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capitolo xviii. 285


e di quanti sopra la terra possiedono discorso di ragione.

Tanto è, Omobono non era lieto; in ogni atto della sua vita si mescolava uno struggimento per cui egli restava ad un punto sorpreso e sbigottito: gustava miele amaro, tanto in pregio presso gli antichi romani, che ne imposero eccessivo tributo alla Corsica che n’è produttrice feconda; e bene sta che da puro cuore soltanto sgorghi la gioia pura. Il torpore gli s’insinuava nel sangue sottile come la malaria, tedioso a sè sempre, e qualche volta all’Amina, a fatica parlante e sbadato: gran parte del dì e’ pare che dondoli tra gli sbadigli e i sospiri; svogliato di quiete e di moto, di veglia e di sonno, di cibo, di tutto: affacciato per ordinario al balcone, guarda fiso le acque del lago, le nuvole del cielo senza pensare a nulla; gli pesa il cervello; anzi non piglia nè manco diletto a contemplare il trasformarsi continuo che le nubi fanno in diverse sembianze, dove il riguardante mira quello che più gli piace trovarci; nella notte, ore intere, col braccio intorno alla vita di Amina, specula il cielo, e se gli avvenga mirare staccarsi dal fondo dell’emisfero due stelle, e dopo descritta una lunga curva di fuoco spegnersi a un tratto vicino alla terra o all’acqua, ripete sommesso: