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che nessuno lo avesse veduto. Ma il volto gli rideva di un piacere infinito.

Incrociò le braccia al petto e si leccò le labbra, sentendo ancora il contatto freddo e la dolcezza amara della terra.

In villaggio, giù nella valle, lontano, sembrava un nido d’uccello nascosto in un solco per paura del nibbio.

Si vedeva ora grande e potente come un gigante leggendario che avesse vinto, in aspri combattimenti, centinaia di draghi paurosi. Infisse meglio i piedi nella terra, come se avesse voluto soffocare gli ultimi guizzi di un nemico abbattuto. E la terra sembrava barcollare, inchinarsi davanti a lui.

(Trad. di Ramiro Ortiz).


II.

LE ELEZIONI.


In quel momento entrò nella piazza Herdélea, seguito da cinque elettori, col viso illuminato da un sorriso timido, guardando un po’ impaurito a destra e a sinistra. Alcuni gridarono: «Viva!», ma subito una voce profonda urlò: «Vergogna! Rinnegati! Abbasso!» e subito tutta la folla scoppiò in un solo urlo d’indignazione, e, di tra le baionette, i pugni si agitarono contratti, minacciosi. Herdélea, atterrito, sentì un tremito ai ginocchi, ed il sorriso gli sparve dalle labbra, quasi vi fosse dipinto... Il gruppo degli studenti liceali cominciò a cantare per scherno: «Requiescat in pace» con acuti e falsetti ridicoli da carnevale, mentre gli altri non la finivano di gridare: «Vergogna!».

Tito, preso di botto da un’immensa pietà, ai nascose dietro le spalle del gendarme, guardando preoccupato suo padre invecchiato innanzi tempo, il cui viso appariva ora così pallido, che a mala pena si distinguevano i baffi piccoli e canuti. «Rinnegato!... Vergogna!... Traditore!... Abbasso!» gridavano centinaia di voci intorno a Tito, che levava in alto le braccia istintivamente, vinto dall’emozione e come se avesse voluto e potuto fermare per aria quella pioggia d’insulti che cadeva senza pietà.

Grofșoru, che non la finiva più di discutere con l’ufficiale, come scorse Herdélea, si voltò e lo apostrofò indignato: «Peccato, signor Herdélea, che proprio lei...». Il maestro si fermò senza poter articolare una parola. Ma l’ufficiale intervenne:

«Pardon! Vi prego di non terrorizzare gli elettori! Qui non è permesso di far pressio!» disse, mettendosi fra Grofșoru ed Herdelea. Quindi soggiunse rivolto a quest’ultimo: «Avanti, avanti, signori...». — «Protesto contro questa nuova violazione della legge!» — gridò Grofșoru, incominciando un nuovo battibecco coll’ufficiale. Davanti al municipio, il delegato Chițu strinse la mano a Herdelea e gli presentò un signore basso e tarchiato, cogli occhi d’oro e i baffi gialli e radi:

«Signor candidato, ecco uno dei nostri amici!... Mi permette?».

Il candidato tese la mano al maestro dicendogli macchinalmente:

«Ho molto piacere... Sarò sempre a sua disposizione... Sempre...».

Herdelea, rianimato, ascoltò le parole dell’ungherese come si ascolta un incoraggiamento, ed entrò nell’ufficio del segretario comunale, dove, a una gran tavola, sedeva un giudice del tribunale di Bistrița, secco, sparuto, con un gran naso appuntito, certi occhi piccoli, maligni, e un lapis in