coi Polacchi, or coi Turchi, or coi Magiari, or coi Franchi di Despot,
e quanto ho imparato allora obliato non ho più...
Mi vedi malato e debole, ma questa mano risecchita
ancor l’arco può tenere è scagliar qualche freccia...
Piuttosto che morir nelle città vittima dei tiranni,
preferisco nei boschi preparar la morte a loro!...
Un essere, anche se debole, forte divien se vendicarsi brama!
Metti anche me alla prova. Sono «haiduc» e basta.

Răzvan:

Così ti voglio, nonno Tănase! E fra breve vedrai
che la città è pagana e solo il bosco cristiano...
In città tutto è schiavitù; il più ricco e il più povero
tutti portan catene, tutti gemono in servitù:
tutti servono in essa e nessuno è padrone;
lo stesso Re come schiavo al Turco vil s’inchina!...
Mentre qui cresce la quercia accanto al ciuffo d’erba,
e, per quanto ella sia forte, niun riduce in servitù;
e le selvagge fiere ch’errando van fameliche,
uccidon la povera vittima in cui il caso le fa imbattere,
ma non l’insozzano colla calunnia come la belva umana,
che la sua preda nè uccide, nè permette che viva!...
In città tutto è sepolto e imputridisce in vita
nella sua dimora stretta e fredda come feretro,
dove il respiro soffoca, dove l’orizzonte manca,
dove i mattoni, il marmo, il fango e la pietra t’aduggiano;
mentre qui la verdura ci tien luogo di pareti,
sol la fronda ci copre e solo il cielo che splende;
ai nostri piedi si stende un tappeto di mille color variato,
che la sola Natura appresta, d’erbe e di fior contesto!...
Eppure il mondo da lontano ci chiama con orrore
briganti, assassini, ladri, omicidi, ammazzasette...
oh no, nonno, non li credere! È stato sempre così,
sempre contro il perseguitato la menzogna e la calunnia s’è avventata
come s’allarga il musco sull’albero abbattuto
e non lo lascia prima d’averlo ridotto in putredine verminosa!...
Il pover contadino cui han tolto i bovi e l’aratro,
tutti i deboli, gli sfortunati, i bisognosi
trovan nei boschi la pace e ci chiaman fratelli.
Quando vedi la Moldavia in preda al saccheggio e all’oppressione,
i buoni impotenti, i cattivi senza pietà,
lo straniero e il pagano, il nobile e il ricco
essi soli protetti e ascoltati dal Voda,
riveriti da tutti, senza pensier del domani...
oh allora sei contento, quando a un tratto si fa sentire il grido
vendicatore degli «haiduci» nati dallo strazio della patria
come da un crudo dolore nasce nel petto un singhiozzo!

(Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 194 modifica] Da «Vlaicu-Voda» di Alexandru Davila.

Voda:

Regina, quattro anni sono ormai che la guerra
col regno d’Ungheria finì tra il fulgore
delle cento vittorie riportate in pieno
a Vidin, ad Alba-Mare, in Ardeàl, a Severin,
quando, insieme uniti, quei d’un sangue e d’un sermone
decisero, lottando accanto, d’infrangere il giogo magiaro.
Avevam vinto. Il nemico, messo dovunque in fuga,
padroni ci lasciava delle terre conquistate
e l’inverno, quando è uso che ogni lotta s’interrompa,
speravo veder per sempre la mia conquista affermata,
mentre tu, alla Corte-d’Argeș, in mio nome governavi.
Tutto m’era favorevole. Ed ecco vien l’ora di sventura:
molti de’ miei capitani agli ordini di Nicola
mio fratello, l’abbandonano il giorno stesso della battaglia
con tutte le lor schiere, e ciò per tuo ordine scritto.
Regina, in quel giorno il suo esercito fu battuto, ed egli ucciso!

Clara (impensierita alla rievocazione di questi avvenimenti antichi):

Ma ti ho detto che volevo mandare ad Alba...

Voda:

Me l’hai detto, è vero,
ma il popolo piange ancora il voivoda Nicola
e la pietra del suo sepolcro bacia a Câmpulùng!...
(riprendendo il filo del discorso)
Per questa lor vittoria gli eserciti nemici giunsero
fino ai monti che recingon la nostra patria, e, senza domandare
a me, tuo Signore, mandasti ambasciatori di pace
a quei che pace essi stessi imploravano!
Contemporaneamente il nuovo esercito che la patria apprestava
tu discioglievi e nella stessa capitale
chiamavi Kaliàny col suo esercito ungherese.
Solo, fuggiasco e senza aiuto a Făgăraș
me vincitore abbandonavi alla mercè del vinto.

· · · · · · · · · · ·

Sì, d’allora, Regina, tuo è il mio regno avito,
Kalliàny su esso domina e la mia stessa sorella
a lui in ostaggio desti, pegno della mia fede e della sua vita.
Ecco che cosa hai fatto del regno! Ed ho il dover di dirtelo:
di un tal governo la nostra patria è stufa!
Giacché di gloria non di vergogna fu sempre nutrita
ed apprese dalla santa tradizion degli avi
a non chinar la regai testa se non dinanzi a Dio!

Clara:

Ecco la gran parola: la tradizione!... Ma che cos’è infine
questa tradizione, che sempre mi buttate in faccia? Anch’io
ho diritto di parlarne, che abbastanza per vent’anni l’attesi

[p. 195 modifica]

e tutta la forza misteriosa avrei dovuto capirne.
Che è una tradizione? Una legge! Diciam pure una legge antica!
Buona certo a’ suoi tempi, ma che non può adattarsi
a quanti, col volger de’ secoli, nacquero dopo essa.
È una catena al piede che l’avanzar ci toglie
e perciò ben feci, durante il saggio mio governo,
quando la infransi per l’awenir della patria.
Voi, chiusi da secoli nei vostri confini angusti,
non supponete neppure che la faccia del mondo fosse cambiata
e, a voi soli guardando, v’immaginate
che, se i Romeni restan fermi, nessuno progredisce.
Ma io voglio dal sonno il vostro paese destare,
e incamminarlo verso occidente dov’è luce e scienza.
L’anima sua insozzata dallo scisma, lo spirito recalcitrante
nell’acqua del battesimo vo’ redimere in eterno.
Che m’importa se uno scopo così grande e così santo
a voi par sia raggiunto a troppo caro prezzo?
E se acquisto Făgăraș, un così gran ducato,
perchè discutere su una pura forma, un apparente atto d’omaggio?
E se di questo mio governo il paese è stufo,
a me che importa? Fo quel che voglio; ed anche ciò è tradizione.
Si mura pur d’orgoglio e delle sue lagrime si disseti,
tengasi la sua tradizione, ma non me la gitti fra i piedi
ch’io la calpesterò.

Miked:

Non si calpestano i secoli passati,
non si calpesta la trama della storia.
Regina, la tradizion degli avi è assai più che legge;
il sovrano che il suo paese conosce, dal suo seno esprime
usi d’ogni specie, bisogni svariatissimi,
slanci, desiderii vivi, odii, passioni, necessità imperiose,
e le sceglie, le plasma, le fonde, le trasmette
e le versa come nel letto d’un fiume nei suoi discorsi ai sudditi;
di queste parole, grandi parole di sovrani eccelsi,
tesse poi attraverso il tempo le sue leggi il popolo
che la tradizion degli avi ha nel cuor sempre viva.
Dal seno della madre a goccia a goccia il lattante la succhia,
gliela racconta l’antica leggenda narrata dalla nonna,
la «doina» melanconica, quando è giovin, gliela canta,
l’arco e la mazza ferrata appesa alla parete
gliela ricordan quando ha forza di maneggiare un’arma,
la vede scolpita nelle sacre pietre dei sepolcri,
e, nel crociato emblema del suo paese ravvisandola,
la fonde per sempre colla sua fede in Dio.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Manasse» di Ronetti-Roman.

Manasse.Lea! Tu guardi in basso, non hai il coraggio di alzare lo sguardo. Vieni qui bambina, vieni da me. Non voglio farti rimproveri, no. [p. 196 modifica] Oggi hai parlato di me con affetto. Pensi a noi. Hai bisogno di consolazione. Aprimi l’animo tuo, parla. Noi uomini, tutti quanti siamo, pecchiamo. Chi è puro davanti al Signore? Hai errato anche tu. Ti si perdonerà, si dimenticherà. Ma parla, di’ una parola; (guardandola con compassione). Quanto diversa sei da una volta, quanto sei cambiata, bambina!

Lelia. — Le ore di dolore han maturato l’anima mia. In sei settimane io ho vissuto anni intieri. Giorno per giorno, ora per ora ho sofferto ed ho pensato. Non sono più una bambina spensierata, son cambiata davvero. Ti leggo negli occhi, nonno, che hai pietà del mio corpo indebolito e dell’anima mia che ti sembra smarrita. Te ne prego, non mi tormentare inutilmente. Abbi pietà anche della mia vita.

Manasse. — Non viviamo solo per noi. Il dovere dei figliuoli è d’ubbidire ai genitori.

Lelia. — I genitori non mi chiedan l’impossibile. Anche l’ubbidienza ha dei confini.

Manasse. — Lea! Anche la disubbidienza ha confini. Dove ti trovi? In qual casa sei? Una ragazza in casa di un uomo straniero! In qual mondo eri per entrare? Lo conosci tu quel mondo, tu ebrea? In quel mondo lo spirito dell’odio scende dal cielo e arde sulla terra e fiammeggia negli occhi degli uomini. Odio distruttore contro di me, contro di te, contro tutto quanto è ebreo. Uccidi un uomo? Se sconti la pena, sei perdonato. Se nasci ebreo, anche se fossi angelo di Dio, non ti si perdona. Tu non lo sai. Sei stata educata in casa, difesa e tenuta lontana dai fulmini avvelenati dell’odio. Tu non sai come bruciano. Ma domandane a me, raspa tra la cenere dei morti, leggi in viso ai vivi e quando urla il vento tendi l’orecchio e ascolta con attenzione: udrai gemiti di ebrei. Io non istò qui solo come tuo nonno. Sono il tuo giudice. Per bocca mia ti chiama tutto il tuo popolo, tutta la tua razza perseguitata e ti parla in nome del Dio de’ tuoi padri che vuoi rinnegare.

Lelia. — Io non rinnego il Dio de’ miei padri. Un solo Dio esiste e un solo sole splende sugli uomini e ciascuno dice che è il suo Dio e il suo sole. Il Cielo ci manda il bene: la luce e la rugiada e la pioggia fecondatrice. L’odio non viene dal Cielo. L’odio nasce in cuori meschini lontani dal sole. Gli Dei son buoni; son gli uomini che son cattivi. Noi donne e soprattutto noi donne ebree dobbiamo portare il messaggio dell’amore nel mondo e cancellare ogni traccia della maledizione antica che divide gli uomini in due campi nemici. Quand’ero bambina mi prendevi sulle ginocchia, nonno, e mi dicevi sagge parole, zampillate dalla profondità dei tempi. Dalla tua bocca, nonno, ho udito che dovunque si raccolgono due uomini buoni ivi Dio è con loro e li benedice; così sarà di noi due se ci benedirà l’amore. Sii buono e indulgente con me, nonno.

Manasse. — Buono e indulgente! Ti sembro cattivo e crudele. Uccellino poveretto caduto dal nido! Credi che da per tutto debba esser così caldo. Non è caldo. Quel mondo è freddo per quelli della tua razza. Perchè c’è stato uno che ti abbia parlato dolcemente hai dimenticato d’esser ebrea. Non fare attenzione alle parole. Le parole sono d’amore, la realtà è odio. Bambina smarrita nel buio della notte! Vedi un chiarore e credi sia un focolare ospitale. Son gli occhi del lupo che brillan di desiderio della preda. Che cosa credi ch’egli ami in te? Il tuo bel cuore di ebrea? No! Sei bella, Lea! Dio ti ha dato in eredità la bellezza delle nostre mamme di un tempo [p. 197 modifica] Così belle e così fiere passeggiavan le nostre regine sulle pendici del monte di Sion. Sei bella, Lea, comprendilo, ecco tutto! Vuole la tua bellezza, è ghiotto della tua carne, della carne! (Alza i pugni all’altezza delle tempie). Duemila anni di carne ebrea e non sono satolli ancora! L’hanno sputacchiata, l’han calpestata, l’hanno gettata in pasto alle belve, l’hanno bruciata sui roghi e inchiodata sulla croce, l’han martorizzata in ogni modo — un vero inferno sulla terra — e non basta ancora! Ora incominciano a corromperla coi loro baci. Strappala da te codesta carne fiorente, strappala, renditi brutta. (Lelia ha un movimento d’orrore). No, cara bambina, ho peccato. Iddio mi perdoni. Sii bella, Lea, fiorisci d’ora innanzi come hai fiorito fin qui. Ma salvati, salvati! Vedi, Lea, quando le mura della città cadevano sotto i colpi nemici, le madri ebree coi loro lattanti tra le braccia si gittavan nelle fiamme, solo per salvarsi dal nemico. Tu puoi farlo più facilmente. Va via di qui. Vieni con me. Vieni, salvati!

Lelia. — Fiere e pure sono state quelle mamme ebree. Con grande amore han preferito gittarsi vive tra le fiamme piuttosto che vivere una vita imposta loro colla violenza e la menzogna. Benedetta sia il loro ricordo ed io le onoro grandemente. Giacché anch’io inorridita dal disprezzo, dalla violenza e dalla menzogna, stavo per far lo stesso e sceglier la morte come sola salvezza. E se sono stata più felice di loro e se m’è rimasta aperta una porta verso la vita, la decisione non mi è stata facile. Nessuno infrange impunemente il legame d’ubbidienza e di amore che lo tiene stretto ai suoi di famiglia, e soprattutto una donna. Ma il Cielo che mi ha seminato nel petto un amore onnipotente e la cui voce risuona nel petto di ciascun uomo, il Cielo ha parlato anche nel mio cuore: «Obbedisci a te stessa. Solo ivi è salvazione...». Invano son lutti i tentativi e le insistenze. Non mi allontano dalla mia strada. Non torno indietro!

Manasse. — Perduta! Perduta. Oh! Andrò al sepolcro di Sara, toccherò colla fronte la terra e griderò: «Sara! Sara! Lea, la nostra figliuola è perduta per noi. Perduta in questo mondo, perduta in quell’altro! Io non la vedrò più nella vita e nessuno di noi due la vedrà nei secoli dei secoli. Perduta, perduta!».

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Infilatevi, perline» di Victor Eftimiu (11).

Atto I - Parte I - IL FRUTTO D’ORO.


L’Imperatore:

Ed ora dimmi come gli anni tuoi trascorsero!
Capirai (ma perchè non siedi?) che ad un festino nuziale un racconto
[d’avventure
d’amore mi ringiovanisce... (ma perchè non siedi?)
come ai tempi andati quando l’amore mi si dibatteva nel cuore.

Principe Azzurro:

Fidanzati da un mese appena, aspettavo con impazienza
che finisse la mietitura e gli altri lavori della terra

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per cominciare, libero da ogni pensiero, i preparativi delle nozze...
Ed ecco che, proprio allora, ogni sorta di tristi presagi
cominciano a impensierirmi e a destarmi dal sonno;
mi raccontavano: sudditi che alle finestre della sposa
apparivan degli spettri aggirantisi per l’aria
e gl’indovini dicevano sapere anch’essi con certezza
essere tutto il paese invaso da dragoni e mostri alati.

L’Imperatore:

Per bacco! Cominci da babbo Adamo!...

Principe Azzurro:

E che? Dovrei cominciar dalla fine?

L’Imperatore:

Ma no! Certo che dal principio... io mi ci diverto!

Principe Azzurro:

Avevo mandati alla scoperta
indovini, astrologi, maghi, sapienti, fidi montanari
e, malgrado tutto, il drago...

L’Imperatore:

...te la rubò!

Principe Azzurro:

L’hai detto!...
Partii, folle dal dolore, per trovarli oltre terre e mari
e, quanto più veloce fuggivo, e, quanto più lontano,
altrettanto mi cresceva in petto il rimpianto d’Ileana.
Gareggiavo per via col vento, mi spingevo senza posa
sempre avanti, per terre incognite e oceani sconfinati
fino a toccare i confini del mondo in terre inabitate
e di li correr senza posa fino all’altro polo...
Come in un sogno m’apparivano ora burroni paurosi, ora monti di luce,
ora passavo per selve immense, ora attraverso gelide tormente.
Udir mi sembra ancora dietro di ine l’ulular delle belve...
Sempre davanti m’era il suo dolce viso di fata,
le sue fattezze ondeggiavano all’orizzonte su sentieri non battuti
come una fiaccola che misteriose strade di fortuna rischiari
come una stella che tutto il mondo della sua luce illumini
e di continuo all’orizzonte cresca col decrescer della strada...
All’apparir del suo viso s’asciugavan d’un tratto i torrenti,
in praticelli ameni si cambiavan le più profonde valli
e i monti eccelsi in collinette apriche. Così il suo aspetto
dal cammin nostro ogni difficoltà rimoveva
e me e il mio baio rendeva più veloci della rondinella!...

L’Imperatore:

Ti chiedevan, naturalmente, tutti, ti chiedevan senza posa:
— «Ma donde vieni, viandante, e dove sì veloce ti rechi?».

[p. 199 modifica]
Principe Azzurro:

Me lo chiedevano, ed io da parte mia, di lei
sempre chiedevo, ma su novantanove uno soltanto lo sapeva.

L’Imperatore:

E... la trovasti?

Principe Azzurro:

Neppur per sogno!

L’Imperatore:

E neppure il Drago?

Principe Azzurro:

Lui naturalmente...

L’Imperatore:

Ahimè! L’avventura finisce...

Principe Azzurro:

Al contrario! Ora viene il bello.

L’Imperatore:

E allora avanti! «Infilatevi, perline!», come dicono i vecchi!

Principe Azzurro:

Come lo vedo, m’ergo sulle staffe, gli assesto un colpo, ma anche il drago è forte, gitta fuoco dalle nari, è terribile, artigli ha lunghi e arrotati, che, se te li conficca nella carne, sei spacciato: giungon fino all’osso...

L’Imperatore:

Brrr! Mi fai paura!... Entriamo in casa... sento d’aver preso freddo Racconterai poi l’avventura all’Imperatrice (s’alza, ed entra nel palazzo).

Principe Azzurro (tenendogli dietro):

Come lo vedo, comincio ad avvicinarlo. Gli grido:
— «Sta’ fermo! Ridammi Ileana... Il drago borbotta parole confuse. Combattiamo... Lo vinco... Mi sfugge...

(La figlia minore dell’Imperatore, che ha ascoltato tutto non vista, esce dal nascondiglio e gitta la mela d’oro a Principe-Azzurro. Questi si volta, guarda con indifferenza la mela che si rotola sulla scalinata, poi volge lo sguardo a Sorina; si stringe nelle spalle ed entra nel palazzo. Bianco-Imperatore non ha visto nulla).

Sorina:

La prima volta a te gittai la mela d’oro,
la mela d’oro ch’è il frutto dei primi sogni d’amore...
Chi d’ora innanzi veglierà al capezzale della vergine?
— «E così come rifiutasti tutti coloro che vennero a chiedermi la tua [mano,

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così possa rifiutar te il primo che ti piacerà!».
E il primo che mi piace si mostra indifferente! Troppo presto s’avverò la tremenda maledizione paterna!
In preda alla passione che ormai mi domina e mi rapisce come in un pauroso uragano, tremar mi sento tutta. «Il primo che mi piacerà!».
Ma che mi disse l’indovina? — «Seguilo da per tutto sempre e in ogni modo! La tua vita è nelle sue mani!».
Due tremende predizioni... Che farò d’ora in poi?
A chi confidar quanto ho nel cuore? Quello che soffro e spero?

