Delle istorie di Erodoto (Tomo III)/Polinnia
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Traduzione dal greco di Matteo Ricci (1881)
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POLINNIA
OSSIA
LIBRO SETTIMO DELLE ISTORIE DI ERODOTO
POLINNIA
1. Posciachè a Dario, figlio d’Istaspe, pervenne l’annunzio della battaglia combattuta a Maratona, esso che già trovavasi coll’animo meravigliosamente inacerbito in causa dell’aggressione di Sardi antecedentemente operata dagli Ateniesi, sentì colpo anche più fiero dalla nuova disdetta, e si disponeva quindi con più calore a portare le sue armi contro la Grecia. Onde, spediti subito suoi legati per le varie città del dominio, impose a ciascheduna d’esse di mettere in pronto un numero di milizie molto maggiore che non avesse mai fornito in addietro: oltre alla richiesta di navi da guerra, di barche onerarie, di cavalli, di vettovaglie. E in seguito al giro fatto dai sopraddetti legati, l’Asia si agitò per tre anni nell’opera di raccogliere e di ordinare militarmente il fiore della sua gente, coll’occhio sempre drizzato all’impresa ellenica. Nel volgere del quarto anno poi, accadde che gli Egizi, sottomessi già da Cambise, si ribellarono al dominio persiano. Dal qual fatto Dario fu anche maggiormente incitato a movere d’un tratto contro gli uni e contro gli altri de’ suoi nemici.
2. Ma nel mentre che egli appunto si apparecchiava alla duplice impresa, d’Egitto e di Atene, una gravissima contesa si sollevò tra i suoi figli per le ragioni del principato. Conciossiachè, secondo gli statuti di Persia, il re non possa mai movere per la guerra senza avere prima designato il suo successore. Ma a Dario erano già nati tre figli, prima del proprio avvenimento al regno, per fatto della prima moglie di lui, figlia di Gobria; e altri quattro ne aveva poi avuti, dacchè regnava, da Atossa, figlia di Ciro. Il maggiore dei primi si chiamava Artabaze; de’ secondi, Serse: i quali, nati, come dicemmo, da duo diverse madri, fra loro contendevano del principato. E Artabaze allegava a sostegno dei suoi diritti il fatto di essere egli il primogenito di tutti quanti; e il fatto eziandio che, per legge costante di tutti i popoli, è il primogenito che deve sottentrare ai diritti regî del padre. Ma Serse dall’altro lato opponeva: che egli era figliuolo di Atossa, figlia di Ciro; e che Ciro era stato l’autore della libertà persiana.
3. Dario non aveva peranche esposta la sua opinione, allorchè comparve in questo mezzo a Susa Demarato; figlio di Aristone; il quale, dopo essere stato privato del regno di Sparta, aveva volontariamente esulato da Lacedemone. Quest’uomo, pertanto, avuta cognizione della disputa sollevatasi tra i figlioli di Dario, cercò subito (come porta la fama) di abboccarsi con Serse, e lo persuase a rinforzare la propria argomentazione con queste aggiunte: Che esso era nato quando già Dario regnava, e teneva nelle mani l’impero di Persia; laddove Artabaze era nato, quando Dario trovavasi ancora in condizione privata. Sicchè non era nè giusto nè conveniente che altri preoccupasse in suo pregiudizio le ragioni del principato. Molto più (dovea dire, secondo che continuava a suggerirgli Demarato) che anche in Isparta le cose si regolano con questa legge: Che se vi hanno figli nati prima che il padre loro abbia occupato il regno; e un altro sia venuto a luce posteriormente, ma già regnante il padre; egli è a quest’ultimo, e non a nessun altro, che spettano le ragioni del principato. Serse seguitò appuntino i consigli ricevuti da Demarato: e Dario, giudicando i richiami di lui giusti e fondati, lo nominò suo successore al trono di Persia. Quantunque io sia d’avviso, che anche senza gli ammonimenti dello Spartano, Serse sarebbe a ogni modo pervenuto al regno, per la grande ragione che Atossa poteva tutto.
4. E Dario, dopo aver nominato Serse a suo successore al trono di Persia, era già sul punto di lanciarsi alla guerra. Ma nell’anno che seguì le cose finora descritte e la sedizione di Egitto, avvenne che esso Dario, nel mezzo dei suoi bellicosi apparecchi, dopo trentasei anni di regno, passò di vita. Onde non gli accadde di poter vendicarsi, come voleva, nè dei ribelli Egiziani nè degli Ateniesi. Morto poi Dario, il regno fu legittimamente occupato da Serse, suo figliuolo.
