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Io son suo figlio e lo conduco per mano dovunque;
si direbbe ch’è un vecchio mendicante.
Attraverso antichi boschi che ricordan la creazione del mondo
m’ha insegnato a tacere.

Ora ci riposiamo per via, come tante volte abbiam fatto.
È una notte piena d’incensi e di soli,
lente da uno stagno, attraverso molli fili d’erba
lumache fragili gli si arrampican sulla barba.

Gli dico: — «Padre, dopo aver creato
con una parola stelle senza fine
tu le hai contemplate con meraviglia
e forse troppo a lungo gli occhi tuoi ne han fissato la luce:
e perciò sei cieco».

Tacendo mi posa la mano sulla spalla.
Nel pensiero gli passan miracoli profondi e nuovi.
Le palpebre ho umide di rugiada
e perchè non oda
come mi batte il cuore, in fretta m’alzo da cedere:
— «Padre, andiamo più lontano».

Una stella dal cielo come una lagrima cade.

(Dal volume «Antologia poefilor de azi» di Pillat e Perpessicius. Bucarest. 1925. Trad. di Ramiro Ortiz).


Ion Barbu è il più recente dei poeti romeni, quello che rappresenta l’ultima fase della poesia «modernista». Ha cominciato con delle poesie geologiche di sapore un po’ parnassiano, ma presto è passato a un genere del tutto diverso, attirato da quanto c’è di intimamente armonico e di musicalmente illogico in certe filastrocche popolari ch’egli ha saputo piegare alle più raffinate forme della poesia moderna. In altre poesie ha dato un tuffo nell’esotismo nordico («Riga Cripto e lappona Enighél») ed orientale («Nostratin Hògea»). Recentemente ( «Gioco secondo»), si è chiuso in un ermetismo matematico (il Barbu è assistente alla cattedra di geometria proiettiva) difficilissimo a interpretare da chi non abbia le cognizioni scientifiche necessarie. Diamo qui un saggio dei tre periodi poetici del Barbu, traducendo «Panteismo», «Il pavone», «Riga Cripto e Lappona Enighél» e «Uvedenrode»:


PANTEISMO

di Ion Barbu

Andremo verso la calda Cibele impudica,
su cui fiori d’avorio e umido putridume
insiem confusi intreccian la tellurica lor vita
e le abbracceremo la feconda, feminea coscia.