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «La passione rossa» di Mihail Sorbul.

La scena rappresenta un ampio studo-salotto riccamente mobiliato, con tre porte, a destra, a sinistra e nel fondo. A destra si apre una finestra grande. Quando s’apre la porta del fondo, si scorge la scalinata che sale al secondo piano.

All'alzarsi del sipario TOFANA seduta allo scrittoio legge sfogliando un vocabolario molto voluminoso, mentre SBILTZ passeggia annoiato con segni d’impazienza.

SCENA I.


Sbiltz (aprendo in fretta la finestra). — Tofana! Fana!

Tofana. — Lasciami stare!... (continua a leggere).

Sbiltz. — Un aeroplano!...

Tofana (avvicinandosi in fretta alla finestra). — Un aeroplano? D’inverno? (12).

Sbiltz. — È passato... anzi non c’è mai stato.

Tofana. — Non mi piacciono codesti scherzi idioti... (torna al tavolino).

Sbiltz. — Neppure a me, bambina, ma ho voluto toglierti dalle braccia di Virgilio... Mandalo al diavolo, chè è noioso e col tempo ti rende imbecille... Credimi, parlo per esperienza.

Tofana. — Sbiltz, sei un...

Sbiltz. — Fermati!... Saresti capace di darmi dello stupido!... Ingiurieresti te stessa... Siamo cugini di primo grado... Procediamo dalla stessa radice.

Tofana. — Da qualche tempo a questa parte, sei divenuto insopportabile!

Sbiltz. — Mah!... Da qualche tempo a questa parte hai cominciato a trattarmi dall’alto... Una certa aria di superiorità... Hai ragione... Io sono un buono a nulla... Io non sono al quarto anno... Non sono alla vigilia della laurea... Mentre tu, oggi o domani... Ma perchè non ti metti gli occhiali?... Avresti un aspetto più pedantesco!... Che pazienza con queste intellettuali!

Tofana (chiudendo il libro e il dizionario). — Intanto per colpa tua devo interrompere la preparazione agli esami!... [p. 201 modifica]Sbiltz. — Voglio strapparti dalle braccia del più vile dei plagiatori!...

Tofana. — Per te neppure Omero è originale.

Sbiltz. — Certo. Ha plagiato anche lui le leggende del popolo greco, che a sua volta...

Tofana. — Basta! A sentir te, tu solo sei originale.

Sbiltz. — Così è, io solo, perchè sono il padre di un mondo nuovo!

Tofana. — Dimenticavo che lavori a un’opera monumentale!

Sbiltz. — Da dodici anni!

Tofana. — Senza averne scritto neppure un rigo!

Sbiltz. — Io, prima di scrivere, penso.

Tofana. — E tu pensa, pensa!

Sbiltz. — Eh, eh! Quando sarò morto si vedrà che cosa valevo!... Tu, bambina, che ne sai? Mi dispiace che sii del mio stesso sangue... Tu sei una disgraziata che da nostro nonno hai ereditato solo quanto in lui c’era di peggio. L’intelligenza si vede che l’ha lasciata a me per testamento... Sbiltz è stato un vero uomo... Non per nulla si chiamava così (13). Accalappiacani come lui non se ne son più visti... Disgraziatamente non ha avuto fortuna... Quando era lì lì per esser promosso boia, la pena di morte fu abolita...

Tofana (seccata s’avvicina alla finestra). — Ancora mi secchi con queste chiacchiere?... Finiscila!... Non credo sia un grande onore discendere da un accalappiacani.

Sbiltz. — Protesto. Nostro nonno esercitava il suo mestiere per vocazione, come un artista fa dell’arte per l’arte! Lui non s’interessava di quanti slot (14) guadagnava per ogni cane che accalappiava, ma si divertiva un mondo al divincolarsi dell’animale preso al laccio!

Tofana. — Basta!

Stiltz. — Sei sublime quando vai in collera... Gli stessi sguardi fulminei del nonno... Il genio della morte! Si vede che nelle tue vene scorre lo stesso sangue, bambina... Va bene, ma ora calmati... Io non sono un cane.

Tofana (torna allo scrittoio, e, dopo aver cercato nella borsetta, gli dà alcune lire). — Prendi!

Sbiltz. — Che vuol dire?

Tofana. — Conosco il giuoco... Abbai, per poi chiedermi del denaro. Prendilo e finiscila...

Sbiltz. — Solo tre lire?

Tofana. — Non ho altro.

Sbiltz. — È un vero affronto. Sembra che tu m’abbia messo sotto tutela...

Tofana. — Non dimenticare che me lo tolgo dalla bocca.

Sbiltz. — Che me ne importa?

Tofana. — Deve importartene. Se non ti va, lavora!

Sbiltz. — Solo le bestie lavorano.

Tofana. — Sarei curiosa di sapere che faresti senza di me.

Sbiltz (compassionevole), — Bambina!... Tu vivi ignara del mondo e l’ignoranza è sempre superba. Tu credi che io viva perchè vivi tu?... Non dimenticare che ho dieci anni più di te e di conseguenza sei tu che sei [p. 202 modifica] nata come una necessità dell’esser mio! In quale cosmografia hai mai letto che al momento stesso in cui scompaiono i satelliti, scompare anche il pianeta?... Capisco ora le tue arie di superiorità... Bambina! La terra è un vivaio d’idioti!

Tofana. — Ti ho dato il denaro perchè mi lasci in pace (entra Crina). Benvenuta, Crina: così potrò liberarmi da questo pazzo!

SCENA II.


Crina. — Di nuovo litigate?

Sbiltz (s’inginocchia davanti a Crina).

Crina. — Che fate, signor Sbiltz?

Tofana. — Alzati... Non vedi che la spaventi?

Sbiltz. — Ecco il solo essere umano davanti al quale mi prosterno!

Tofana (facendolo alzare per forza). — Sei proprio divenuto insopportabile!

Sbiltz. — Se tu sei al quarto anno, non dimenticare che io fo da pun tello all’Università da dodici anni. Rispetta i veterani!

Tofana. — Andiamo di là, Crina. (S’avvia verso la porta di destra).

Sbiltz (prende Crina per mano). — Resta.

Tofana, — Vieni, Crina?

Crina. — Ma se non mi lascia... (Tofana esce).

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «L’uomo dal ronzino» di G. Ciprian.

Atto I, Scena III.


Chirica. — Cari miei, oggi per la prima volta in vita mia son riuscito a fare anch’io quel che si dice «un affare».

Varlaam. — Tu?

Chirica. — Io. E l’ho fatto! Era un pezzo che un tale mi aveva promesso certi soldi e mi rimandava dall’oggi al domani. Oggi finalmente si è deciso a darmeli. Ancora un po’ di pazienza e non penseremo più al domani.

Varlaam. — Quanto hai incassato?

Chirica. — Tremila lire.

Varlaam (sorridendo). — E questo sarebbe...

Chirica. — Lasciami finire. Con quei soldi non avrei potuto pagare neppur la metà dei miei debiti. Averli incassati o no, sarebbe lo stesso. E allora mi son detto: caro mio, tutto per tutto!

Anna (rapidamente). — Te li sei giocati!

Chirica. — Sciocchezze simili le lascio fare agli altri. Per ora li ho messi in serbo, li ho chiusi in una miniera d’oro. Indovinate che ne ho fatto? Che cosa ho comprato con tremila lire?

Varlaam. — Azioni?

Chirica. — Fossi matto!

Varlaam. — Tappeti antichi? [p. 203 modifica]Chirica. — No, queste son cose morte. Ho chiuso, vi dico, i miei denari in una miniera d’oro!

Anna. — E allora... ho capito!

Varlaam. — Hai comprato un ronzino!

Chirica. — Hai indovinato. Ma non è un ronzino. Ho messo le mani sul più bel puro sangue che io abbia visto in vita mia (commosso). Mi son comprato un cavallo. È sempre stato il mio sogno. Da anni me ne struggevo. Pensate... un cavallo! Qualcosa di vivo, di tuo, da poter carezzare, che ti guardi cogli occhi suoi buoni. Possedere, mio Dio, un cavallo!

Anna (dominandosi). — Da oggi in poi dunque possiam dire d’esser ricchi!

Nichita (ironico). — Ti compri un frustino, monti in sella...

Varlaam (c. s.). — E sei a... cavallo!

Chirica. — Ridete pure. Ora come ora, potete ben ridere. Presto però mi darete ragione.

Anna. — E... potrei sapere come si chiama il nostro salvatore?

Chirica. — Faraone II.

Varlaam. — Sciocco, ti sei fatto prender pel bavero!

Anna. — Hai dato tremila lire per quel ronzino?

Varlaam. — Ma benedetto Iddio, caro Chirica, che specie di conoscitor di cavalli sei tu? Io non me ne intendo, ma lo sanno anche i bambini che Faraone II è il re dei ronzini. Mi pare anzi che proprio questo sia il suo soprannome. Domando e dico: è possibile che un padre di famiglia gitti a questo modo il denaro per la finestra?

Chirica. — Dalla finestra l’ho gittato, e dalla finestra mi rientrerà!

Anna. — Te l’ho detto sempre che non hai il senso della realtà, e vivi nelle nuvole! (esce sbattendo la porta).

Varlaam (a Nichita). — Ci sono stato qualche volta anch’io alle corse. Ed ho visto Faraone II cogli occhi miei. Un ronzino tutt’ossa, da far pietà. Una bestia ridicola che arriva sempre l’ultimo per centinaia di lunghezze, destando l’ilarità di tutti. (A Chirica)-. Ti sei proprio reso ridicolo. Quando si saprà che s’è trovato qualcuno tanto dolce di sale da comprar Faraone II, sarà un riso universale.

Nichita (a Chirica). — E questo sarebbe... il brillante affare che hai concluso?

Varlaam. — Vuoi un consiglio proprio da amico? Vattene dall’antico padrone del cavallo, dagli qualche migliaio di lei di guadagno che non si sappia che sei stato tu a comprargli il ronzino e pregalo di riprenderselo e ridarti indietro il denaro.

Chirica. — Si vede che non te ne intendi!

Varlaam. — Sarà, ma ricordo d’aver letto cogli occhi miei nella «Gazzetta dello Sport» (e non una sola volta) che sarebbe da parte del proprietario un atto di pietà il togliere una buona volta dalla circolazione Faraone II.

Chirica. — Non te ne intendi. Ma mettiamoci a sedere e parliamo con calma. (Seggono tutti e tre). Caro mio, non si può dire che il giorno della mia nascita l’Onnipotente sia stato con me troppo generoso, ma una cosa me l’ha concessa: vedo (a Nichita). E non meravigliarti se ti dico che lo sapevo che saresti venuto e mi avresti detto quanto mi dici. T’avevo visto.

Nichita. — M’avevi visto? [p. 204 modifica]Chirica. — Sì. Da me, all’Archivio, c’è molto silenzio. Quando non ho nulla da fare, mi sprofondo col pensiero tra gli scaffali degli incartamenti e sogno ad occhi aperti. È la mia gioia. Ogni specie di figure e di cose mi passano allora davanti agli occhi...

Nichita. — Ti passano i pensieri davani agli occhi?

Chirica. — Sì. Come ruscelli che s’incontrano e fan serpeggiar l’acqua ciascuno nel proprio letto. E quanto in essa si distingue con maggior chiarezza, o prima o poi accade nella realtà.

Nichita. — Di’ un po’: spiritismo col trespolo ne hai mai fatto?

Chirica. — Ma che ti salta in mente!

Nichita. — E allora come credere a simili schioechezze?

Chirica. — Non sono sciocchezze, son cose provate, fatti che avvengono con precisione matematica. Io ti dico che Faraone II vincerà. Così com’è vero che stai vicino a me, così è vero che vincerà. (S’alza da sedere, seguendo cogli occhi il miraggio). E vincerà per centinaia di lunghezze. Ma che dico centinaia... Questo cavallo...

Varlaam. — Delira!

Chirica. — Non deliro, vedo. Questo animale sfortunato che arriva sempre all’ultimo tra le risa e i fischi degli spettatori, un giorno...

Varlaam (ridendo). — Piantiamola lì. Quel giorno non arriverà mai.

Chirica. — Non te ne intendi.

Varlaam. — Se corre un’altra volta, il tuo Faraone II si fermerà accanto alle baracche, si stenderà a terra e finirà di soffrire per sempre. Credi di aver solo tu delle visioni? (A Nichita): Andiamocene, caro Nichita, qui si comincia a sentir puzzo di carogna.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Il Geranio del davanzale» di Victor Ion Popa (15).

Popa Ilie. — Ti sei presa una bella responsabilità a mettere in capo a quel ragazzo di sposare Olghetta. Ti dico ch’è innamorato cotto. Come al solito non hai pensato affatto alle conseguenze! Ascolti o non ascolti quel che ti dico?

Il Maestro. — Che cosa? (Il popa fa spallucce). Ripeti.

Popa Ilie. — Nessun popa fa sonar la messa due volte per i sordi del villaggio (all’improvviso). Perchè gli hai messo in capo il matrimonio con [p. 205 modifica] Olghetta? E se non ti riesce? Eh, che ti pare? Non è vero che se non ti riesce ne hai fatto un infelice? Proprio così: ne hai fatto un infelice! Sei vecchio e non hai ancora messo il dente del giudizio!

Il Maestro. — Hai ragione. (Scoppiando a ridere). Ma guarda che cosa strana! Una cosa così buffa non l’ho mai vista in via mia.

Popa Ilie. — Che specie di cosa buffa?

Il Maestro. — Guarda lì.

Popa Ilie. — Quella non è una cosa buffa; è un fiore.

Il Maestro. — Sì? E tu non vedi che fiore?

Popa Ilie. — È un geranio.

Il Maestro — Proprio. E di’ un poco: quanti anni compie oggi Olghetta?

Popa Ilie. — Diciotto...

Il Maestro. — E quanti ne compiva la mia Sofietta, quando tu le regalasti quel geranio ch’è ora sul davanzale?

Popa Ilie (meravigliato dal ripetersi del fatto). — Diciott’anni.

Il Maestro. — E allora? (Furioso). Non la sposerà lui lo sciocco!

Popa Ilie. — Quale sciocco?

Il Maestro. — Quello stupido del cantiniere! Non la sposerà lui! Questo è un gran segno, un segno grande! A Sofia fosti tu a darle il fiore e fui io a sposarla. Lo vedi ora? Dov’è il popa? Chi è il popa?

Popa Ilie. — Quale popa?

Il Maestro. — Dio, quanto sei sciocco! Fai proprio rabbia. Si vede che cominci a rammollirti. Dov’è il popa? Io ero maestro e tu popa. Il popa, cioè tu, le desti il fiore ed il maestro, cioè io, sposai la ragazza. Oar il cantiniere ha dato a tua figlia il fiore e deve venir fuori un prete che la sposerà. Perciò che ti domando: Dov’è il prete?

Popa Ilie. — Sarà il contabile della «Federale».

Il Maestro. — No... no... deve venire un altro... Dalle viscere della terra, dal fondo del mare, ma un altro.

Atto I - Scena I.


Il Maestro. — Questo è un avvertimento. Questo popa è una carta da giuoco. È un simbolo, come dice Georgica.

Popa Ilie. — E come e in che modo si spiegherebbe questo simbolo?

Il Maestro. — Che le donne vengono a me, i popi a me e i tuoi fanti si leccano le labbra.

Popa Ilie. — Lo dicevo io che sarebbe stato un miracolo che passasse un solo giorno senza che tornassi a ripetermi da capo la solita canzone! E cantala pure se ti fa piacere, organetto sfiatato!

Il Maestro. — E che? Vorresti dire che non è vero? In questo mazzo di carte c’erano o non c’erano quattro donne? C’erano! Volevi o non volevi che venissero a te? Volevi! Ed ecco che le donne son venute a me.

Popa Ilie. — E che vorresti dire con ciò?

Il Maestro. — Che le donne vengono a me!

Popa Ilie. — Hai rubato anche queste, come mi rubasti Sofia?

Il Maestro. — Proprio così.

Popa Ilie. — Allora restituisci il denaro (fa l’atto di prendere il denaro di sulla tavola).

Il Maestro. — Fermo, popa! Non mi costringere a chiamar Sofia, e fartelo dire da lei. [p. 206 modifica]Popa Ilie. — Dire che cosa?

Il Maestro. — Che fuggì con me col suo consentimento, non perchè l’avessi rapita.

Popa Ilie. — E non hai paura che io ti dica di chiamarla?

Il Maestro. — Sofia!

Popa Ilie. — Lascia la donna alle sue faccende. Oh, oh, oh, che picca!

Il Maestro. — Non è per picca, ma bisogna pur che ci si spieghi...

Popa Ilie. — Che spiegare e non spiegare; son venticinque anni che ci spieghiamo e non ne veniamo a capo.

Il Maestro. — E come potremmo spiegarci se tu mi rinfacci sempre d’averla rubata! Perchè allora non l’hai rubata tu, se la credevi cosa da potersi rubare?

Popa Ilie. — Ma proprio qui sta il punto, vecchio mio! Io non l’ho creduta roba da poter rubare; tu l’hai creduto e...

Il Maestro. — Ancora! Ricominciamo daccapo?

Popa Ilie. — Ricominciamo.

Il Maestro. — Eravamo o no vicini di casa?

Popa Ilie. — Eravamo.

Il Maestro. — Abitava o no Sofia dirimpetto a noi?

Popa Ilie. — Abitava.

Il Maestro. — Siamo o no cresciuti insieme?

Popa Ilie. — Siamo cresciuti.

Il Maestro. — E insieme con Sofia?

Popa Ilie. — Insieme.

Il Maestro. — E poi siamo o no andati ambedue a fare il soldato?

Popa Ilie. — No, Sofietta è restata a casa.

Il Maestro. — Ho detto ambedue, non ambitrè! (16).

Popa Ilie. — Hai detto ambedue.

Il Maestro. — E un bel giorno mi sono o no innamorato di lei? È vero o no?

Popa Ilie. — È vero che ti sei innamorato, ma non un bel giorno.

Il Maestro. — Sarebbe a dire?

Popa Ilie. — Che quello non fu un bel giorno.

Il Maestro. — Per te no, si capisce. Ma per me fu bello! Perchè tentenni il capo? Ti ripeto che fu bello!

Popa Ilie. — Bisognerà sentir che ne pensa comare Sofia.

Il Maestro. — Non cambiar discorso chè oggi ho una voglia matta di litigare. Sicché come dicevo è vero o non è vero che tu ed io non eravamo che due straccioni?

Popa Ilie. — Eri uno straccione.

Il Maestro. — E tu no?

Popa Ilie. — Caro mio, il mio mestiere è di seppellire i morti, non di disseppellirli.

Il Maestro. — Anche tu li disseppellisci dopo sette anni.

Popa Ilie. — Dopo sette, non dopo venticinque, e non ogni giorno come fai tu. E, in fin dei conti, che vuoi da me? [p. 207 modifica]Il Maestro. — Darti il knock-out, come dice Georgica. (Riprendendo il filo del discorso). Sicché eravamo tutti e due amici e innamorati di Sofietta. La chiedo io in moglie a suo padre e non me la dà. La chiedi tu e non te la dà.

Popa Ilie. — E allora la rubasti e buona notte!

