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La vita — colle carrozze, le donne, le vetrine piene di regali, gli uomini e le loro faccende, — sembrò a Manuela un cinematografo, davanti al quale passeggiasse, grave e ridicolo, un uomo gallonato: Sua Maestà il Denaro.

Riprese a camminar verso casa a passo più svelto come se fosse in ritardo, come se, dove si recava, tutti rattendessero con impazienza, come se dovesse trovarvi regali preziosi, dimenticando che non andava in nessun posto.

Ora le strade erano oscure. Dietro a lei, le grandi luci dei «boulevards» da cui si alontanava, sembravan piccole come brillanti. I loro raggi di fuoco l’avvolgevano alle spalle: li aveva al collo e ai lobi delle orecchie. Da questo tremolio di fuochi lontani nascevan le forme d’innumerevoli gioielli; orecchini di gemme preziose, dalle acque purissime frasmettentisi a vicenda le luci fino a confondersi in una sola lagrima abbagliante di fulgori, le brillavano come scintille gigantesche agli orecchi. La testa si drizzava più superba sul collo, e gli occhi brillaron più vivi per non esser spenti dai diamanti.

Un pendaglio a forma di mandorla, appeso a un’invisìbile catenina d’argento, faceva brillare i suoi arcobaleni fiiligranati di polvere adamantina, attorno a un topazio pallido, il cui giallo chiaro era non meno luminoso. Sembrava uno stallattite scorrente da una grotta favolosa ma non ancora completamente formato. Tanto era fluido.

Nell’umidità fredda le sembrò d’essere in una gran sala riscaldata, adorna di piante tropicali, colle spalle nude, su cui scorressero di continuo le gocce luminose, gli spruzzi miracolosi di gemme liquide che le danzavan sulla pelle, inumidendola di luce.

A Manuela non piacevano i gioielli, ma in quel momento il suo orgoglio li tollerava ironico e il giuoco delle loro luci l’affascinava.

Un passante la guardò mentre incedeva così come una regina. Si fermò un attimo incerto, come se dovesse conoscerla. Le fece meravigliato un gesto di profondo omaggio. Sembrava un passante di altri tempi d’idolatria, che avesse incontrata a un crocicchio una regina discesa dalla sua berlina superba. Il suo volto esprimeva le parole colle quali a casa avrebbe raccontato di avere incontrato... non sapeva neppur lui chi: — la Regalità solitaria della donna davanti allo specchio.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


F. Aderca, n. a Puești (Tutova) il 13 marzo 1891 non compì studii regolari, ma presto si fece colle sue letture una bella e svariata, se non sempre profonda, cultura. Divenne poi capo-servizio al Ministero del Lavoro e dell’Assistenza sociale, dove rimase fino al 1940. Ha svolta una larga attività letteraria e giornalistica, occupandosi di letteratura, critica, e di problemi sociali in riviste e giornali d’avanguardia quali la «Izbânda» (La vittoria), il «Cuvântul liber» (La libera parola), ed ha fatto parte della redazione della «Noua Revista Română», dell’«Ideea europeană», e della «Mișcarea literară» (Il movimento letterario).