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capitolo xviii. 313


una dentro un bicchiere di acqua e vomiterai l’oppio senza sentirne altro danno che un po’ di sbalordimento.

— Ma e se m’addormento ancora io?

— Per Dio! sei pure curiosa. Talora mi daresti venti punti ai quaranta; talaltra inciampi in un filo di paglia e stramazzi; se quando ti fai il bolo ci metti dentro minore dose di morfina che puoi, la sua virtù si spiegherà meno intensa e più tardi.

— Io lo confesso, l’ultima mano mi manca, ma tu duce e maestra, mi perfezionerò.

— Se lo scambio della morfina con la polvere della gomma arabica ti riesce, allora fingi sonnolenza, spossatezza, conati al vomito; ti gratterai le braccia e il collo come se un prurito insopportabile ti tormentasse; l’emetico allora ti ministrerò io; da te non far nulla: penserò io a mescolare il solfato di zinco col vomito; hai capito?

— Ho capito; ma da che mi accorgerò io che l’avvelenamento di Omobono è diventato irrimediabile?

— Zitto... il campanello annunzia la elevazione dell’ostia; raccomandiamoci a Dio che non ci levi le sue sante mani di capo...

Dopo la scamj)anellata finale, che annunzia ogni cosa al posto, Elvira ripiglia:

— Sta’ attenta; si presentano due periodi; nel primo egli si dorrà di sete, di stimolo a spandere