Il Maestro. — Buona notte un corno, chè adesso la chiamo e sentirai.(Grida): Sofietta!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Alla corrente «modernista» appartengono invece i prosatori; Hortensia Papadat-Bengescu, i cui romanzi di tipo proustiano «avant la lettre» come da noi quelli di Italo Svevo, ci rivelano una collezionista di stati d’animo in penombra («La donna davanti allo specchio», «Il drago», «Concerto di musica di Bach», «Disegni tragici», «Il fidanzato», ecc.); N. Davidescu («Conservatore & Co.», «Il violino muto»); Dimitrie Teodorescu ( «Nella città dell’ideale», «Il vessillo»); Emanoil Bucutza ( «La fuga di Scefkì», «La cravatta rossa», «La Madonnina del Mare»); Gib Mihăescu ( «Alla Grandiflora», «Il braccio di Andromeda», «La russa», «La donna di cioccolatta»); F. Aderca ( «L’uomo disarticolato», «La donna dalla carne bianca», «La signorina di Strada Nettuno», «La morte di una repubblica rossa», ecc,); Ion Minulescu ( «Rosso giallo e azzurro», «Riprovato in lingua rumena in quarta ginnasiale», «Il barbiere del Re Mida», ecc.); Ticu Archip ( «II collezionista di pietre preziose», «L’avventura»); I. Peltz ( «Vita interessante sì e no d’un certo Stan», «Strada Văcărești, ecc.); Matei Ion Carageale ( «I buontemponi della corte antica»); C. M. Zamfirescu ( «La Madonnina delle rose», «L’amore tra le spazzature», «La santa grande svergognatezza»).

Hortensia Papadat-Bengescu rappresenta coi numerosi suoi romanzi di tipo proustiano (anche prima che conoscesse il Proust, come da noi Italo Svevo) la corrente modernista. Grande collezionista d’impressioni rare e complicate, analizzatrice minuta di stati di coscienza oscuri e in penombra, la sua personalità (non sempre simpatica) s’introduce a soverchiare e giudicare dall’alto in basso (spesso con una mal celata smorfia di disprezzo) quelli dei suoi personaggi, nei quali compie lo sforzo di oggettivarsi, vendicandosi della violenza fatta a sè stessa col farceli apparir antipatici. Il suo miglior libro è (appunto perchè eminentemente [p. 208 modifica] soggettivo e quasi autobiografico) «La donna davanti allo specchio». Tuttavia i suoi ultimi volumi: «Concerto di musica di Bach», e il volume di novelle: «Disegni tragici» rivelano una forte, benché un po’ artificiosa e cerebrale tempra d’artista. Nuoce alla prosa rara ed estetizzante della Bengescu lo stile sciatto e pieno dei più crudi neologismi. Ho sempre pensato che questa autrice farebbe meglio a scrivere in francese, lingua che possiede assai meglio che la propria. Esordì nella «Viața romînească» con delle «Lettere di Bianca Porporata a Don Giovanni nell’eternità», che la imposero subito all’attenzione dei lettori e dei critici. Seguirono: «Acque profonde» (Bucarest, Alcalay, 1919); «La Sfinge» (Buc., «Ancora», 1921); «Il Drago» (Bucarest, «Ancora», 1923); «Romanza provinciale» (Buc., «Cultura Natională», 1925); «Le vergini scapigliate» (Buc., «Ancora», 1926); «Concerto di musica Bach» (buc., «Ancora», 1927); «Disegni tragici» (Buc., ibid., 1928); «La strada invisibile», (Buc., Ciornei, 1932); «Il fidanzato» (Buc., Ciornei, 1935).

Il suo fascino consiste in un mistero un po’ grigio, un po’ di giornata di pioggia, o meglio di un giardino abbandonato, un po’ solitario, un po’ malinconico, ma con rosai fioriti veduti attraverso il velo di una pioggerella lenta e triste; ma sommamente armonico, melodioso, suadente nella delicatezza dei toni grigi e violetti meravigliosamente fusi nella tavolozza di questa esploratrice d’ombra, di questa deliziosa pittrice amante della luce crepuscolare.

Da «La donna davanti allo specchio» di Hortensia Papadat Bengescu.

LA PASSEGGIATA DI MANUELA


Le ragazze di magazzino le passavan davanti in fila di tre, di quattro, cariche di scatole di cartone che le sfioravan la gonna. Sentiva gli angoli di quelle scatole nelle gambe.

Servitori dai grembiali verdi ed azzurri la sfioravano o solo le davan l’impressione di sfiorarla, portando tutti dei pacchi di diverse specie. Indovinavi dal rivestimento il contenuto: fragili vasi, statuette portate con cura che tradivan la loro nudità sotto molteplici strisce di carta sottile; scatole di dolciumi; giocattoli gobbi sotto la carta grossa rotta qua e là; toilettes ancora fresche del ricamo dell’ultimo filo di seta; abiti caldi ancora del ferro da stiro; altrettante cause di rimproveri, di parole gentili, d’insulti, di adulazioni, rinfacci, dolori, coperti da una marsina o da un vestito da ballo. Il prezzo dell’amore, dell’ipocrisia, dei debiti, della viltà! [p. 209 modifica]

Guardò tutte quelle piccole cose che invadon l’esistenza. Una carriola, spinta da un ungherese baffuto, reggeva un’architettura complicata di scatole rettangolari. Gli autocarri delle grandi case di commercio trasportavan quintali di regali. Una pesante automobile postale sembrava una piramide di pacchi.

...Era impossibile non ci fosse qualcosa anche per lei. Il desiderio della proprietà la fece soffrire come per un morso inatteso... Avrebbe voluto fermare qualcuno di quegli uomini... quale?... perchè non perdesse tempo a cercarla, perchè non s’affaticasse invano... Lei era lì...

Passavan sempre facchini carichi. Nulla per lei?

La sua vita, il suo posto nella vita, non esistettero più. Allora, lì, in quella città straniera, volle un posto, una soglia, una storia.

Era un giorno di festa. Volle fosse di festa anche per lei... Poco prima eran sonate le campane. Le campane suonano per tutti. In lei eran sonati i vespri. Quegli uomini erravano, peccavano. Fu presa da una grande agitazione; come se non si fosse trattato di una qualsiasi povera scatola che un suo movimento brusco avrebbe potuto rompere; come se quelli che le passavan d’accanto fossero i doni della vita, mandati, portati, distribuiti da innumerevoli mani ad altri, a tutti!... Volle gridar loro che si sbagliavano. Nella fabbrica della Provvidenza era impossibile che non si fosse lavorato a qualcosa anche per lei!

Quei portatori di beni la frodavano, la derubavano. Portavano a un’altra porta, ad altri esseri le gioie, i dolori che eran destinati a lei... Il rumore che facevano i suoi sensi turbati la fece riscuotere. Ascoltò di nuovo il chiasso assordante della strada.

Decise di partir subito. Attraverso il vetro completamente appannato del negozio d’armi davanti al quale s’era fermata, si distinguevano un pugnale che pareva antico, delle pistole... Tutte quelle armi avevan l’apparenza di giocattoli inoffensivi, arrugginiti.

Col fragore d’un tuono, la saracinesca di ferro le cadde in faccia così vicino che sembrò quasi le avesse tagliata la testa. Ebbe un senso di ribellione per la brutalità del gesto, ma il sipario di ferro ondulato era lì davanti a lei col suo color grigio. Muto, immobile, sarcastico, come un ostacolo dietro il quale sghignazzasse il demonio che ci chiude sul muso le saracinesche della vita!...

...Riprese a camminare, ma non ritrovava la sua andatura; non poteva riprendere il suo passo solito, il moto abituale del suo ritmo corporeo e di nuovo le parve di esser vestita con una giacca stretta, corta, leggiera; si sentì sui capelli un cappellino logoro, mentre le altre donne le passavano accanto avvolte in dieci metri di pieghe, perdute nella ricchezza delle ampie pellicce, barbaramente aureolate di penne favolose.

Improvvisamente volle gridare. Le parve di essere entrata in un incendio. Un cinematografo accendeva tutte le luci di quattro piani di facciata di un «Palace nuovo, sfavillante come l’illuminazione di un’intera capitale in una giornata di feste popolari.

Credette di accecare. Il nome d’una divinità vulcanica brillò in lettere di fuoco.

Sotto il portone un curioso tipo gallonato di rosso e d’oro, in un costume fantastico, movendosi a passi marziali, gridava qualcosa con accento grave, senza che paresse accorgersi del suo ridicolo.

[p. 210 modifica]

La vita — colle carrozze, le donne, le vetrine piene di regali, gli uomini e le loro faccende, — sembrò a Manuela un cinematografo, davanti al quale passeggiasse, grave e ridicolo, un uomo gallonato: Sua Maestà il Denaro.

Riprese a camminar verso casa a passo più svelto come se fosse in ritardo, come se, dove si recava, tutti rattendessero con impazienza, come se dovesse trovarvi regali preziosi, dimenticando che non andava in nessun posto.

Ora le strade erano oscure. Dietro a lei, le grandi luci dei «boulevards» da cui si alontanava, sembravan piccole come brillanti. I loro raggi di fuoco l’avvolgevano alle spalle: li aveva al collo e ai lobi delle orecchie. Da questo tremolio di fuochi lontani nascevan le forme d’innumerevoli gioielli; orecchini di gemme preziose, dalle acque purissime frasmettentisi a vicenda le luci fino a confondersi in una sola lagrima abbagliante di fulgori, le brillavano come scintille gigantesche agli orecchi. La testa si drizzava più superba sul collo, e gli occhi brillaron più vivi per non esser spenti dai diamanti.

Un pendaglio a forma di mandorla, appeso a un’invisìbile catenina d’argento, faceva brillare i suoi arcobaleni fiiligranati di polvere adamantina, attorno a un topazio pallido, il cui giallo chiaro era non meno luminoso. Sembrava uno stallattite scorrente da una grotta favolosa ma non ancora completamente formato. Tanto era fluido.

Nell’umidità fredda le sembrò d’essere in una gran sala riscaldata, adorna di piante tropicali, colle spalle nude, su cui scorressero di continuo le gocce luminose, gli spruzzi miracolosi di gemme liquide che le danzavan sulla pelle, inumidendola di luce.

A Manuela non piacevano i gioielli, ma in quel momento il suo orgoglio li tollerava ironico e il giuoco delle loro luci l’affascinava.

Un passante la guardò mentre incedeva così come una regina. Si fermò un attimo incerto, come se dovesse conoscerla. Le fece meravigliato un gesto di profondo omaggio. Sembrava un passante di altri tempi d’idolatria, che avesse incontrata a un crocicchio una regina discesa dalla sua berlina superba. Il suo volto esprimeva le parole colle quali a casa avrebbe raccontato di avere incontrato... non sapeva neppur lui chi: — la Regalità solitaria della donna davanti allo specchio.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


F. Aderca, n. a Puești (Tutova) il 13 marzo 1891 non compì studii regolari, ma presto si fece colle sue letture una bella e svariata, se non sempre profonda, cultura. Divenne poi capo-servizio al Ministero del Lavoro e dell’Assistenza sociale, dove rimase fino al 1940. Ha svolta una larga attività letteraria e giornalistica, occupandosi di letteratura, critica, e di problemi sociali in riviste e giornali d’avanguardia quali la «Izbânda» (La vittoria), il «Cuvântul liber» (La libera parola), ed ha fatto parte della redazione della «Noua Revista Română», dell’«Ideea europeană», e della «Mișcarea literară» (Il movimento letterario). [p. 211 modifica] Scrittore raffinatissimo, cerebralmente sensuale, è uno dei rappresentanti più caratteristici della corrente «modernista».

Per presentar l’Aderca ai nostri lettori abbiamo scelto un brano, in cui, sia pure eccezionalmente, sorprendiamo nella sua prosa un senso di umanità e quasi tenerezza, che, malgrado quell’attitudine «superiore» che gli è abituale e che il Lovinescu gli rimprovera, mi sembra essere alla base dell’arte di questo scrittore, le cui pose scettiche di fredda ironia potrebbero ben rappresentare non altro che un certo «pudore sentimentale», nota caratteristica di molti scrittori contemporanei (17).

Dal volume «La donna dalla carne bianca» di F. Aderca.


IL DONO DELLA VEDOVA.


Un’onda d’aria gelata che gli passò su tutto il corpo, lo staccò definitivamente da quella notte appiccaticcia (18).

La vedova, sempre piccola, sempre grassoccia e bianca, co’ suoi capelli neri sempre così lucidi e freschi, gli venne incontro nel corridoio con un boccale di latte appena munto. Il sorriso era il medesimo, infitto nella carne agli angoli della bocca; ma i fiori neri degli occhi non eran più alla superficie: un po’ appassiti, volevano nascondersi nelle orbite... Il Sig. Aurelio pensava che la lotta di quella donna contro se stessa doveva essere stata amarissima. E non ne riusciva a comprendere il motivo. Le prese dalle mani il boccale con questo pensiero non chiarificato... La vedova, con ambedue le mani incrociate sotto i seni, guardando fuori dalla porta — appena un giocattolo rotondo rispetto all’uomo assai più alto di lei che ora sollevava verso la bocca il braccio piegato — disse chiaro e senza espressione come parlando a se stessa: [p. 212 modifica]

— Ora di nuovo te ne andrai chi sa per quali strade. Sei ricco?

— No.

— Forse lo diverrai.

— Non credo.

— E allora, dico io, perchè vorresti romperti Fossa viaggiando, quando potresti startene fermo, in una casa come Dio comanda?... Io dico che mi sposi e mandi al diavolo il cavallo, la carrozza e il cocchiere. Credi che non siamo fatti l’uno per l’altra? Al contrario, staremo bene come marito e moglie. T’ho respinto questa notte, perchè non ho voluto mi prendessi per una di queste donne di poco cervello. Perchè non resti? Altri sarebbe felice di restare. Non sono povera. Hai dato uno sguardo dietro la casa?

Fin dove l’occhio arriva, mia è la terra: e quella coltivata a trifoglio, e quella a granturco, e quella dove ora vedi le stoppie del grano falciato.

Il granturco cresce nelle mie terre abbondante come l’acqua del Danubio.

Non c’è bisogno d’altro che starlo a veder crescere colla sigaretta fra le labbra. Ho anche un appezzamento di tabacco. La vigna di Rogova la venderemo, chè troppo me la saccheggiano quei ladri di Greci degli orti contigui, e ne compreremo un’altra più vicina, dalle parti delle Sorgenti nere.

Se vuoi, ce n’andremo a vivere in città, chè, una volta mio marito, potrei forse avere un’opinione diversa? Ho una sola sorella, a Broscari. Non è maritata. La prenderemmo con noi perchè s’occupasse della casa. Così potresti avermi sempre accanto a te, quando lo volessi. Denari... ho anche denari...

Ed il Sig. Aurelio, trascinato per una mano, entrò nella stanza della vedova, che, dopo aver col solito gesto civettuolo rimessa a posto l’immaginaria ciocca ribelle, sollevò il pesante coperchio di una gran cassa di Brasciòv, dipinta a colori vividi. Si curvò, mettendo in evidenza le rotondità soffici della sua persona pienotta, tirò fuori un libretto di congedo militare, dalla copertina giallastra pieno zeppo di biglietti di banca e cercò — ridendo più del necessario — di farlo entrare nella tasca interna della giacca del Signor Aurelio. Il quale non permise, ma consentì a contar lentamente il denaro, per farle piacere. La vedova rimescolò poi tutto quanto era nella cassa, ne trasse fuori tutti i suoi vestiti di festa, la biancheria finemente ricamata; le tovaglie da tavola, i tovaglioli, gli asciugamani, lutto un corredo di «borangic» finissimo a delicati ricami di una contadina più che agiata, e, per finire, trasse fuori, tenendole ciascuna in una mano, una camicia da uomo, di quelle lunghe dei contadini romeni, coi ricchi «ruscelli» in nero sulle maniche e «farfalline» (19) luminose sulle spalle e sul petto ed una cintura rossa, larga, intessuta di fili d’oro e d’argento.

— Tue sono, se vorrai, per metterle la Domenica — disse sorridendo con tutte le fossette delle guancie, con la bocca e con gli occhi e guardando in su verso il forestiero, la vedova bianca.

Il Sig. Aurelio prese la cintura e la camicia, le soppesò nella mano, ma non gli riuscì vedersi contadino...

Alzò da terra la donna che sorrideva ancora, la strinse forte contro il petto per ringraziarla del pensiero e non voleva più lasciarla andare. La donna però comprese che l’abbraccio del cittadino rappresentava [p. 213 modifica] un’opposizione ai suoi disegni se non addirittura un rifiuto che non voleva pronunziar colle labbra, e si dibattè, morse coi denti, graffiò colle unghie, finché cadde stordita sul bordo della cassa.

Il cittadino, dominandosi, uscì a gran passi dalla stanza.

· · · · · · · · · · ·
· · · · · · · · · · ·

Salito sul calesse, il Sig. Aurelio fece schioccar la frusta e presto, abbandonato il villaggio, giunse in vetta al poggio di Ogeác, di dove parte la strada che porta alle Sorgenti Nere.

La strada scendeva con pendio lene. Il villaggio non si vedeva più da molto tempo. La terra bagnata dai primi fiocchi di neve scioltisi al sole, fumava tutta come una pagnotta di pane caldo e sembrava che la vita universale aspettasse solo quel disgelo per far rifiorire i fiori della primavera. A sinistra cominciarono a vedersi solchi giallastri scender verso la valle, una tenuta messa a granturco e colle pannocchie dell’anno prima lasciate sulla pianta tra le foglie secche.

— Chi sa in quali contrade straniere e nemiche imputridisce nella terra il padrone di questa tenuta — pensò, pacifico in tempo di guerra, Mitru il cocchiere. Collo sguardo fisso ad ogni pannocchia secca di granturco, circondato dalle sciabole color d’oro delle foglie, il Signor Aurelio si lasciava cullar dal ritmo vegeale nell’atmosfera tepida senza neppure un alito di vento di quel fondo di valle solitaria. Un’ala d’uccello bianco sfarfallava, si sarebbe detto, più in basso, accanto alla strada maestra, tra i solchi di granturco, il Sig. Aurelio non ci fece caso; il ritmo sonnolento del trotto del cavallo lo avrebbe portato presto — pensava — fino a quello sfarfalleggiar d’uccello bianco ch’era probabilmente non altro che una foglia un po’ diversa dalle altre... Era la vedova.

Con tra le braccia la camicia bianca dai «ruscelli» neri e la cintura rossa, uscì risolutamente di tra il granturco. Il Signor Aurelio saltò giù dal calesse e disse a Mitru di proseguire la salita al passo e di fermarsi dall’altra parte del poggio che chiudeva la valle.

La donna fece qualche passo indietro tra il granturco, tendendogli timidamente la camicia e la cintura, e disse:

— Ora che te ne vai, accettale. Accettale in dono da me. Forse sono stata una sciocca a creder quel che ho creduto... e forse cattiva — aggiunse guardando a terra.

Il Signor Aurelio le chiuse la bocca coi suoi baffi corti, pungenti, e le parole di lei si confusero in una specie di dolce e lungo gorgoglìo.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Ticu Archip si rivelò dapprima come autrice drammatica con «Inelul» (L’anello) rappresentato al «Teatro Nazionale» di Bucarest il 1921, cui seguiron «Luminița» (Il lumicino) nel 1928 e recentemente «Gura de leu» (La bocca del leone) nel 1935; ma il suo teatro, pur ricco di pregi, è più lirico che drammatico e mal regge alla prova della scena, pur riuscendo interessantissimo alla lettura. «Luminița» tuttavia ebbe successo per la precisione [p. 214 modifica] scenica del linguaggio drammatico, la vivacità del dialogo e qualche scena vigorosa. Invece come narratrice la Archip occupa uno dei primi posti nella letteratura romena contemporanea «modernista». Nei due volumi: «Il collezionista di pietre preziose» (Bucarest, Stroilă, s. d.) e: «L’avventura» (Bucarest, Stroilă, 1929) mostra una rara abilità a proiettar nel fantastico e nel cosmico episodii della vita di tutti i giorni. «Un’espressione lineare, matematica, (l’autrice è assistente alla cattedra di geometria analitica) strettamente nazionale, dai cui strati di limpidezza, talvolta monotona, emana a poco a poco un’impressione di velato, di leggiera oscurità, seguita come da una condensazione di nebbie: ecco le caratteristiche di questa scrittrice. Le linee precise che seguiamo con tanta sicurezza cominciano insensibilmente a sfumarsi fino alla sparizione completa, dandoci l’impressione di trovarci in una tenebra fitta; il reale si disfà nell’irreale, lasciandoci sospesi tra i due piani con una sensazione tanto più acuta quanto meno preveduta» (20).

