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capitolo xviii. 327


che ho da farmi della lucerna per la strada, io? La lucerna dico... la lucerna da mettermi in capo; sbalordita! cervellona!

— Gua’, o chi poteva credere un pari suo, che fa le prediche, tanto smemorato da uscire di casa senza cappello!

— Qaando ritorno faremo i conti; intanto sai che ti ho da dire. Verdiana: che se tu non la smetti con queste scappate rivoluzionarie, io ti fo baciare il chiavistello di casa.

Come a Dio piacque, si posero in via, Elvira, Don Macrobio e Luigi Bigi il locandiere.

Il pretore già se n’era ito a dormire, se a dormire può dirsi, imperocchè se ne stesse supino colla moglie, a cui veniva esponendo con compiacenza le fortunate vicende del giuoco della serata; allo strepito che ad un tratto intese farsi all’uscio di casa sbalza su in camicia e va alla finestra, dove udita la voce del prete, che lo pregava ad aprire tosto per l’amore di Dio, tirò la corda. I bimbi del pretore, scalzi, in camicia, arruffati come istrici, si buttano giù dal letto strillando; la mamma, per farli star cheti, urla più di loro; la serva, pel medesimo fine, più di tutti: il cane, il gatto, si recano a debito di coscienza di non negare la propria voce al coro; insomma un finimondo, una vera musica dell’avvenire.

Alla meglio o alla peggio composto un tanto scompiglio, la Elvira ripete al pretore il racconto già