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capitolo xviii. 311


una seggiola s’inginocchiò dinanzi a quella con le gomita sul paglietto e il capo nascosto nel cappuccio ininclinato sopra le mani. Amina l’aveva di già avvertita, onde tirò a finire la confessione, sicchè il prete, che si era già apparecchiato a sentirne di quelle senza babbo ne maramma, rimase edificato delle mende leggiere della sua penitente: tutto il baco stava nella troppa fede posta nel giovane innamorato, che l’aveva tratta fuori di casa, non però a cattivo fine, perocchè entrambi i giovani più che mai erano fermi a legittimare la loro unione col sacramento del matrimonio, e magari se avessero potuto farlo benedire da lui, curato di Nervi!

Il prete non capiva in sè dal giubilo, che gli pareva l’angiolo dell’Apocalisse mettergli la falce in mano e gridargli con gran voce: Caccia dentro la tua falce e mieti perchè l’ora del mietere è venuta,1 e impostele per penitenza non so che zacchere di avemmarie in onore della sempre vergine e madre, figliuola e moglie, la licenziò, ammonendola che dopo un po’ di preparazione egli avrebbe celebrato la messa, al termine della quale le amministrerebbe il santissimo sacramento della eucarestia. Quanti sacramenti in un picchio! Fortuna che non fanno indigestione!

Egli se ne andò in sagrestia, dove si lavò le

  1. Apocal., c. 14, n. 15.