Dal volume «Il collezionista di pietre preziose» di Ticu Archip.


RITRATTO DEL COLLEZIONISTA (21).

Era di statura media, espressivo e immobile. Sembrava una scultura in legno di qualche grande Maestro del Rinascimento. Portava un vestito del colore dell’erba secca, chiuso fino al collo.

— Siete venute per veder le pietre? — disse alle due ragazze, e s’avviò per mostrar loro la strada.

Parve ad Irene che intorno alla loro guida si fossero adunati, senza che se ne accorgessero, un gran numero di altri uomini. Le parve di non potersi avvicinare al collezionista, e, rallentando il passo, restò indietro agli altri. Poco dopo si convinse che davanti a lei non c’erano che due sole persone. — «Comincio ad aver delle allucinazioni» — pensò.

— Badate a non scivolare. Mettete il piede su quell’altra pietra.

Il Maestro sorrise e continuò:

— I tacchi alti son buoni per le strade di città! — E tese la mano prima all’una, poi all’altra delle ragazze.

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Era la mano di un uomo in vita, con sofficità e color di carne viva. Ma, che cosa strana! Il Maestro diffondeva intorno a sè un’atmosfera d’irrealità, così misteriosa che le oasi del deserto di Sahara le avresti sentite più vicine a te, che non il corpo di quell’essere chiuso nel colore dell’erba autunnale, al punto da confondersi, avresti detto colla Natura.

Eran sorte le stelle su quell’angolo di mondo su cui sorgeva la casa solitaria abitata solo da alcuni sognatori. Il rumore ritmico dell’acqua accresceva la paura della solitudine e dell’inesplicabile.

— Annuccia stai vicina a me, mi par d’aver paura. Il riso cristallino dell’amica, che Irene conosceva così bene la incoraggiò:

— È possibile? Non vedi che è un uomo come tutti gli altri?

— Tu credi che sia vivo?

— Chi?

— Il collezionista.

Ma, prima che Anna potesse rispondere, un vento impetuoso cominciò a soffiare e spense tutte le stelle.

— Non vedo più nulla.

— Neppur io.

— E fa tanto freddo.

— Sento che l’acqua è vicina. La sabbia sembra umida — Io non vo più avanti; dove ci porta? — disse Anna spaventata.

— È inutile che reciti la parte di Amleto — le rispose Irene. — Qui non c’è nessun palcoscenico!

In quell’istante le due ragazze sentiron che la morte non è cosa da scherzarci su e che un’opposizione paurosa sarebbe stato lo stesso che il cattivo gusto d’un uomo senza spirito.

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— Sembra che non romoreggi solo il mare; sembra che orlino tolti gli oceani!

Ci son momenti in cui essendo soli a faccia a faccia colla Natura, ci si sente più grandi di lei, perchè ci è stata data la forza di dominarla col pensiero. E una soddisfazione vanitosa ci rivela nomini.

Al contrario, altre volte il mondo che ti circonda è di tal forza, che ti senti annientare in esso. Vorresti resistere, ma la lotta ti sembra così ineguale e la fine così irrevocabile, che tu stesso vorresti affrettarla. E sembra che andresti incontro alla morte e alla natura con un senso di sollievo e di purificazione.

Le acque chiamavano a sè le due ragazze e tutte e due avevan capito che l’agilarsi dei flutti abbreviava loro la strada. Ma per civetteria si fecero raggiungere. Allora i flutti cominciarono a spruzzarle.

— I miei piedi sono bagnati.

— Anche i miei.

— Che facciamo?

— Restiamo ferme.

Un flutto baciò Anna, un altro Irene.

— Così non saremo gelose.

E, quando tutto sembrò solo rumore e buio, un rettangolo luminoso si mostrò lontano, davanti a loro, e, incluso in esso, il profilo nero del Collezionario di pietre preziose non avrebbe potuto rivelare se il Maestro guardava le nebbie o volgeva le spalle alle ragazze, che avanzaron verso la luce come uomini volgari contenti di rimandare ad altro tempo la «Redenzione».

— Qui son le pietre, per cui avete fatto una strada così lunga.

Nel vano di una gran porta, bianca, il Maestro attendeva.

Lui e la porta recidevano quel mondo in due parti: lontano, la terra colla casa solitaria, in cui la vita di quei pochi eremiti reclamava soddisfazione a tutti i suoi bisogni; dall’altra, una lunga serie di scalini bianchi mostrava la strada verso il Tesoro, nel cui dominio la parola «fisiologia» avrebbe avuto il suono di una campana nel vuoto.

Irene colle palpebre abbassate osservava che le sue scarpe lasciavan impronte d’acqua sull’agata della scala per cui si scendeva.

— Non fa nulla — sorrise il Maestro — - è inalterabile.

Ad Anna parve di sognare e s’arrestò davanti a due svelte colonne: una verde attraversata da strisce distinte, diversamente colorate; l’altra rossa, del colore di una ciliegia matura.

— Due rimarcabili pezzi d’onice e di cornalina — spiegò il Maestro.

— Potete avvicinarvi. Formano due tratti d’unione tra questo pavimento di crisolito e il soffitto di zaffirina, tutti e due parenti mineralogici fra loro.

Le ragazze alzaron la testa e s’accorsero di non esser più all’aria libera.

— La Natura — continuò il Maestro — ha le sue ironie. Chiude nelle pietre il suo mistero e attende che qualcuno lo scopra. Qualche volta fa anche degli scherzi. Si mostra in apparenze assolutamente diverse, ma in realtà non son che sorelle carnali, figlie della medesima madre. Ma forse questo non v’interessa, è cosa da mineralologi... Che guardate, signorina?

— Quella rosa verde.

— Non è che una copia. L’originale si trovava un tempo in Ispagna.

La nostra è scolpita in un berillo di laboratorio, mentre quella vera fu scolpita in un berillo nato nelle viscere della terra. Lo portò in Europa Fernando Cortez per la sua fidanzata, insieme con altre meraviglie.

[p. 217 modifica]Poi, tendendole una coppa verde, col piede e le anse di purissimo oro:

— Volete bere in questa coppa? È simile a quella, in cui pianse la moglie di Carlo V dalla stizza che non a lei fossero state donate le famose tre gemme. Una lagrima è caduta in essa e un mago l’ha cambiata in una perla che poi ha legato, com’è questa, con cinque catenelle d’oro sottili e morbide come fili di seta.

Irene prese in mano la coppa, e, nella trasparenza verde dello smeraldo, si vide disegnata la mano come sarebbe stata di lì a due o trecento anni la mano sua o quella di Carlo V o tutte quelle di due o trecent’anni fa; la perla le si era attaccata all’anulare, ornamento inutile e simbolico.

— Qual rito si compie in questa stanza? — domandò stordita.

— Qui si lavora alla sintesi della vita come a una sintesi chimica. Se potessimo scoprire i misteri della forza creatrice della Natura, potremmo riprodurre la vita colla sola conoscenza delle leggi che presiedettero alla sua formazione. Ma, visto che un tale scopo sarebbe troppo arduo per una povera mente umana, ci siamo limitati a scrutarne una parte: la vita misteriosa delle pietre. Ad altri l’indagare colla loro scienza ciò che rimane d’indispensabile nel mondo — gigante come un tutto davanti a cui noi non siamo nulla.

E il volto del Maestro assunse un’espressione di perfetta indifferenza.

Le ragazze, nella curiosità della loro gioventù, cercarono indovinare il suo pensiero.

Senza dubbio il Maestro non aveva gran fiducia nella loro intelligenza e nella loro cultura.

Facendo loro da guida non si mostrava nè annoiato nè entusiasta. Parlava con tono uniforme, accentuando le parole e rispettando coscienziosamente un’invisibile punteggiatura. Spesso tendeva orizzontalmente la mano come se reggesse un vassoio, su cui offrisse qualcosa.

A Irene quel gesto ricordava le ben note fotografie di Venezia, dove i forestieri si sentono in dovere di tender la palma ai colombi addomesticati e restar fermi ad aspettare che vengano a posarvisi, fissati per l’eternità in vedute della grandezza quasi sempre d’una cartolina postale.

Qual’era il colombo che il Maestro voleva attirare col becchime delle sue parole? Qual’era il colombo che il Maestro aveva fatto volar dalla palma della sua mano rimasta tesa e vuota?

(Trad. di Ramiro Ortiz).


I. Peltz, romanziere dei quartieri suburbani («mahalàle») di Bucarest, cominciò giornalista, ma, frequentando le sedute domenicali del cenacolò dello «Sburătorul» e incoraggiato nei primi suoi tentativi d’arte dall’approvazione e dai consigli del critico E. Lovinescu, nella cui casa si tenevano e continuano a tenersi; ha dato alla letteratura romena alcuni romanzi che lo mettono in prima linea tra i giovani prosatori. Il suo stile, da principio raffinato e impressionista, si è, negli ultimi romanzi del ciclo «Tzara cea bună» (La patria buona) semplificato, senza però mai cader nello sciatto e nel banale. Il suo romanzo più noto è [p. 218 modifica] «Calea Vacărești» (Via Vacaresti) dal nome della contrada abitata dagli ebrei. Osservatore profondo e minuto, si distingue dall’Aderca con cui ha in comune la cerebralità dello stile per una costante e simpatica nota di sentita umanità.

Da «Vita interessante sì e no di un tal Stan».


SAGGEZZA.


— Tempra e cesella il tuo sogno in una casa rustica accanto alla moglie e alle anitre. La primavera ti rinfreschi la fronte colla rugiada delle calme mattine e Testate ti soleggi il petto nudo, bello quando nell’impeto della corsa rompe il vento. L’inverno, accanto alla stufa, ravvisa nelle fiamme gli amori di ieri e le speranze t’infiorino paradisi nella fantasmagoria dei carboni accesi.

Ovvero in città, lontano dal rumore delle vie principali, in un sobborgo con silenzii profondi in ogni pietra, fabbricati una casa pulita: nel suo breve cerchio fa’ riposare il tuo corpo, i tuoi figliuoli, il tuo ricordo...

Semplice e anonimo fra quelli che sono i più e senza nome.

E vivrai come l’erba, e morirai di buona morte.

Stan rispose:

— Così sia!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


G. M. Zamfirescu, dopo essersi rivelato con un dramma potente («La signorina Anastasia») in cui ci dà dei quartieri periferici («mahalàle») di Bucarest un’interpretazione nuova agli antipodi di quella del grande commediografo Ion Luca Carageale che ne vide solo gli aspetti grotteschi; pubblicò nel 1931 il suo primo romanzo «La Madonnina delle rose», in cui proietta nel cosmico e circonda di un’atmosfera esasperata di sogno un banalissimo avvenimento provinciale (il suicidio di un delicato essere femminile vittima della brutalità e della gelosia del marito). Ad esso ha fatto seguire «L’amore tra le spazzature ’ (Bucarest, 1933) e «La santa grande svergognatezza» (Bucarest, 1936), prima e seconda parte di una trilogia, in cui forza la nota che gli aveva fatto raggiunger nel primo romanzo effetti suggestivi e rischia di cadere qua e là nel ripugnante, malgrado molte belle pagine e caratteri interessantissimi bene osservati e potentemente espressi. Si nota in lui un potente influsso dei romanzieri russi più recenti e un certo misticismo sensuale di accentuato tipo slavo con tendenza al simbolo e all’irreale, che talora non dispiace, ma [p. 219 modifica] che quasi sempre irrita il lettore. Nel brano che riportiamo le sue qualità migliori finiscono col prendere il sopravvento e ci rivelano una natura d’artista non ancora pienamente formata ma originale sempre e interessante.22

Dalla «Madonnina delle rose».


RITRATTO DI MANAILA.

Manaila è una specie di passerotto vecchio con cappello duro e soprascarpe di gomma. Basso di statura e striminzito di persona, tiene a far sapere che è terribilmente nervoso. Ritiene d’essere assai simpatico alle signore della sua città, dalla quale per snobismo non s’è mai allontanato fino alla tenera età di trentotto anni e vuol essere a ogni costo persona seria. Infilza bugie con gravità professionale ed ha per uso suo personale una filosofia ed una felicità esclusivamente sue.

Manaila è impiegato alla Prefettura, sottufficiale in congedo e membro del consiglio d’amministrazione d’una società di mutuo soccorso per casi di malattia, morte e parti. Si ficca in tutti gli scandali ed è testimone, quando non eroe principale di tutti i litigi, da uomo nervoso, serio e grave qual’è. Non dimentichiamo poi ch’è anche uomo politico col suo bravo programma sociale e nazionale, che potrebbe far la felicità di qualsiasi nazione se in qualche posto, non importa dove, si trovasse un’intelligenza e un patriottismo come il suo. Come ogni buon democratico rumeno, Manaila è liberale, ha convinzioni personali di perfetto conservatore e non può soffrire gli ebrei. Suo nonno, maestro elementare, era stato preso sonoramente a schiaffi da un bettoliere ebreo che l’aveva sorpreso a far la corte alla sua «balabnsta» facendole sottovoce delle proposte scandalose.

Come si vede, il suo odio era atavico...

Inoltre, per tornare alla nobiltà de’ suoi sentimenti, Manaila vede in qualsiasi «signora» incontrata per caso nelle viuzze della sua città, una «vittima» che si sente in dovere di guardar con occhi teneri di protettore. Gioca male a biliardo per colpa di quel gaglioffo di caffettiere che non s’è deciso ancora di fargli venire da Bucarest una stecca intelligente. Possiede un frak per balli e nozze e finanziera per cerimonie ufficiali, funerali e battesimi.

Come ogni grand’uomo, Manaila si fa notare, nel gregge dei comuni mortali per alcune sue debolezze particolari: porta soprascarpe di gomma in ogni stagione dell’anno (il motivo è semplice: d’estate contro la [p. 220 modifica] polvere, d’inverno contro la neve, di primavera e d’autunno contro il fango) ed è eternamente malato di raffreddore. Sempre, secondo le stagioni, è pieno di polvere fino ai ginocchi o spruzzato di fango fino al solino. Cammina a passi cadenzati, con cautela, e salta sulla punta dei piedi di pozzanghera in pozzanghera.

In fondo Manaila è persona molto per bene. Ha in sè qualcosa di originale e di comico e le sue azioni son tutte ispirate a generosità e cavalleria. Ha una ripugnanza istintiva per la brutalità altrui e per i gatti. Agisce sempre per principio e con testardaggine di mulo. Desiderando essere un uomo serio, è felice di far qualsiasi sacrificio purché si dica: «Il signor Manaila è un giovane di sentimenti molto gentili!». Sarebbe capace, per conservar questa fama cara e preziosa, di comprar dolci alla crema per tutte le più austere matrone della città e di portar mazzi di fiori a tutte le signorine di buona famiglia.

La domenica fa la sua passeggiata in carrozza ai giardini pubblici (nella città dove abita non ci son carrozze che a un sol cavallo e senza gomme alle ruote) e la sera fa un pasto estremamente frugale: pane e prosciutto con una tazza di thè molto debole con molto limone.

Manaila appartiene all’esigua schiera delle persone che posson permettersi il lusso di avere al cimitero una tomba di famiglia per sè e per i posteri. La tomba è dunque un documento storico indiscutibile che il primo dei Manaila fu «qualcuno».

· · · · · · · · · · ·

Manaila sa, come ogni gran narratore, mentire con arte, dice le verità in modo semplice e impressionante, evoca uomini e avvenimenti, dà loro significato, trova in essi simboli della più grande importanza.

Burattinaio fantastico, tira i fili con abilità, ride sinceramente e sinceramente piange del riso e del pianto di ciascuno de’ suoi burattini: rappresenta ora la parte di magistrato, ora di cameriera, ora di Madonna eterea.

— La «Madonnina delle Rose?» e dovrei esser io solo a non conoscerla?

Erano invece buoni amici. La «Madonnina» aveva saputo che Manaila era un giovane di buona famiglia, con tomba gentilizia al cimitero e cortesissimo colle signore.

— Ho tanto piacere d’aver fatta la sua conoscenza, caro Manaila... È così raro in questa città di gente rozza trovare un giovane d’animo nobile...

Lui le aveva baciato la mano riconoscente.

— Oh, gentile signora, che omaggio mi rendete e che felicità...

Alle feste da ballo danzava solo con lei. Era leggiera come un profumo.

Manaila si rimbocca le maniche, solleva la palma della mano come un giocoliere che voglia convincer lo spettatore che non nasconde nulla, socchiude un occhio, sorride impercettibilmente e tira dalla tasca con due dita un fazzolettino bianco di seta. Lo butta in aria, lo fa cader sulla palma della mano, e l’offre, dono miracoloso, ad Ottavio:

— Prendilo! dono da parte mia e ricordo della Madonnina! Il fazzolettino suo, il fazzolettino che mi regalò al ballo della Prefettura, quando mi graffiò il naso con le spine delle rose che aveva appuntale sul petto. Il sangue mio sul suo fazzoletta! Non è un simbolo?...

Il fazzoletto resta sul tavolino. Vi cadon sopra le lagrime e gli sguardi di Ottavio.

— Stefaniu? Una canaglia!... [p. 221 modifica]Il matrimonio del magistrato colla «Madonnina» è raccontato coi più minuti particolari, dal primo momento in cui la «Madonnina» fece la sua apparizione nella città.

Manaila mentisce con convinzione.

Ottavio lo crede.

Sandu fa il viso lungo e si meraviglia in sè stesso con una specie di terrore nello sguardo: «Ma guarda che specie di tesori nelle mani d’uno stupido come Manaila!».

La scena del ritorno dall’ultimo ballo è potentissima. Il capitano State l’aveva raccontata con semplicità. Manaila l’amplifica, l’approfondisce, la spiega e la sente bollire in sè, come una verità che non può rimaner più nascosta. Ora lui è la «Madonnina» che se ne sta rigida, alta e sottile, colle rose strette al petto, davanti a Stefaniu, che vede proprio nell’atto di romper lo specchio della sala e che dice: «Hai danzato col maggiore degli usseri e ti ha stretta la vita!».

Manaila, quando recita la parte della «Madonnina», non litiga con nessuno davanti ai servi, chiude gli occhi, volta la testa verso Sandu e dice: «Grazie, buona notte!...». Manaila, quando recita la parte della «Madonnina», fa i passi corti e immateriali davanti agli ascoltatori: è la «Madonnina» che entra, cogli occhi a terra, nella stanza da letto. S’aggira nervoso attorno alla seggiola, s’arruffa i capelli, si scioglie la cravatta, s’oscura in viso fino a non sembrar più lui. Ora è il magistrato Stefaniu, che grida dietro alla «Madonnina»: «Non andar via! Se te ne vai, ti piglio a schiaffi!». E dà due schiaffi all’aria.

Momento impressionante: Manaila mette la mano in tasca, ne tira fuori il portasigarette d’argento, se lo punta alla tempia destra, e — disperato — fa colle labbra: «Bum!».

