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sizione ai suoi disegni se non addirittura un rifiuto che non voleva pronunziar colle labbra, e si dibattè, morse coi denti, graffiò colle unghie, finché cadde stordita sul bordo della cassa.
Il cittadino, dominandosi, uscì a gran passi dalla stanza.
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Salito sul calesse, il Sig. Aurelio fece schioccar la frusta e presto, abbandonato il villaggio, giunse in vetta al poggio di Ogeác, di dove parte la strada che porta alle Sorgenti Nere.
La strada scendeva con pendio lene. Il villaggio non si vedeva più da molto tempo. La terra bagnata dai primi fiocchi di neve scioltisi al sole, fumava tutta come una pagnotta di pane caldo e sembrava che la vita universale aspettasse solo quel disgelo per far rifiorire i fiori della primavera. A sinistra cominciarono a vedersi solchi giallastri scender verso la valle, una tenuta messa a granturco e colle pannocchie dell’anno prima lasciate sulla pianta tra le foglie secche.
— Chi sa in quali contrade straniere e nemiche imputridisce nella terra il padrone di questa tenuta — pensò, pacifico in tempo di guerra, Mitru il cocchiere. Collo sguardo fisso ad ogni pannocchia secca di granturco, circondato dalle sciabole color d’oro delle foglie, il Signor Aurelio si lasciava cullar dal ritmo vegeale nell’atmosfera tepida senza neppure un alito di vento di quel fondo di valle solitaria. Un’ala d’uccello bianco sfarfallava, si sarebbe detto, più in basso, accanto alla strada maestra, tra i solchi di granturco, il Sig. Aurelio non ci fece caso; il ritmo sonnolento del trotto del cavallo lo avrebbe portato presto — pensava — fino a quello sfarfalleggiar d’uccello bianco ch’era probabilmente non altro che una foglia un po’ diversa dalle altre... Era la vedova.
Con tra le braccia la camicia bianca dai «ruscelli» neri e la cintura rossa, uscì risolutamente di tra il granturco. Il Signor Aurelio saltò giù dal calesse e disse a Mitru di proseguire la salita al passo e di fermarsi dall’altra parte del poggio che chiudeva la valle.
La donna fece qualche passo indietro tra il granturco, tendendogli timidamente la camicia e la cintura, e disse:
— Ora che te ne vai, accettale. Accettale in dono da me. Forse sono stata una sciocca a creder quel che ho creduto... e forse cattiva — aggiunse guardando a terra.
Il Signor Aurelio le chiuse la bocca coi suoi baffi corti, pungenti, e le parole di lei si confusero in una specie di dolce e lungo gorgoglìo.
(Trad. di Ramiro Ortiz).
Ticu Archip si rivelò dapprima come autrice drammatica con «Inelul» (L’anello) rappresentato al «Teatro Nazionale» di Bucarest il 1921, cui seguiron «Luminița» (Il lumicino) nel 1928 e recentemente «Gura de leu» (La bocca del leone) nel 1935; ma il suo teatro, pur ricco di pregi, è più lirico che drammatico e mal regge alla prova della scena, pur riuscendo interessantissimo alla lettura. «Luminița» tuttavia ebbe successo per la precisione