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capitolo xviii. | 305 |
— Non ne verremo a capo, caro mio, perchliè entrambi noi sapendo notare, lo istinto della vita ci farà stare a galla su l’acqua.
— Ci legheremo un sasso al collo.
— La morte dei cani tignosi! Ohibò! Meglio impiccarci...
— Diavolo! Così finiscono i ladri. Raccomandiamoci al solito carbone.
__ Peggio; prima di tutto non è sicuro; si prova fuori di misura spasimevole; dopo molte ore di agonia non uccide: il suo effetto non si manifesta uguale per tutti, e potrebbe darsi che mentre non potessero richiamare alla vita te, potessero me... e allora immagina il mio martirio! E a te pure, Omobono, non vengono i brividi addosso a pensare che ci sentiremo morire poco a poco, come il coniglio ingozzato dal boa... e ora di che ridi, Omobono? Paionti questi momenti da ridere?
— Non farne caso, anco i gladiatori feriti nel diaframma morivano ridendo.
— T’intendo, sai? Tu dubiti, tu dubiti che io abbia paura... ch’io parli come colui che avendo a scegliere l’albero per esserci impiccato, non ne trovava uno di suo gusto; possibile tu non abbia pensato al veleno; e sì che ci hanno ad essere veleni i quali fanno dormire, un veleno che ci conceda vederci fino all’ultimo... chiudere la vita con un bacio.