Così la «Madonnina» s’era uccisa.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Tra i poeti, Ion Minulescu è senza dubbio il rappresentante più autorevole del «modernismo» romeno. I suoi volumi: «Romanze per più tardi», «Conversazioni con me stesso», «Confessioni», «Da leggersi di notte», «Non son quello che sembro» son tra i più significativi della poesia romena contemporanea, il cui maestro può oggi considerarsi Tudor Arghezi («Parole misurate», «Fiori di muffa», «Trascritte nel sillabario») che, per la sua tecnica perfetta, più ancora che per l’ispirazione (rimasta qua e là ancora tradizionale), può ritenersi come il più grande poeta romeno contemporaneo, Elena Faragò, N. Davidescu, Mihail Săulescu, morto combattendo per la patria, Adrian Maniu, G. Bacovia, Camil Balthasar, Al. Philippide, Demostene Botez, Ilarie Voronca, Lucian Blaga e soprattutto Ion Barbu che sono tra i più importanti rappresentanti della poesia romena d’avanguardia con molti altri di cui i limiti di questa nostra rapida rassegna non ci permettono di occuparci. [p. 222 modifica]Ion Minulescu è stato uno dei precursori della poesia «modernista» in Romania. Simbolista dapprima nelle «Romanze per più tardi», ben presto la sua tecnica squisita, la sua ricerca di sonorità insolite, il suo gusto per il paradosso e la «boutade», e, soprattutto, la sua tendenza a mettere accanto ne’ suoi versi elementi disparati: nobili e plebei, antichi e modernissimi, fanno di lui una personalità poetica «sui generis», simpatica e paradossale.

Citiamo le prime strofe di «Canta un marinaro»:

Canta a prora un marinaro
e solenne il suo inno galleggia
sull’onde del Mar di Marmara,
come in una fortezza spagnuola,
quando l’orologio della cupola
annunzia ogni ora
con un preludio di mandola.

Ma forse sarà meglio citar due poesie intere che mi sembran rappresentative.

VISITA NOTTURNA.

Mi ha battuto Madama Autunno ai vetri,
mi ha battuto con dita di pioggia
e, allo stesso modo come ogni anno,
mi ha pregato di lasciarla entrar nelle stanze,
che mi portava una scatola di «Capstan»
e sigari di Rotterdam...

Ho guardato intorno a me ed in me stesso:
la stufa fredda,
la pipa fredda,
la mano fredda,
la bocca fredda...
come potevo lasciarla andar via?
Se va via, chi sa quando tornerà!
E se in questo autunno mi battesse per l’ultima volta ai vetri?...
— «Donnez-vous la peine d’entrer, Madame!...»

E la donna dallo sguardo di fumo
è entrata subdola e umile
come una bugiarda
profezia di Sibilla...
È entrata...
E la mia stanza in un attimo

[p. 223 modifica]

s’è riscaldata come un forno pronto per il pane
solo colle spirali del fumo della mia pipa
e col bacio di Madama Autunno, che domani
morrà d’influenza...

(Trad. di Ramiro Ortiz).


PASTELLO MECCANICO.

La monotonia desolante di una mattina piovosa,
carezza l’agonia triste ma grave d’un treno merci
che fischia la sua impertinenza attraverso le valvole tisiche
e sale il pendio colla rassegnazione dei «bemol»,
che muoion sull’arpa
in una cappella funebre,
con odore di fiaccole di cera
e vaghi profumi d’incensi,
«Eau de Cologne»
e cipressi.

Nella valle dell'Olt,
o, forse, in quella della Prahova...
la scena è la stessa da per tutto quando piove.
E la medesima agonia profana
disegna ogni treno merci quando vuol contraffare il volo
dei direttissimi che salgono il pendio con grazie di aeroplani.
Le medesime agonie banali
e il medesimo «trio» di segnali
implorano la pietà della mattina
ed annoiano il viaggiatore...

Monocromia verde:
i monti e gli abeti sembran di cartone —
contraffazione della desolazione e dell’impotenza animale
che spesso sale il Calvario col treno accanto per la strada maestra.
Pastello meccanico, —
aspirazione d’arte nuova
e scienza — Cézanne
forse t’avrebbe dipinto altrimenti,
io però t’ho visto così.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da questo paesaggio-natura morta passiamo a qualcosa di più intimo:

SECONDA CONFESSIONE

Mi domandi: «Che fai?».
— «Che vuoi che faccia,
più che ascoltare, tacere,

[p. 224 modifica]

sbadigliare, dormire e sognare,
disteso su d’un antico tappeto di ”Ghiordez”,
su cui talvolta viene a stendersi
anche la mia bionda Scherazade?...
Fo quel che ho fatto ieri e sempre:
m’accapiglio col vento e litigo colla luna...
Di tanto in tanto salgo sulle colline verso il Sole
e m’integro nel suo globo ardente.
O antica ed unica festa,
che festeggio ormai da quarantanni...
Coll’Olt però non parlo più,
perchè è monotono e di mente ristretta,
nè sa far altro che scorrer verso Dragasciani.
Fo il Narciso al fonte,
bacio la Madonna del tabernacolo,
e conduco per mano San Pietro al cimitero.
Leggo Jules Laforgue
e Arthur Rimbaut,
ma, se m’imbatto nel signor Nizza,
maestro,
bettoliere
e deputato,
m’inchino umilmente al profeta del villaggio,
gli sputo in faccia
e gli grido: «Ohibò!».
E così vendico Laforgue e Rimbaut.
Poi, quando si fa notte e silenzio,
e i buoi dormono sulla pancia
e gli uomini sulle reni,
mi stritolo in frammenti di pietre preziose
e mi do a digerire ai porci».

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Ma non bisogna giudicar Minulescu dalle sue «boutades» e dai versi che scrive nelle sue ore di disgusto: in fondo egli è un «enfant terrible» che ha i suoi momenti di dolce malinconia e di abbandono. Le sue poesie bisogna sentirle recitar da lui ed allora si vede come una quantità di note patetiche, che potrebber sembrare stridenti ed ironiche, in realtà non sian tali, giacché questo poeta che posa a cinico può anche commuoversi davanti a due vecchietti, che avanzan tra la pioggia tenendosi per mano, come nel finale di «Acquarello»:

Nella città in cui piove cinque volte in una settimana,
un vecchio e una vecchia
— due giocattoli rotti —
camminano tenendosi per mano...

[p. 225 modifica]Tudor Arghezi rappresenta oggi l’incubo dei poeti giovani, che, pur ammirandolo e imitandolo, cominciano già a dar segni d’impazienza. È il gran Maestro, la cui tecnica, perfetta e ardita al tempo stesso, è riconosciuta e in parte subita da tutti i poeti della nuovissima generazione. Natura polemica, amara, acre, inadattabile, qua e là volutamente cinico e brutale fino alla scatologia; di tutto si serve a fine puramente artistico e non manca della nota profondamente umana e persino gentile, soprattutto quando parla di bambini e ai bambini.

La sua ideologia ondeggia fra il rimpianto di un Eden perduto, d’innocenza direi quasi vegetativa, e l’amarezza di chi si sente spinto dalla fatalità del suo io a percorrere strade impervie e maledette.

Citiamo tre frammenti caratteristici:

I.

Non sapendo di carte e d’inchiostro,
il nostro canto s’innalzava cantato
nè l’infinito della vita era guastato
da un canone, uno scritto, una pittura.
— Dove vai? — dicevo al dipartire
e indicavo col braccio l’occidente.
A mezzogiorno, a mezzanotte,
per le quattro strade larghe dell’esistenza,
venivano con noi, su di noi, le aquile
e, accanto a loro, eran le mammelle cariche di latte delle mucche.

(Dal volume «Preghiera». Trad. di Ramiro Ortiz).


II.

Le tentazioni facili e blande
non sono mai state e non sono per me.
Nella mia scodella come nel mio pensiero,
non c’è che il gusto amaro del veleno.
Mi bagno nel ghiaccio e mi corico sulle rocce aguzze,
dov’è tenebre fo fuochi d’artifizio,
dov’è silenzio scuoto le manette,
e abbatto la porta con le mie catene.
Quando mi trovo sulle alte vette,
cerco il pericolo e lo provoco,
scelgo il sentiero più stretto per passarvi su,
portando a cavalluccio tutto il monte.
Il peccato mio vero è molto più grave e imperdonabile.

[p. 226 modifica]

Tentai io solo col mio arco,
di abbatter Te, o Dio!
Ladro di cieli, mi scelsi la missione
di saccheggiar la Tua forza colle aquile.

(Da, «Salmo». Traduz. di Ramiro Ortiz).


III.

In cielo
batte l’ora di bronzo e di ferro.
In una stella
batte l’ora di velluto.
L’ora di catrame batte
nella torre della fortezza.
Nell’ora di lana
si sente il tempo vecchio
e si straccia
l’ora di carta.
Accanto all’antico epitafio
batte l’ora di polvere.

Questa notte, sorelle,
non ha battuto nessun’ora.

(Da «L’ultima ora». Trad. di Ramiro Ortiz).


I suoi volumi più recenti: «Parole misurate» e «Fiori di muffa» (l’Arghezi ha fatto conoscenza anche colla prigione) rappresentano i due più grandi avvenimenti poetici degli ultimi anni. Uno dei suoi più recenti volumi è «Il libro dei giocattoli», meravigliosi gioielli offerti — prezioso dono natalizio — ai bambini, di cui sa interpretare tutti i desiderii e le aspirazioni.

Nel «Salone ufficiale» del 1929 un bel quadro di quel suggestivo pittore ch’è il Toniță («La bimba del temuto polemista») rappresenta la bambina del poeta.

Guardandolo, mi è sembrato veder la vera anima di Tudor Arghezi:

E la sera, quando i giardini
si copron di veli funerei,
son tutto uno sbocciar di sogni
in un oceano di stelle,
nè so di dove incominciare
la vendemmia del mondo.

(Da «Angelico». Trad. di Ramiro Ortiz).


Di Elena Faragò, squisita anima femminile, la cui poesia è tutta una tela misteriosa di raggi di sole daremo qui due poesie [p. 227 modifica] che ci sembran meglio caratterizzarne l’arte umana e intima allo stesso tempo:

Da «Passava un uomo per via» di Elena Faragò.

Passava un uomo per via iersera,
passava cantando per via sottovoce,
chi lo sa? Forse cantava perchè più corta
la strada gli sembrasse, o forse perchè
ieri la sera era così bella,
forse cantava perchè non gli dolesse
d’esser lui solo per la strada.

Passava, ed io ero sull’uscio
ed egli ha seguitato la sua strada.
Ma che mi ha preso all’improvviso
da sospirare, non saprei dirlo.
E non potevo muovermi dall’uscio
e come un desiderio di vita, tutta
m’ha presa guardando dietro lui.

Così accade a ciascun di noi,
che stiamo all’uscio e non sappiamo
del viandante, se di qualcosa
gli duole e ci sorprendiamo
a sospirare, certo perchè ciascuno
troppo lontan si sente da una strada
su cui vorrebbe camminare.

(Dal volume «Versuri». Budapest, 1906. Traduzione di Ramiro Ortiz).


ERA UNA FONTANA...

di Elena Faragò

Era una fontana su d’una strada maestra
— come tutte le strade del mondo —
aspra, lunga e arida strada,
una fontana con un grave contrappeso
poi che l’acqua aveva deposto su di esso
uno strato di loto assai spesso...

...Era una fontana con un grave contrappeso
— come tutte le fontane della vita —
era una fontana con un grave contrappeso
ed acqua salmastra, calda e cattiva,
ma la forcella colle braccia aperte stava alla posta
e attirava di lontano i viandanti...

S’affrettavan gli assetati per arrivare a bere
— come tutti gli assetati della vita —
tiravan con forza il contrappeso grave,

[p. 228 modifica]

ma l’acqua salmastra e calda li respingeva
e spesso qualcuno più giovane se n’andava
con lagrime di dispetto sul viso...
e spesso qualcuno più vecchio rideva
— come tutti quelli che conoscon l’acqua della vita —

...Era una fontana dal grave contrappeso,
dall’acqua salmastra, e calda e cattiva,
ma la forcella colle braccia aperte stava alla posta
attirando da lontano i viandanti.

(Dal volume «Soaptele amurgului». Craiova, 1920. Trad. di Ramiro Ortiz).


Adrian Maniu è il poeta delle «Figure di cera», dei «Fiori di carta», del «Bicchier di veleno» ed ora della «Strada delle Stelle». Delicato, quasi femminile, un po’ morbidamente sensuale, innamorato di tutte le cose piccole e graziose, mette in bocca a Salomè versi come questi:

Padre, i tuoi cani m’han cacciata dal cortile
e i tuoi servi m’hanno sputato in viso
— solo una schiava è fuggita con me.
Padre, non comprendo di che ti sei vendicato
e neppure su chi.
Forse non ho danzato abbastanza bene?

· · · · · · · · · · ·


Soffro del ricordo del mio serpentello d’oro,
delle tue scimmie e di te,
forse,
soffro soprattutto del ricordo del Suo collo
da cui gocciolavan rubini rappresi.

La sensibilità di Adrian Maniu è squisitissima: uno sciame d’api è per lui «oro e fumo», un canarino morto somiglia a «una foglia secca», i frassini hanno un «odore di topo», le parole della donna amata suonano «come le perle di ghiaccio, che cadon dagli alberi scossi dall’aquilone».

Diamo qui «La lupa» e «Per un uccello morto»:

LA LUPA

di Adrian Maniu

Il sole scrive luci su foglie che il vento rapirà.
Nel bosco fitto, profondo, nero, e freddo,
erbe irrugiadate e fiori crescon accanto ai tronchi,
passa, oro e fumo, uno sciame d’api.

[p. 229 modifica]

Il bianco assenzio con gusto di fiele amaro
copre nel fitto orme d’uomo e di fiera.
Il cielo si spezza il petto contro una nuvola.
Le acque stagnano. Le foglie tacciono. I raggi muoiono

La lupa, corpo di cenere e occhi di brace,
ansima immobile sotto i nocciuoli,
sta in ascolto, e muove lenta verso il guado.

Pronta a slanciarsi tra le foglie che cadono,
adunchi artigli infigge nel terreno
e colla lingua si lecca l’immagine nell’acqua.

(Dal volume «Accanto alla terra». Trad. di Ramiro Ortiz).


PER UN UCCELLO MORTO.

di Adrian Maniu

Piangevi tenendo sulla palma l’uccellino morto.
Solo la morte aperse la sua gabbia-prigione.
I suoi gorgheggi aveva brillato come raggi di sole
ed ora l’uccello giallo sembra una foglia secca.

Una foglia d’oro. La morte è una ricchezza,
che Dio a tutti dona, misericordioso.
La perlina degli occhi suoi non ti seguirà più.
Quanto ora ti dice con dolore, ti cantò con allegria,

Amore, dietro le grate delle nostre costole,
non credi tu ci sia un povero uccello morto?
II nostro amore, destinato ai più alti voli
non è forse prigioniero lontano dai nostri pensieri?

E prigione non può essere anche una mano,
cui s’innalzan canti spesso noiosi?
Amore, nella vita del petto un canto muore
nel mio cuore: piangilo ora che l’hai in mano!

(Dal volume «Accanto alla terra». Trad. di Ramiro Ortiz).


Un gregge di pecore è ritratto con un’abilità di pittore animalista, che ci fa pensare a un quadretto del Palizzi (più la sensibilità moderna, che sa cogliere il rapporto fra le pecore e le nuvole):

Sotto, il gregge: pecore col capo appoggiato a pecore;
sopra s’inseguono e s’accavallano nuvole grevi.

(Da «Vecchio pastore». Trad. di Ramiro Ortiz).

[p. 230 modifica]Poeta lirico, autore drammatico, intenditore d’arte raffinato, Adrian Maniu, che pur conosce la vita, ha la rara prerogativa di aver conservato gli occhi e il sorriso di un bambino, di quel divino bambino ch’è il poeta. Perciò a me sembra che le qualità esseziali della sua poesia siano — ad onta di tutte le sue pose (e non son poche) — la freschezza, l’ingenuità e la grazia:

Sorge la luna d’argento
leggera come un soffione.
Sfaldati, luna, in nuvole
e semina stelle.
Quando i galli canteranno,
verrà il mio amore
coi denti stretti,
cogli occhi in pianto
e una collana di turchesi.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Di G. Bacovia, precursore della poesia «crepuscolare» del Balthasar, poeta della pioggia e della noia provinciale («Piombo»), spesso monotonamente lamentoso, ma originalissimo, riporteremo questo «Crepuscolo invernale», veramente suggestivo:

CREPUSCOLO INVERNALE

di G. Bacovia

Crepuscolo d’inverno, scuro, di metallo,
pianura bianca — circolo immenso — ,
battendo l’ali, un corvo silenzioso viene dal fondo,
tagliando l’orizzonte diametralmente.

Gli alberi rari sotto la neve sembran di cristallo,
appelb di sparizione mi sorbono,
mentre silenzioso torna lo stesso corvo,
tagliando l’orizzonte diametralmente.

(Dal volume «Piombo». Trad. di Ramiro Ortiz).


Con Camil Balthasar entriamo in piena poesia modernista. Dopo alcune poesie di sanatorio («Vespri») a base di bianche suore di carità e di stecchettiani tisici morenti, (che però l’han subito imposto all’attenzione dei critici e dei colleghi per la novità degli atteggiamenti e delle immagini), si è affermato come uno dei più originali poeti nei «Flauti di seta» e nelle [p. 231 modifica]«Riconcentrazioni nella tua immortalità». Citiamo alcune strofe della prima maniera:

Mi desterò nel colmo della notte
e cercherò le mani sorelle,
e soffrirò udendo
come fuori ritornano, con vagiti di litanie, le gru.
E poi che non potrò più piangere,
la bocca mi s’empirà di caldo e di sangue.
Verso il mattino, quando i malati si levano
con gemiti e domande a mezza voce,
dormirò in pace,
colle mani incrociate sul petto, a preghiera.

(Dal volume «Ultima scrisoare din sanatoriu». Trad. di Ramiro Ortiz).


Poeta in tono minore, crepuscolare, ma che ha saputo trovare accenti tutti suoi, originali, che lo fan riconoscer tra mille:

SCENDEVA IL CREPUSCOLO

di Camil Balthasar

Scendeva il crepuscolo su strade fuori mano;
su giardini scendeva il crepuscolo e impallidiva.
Tu camminavi, cercando per antichi viali,
tra le foglie gialle, il tuo cuore.

Camminavi colla piccola bara delle tue mani,
colle campane delle tue palpebre,
cercando il tuo cuore
nelle aiuole crepuscolari.

Se avessi saputo cantare,
avresti ritrovato il tuo cuore;
l’avresti ritrovato nel tesoro giallo del crepuscolo,
nel color di rame dell’autunno.

E se avessi saputo piangere,
avresti ritrovato il tuo cuore
nell’ultima gocciola di sangue
del sole che tramontava.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Tradurre i poeti è impresa disperata. Come dire in italiano «amurgit», che denota l’azione del crepuscolo? Qualcosa insomma come «ingiallito», «velato», «oscurato», «rattristato», o tutte queste nozioni prese insieme? Resta dunque inteso [p. 232 modifica]che queste mie «parafrasi» (non traduzioni), lasciando andare che non rendono se non infitesimamente l’armonia del verso (che non consiste solo nel ritmo, ma spesso nel colorito musicale delle parole stesse) non sono nè possono essere altro che delle «approssimazioni», che, come tali, non rendono che una piccola parte della bellezza dell’originale. Della quale bisognerà pur contentarsi quando non si sa il romeno, e queste mie note informative son destinate — è inutile dirlo — proprio a quelli dei miei lettori che il romeno non conoscono.

Ma di Balthasar credo di dover ancora citare qualche cosa:

FLAUTI DI SETA

di Camil Balthasar

Sai ancora tacere?
Sai discendere
per scalini bianchi e per onde color d’autunno?
Nel giardinetto che circonda l’anima
le mimose dicono con melodie gialle che verrai.
I vetri azzurri e verdi, le finestre antiche,
aspettano la luce del tuo affacciarti.

Se ancora sai tacere,
se ancora puoi cantare,
verrai a piangere con me,
io, gli occhi tuoi; tu, il mio cuore.

