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260 | il secolo che muore |
— Amina, cominciò a favellare Omobono, io, con la morte nel cuore, vengo a dirti addio.
— Ch’è mai successo? Parla presto... o Dio! levami di affanno... se non mi vuoi vedere spirare ai tuoi piedi.
— Domani, così imperante l’avo cortese, mi tocca a imprendere per le sue comodità un viaggio.
— Lungo?
— Lungo.
— E tornerai?
— Dio sa quando; — e con voce sommessa aggiunse: — forse mai più.
— Ma la ragione? Anche ai condannati leggono la sentenza.
— Doveva partire senza rivederti; ma tu, che sai che cosa è amore, pensa se mi bastasse il cuore. La ragione pur troppo ci è, e feroce, ma non dipende da me; tanto ti basti e ti sia di conforto sapere che io ti ho amato, ti amo quanto creatura umana può amare, che sono misero, ma misero assai, compiangimi di vedermi ridotto a tale di desiderare che altri ti renda felice, poichè io non potei.
— E credi tu, Omobono, che un amore pari al nostro si rompa come un filo di cotone? Io ti contemplo così disfatto da movere a pietà, non che la tua sposa, il tuo più fiero nemico; vieni, riposa il tuo capo su questo seno, che palpita per te: lasciati