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— Ah, signor professore! Uccello raro!... — si meravigliò la passante.
La signorina Emilia, sorella del suo direttore, gli tese la mano, alzandola solo a metà, perchè al gomito, da una parte e dall’altra, le pendevano attaccati a due strisce sottili di cuoio i pattini, che nel movimento fecero risonar l’acciaio. Giovanni Sârbu baciò la punta delle dita inguantate e si mise a camminare accanto a lei, saltando sopra i mucchi di neve.
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Solo quando erano per lasciarsi alla porta del pattinaggio la signorina Emilia s’accorse dei fiori avvolti nella carta velina.
— Oh quanto son belli!
Giovanni Sârbu glieli porse in fretta:
— Se permettete...
— Signor professore, non sono per me! Non voglio...
Girò sui tacchi e a piccoli passi eguali si avviò per il viale del giardino, verso il lago gelato, in fondo, tra gli arbusti violacei.
Giovanni Sârbu vide la veste azzurra allontanarsi, voltare per le curve del viale, saltare svelta e giovane con agilità di cerbiatta, gli ostacoli di neve. La luce sopra l’acciaio dei pattini scintillava con luccichii d’arma.
Fu o gli parve che anche lei si fosse voltata? Quanto era giovane... E che ciglia lunghe aveva, e com’eran luminosi i suoi verdi occhi con le loro striature dorale... E com’era vellutata la sua pelle, là, sugli angoli neri degli occhi che Lisetta era costretta invece a coprire con della cipria azzurra...
Ritornò lentamente verso la piazza in cerca d’una slitta. Pensò con infinita noia che Lisetta l’aspettava da tempo a casa, col cappellino in testa, sollevando impaziente un angolo delle tendine per vedere se lui apparisse all’angolo della strada. Trascinava i passi sempre più stentatamente. Tutto ciò che aveva pensato poco prima sembrava ora vuoto, assurdo, senza forza. Cosa si sarebbero detto? Cosa potevan dirsi ancora?
Dirimpetto alla bottiglieria Petrov gli si fece incontro il maggior Steriade, colla mantellina svolazzante, masticando una cicca spenta d’avana. Era allegro. Era nei suoi giorni di baldoria. Aveva bevuto e si capiva da lontano.
— Ecco il nostro prigioniero d’amore! — tuonò, posandogli la mano sulla spalla in segno di protezione. — Non ascolto scuse. Vieni a bere un aperitivo. Te ne racconterò una bella di Lola Braun!
Sârbu si lasciò trascinare. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non tornare a casa. Dentro c’era tutta la combriccola. Zio Tasica, caduto probabilmente nella fase melanconica, taceva fissando il bicchiere vuoto. Stefanuccio, l’archivista comunale, raccontava qualcosa di molto scandaloso all’orecchio di Madame Petrov, che l’ascoltava tutta rossa, cogli occhi pudicamente abbassati sul registro dei conti di cassa.
Giovanni Sârbu rincasò tardi, inciampando, con le soprascarpe slacciate, reggendosi in piedi a mala pena. Davanti a casa sua si fermò. L’ombra dei rami tremolava, azzurra e immateriale, sulla neve illuminata dalla luce elettrica. Aveva ancora in mano i fiori. Erano grondanti di vino, appassiti a furia di strisciarli sul banco. Prima di aprir la porta, si fermò a respirare con voluttà l’aria fredda della notte. Allora, di lontano, nella fantasia o nella realtà, da una strada, risonarono allontanandosi i sonagli di una