Se ancora sai piangere,
andremo nel giardino della sera,
e, in un pianto con macchie di sangue,
piangeremo quel che non hai mai pianto altra volta.

E taceremo poi,
e ce n’andremo,
io coi fiori morti degli occhi tuoi,
tu, con in braccio un capriolo morto: il mio cuore.

(Dal volume «Flauti di seta». Trad. di Ramiro Ortiz).


Come si vede, il «leit-motiv» della morte continua, nella poesia del Balthasar, anche nei «Flauti di seta». In seguito, la sua ispirazione si calma in un’estasi siderale che ravvicina, in certo modo, a certi motivi del «dolce stil novo», di cui l’autore non conosce — naturalmente — neppur l’esistenza, ma che probabilmente, per via di questi tre elementi: pesia della morte, visione apocalittica del mondo, e sublimazione astrale della [p. 233 modifica] amata; ha qualcosa di comune con quella di questo poeta romeno divenuto ormai caposcuola e riconosciuto ormai — dopo un po’ di fronda — come uno dei più originali poeti contemporanei.

Di Alexandru Philippide, poeta magnifico, sonoro, originale più nell’espressione verbale che nella concezione, riporteremo dal volume «Aur sterp» (Oro sterile) due poesiole che ci sembrano caratteristiche:


STASERA IL VENTO...

di Alexandru Philippide

Stasera il vento s’è scagliato contro il cielo
e il suo corpo di toro colla coda nella Via Lattea
s’è rotolato sulla volta stellata per sollevarla
sulle corna e rovesciarla;

ma il cielo ha scricchiolato a lungo, e d’allora
il vento vuol sollevar sulle corna la terra
e corre selvaggio per la pianura
ferito e cieco e il suo corno solitario
è la luna che tremola, serena
confitta in cielo,

(Trad. di Ramiro Ortiz).


SCENA DI TEATRO

di Alexandru Philippide

L’archetto d’un antico violino
quando il Ritmo pigro si distacca,
nell’ombra della sera lunghi brividi
sottili negli angoli freddi accende.

Coricato sul pigro tappeto,
in cui il suo passo si perde,
col ventaglio suo leggiero
si fa vento il Buffone verde...

Ma, ecco, nell’aere vuoto
una stanca Eco trasale
ed ora comincia una danza lenta
sui raggi del crepuscolo.

La finestra verde s’è aperta,
sorridente nella penombra;
per essa irrompe un Sogno
azzurro nella sua barca d’ombra...

Salute, inquieto menestrello!
Scendi per scalini di baci
verso un aereo castello
costruito di molli voli di farfalle...

[p. 234 modifica]

Vecchio e cieco, ti si fa innanzi
un povero sorriso d’altra volta
in un costume scolorito...
Ma la notte è venuta, ed ecco

che i brividi stanchi si spezzano,
e sul loro sepolcro aereo
gli specchi azzurri piangono
con lagrime grandi di oscurità...

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Seguace da principio del Balthasar, poi conquistato da un gioco tra dadaista ed ermetico di immagini rare fine a se stesse, Ilarie Voronca può definirsi il più immaginifico dei poeti romeni. Dotato di una solida cultura, anche italiana, l’ho udito recitare una volta — ad una festa scolastica — un sonetto rinterzato della «Vita Nuova» con un’aria talmente estatica, trasognata e funerea (si trattava di quello che comincia: «Morte villana, di pietà nimica») che non l’ho più potuto dimenticare. Chi m’avesse allora detto che quel giovinetto pallido sarebbe stato uno dei più «modernisti» poeti romeni?

Cito qualche verso dal «Braccialetto della Notte»:

Un’ellera di pace s’arrampica sui colonnati dell’ombra,
i ruscelli respirano colle collane calcaree delle campane,
i ruscelli passano come luci attraverso il vetro del canto,
e il pianto vibra nella conchiglia della strada dalle scarpe di neve.

E credo che possa bastare. Ma non sempre Voronca è così ermetico. Alcuni suoi versi (mi par di veder l’ironia buona del suo sorriso) possiamo capirli anche noi, miseri mortali:

Quando gli occhi esplodono in lontananza come obici,
quando gli occhi fanno sterminio della terra delle guance,
e il piombo del miracolo fora l’orecchio dell’udito,
allora tu mi rinfreschi nella sorgente della spalla la testa in fiamme,
e la vita sbrana coi denti la carne di un garofano,
allora tu sei la promessa e forse sei la risposta.

Di Lucian Blaga, poeta e filosofo, citeremo «Crepuscolo autunnale» e altre due poesie: «Aratri» e «Il cieco»:


CREPUSCOLO AUTUNNALE

di Lucian Blaga

Dalla cima delle montagne il crepuscolo soffia
con labbra rosse

[p. 235 modifica]

nella cenere di alcune nubi
e attizza
la brace nascosta
sotto il lor velo sottile di cenere.

Un raggio
che viene in fuga dall’occidente
raccoglie l’ali e si posa tremolando,
su d’una foglia,
ma troppo grave è il peso
e la foglia cade.

Oh, l’anima!
Ch’io me la nasconda meglio nel petto,
più profondamente,
che non le giunga nessun raggio di luce
morrebbe!

È autunno.

(Dal volume «I passi del Profeta». Cluj, 1921. Trad. di Ramiro Ortiz).


ARATRI

di Lucian Blaga

Amico cresciuto in città
senza compassione, coi fiori sul davanzale,
voglio prenderti per mano.
Amico che non hai visti
i campi sotto il sole, vieni a danzare sotto i peri in fiore
ch’io ti mostri i solchi del tempo!

Sulle colline, verso cui volgi lo sguardo,
coi becchi infitti nella terra
sono aratri, aratri, aratri innumeri:
grandi uccelli neri
discesi dal cielo sulla terra.
Per non spaventarli
devi accostarti ad essi cantando.

Vieni.

Piano.

(Dal volume «Nel gran passaggio». Traduz. di Ramiro Ortiz).


IL CIECO

di Lucian Blaga

Un cri-cri di grillo chiama la luna nel fieno.
Iddio è cieco; le zanzare gli fanno
un’aureola attorno al capo.

[p. 236 modifica]

Io son suo figlio e lo conduco per mano dovunque;
si direbbe ch’è un vecchio mendicante.
Attraverso antichi boschi che ricordan la creazione del mondo
m’ha insegnato a tacere.

Ora ci riposiamo per via, come tante volte abbiam fatto.
È una notte piena d’incensi e di soli,
lente da uno stagno, attraverso molli fili d’erba
lumache fragili gli si arrampican sulla barba.

Gli dico: — «Padre, dopo aver creato
con una parola stelle senza fine
tu le hai contemplate con meraviglia
e forse troppo a lungo gli occhi tuoi ne han fissato la luce:
e perciò sei cieco».

Tacendo mi posa la mano sulla spalla.
Nel pensiero gli passan miracoli profondi e nuovi.
Le palpebre ho umide di rugiada
e perchè non oda
come mi batte il cuore, in fretta m’alzo da cedere:
— «Padre, andiamo più lontano».

Una stella dal cielo come una lagrima cade.

(Dal volume «Antologia poefilor de azi» di Pillat e Perpessicius. Bucarest. 1925. Trad. di Ramiro Ortiz).


Ion Barbu è il più recente dei poeti romeni, quello che rappresenta l’ultima fase della poesia «modernista». Ha cominciato con delle poesie geologiche di sapore un po’ parnassiano, ma presto è passato a un genere del tutto diverso, attirato da quanto c’è di intimamente armonico e di musicalmente illogico in certe filastrocche popolari ch’egli ha saputo piegare alle più raffinate forme della poesia moderna. In altre poesie ha dato un tuffo nell’esotismo nordico («Riga Cripto e lappona Enighél») ed orientale («Nostratin Hògea»). Recentemente ( «Gioco secondo»), si è chiuso in un ermetismo matematico (il Barbu è assistente alla cattedra di geometria proiettiva) difficilissimo a interpretare da chi non abbia le cognizioni scientifiche necessarie. Diamo qui un saggio dei tre periodi poetici del Barbu, traducendo «Panteismo», «Il pavone», «Riga Cripto e Lappona Enighél» e «Uvedenrode»:


PANTEISMO

di Ion Barbu

Andremo verso la calda Cibele impudica,
su cui fiori d’avorio e umido putridume
insiem confusi intreccian la tellurica lor vita
e le abbracceremo la feconda, feminea coscia.

[p. 237 modifica]

Strappandoci dal cerchio delle forze latenti,
alla Vita universale e profonda in braccio ci daremo:
e i nostri nervi, idre dalle mille bocche, berranno
il suo nascosto mare di fiamme violente.

E da per tutto, in corpi e voci bollenti, orgia
di ritmi vivi, di lava, di fremito infinito
facendo tremar vertebre di silice e granito,
riderà folle la vital Concupiscenza.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


IL PAVONE

di Ion Barbu

S’inchinava, orientale e molle,
granturco a beccar dalla tua mano,
azzurro e caldo nel tuo grembo palpitava
come la fiamma dell’alcool nella tazza.

Su d’un ceppo seduto il tuo buffone
occhi ineguali, tristi e terribili rotava;
ma la mano ti torse come si torce un panno
e ruppe il collo all’uccello palpitante.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


RIGA CRIPTO E LAPPONA ENIGHÉL

di Ion Barbu

— Menestrello triste, più fumoso
del vino che si beve alle nozze,
dal padre della sposa regalato
di borse d’oro, nastri, «betéle» (23) luccicanti;

ignobile e pigro menestrello,
canta ancora una canzone,
raccontami d’Enighél Lappona
e di Cripto, re dei funghi.

— Paraninfo re del banchetto,
il tuo pranzo nuziale m’ha scottato la lingua!
Pur la canzone ti vo’ cantare
di Enighél e Riga Cripto.

— Cantala dunque, menestrello!
Con accenti di fuoco me la cantasti un’estate,
oggi cantamela spenta, sottovoce,
alla fine del pranzo, nella mia stanza.

[p. 238 modifica]

• • •


Molto ricercato dai boscaioli,
nel letto d’un torrente e nell’argilla untuosa,
regnava sul popolo dei funghi
Riga Cripto, nascosto cuore.

— In paesi di ghiacci maledetti
viveva, ai medesimi suoi giorni,
una piccola, mite lappona
tutta chiusa nelle sue pelli; per nome; Enighél.

Dai deserti del ghiaccio
ella discese colle sue renne
all’aria umida, sempre più a Sud,
e cadde stanca a sedere sul musco,
regno di Cripto, amor della prateria.

Su tre tappeti di frescura
lene s’addormentò. Su lei, rami di verzura.
Ma, accanto al suo seno, un Riga calvo
col suo vecchio eunuco
venne a tentarla con dolcezza:

— Enighél, Enighél,
t’ho portata la confettura,
ecco le fragole, che so ti piacciono,
prendile e versale nella bisaccia.

— Riga calvo, d’assai buon cuore
ringrazio la tua Maestà,
ma a raccogliere io vado
fragole più fresche nella valle.

— Enighél, Enighél,
la notte è al termine. Vien la luce.
Se tu te ne vai a far raccolta,
comincia, ti prego, da me.

— Ti coglierei, Riga gentile,
ma l’alba comincia la sua danza
e tu sei umido e delicato,
sì che temo che presto morresti.
Lasciami andare e attendi a maturare.

— Maturarmi, Enighél,
molto vorrei. Ma, vedi, dal sole
cento sogni paurosi
mi tengon lontano. È rosso, è grande,
ha macchie terribili d’ogni specie.
Lascialo andare, dimenticalo, Enighél,
nel sogno fresco, all’ombra.

[p. 239 modifica]

— Riga Cripto, Riga Cripto,
pari a lama maledetta
la tua parola nel sen mi s’è fitta:
io dell’ombra molto ho paura.

Chè, se d’inverno son fatta,
e l’orso bianco è mio buon cugino,
dall’ombra spessa mi stacco,
adoro il sole e la sua saggezza.

Tra lampade di ghiacci, sotto le nevi,
tutto il mio polo un sogno solo sogna:
un disco prezioso dal bordo verde,
un disco d’oro il suo sogno sogna.

Adoro il sole e la sua saggezza,
chè il mio spirito è nel mio petto fontana di vita.
e mia Signora è la ruota preziosa
che vedi nel mio spirito, fontana.

Al sole la ruota s’ingrandisce,
all’ombra solo la carne cresce,
e sonno è la carne. Si sgonfia,
ma vento e ombra di nuovo la gonfiano.

Bene parlò e gentilmente
la piccola lappona Enighél,
ma il tempo, vedi, non rista
ed il sole ora fermo sta,
scagliato in alto come un anello.

— Piangi, troppo saggia Enighél!
A Crypto, Re-fungo,
come potrebbe la luce piacere?
Egli si staccò pian pianino
da Enighél,
per mettersi al riparo del sole, all’ombra.

Ma il sole, infocato anello,
si specchiò profondo in lui
e dieci volte senza discrezione
gli accarezzò la testa calva.

Ed ecco il dolce succo s’inasprisce,
ecco che il cuor gli scoppia
verso quelle dieci macchie-bersaglio,
veleno e olio rosso
fermentano da profondità maledette.

Chè difficile è molto che il sole soffra
fungo crudo di bosco,
chè lo spirito non è fontana
che sol per l’uomo, belva antica,
ma, nelle creature più delicate,
pien di veleno un bicchier è il pensiero.

[p. 240 modifica]

a così fu pel folle Riga Crypto.
cui il fuoco ha bruciato il cuore,
sì che a vagabondar rimase
per la foresta con altra bella
e col Laur-Balaur
scialacquar oro nel mondo,
E lasciatelo scialacquare! Poi esca dal bosco
con Masalarizza sua fidanzata,
che gli terrà le veci di Regina.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


UVEDENRODE

di Ion Barbu

Sulla rape Uvedenrode
con molti gasteropodi
ipersessuali,
ipermusicali.
Gasteropodi,
o limpidi rapsodi!
modi di odi,
cieli-sciarpe:
antenne in arpe.

Uvedenrode,
oltre le mode,
Olimpo.

Nell’ora ipercristallina,
accanto alla bella Giraldina,
per le sue braccia,
con queste idee:

Paralogica, l’ora;
e la chiocciola, sessuale;
dalla pietra dura,
ti prego, appari,
papà geologico,
amante mitologico;
va’, cavallo d’onda,
sulla giumenta
colla calce di sopra in spirale!

Incarnato desiderio,
ecco una fanciulla.
Prego, una volta,
prego, una seconda volta,
fino alla nona,
finché l'avvolgi
in brividi leggieri,

[p. 241 modifica]

e, galante, in lente
antenne attente,
la discendi
e la porti pian piano
(retrospettivo pacchetto)
oltre il tempo,
oltre le mode,
a Uvedenrode.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Si tratta, come si vede, degli amori di due conchiglie, meravigliosamente descritti anche dal nostro Soffici (che, a dir vero, parla di «lumaconi» nostrani). L’attrattiva della poesia consiste nella molteplicità e nella rarità non forzata delle rime, nel suo ritmo di cantilena popolare, nella sua stessa oscurità, per cui è necessario rileggerla parecchie volte prima di capirla, e nella soddisfazione vittoriosa d’averla finalmente capita. Un po’ insomma come per le poesie del Valéry, matematico anche lui, ma che — siamo intesi — non ha niente a che fare con quella del Barbu.

Chiudiamo questa rassegna di poeti romeni contemporanei con Camil Petrescu, autore di umane poesie di guerra e di quel gioiello di poesia borghese ch’è «Una radura per Kiksikém» in cui canta, con accenti di freschezza primaverile, un suo gentile amore per una piccola e biondissima ungherese.

PRIMAVERA

di Camil Petrescu

S’era stati in un pantano di neve
che cominciava a fondersi
e di fango acquoso,
che scorreva a valle a rigagnoli.

Ma ora in una settimana il vento
aveva risanato la terra.

Nella trincea
camicie lavate sono stese al sole.
Negli angoli delle traverse,
sui panchetti,
buttate a casaccio,
brillano metallicamente tubi di cartucce,
baionette,
e, in disordine,
per terra, ti stan tra i piedi
sacchi di vettovaglie, vanghe e cappotti.

[p. 242 modifica]

Poi che il fango ingordo s’è indurito
ed è diventato
colle orme delle suole
un nastro di gialle impronte.

Splende il sole.

Nelle fosse profonde,
in cui non entriam che carponi,
nelle fosse oscure, dal grave odore,
e ancor piene di fango,
dove ci siam torturati tutto l’inverno,
nessun di noi è rimasto infitto.

Come dei malati su una terrazza d’ospedale,
per quanto lo permette la trincea,
i soldati pallidi sono usciti al sole
e, felici, si salutan con sorrisi:
splende il sole,
c’è da per tutto un’aria bianca e fragile di festa
primaticcia,
e persino il riparo di terra gialla ride
con arie d’oro malato d’anemia.

Sulle spalle delle colline rivestite
di verde crudo, minore,
sulle valli che si rincorrono e folleggiano
con tondeggiamenti d’onde,
sul bosco che tuttavia è rinverdito
(ed era tanto nero!)
cade una pioggia delicata di luce.

All’ombra macchie ritardatane di ghiaccio
sembran gridi,
e, tra le pietre umide,
luccica fresca l’acqua del fiume giù nella valle,
mentre sui fianchi spogli delle colline
sono apparse stradine impensate,
e tante cose nuove di sotto alla lieve,
poi che sotto l’imponderabile fascio
di raggi immobili,
l’intero paesaggio
come un convalescente coricato supino,
sorride al sole, contento.

Intorpidito
io mi domando sorridendo come potrei fare
per stendermi un poco
sul declivio così dolce e concavo
da sembrar un telo verde di amaca.

Un compagno mi chiama con insistenza
frettolosa e nervosa,

[p. 243 modifica]

per paura
che non cessi, finch’io traversi il camminamento
la scena miracolosa:
sul declivio lento,
un soldato si rappezza la giacca sdrucita,
e, con infinita indifferenza,
così, seduto, come se ne sta, alla turca,
di tanto in tanto volge il viso sofferente
verso il cielo, verso il sole,
e sorride
nella pioggia irreale della luce.

Raggomitolati nella trincea, i soldati lo contemplano
inorriditi di quella candida follia,
ridendo con troppo contrazioni nervose,
e, mentre l’uomo continua a cucire,
preoccupato ora dei particolari,
essi lo veggono a ogni momento
cadere, colpito duramente in fronte.

Ma, come su di un vassoio,
nell’erba,
a venti passi dalla trincea appare
un capo biondo di tedesco timido, con barba
e baffi color d’erba ingiallita.
Guarda con occhi vividi quello su cui
cadon tanti raggi caldi,
e gli sorride luminoso
col viso fiorito,
ebete di felicità:
”Die Sonne, Kamerad!”

(Trad. di Ramiro Ortiz).


VANITAS

di Camil Petrescu

Salendo in spirale,
un tornio con lame d’argento
ti modellò nell’avorio,
e la tua bellezza è una spirale che ascende...

E come effimeri siamo
tuttavia noi, noi due...
soave Kiksikém,
tutta la notte
tra l’immensità del passato
e quella che viene!
Ci siamo incontrati per un miracolo del caso,
di due stirpi diverse,
nell’umanità che fluisce, due corpi.

[p. 244 modifica]

Piccolina,
fino a noi
la terra feconda ha riversato luci
dal suo seno, e da quello della notte
milioni di creature a schiere,
che, dopo aver seguito collo sguardo
il corso del sole,
son tornate alla terra.
E, dopo noi,
mondi innumerevoli verranno,
la vita fiorirà in miracoli impreveduti
e chi può sapere
che gioie siderali
vedranno quelli che verranno?

O Kiksikém,
espulsi, cogli occhi chiusi,
dal seno fecondo della terra,
ad essa torneremo senza lasciar orma,
e, davanti alla bellezza futura
delle cui onde nessuna s’estingue,
deboli e soli,
lottando contro la legge appiccaticcia dell’argilla,
noi altro non abbiamo
che, piccolo e fragile,
il nostro amore, che tristemente sorride,
e nulla più.
Poi che tra due mondi
noi stiamo nella notte,
come due stretti a legger lo stesso libro
nei campi, lontano.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


I VERSI

di Camil Petrescu

T’ho scritto che ho composto per te
dei versi,
e la tua curiosità non ha più pace...
M’hai trascinato accanto a te sul divano,
su cui cadon tende rosse di velluto,
e vuoi che te li traduca nel mio tedesco buffo
del quale tuttavia
ora non ridi più.

Ascolti cogli occhi,
col nasino,
e colle orecchie piccoline,
e persin la seta del tuo vestito
sta saggia e non fruscia più.

[p. 245 modifica]

Io ti dico quel che mi passa per il capo
e la tua serietà è senza confini.

Ma ecco, mentre credo d’essermela cavata,
che un lampo di sorriso degli occhi miei
ti rivela l’inganno,
e piombi su di me
furiosa, coi tuoi piccoli pugni.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Degli scrittori drammatici appartengono alla corrente modernista: Mihael Saulescu («La settimana dei miracoli»), Ion Marin Sadoveanu («Anno Domini»), Ticu Archip ( «L’anello», «Lumicino»), Camil Petrescu ( «Anime forti», «Atto veneziano», «Danton», «Mitica», ece.), Adrian Maniu «L’architetta), Lucian Blaga («Mastro Manole»), e soprattutto G. M. Zamfirescu, che, seguace del surrealismo, tende a proiettare nel cosmico avvenimenti della vita quotidiana ed ha studiato un lato della piccola borghesia dei quartieri popolari di Bucarest trascurato dal Carageale nella sua «Signorina Anastasia» di una potente drammaticità. Anche Ion Minulescu ha dato al teatro delle opere interessanti benché un po’ paradossali ( «Parton le cicogne», «II manichino sentimentale») piene di spirito contro la banalità della vita quotidiana e quelle che il Flaubert chiamava le «idées reçues».

Da «La Settimana luminosa» di Mihail Saulescu.24


SCENA IV.

La voce di fuori. — Oooh!... viene Giovanna...

Il malato. — Mamma, due bambini... Non son due bambini che sonan le campane... Portan lampade accese...

La donna. — Sente avvicinarsi la morte... [p. 246 modifica]Il malato. — Quanta luce c’è fuori!... Ecco i due bambini... No, non portano loro la luce, mamma... Che fanno ora? che fanno?... che fanno?...

La voce. — Guarda...

La donna. — Ecco... muore...

Il malato (agitandosi). — Gridano... Perchè gridano? Ah!...

La donna. — Muore davvero...

Il malato. — Mamma...

La donna. — Costantino, muori?...

(Passa qualche tempo in silenzio. Il malato non respira più affannoso. La donna lo guarda con terrore ed attenzione intensa. Poi il malato toma a calmarsi. La donna si avvicina ancora. Lo chiama).

La donna. — Costantino!

Il malato. — Mi duole...

La donna. — Non muore. (Guarda fuori della finestra): E la mezzanotte è vicina... Dio!... Dio!... (Fa stordita qualche passo verso la finestra): La mezzanotte è vicina... (Torna indietro): E se morisse domani?... Le porte dell’inferno domani s’apriranno di nuovo... Domani s’apriranno di nuovo le bolge dei peccatori... Domani le anime cominceranno, come prima, ad esser giudicate... (Cade sulla cassapanca).

Il malato (s’agita). — Dammi un po’ d’acqua...

La voce. — Chiudi la finestra, Giovanna!...

La donna (sta un momento sopra pensieri). — Non muore!... (Sta di nuovo pensierosa): Lo soffoco? (Lo guarda. Il malato respira con difficoltà. S’avvicina, trema tutta. Allunga la mano a prendere un guanciale. Si ferma guarda fiso il malato).

La voce. — Chiudi la finestra, Giovanna...

Il malato. — Perchè gridano?

La donna. — I morti non permettono che muoia...

Il malato. — Perchè gridano?

La donna. — Non permettono...

Il malato. — Perchè grida Gianni?...

La donna. — E la mezzanotte s’avvicina...

Il malato. — Mamma... (La lampada frigge e si spegne scoppiettando; la stanza s’oscura sempre più).

La donna (voltando il capo). — La lampada...

La voce. — Dio!...

Il malato. — Le campane...

La donna. — Non muore... Non può morire... La morte è accanto a lui, ma loro, i morti, non permetton che muoia... Voglion farlo soffrire., soffrir molto... voglion farlo soffrire fino a domani... E la morte non lo può prendere fino a domani... La morte è qui... Sì, proprio qui... È stata lei a spegner la lampada. (Dopo un attimo, girando gli occhi attorno): Morte, dove sei?... Dove?...

Il malato. — Perchè, mamma, c’è tanto sangue nella stanza? (Respira con difficoltà e s’agita tutto): Perchè gridano?... Ahi!...

La donna. — Dove sei?... Non hai più forza?... Non hai più forza, morte?... Non l’hai?... Vieni... Vieni qui!... Te lo dò io... Son io che te lo dò, morte!... Ti aiuto io... Dove sei?... (impaurita): Ah! (rabbrividisce): No... no... non così vicino... Sei venuta troppo vicino...

Il malato. — Mamma... [p. 247 modifica]La donna. — Aiutami!... Ti aiuto... te lo do io nelle mani, morte... (silenzio).

La voce. — Giovanna, chiudi...

Il malato. — Le campane non sonau più...

La donna. — Sssst!...

Il malato (debolmente). — Le campane non suonan più... Non gridano... Non gridan più... Non c’è più luce... Perchè non suonan più le campane?... Perchè non gridan più?... Perchè non c’è più la luce?...

La voce. — Guarda!...

La donna. — Sssst!...

Il malato. — Mmma...

La donna. — Su!... Vieni!...

Il malato. — Ah!...

La voce (terrorizzata). — È entrata... La donna. — Ah!...

(Si butta sul malato col guanciale e glielo gitta sul viso. Pallida e tremante, lo preme con tutta la sua forza... Sale colle ginocchia sul corpo del malato e preme, preme, come impazzita... Sotto di lei, il corpo del malato si divincola debolmente, un attimo, due... si dibatte ancora una volta.... rantola... trema... e rimane stecchito).

La voce (dopo un momento). — Giovanna, Giovanna, perchè non hai chiusa la finestra?

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Atto veneziano» di Camil Petrescu.

Atto III - Scena I.


Alta (assai buona, calma, colla medesima voce del principio dell’atto). — Oh, no! Sei stato crudele..., sei stato indegno, Cellino... E non lo avevo meritato, io che ti avevo sacrificato tanto. (Racconta in modo naturale, con commozione infantile, standogli accanto): Ricordo una dolce sera di primavera... Veniva dal mare un venticello fresco, che rapiva l’anima e la faceva sognare così come rapiva e faceva svolazzare il tuo mantello. Era un sabato sera... Le botteghe eran chiuse e i lungomare spazzati. Le ragazze tornavan dal lavoro con dei garofani rossi nei capelli. Era Sagra a Santa Ma ria Formosa e si recavano al ballo. Ed io ero sola... tanto sola... Me ne stavo appoggiata a una bitta del lungomare cogli occhi perduti all’orizzonte. (Spiegando commossa): Avevo ricevuto notizie di mia madre da un marinaio. Ero triste e mi sembrava dì non aver nessuno che fosse mio e di non esser di nessuno. Sognavo un tuo sguardo, un tuo sorriso. «Che vuol dire un sorriso?» — mi dicevo — «Non ha nessuna importanza. Lo gitti senza pensarci al primo che passa». Comprai cogli ultimi soldi che mi restavano un mazzolino di violette e t’aspettai accanto alla Casa del Mare. Usciti con al braccio la piccola Donna Dianti ed alla... (s’interrompe)...le riconobbi il neo alla spalla sinistra. Quando mi giungesti vicino, ti offersi i fiori: «Prendili, nobil cavaliere, prendi questi fiori... e fresca come loro ti resti sempre la bocca della donna che ami, fino alla fine dei vostri amori!». (Tornando nervosa per il ricordo di quell’ora): Ed aspettavo che sorridessi (stanca). [p. 248 modifica] Fingesti di non vedermi (si trattiene), mi scostasti dalla tua strada come qualcosa che t’impedisse il cammino. Restai di pietra. (Con accento strano, contratta in volto): «Cavaliere, prendeteli» — insistetti — «vi porteranno fortuna, vi faran distinguere la via della vita da quella della morte... (con accento tragico) tra la vita e la morte!... La piccola donna Dianti me li prese di mano. (Cogli occhi umidi): Mi venne da piangere e volli baciare la mano, l’esile mano di bimba (trasale in tutto il suo essere): Ma le strappasti di mano i fiori e li buttasti nel canale. (Con occhi vitrei): Tra la vita e la morte!... (spaventata essa stessa da queste parole): Questa è la sera della tua morte, Cellino!...

Cellino (che ha ascoltato come in sogno, debolmente). — Alta!...

Alta (pallida). — L’ho attesa, questa sera, l’ho attesa a lungo, e l’ho preparata! Era necessario che mi sollevassi dal fango in cui ero caduta... Al teatro di San Demetrio, a Milano... per un anno intero ho spazzato il palcoscenico ed ho aiutato le attrici a vestirsi. Ero incaricata di badare alle lampade, ma cogli occhi seguivo quelle che recitavano... Ero tutta irriggidimento e volontà. Quando ricordavo te, mi sembrava che un pugnale mi si rigirasse nel cuore... e mi si moltiplicavan le forze e la fermezza della decisione. Recitai anch’io. Cominciavo a vìncere... Sentivo come dietro di me s’accendevan sempre più gli sguardi degli uomini. Mi dicevo che un giorno il mio nome, la mia fama e il mio fascino ti tornerebbero a turbare i sensi. Cercavo la strada che mi portasse a te... Ma, quando l’ebbi trovata, mi venne da ridere... Mi vinse il disgusto. E, quando il tuo ricordo mi turba ancora (spezza la frase), giacché così vile come sei, mi turbavi i momenti più belli (abbattuta), quando compresi che per te, solo per te, ero tornata a Venezia, fui presa da un immenso disprezzo per me stessa.

Cellino (nel tremito della morte). — Alta... perchè una sì nera follia?

Alta (con calma di giudice). — Vieni qui. (Colla mano sulla spalla di lui): Qui. in questo quadro, puoi ammirar Titania del dramma shakespeariano... Oberon le aveva scagliata la maledizione che s’innamorasse del primo che trovasse sulle sua strada. (Sorridendo con amarezza e nervosità): E il primo in cui s’imbattè fu una testa d’asino. (Si volge verso di lui): Comprai il quadro pensando a me, a te... al nostro amore. (Resta qualche tempo soprappensiero): Ma poi s’è trovato quel nobile patrizio e valoroso soldato che, contro tutti, contro la famiglia, contro la legge, mi prese con sè, mi condusse a casa sua, mi dette il suo nome...

Cellino (in fretta, felice d’aver trovato come placarla). — Sì, sì, anch’io ne fui tanto contento... ne fui felice... quando lo seppi...

Alta (tagliente). — Sì, ma l’hai offeso... Ti sei vantato a tavola, da Mara, d’essere stato mio amante... Te ne sei vantato, giacché sei vanitoso e spaccone... Chi ti crederebbe tanto vile a sentirti parlare?

Cellino (terrorizzato ch’ella l’abbia risaputo, protestando). — Ero stordito dal vino... Non mi rendevo conto di quel che dicevo... (Si sente batter l’orologio di San Marco): Lasciami andare... lasciami andare una buona volta, Alta! (Quando s’accorge che la donna, sopra pensieri, non lo ascolta neppure, in un accesso di disperazione, si spoglia del farsetto e tenta buttarsi nel canale dalla finestra).

Alta (resta un momento sorpresa, poi torna in sè, apre degli occhi enormi, poi, con un grido che par le strappi l’anima): No, Cellino!... (Corre come forsennata per trattenerlo): Che vuoi, che vuoi fare? [p. 249 modifica]Cellino (dibattendosi): Lasciami... lasciami... Nuoterò fino al muro dell’Arsenale, fino alla mia gondola. Ma lasciami uscir di qui: sento d’impazzire!

Alta (agitata, con accento di preghiera, e una specie di pianto nervoso senza lagrime). — No, No, Cellino. La gondola non c’è. E poi non potresti scalare il muro dell’Arsenale. Che vuoi fare? È una pazzia. Potresti annegare. E questo non lo voglio. (Gli avvince le braccia attorno al collo).

Cellino (impietrito). — Alta, che vuol dir questo?

Alta (terrorizzata, abbracciandola come una cosa cara che si è stati in procinto di perdere). — Vorresti morire? E che sarebbe per me la vita senza di te?

Cellino (sempre stupito). — Alta, Alta, che vuol dir questo?

Alta (dal profondo dell’anima, da tutto il suo essere). — - Non lo so, non so più nulla; ma so che impazzirei, se tu morissi.

Cellino. — E Gralla?

Alta. — Ah, ah, ah! È stata una follia. (Quasi gli si butta ai piedi): — Non è vero nulla, non è vero nulla!...

Cellino (che non sa rendersi ancora conto di come si sia salvato). — Che dici?

Alta (in fretta, sempre più appassionata). — La flotta parte questa sera. Va contro i pirati. Ci sarà battaglia in alto mare.

Cellino. — E il Conte?

Alta. — Il Conte è già partito.

Cellino. — Ma non doveva salpare domani?

Alta. — Si tratta di una notizia fatta diffondere ad arte. Si son prese misure per disorientar le spie dei pirati.

Cellino (che non crede a sè stesso). — Davvero? (Con gioia infinita): Davvero?

Alta (abbracciandolo senza veder più nulla). — Sì, sì!

Cellino. — Ma che è avvenuto? Perchè tutto ciò?

Alta. — Non lo so, non so più nulla; so solo che t’amo, che sei quanto di più caro ho portato sempre nel cuore...

Cellino (tornando in sè). — Oh, le donne!

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Mastro Manole» di Lucian Blaga.


Atto V - Scena III.


Manole. — Ho toccato colla fronte la terra e ho detto: «Signore, se punizione è stata, perchè m’hai punito? Non ho rubato melagrane proibite per conoscere il bene e il male. Non mi son preso giuoco, spingendo gli uomini alla lussuria, degli angeli mandati a Gomorra. Non ho voluto innalzare una torre dalla cui sommità ridere del popolo tuo, Signore. Ho sentito il tuo soffio avvicinarsi alla mia bocca e quindi allontanarsene. Solo la tua glorificazione ho voluto. E tuttavia m’hai messo alla prova con tutte le gerarchie tue angeliche. Se punizione non è stata, che è stato?

Bogumil. — Vocazione e grazia.

Voda. — Non sii mai ingiusto cogli avvenimenti, Maestro. Non è stata una fortuna, crudele e venuta troppo tardi, ma sempre una fortuna, l’aver [p. 250 modifica] potuto innalzare una tal chiesa? È la più bella di tutta la cristianità dell’oriente, cioè della sola vera cristianità. Sta qui salda sulle sue fondamenta davanti agli occhi nostri e tuttavia è tanto leggiera che potrebbe benissimo galleggiare anche sul mare. Qui o trasportata a volo per l’aria in altro paese, sempre sarebbe la più bella di tutte. Ed è frutto del tuo lavoro e delle tue mani!

Manole. — Che è il lavoro? Che son le mani? Che son l’amore, il dolore e la morte nostra? Altezza, ed anche tu, padre Bogumil, pregate che non si radichi nel cuor di nessuno come in quello di Mastro Manole di tremenda memoria la passione del fabbricare. Chè questa passione, quando entra nel cuore di un uomo, è fuoco che distrugge chi lo porta in sè e tutto all’intorno. Ed è punizione allo stesso tempo che maledizione. Indovinerà mai qualcuno? No, non indovinerà; — e nessuno indovinerà — dove sono? che vogliono? Non chiedete linguaggio chiaro a chi ha rotto il pensiero. Di sotto i piedi la terra non vuol sparire; nella tenebra fitta mi trovo senza via d’uscita e senza bastone; Signore, per qual colpa a me ignota sono stato punito col desiderio di realizzar la bellezza?

Voda. — Credevo di trovarti più calmo.

Manole. — Non trovo più il mio posto in tanto spazio. L’ora mia è passata. Ho dato quel che ho dato, ogni di più è superfluo. Davanti alle porte chiuse sanguino accanto a quanto fu per me più bello nella mia vita.

Bogumil. — Non giudicare, non pesare, non ragionare. Credi! Manole. — Senza volerlo oggi e sempre il mio pugno si stringe contro la fede; oggi e sempre!

(I boieri e i monaci si muovon minacciosi e gli s’avvicinano scandalizzati).

Bogumil. — Calmati, Manole, frena le tue parole. Credi! Non giudicare, non misurare. Credi! Non maledire, non ragionare. Credi!

Manole. — Guarda il mio braccio: non è armato. Guarda i miei occhi: oggi son buoni. E blando è anche il mio modo di camminare e di stare in piedi, giacché... giacché... Oh, non so, ma il mio spirito è tanto abbattuto, da non poter esser che amaramente pacificato... Tutto quanto m’è restato è la violenza dello slancio...

Bogumil. — Ti sarà perdonato questo peccato ed anche mille altri!

Voda. — Non istringere i pugni, Manole, chè la tua chiesa canta per tutto il paese. Se la vedessi una volta dal fondo della valle, lo sguardo ti si adagerebbe sui ricordi. Tutto è anche più meraviglioso di quanto si poteva vedere nel bozzetto. Io, quando la vedo, dimentico i tesori che m’è costata, la cattiveria dei cortigiani e le trame dei congiurati.

(I boieri e i cortigiani si guardan l’un l’altro significativamente).

Manole. — Il cuore grida giorno e notte la sua solitudine come i galli di bronzo dalla cima delle fortezze abbandonate. No, Signore, i miei ricordi non si spengono. Gli occhi non si chiudono. Alle mie orecchie il sonno non tace Mi sento come una lagrima tardiva e cerco riposo di pietra.

Bogumil. — Grande è il tuo dolore, nascoste son le vie del Signore.

(Vuol far sopra di lui il segno della croce).

Manole (glielo impedisce). — Ancora no, Padre, ancora no.

Un monaco. — Rifiuta il segno della croce!

Voda. — Manole, che hai? Tu sei malato.

Manole. — Ella è morta nel muro, ma in me grida ancora. Innalzandosi [p. 251 modifica] dalla mia carne, il suo grido vince tutto il rumore del mondo. E son sordo e quasi non odo il suono delle parole della Maestà tua. Per riudir la canzone che un giorno s’udì uscire dalla tomba del muro, mi son fermato un attimo e tutto il sangue in me ha tremato. Non ho più nulla da attendere e tutta all’alba, tra giorno e notte, m’attardo ancora accanto al muro, e il mio sguardo si fissa sempre sullo stesso punto, sperando che la parete s’apra come la tomba di Colui che il terzo giorno risuscitò, e ch’io la vegga uscire — solo luce — così come vi entrò.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «La Signorina Anastasia» di G. M. Zamfirescu (25).


Atto III. Quadro VIII - Scena III.

SORCOVA-ANASTASIA.


Anastasia. — Giovanni caro, questa notte è l’ultima (26), l’ultima che passiamo insieme (in fretta, sforzandosi a ridere) perchè mi guardi così? Domani me ne vado con Vulpascìn a casa sua, sua moglie...

Sorcova (come se avesse il capogiro). — Oh!

Anastasia. — O forse uno di noi due muore!

Sorcova (rassicurato). — Ora dici bene.

Anastasia. — Domani non saremo più soli, forse, non ne avremo il tempo, e... meglio ora: dociamoci quel che abbiamo da dirci, e... (gli bacia le mani ripetutamente) facciamo la pace.

Sorcova. — Anastasia!

Anastasia (non può ritener le lagrime e lo abbraccia). — Mi dispiace per te, Giovanni caro! Nonnino! Anima innocente di bambino! Chè ti lascio solo...

Sorcova (piangendo). — Cuoricino del nonno, cuoricino!

Anastasia. — ...chè ti lascio solo, nonnino! Non mi maledire! Non mi maledire domani! Comprendimi e perdonami... (passa rapidamente dal pianto al riso e, volutamente infantile): Ricordi, nonno, quando ero piccina? Mai ho camminato per le vie oblique degli uomini. Sono andata sempre diritto attraverso luoghi incolti, passando per i cortili delle case, scalando i vagoni quando alla barriera eran fermi dei treni merci, — sempre diritto! Una volta trovai un orso sulla mia strada. Uno zingaro lo aveva fatto danzare in una commedia senza velo (27) e tutto il quartiere s’era radunato a sentir le spiritosità svergognate dello zingaro; non avevo per dove passare. Gridai: «Fa’ scansar quella bestia!». Ma lo zingaro rise: «Passa, se puoi!». Si beffava di me. Digrignai i denti al punto che ne sono uscite scintille che [p. 252 modifica] m’hanno scottato il palato! Un passo ed ho infitti i tacchi nel ventre dell’orso. La bestia, impaurita, divenne come di pietra, lo zingaro dovè appoggiarsi allo steccato per non cader dalla meraviglia e la folla rimase a bocca aperta. Io passai oltre ridendo!...

Sorcova. — Avesti coraggio, ma non comprendo perchè mi dici queste cose!...

Anastasia. — Perchè ti ricordi chi sono e capisca perchè domani mi sposo con Vulpascìn.

Sorcova (con sicurezza). — Io l’ho capito da quando me l’ha detto Luca Lagrima: per darlo nelle mani della polizia!...

Anastasia (con una fiamma di gioia negli occhi). — E se non lo facessi?

Sorcova (stupidito). — Co... come sarebbe a dire?

Anastasia (con negli occhi una gioia anche più viva). — Se sposassi Vulpascìn proprio per non darlo nelle mani della polizia?

(Trad. di Ramiro Ortiz).


Da «Il manichino sentimentale» di Don Minulescu (28).


VETRINA II


Radu. — Son venuto a chiederle un favore... un semplice favore che lei sola potrebbe farmi (grave). Voglio, Signora, scrivere un capolavoro.

Jeanne (precipitosamente). — Non crederà per caso che io voglia impedirglielo?

Radu. — No, Signora. Ma per iscriverlo ho bisogno della collaborazione di una donna del suo mondo... dell’highe-life, come si dice.

Jeanne (sempre più incuriosita). — Ed ha deciso che quella donna debba esser io?...

Radu. — Sì, Signora!... Proprio lei...

Jeanne (lusingata). — Ah! Oui... J’y suis!... Je comprends.

Radu. — Ora m’ha capito. Non è vero?

Jeanne. — Oh! Quelle idée, mon Dieu!...

Radu. — Non le chiedo se non d’ascoltarmì e di rispondermi... Ma desidero che mi risponda con naturalezza... come se io le facessi davvero la corte e che davvero facesse piacere anche a lei di sapersi amata da me. (Jeanne diventa sempre più attenta). Voglio che ci parliamo come due amanti appassionati, come beninteso saranno gli amanti del mio dramma... Che ci diciamo ogni sorta di parole d’amore e, occorrendo, ci baciamo.

Jeanne. — Comment?...

Radu (lirico). — Oh non tema, Signora... Di quanto avverrà tra noi due, nulla sarà vero.

Jeanne. — Ah!... bien... Radu. — Mi darà solo la possibilità di sapere come ama una donna dell’alta società!...

Jeanne (con ribellione apparente). — Ma la sua curiosità mi offende!

Radu. — Mi perdoni, Signora, la mia stupida curiosità... Ma desidero sapere se anche loro donne dell’aristocrazia possono veramente amare... [p. 253 modifica] Desidero sapere quale creazione artistica si può fare dell’eroina del mio dramma, che sarà una donna dell’high-life... Un semplice manichino da vetrina sociale, o... forse anche... un manichino sentimentale?

Janne (con delle arie d’indulgente rimprovero). — Oh, oh!... Mais vous allez un peu loin cher Monsieur...

Radu — Crede dunque impossibile la nostra collaborazione?

Jeanne (con autorità). — Trovo prima di tutto assurde le sue proposte.

Radu (meravigliato). — Come, Signora?... Possibile?... Lei non ha mai amato?...

Jeanne (ribellandosi). — Ah, non!... Ça c’est trop fort.

Radu (avvilito). — Le è dispiaciuta, Signora, la mia domanda?

Jeanne — Ma prima di tutto, che può significar questa domanda? una fantasia d’Autor drammatico o una gaffe di persona maleducata?...

Radu (compiacente). — Se pensa rispondermi «sì», la mia domanda è una fantasia d’Autor drammatico, perchè per il mio dramma ho bisogno della collaborazione di una donna che abbia amato o ami ancora... Se poi pensa rispondermi «no», ogni altra spiegazione è inutile (pausa un po’ lunga, durante la quale Jeanne si agita senza rispondere a Radu. Indietreggia lentamente verso la porta in fondo alla scena, dove si ferma un attimo rispettosamente e dice): Le bacio le mani, Signora...

Jeanne (trasalendo), — Chi le ha dato il permesso di baciarmi le mani?

Radu (ingenuamente). — Il suo atteggiamento, Signora...

Jeanne (con autorità). — E che cosa ha potuto capir lei del mio atteggiamento? Diceva che fino ad oggi non aveva conosciuto nessuna donna nel nostro mondo.

Radu (avvilito). — Nel nostro mondo, Signora, il suo silenzio vuol dire: «vattene!».

Jeanne (altiera). — Nel nostro mondo, Signore, il mio silenzio vuol dire: «resta!».

(Trad. di Ramiro Ortiz).


La critica letteraria è rappresentata dal Iorga, dal Densusianu, dal Bogdan-Duică, dal Puscariu, dal Drouhet, dal Caracostea, dal Cartojan e da altri minori.

Le riviste letterarie più importanti sono, oltre le «Convorbiri Literare» che continuano ad apparire per forza d’inerzia, benché non rappresentino più oramai alcuna speciale tendenza, la «Viața Romîneasca», la elegantissima «Gândirea» (Il pensiero), la «Revista Fundațiilor Regale», la «Vremea» (Il tempo), a non parlare di una quantità di riviste giovanili che spuntano a primavera per morir nell’autunno, ma che spesso rifletton tendenze interessanti; ed alcune regionali, come p. es., la «Datina» (La Tradizione» di Turnu-Severin, le «Archivele Olteniei» e «Ramuri» di Craiova, «Cele trei Crișuri» di Oradia-Mare in Transilvania, ecc. che fan partecipare la provincia al movimento nazionale.


Note

    Uno sguardo all’evoluzione dell’arte drammatica. Buc., Göbl, 1910. — Venere e la Gioconda, spunti e fantasie. Buc., Librăria Nouă, 1912. — Polyeucte. Trad. dal Corneille (in coll, con D. Nanu). Bue., Steinberg, 1916. — Il Negoziante di Aromi, racconti vissuti e immaginati. Buc.. Steinberg, 1916. — Di qui non si passa, poema eroico (in coll, con M. D. Radulescu). Iași, «România», 1917. — La Maestà della Morte, pagine del rifugio. Buc., Steinberg, 1919. — Autori e attori, pagine di critica drammatica. Buc., Steinberg, 1920. — Le cascate del Reno, pagine dei giorni buoni e di quelli cattivi. Buc., Steinberg, 1921. — Racconti. Buc., «Casa Scoalelor», 1921. — Il Purgatorio, romanzo, voll. I-II. Buc.. «Cartea Românească», 1922 - 2° ediz., 1937. — Poesie, ed. completa. Buc., «Cultura Națională», 1923.

  1. Per la redazione di quest’ultimo capitolo mi sono in parte servito, col consenso della casa editrice, che ringrazio vivamente, di quanto avevo già pubblicato sull’argomento nel mio volume «Varia Romanica» (Firenze, «La Nuova Italia», 1933, pp. 436-489). Naturalmente ho aggiornato la materia, aggiunto una ricca esemplificazione delle opere in prosa, aumentando il numero delle poesie tradotte e introdotti tutti quei cambiamenti e correzioni che mi son parsi necessarii, incominciando dal piano generale che non è più il medesimo.
  2. Răzeș (dall’ungherese răszes) o, come pur si dice moșnean (dall’albanese mosvë, «vecchio») vuol dire «contadino piccolo proprietario che coltiva il suo campo» a differenza del clăcuș (dal srb. tlaka «giornata di lavoro che il contadino servo della gleba doveva al padrone sulla tenuta del quale viveva e dalla quale non gli era lecito allontanarsi»), in Moldavia vecin, in Transilvania iobag e un po’ da per tutto șerb. Ora i răzeși o moșneni si distinguono appena dagli altri contadini, ma una volta costituì, vano una vera nobiltà rurale, che rimontava e rimonta a tempi molto antichi.
  3. Opere: La stradina della fanciullezza. Bucarest, «Cultura Națională». 1923. — A Medeleni. Bucarest, «Cartea Românească», 1926. — La torre di Milena. Bucarest, «Cartea Românească», 1928. — Ballo in maschera. Bucarest., ibid., 1929. — La ragazza di Zlatăust. Bucarest, ibid., 1930. — Golia. Bucarest, ibid., 1932. — Natale a Silivestri. Bucarest, ibid., 1933.
  4. Opere: Fiamme, poesie. Bucarest, Tip. «Eminescu», 1907. — Il cantico dei Cantici, poema biblico. Bucarest, «Minerva», 1908. — Poesie. Buc., Socec, 1908. — La Città del Sole ed altre poesie. Buc., Socec, 1910. —
  5. Specie di porticato intorno alle chiese ortodosse.
  6. Parete quasi sempre di legno scolpito e dorato, adorna di figure di Santi, fra il coro e l’altare.
  7. Specie di cancello di legno dorato che separa l’altare dalla chiesa e che si apre solo in determinati momenti della funzione religiosa ortodossa.
  8. Riuniti ora in volume col titolo di Amintiri (Bucarest, «Cartea Românească», 1937).
  9. Opere: Monaci e tentazioni. Bucarest, «Cartea Româneasca», 1928. — I fastidii di Padre Gedeone. Bucarest, «Cartea Româneasca, 1928. — Il confessore delle monache. Buc., ibid., 1929. — L’elezione della badessa. Buc., «Cugetarea», 1930. — Il corteo della Fortuna. Buc., «Cugetarea», 1931. — Ragazze e vedove. Buc., «Cugetarea», 1932. — Il pentimento del Padre Guardiano. Buc., «Cartea Românească», 1932. — Camere mobiliate. Buc., «Cartea Românească», 1933. — I discepoli di Sant’Antonio. Buc., «Cartea Românească», 1933. La produzione dello Stănoiu è molto abbondante, ma queste son le opere che contano. Su questo scrittore romeno si vegga ora il diligente studio di Gino Lupi, Damian Stănoiu. Milano, «La Rassegna Italo-Romena», 1940.
  10. Sulla poesia rumena contemporanea cfr. ora lo studio di Mario Roques: Poezia românească de azi. (București, Socec, 1940). Traduzione della signorina Gheorghina Ghibanescu della conferenza tenuta all’Università di Oxford dal Roques nel 1934.
  11. Victor Eftimiu, Insir’te mărgărite... București, Socec, 1920.
  12. L’aviazione ai tempi in cui fu scritto il dramma era ancora agli inizii. Un aeroplano che volasse d’inverno sembrava cosa impossibile.
  13. Sbilț o ghilț si dice in romeno quel laccio di fil di ferro di cui si servono gli accalappiacani.
  14. Moneta polacca.
  15. Il popa e il Maestro, vecchi amici, scherzano sulla loro rivalità di un tempo, quando tutti e due facevan la corte a Sofietta, ora moglie del maestro. Il popa le aveva regalato una pianta di geranii, ma non aveva saputo agire a tempo e il maestro aveva rapita la ragazza. Ora giocano a carte e rievocano (un po’ per ischerzo un po’ sul serio) quella loro rivalità antica. Il maestro si è messo in capo di far sposare sua figlia Olghetta a Georgica, il figliuolo del popa. Ma il maestro dice che come allora non fu il prete a sposar Sofia malgrado il regalo del vaso di geranii che la fanciulla aveva accettato e conservava ancora dopo maritata, così questa volta non sarà il cantiniere che anche lui ha mandato in regalo ad Olghetta un vaso di geranii quello che la sposerà ma il figlio del popa. La disputa comincia col giuoco delle carte, dove il Re si chiama in romeno Popa ed è, come la «donna», una buona carta. La fortuna ha favorito il maestro con quattro «donne» e tre «popi» mentre il Popa Ilie è rimasto coi soli «fanti», che valgono assai meno.
  16. Si allude ad una celebre papera di un noto uomo politico romeno, che in un suo discorso si lasciò sfuggire una volta un ambi tre invece di tutti e tre.
  17. Opere: Motivi e sinfonie. (Versi). Craiova, Benvenisti, 1910. — Sangue rappreso. Craiova, Samitca, 1915. — Versi venerici. Craiova, Benvenisti, s. d. — Frammenti e romanze. Craiova, Benvenisti, s. d. — Fantasticherie scolpite, id., id. — Attraverso le lenti nere, id., id. — La signorina di strada Nettuno. Bucarest, Socec, 1921. — Il caprone. Iași, «Viața Românească», 1921. — Uomini e idee. Bucarest, «Ancora», 1922. — La personalità. Bucarest, Secec, 1922. — La morte di una repubblica rossa (quella ungherese di Béla Kuhn). Bucarest, «Ancora», 1924. — Il Vampiro (dramma simbolico). Iași, «Viața Românească», 1925. — Piccolo trattato di estetica. Bucarest, «Ancora», 1929. — 1916, romanzo di guerra. Bucarest, «Adevărul», 1934.
  18. Lo stile dell’Aderca si compiace di espressioni verbali un po’ strane. Strane in apparenza, che, a chi sappia leggere, appar chiara la necessità di tali espressioni e immagini, nelle quali si rivela la personalità dello scrittore. Le conservo quindi tutte. Sarebbe stato assai facile sostituirle con altrettante espressioni ed immagini del linguaggio comune. Ma gli artisti sono artisti proprio perchè veggono e immaginano e scrivono diversamente dal volgo dei mortali!
  19. Motivi ornamentali dell’arte popolare romena.
  20. E. Lovinescu, «Istoria Litteraturii Române moderne». Bucarest, Socec, 1937, pp. 277 sgg.
  21. Nel «collezionista di pietre preziose» — m’informava tempo fa l’amico E. Lovinescu — è adombrato il grande archeologo e storico Vasile Pàrvan, così presto sparito dalla scena del mondo. Al Pârvan piacevan certi atteggiamenti fra di eremita, di mago e di profeta, che assumeva soprattutto quando parlava ai giovani e l’autrice, in una visita che fece agli scavi di Histria in Dobrugia ne fu profondamente impressionata. Sostituendo alle pietre archeologiche quelle preziose ed accentuando quell’aria di mistero che il Pârvan assumeva nella conversazione e di cui soleva circondarsi e che realmente regnava nella casetta solitaria in cui passava co’ suoi giovani collaboratori l’estate, spesso non dormendo la notte per il grande abbaiar che facevano i cani, quando qualche lupo si avvicinava al recinto; l’autrice ha ideata e scritta questa novella in cui riesce a comunicarci il brivido del mistero universale, con una nota però di commossa umanità per cui il più prezioso rubino, l’unico che mancava alla raccolta, non è altro che una goccia di sangue rappreso sul seno di una fanciulla. Questo rubino però il «collezionario» lo perde. Ad uno de’ suoi assistenti che gli propone di mettere al posto dove si trovava una targhetta con la scritta: Rubino perduto il giorno, egli risponde dopo un lungo silenzio: — «E se ne trovassimo uno più bello?». Il simbolo della novella sembra essere che non c’è pietra più preziosa di quella della vita, sia pure attraverso il dolore; che gemme preziose — quelle vive — » non si lascian chiuder nell’astuccio di una collezione, che non c’è gemma per quanto rara che non sia sostituibile con altra anche più rara e preziosa. Questa la mia interpretazione, ma la novella si muove in un’atmosfera di mistero o, per esser più precisi, in un mondo matematico all’intersezione dei due piani del reale e dell’irreale; che non permette interpretazioni troppo rigide. Ho parlato di «mondo matematico» e non a caso. L’autrice è stata parecchi anni assistente alla cattedra di geometria analitica all’Università di Bucarest. Ce n’accorgiamo anche dalla precisione veramente matematica del suo stile, che ho cercato rendere come ho potuto nella traduzione di queste pagine.
  22. Opere: Brividi. Schizzi. — Lo spettro rosso. Novelle e bozzetti. — Evocazioni. Novelle e bozzetti. — Marionette. Bozzetti. — Fantocci colorati. Bucarest, Ciornei, 1930. — Vita intellettuale interessante sì e no d’un tal Stan. Bucarest, Ciornei, 1931. — Oroscopo. Romanzo. Bucarest, Ciornei, 1931. — Amore sotto chiave. Romanzo. Bucarest, Ciornei, 1932. — Via Văcărești. Romanzo. Bucarest, «Adevărul», 1933. — Incendio in Via albergo dei tigli. Bucarest, Ciornei, 1934. — La patria buona. Romanzo. Bucarest, Ciornei, 1937. — Figli di buona femmina. Bucarest, Ciornei, 1937. — La morte della gioventù. Romanzo. Bucarest, «Vremea», 1936, ecc.
  23. Fili d’oro che si appuntano al petto degli sposi.
  24. «Il popolo crede che quanti muoiono nella settimana dopo la Pasqua, vadano in paradiso per quanti peccati abbiano commessi. Un malfattore è ferito a morte, ma la morte ritarda, non ostante tutte le invocazioni della madre. Se lo sciagurato non muore nella «Settimana luminosa» va certo all’inferno. Il terrore che egli vada a bruciare nelle fiamme eterne soffoca in lei il sentimento materno e la vecchia uccide il figlio nell’ultimo istante della settimana, schiudendogli con la morte la via dell’eterna felicità. Il dramma si svolge in un’atmosfera allucinante e costituisce una delle più potenti realizzazioni dell’arte drammatica romena». (G. M. Zamfirescu, Il teatro romeno contemporaneo, in «Il Giornale di Politica e di Letteratura», dicembre 1922, p. 1387).
  25. M. Zamfirescu, Domnișoara Nastasia, comedie tragica in trei acte. București, Ed. «Societalea autorilor dramatici români», 1928 (No. 3).
  26. La protagonista si suicida il giorno stesso delle sue nozze con Vulpascin (un tipaccio della periferia di Bucarest, violento e accoltellatore ma innamorato pazzamente di Anastasia) per vendicarsi di lui che sospetta esser l’uccisore del suo promesso sposo, col dolore immenso che proverà per la sua morte.
  27. Quando gli attori popolari stan per recitare una commedia di burattini, domandano al pubblico come desiderano che parlino: «col velo» o «senza velo». Secondo la risposta si astengono o no dal turpiloquio.
  28. Ion Minulescu, Manechinul sentimental București, «Cultura Națională», 1926.