5. Serse, per vero dire, non aveva in principio l’animo punto inclinato a combattere contro la Grecia; ma radunava evidentemente la somma delle sue forze contro l’Egitto. Essendo però andato a lui Mardonio, figlio di Gobria, cugino di Serse, nepote per sorella di Dario; il quale esercitava nell’animo del re una tutta sua propria e potentissima azione; cominciò a parlargli in questa forma: O mio Signore, non è davvero equo nè ragionevole, che gli Ateniesi, i quali fecero tanto male ai Persiani, non abbiano il giusto merito della loro tristizia. Ma per ora non ti distrarre già dall’opera cominciata, e conduci pure a buon termine quello che hai per le mani. Domata però che sia l’egiziana insolenza, rivolgi senza più le tue armi contro di Atene; sia al fine di acquistare buona riputazione fra gli uomini, sia perchè ognuno si guardi bene di entrar quinc’innanzi ostilmente nei tuoi dominî. E finquì il discorso toccava le fibre del risentimento e della vendetta: ma Mardonio anche altre considerazioni c’intrometteva. E lodava la bellezza unica dell’Europa; la sua meravigliosa feracità in alberi fruttiferi d’ogni specie; i privilegi singolari del suolo. Conchiudendo, che il re unicamente fra tutti i mortali era degno di possederla.
6. E tutte queste cose diceva Mardonio, spinto dalla sua smania di novità, e mosso anche dal desiderio di divenire esso un giorno il prefetto della Grecia. Gli riuscì infatti, col tempo e coll’insistenza, di vincere la resistenza di Serse, e di farlo agire come voleva; tanto più facilmente, che fu a un dato punto sorretto da altri buoni amminicoli in quest’opera di persuasione. Perchè da una parte erano giunti dalla Tessaglia dei messaggeri degli Alevadi (stirpe regnatrice nei Tessali) (1) con commissione d’invitare il re ad entrare nell’Ellade, e di promettere ogni aiuto possibile all’impresa; e dall’altro lato quei Pisistratidi, che erano pur essi in quel torno capitati a Susa, non solo tentavano l’animo del re cogli argomenti medesimi usati dagli Alevadi; ma più gagliardamente ancora attorniavano e premevano Serse, conducendo con loro un certo Onomacrito, interprete e ordinatore dei vaticinî di Museo. Col quale Onomacrito i detti Pisistratidi si erano riconciliati prima di movere verso Susa. Dappoiché questo Onomacrito (2) era stato antecedentemente bandito da Atene per opera d’Ipparco, figlio di Pisistrato; e ciò per essere stato sorpreso da Laso, figlio di Ermione, nell’atto che frodolentemente mischiava nei vaticinî di Museo questo vaticinio di suo capo: che le isole poste nella direzione di Lemno sarebbero un giorno scomparse, inghiottite dal mare. Laonde Ipparco gl’intimò il bando da Atene, nonostante la grande intrinsichezza ch’era passata sempre dianzi fra loro. E capitato, dunque, quest’uomo a Susa insieme coi Pisistratidi; ogni volta che si recava al cospetto del re (al quale già i Pisistratidi stessi avevano narrato di lui magnifiche cose) si faceva a recitargli ora un vaticinio e ora un altro. Ma quei vaticinî che avessero per avventura predetto sciagure al Barbaro, egli li passava in silenzio: e sceglieva invece con gran cura tutti quegli altri che al Barbaro prognosticavano liete sorti. Insistendo massimamente sulle predizioni che adombravano il gran fatto dell’ Ellesponto destinato a esser congiunto dall’abilità di un Persiano, e distendendosi non meno sull’altro fatto della spedizione di Grecia. E quindi Onomacrito agiva sull’animo del re colla recitazione dei vaticinî; i Pisistratidi e gli Alevadi, dichiarandone e interpretandone le sentenze.
7. Posciachè, dunque, Serse si lasciò persuadere a portare le armi contro la Grecia, allora fu che, un anno appresso alla morte di Dario, egli si risolvette per prima cosa a ordinare una spedizione contro i ribelli. E domati che li ebbe, e ridotto tutto l’Egitto in servitù anche più duro che sotto Dario, affidò il governo di questa contrada ad Achemene, fratello suo proprio e figlio di Dario. E a questo Achemene, divenuto prefetto dell’Egitto, fu tolta in seguito la vita da Inaro, uomo di nazione libica e figlio di Psammetico.
8. Serse poi, dopo avere ricondotto a sua devozione l’Egitto, e mentre stava per mettersi egli stesso a capo dell’esercito invasore della Grecia, convocò a parlamento i maggiorenti Persiani, affine di raccogliere per questa via i loro voti, e di poter manifestare in quel solenne e generale consesso tutta intera la sua opinione. Sì che, adunato che fu il parlamento, il re sorse, e favellò in questo modo: O Persiani, non crediate già che, parlandovi come farò, io voglia assumere le parti d’innovatore, perchè anzitutto il mio ragionare si baserà unicamente sull’esempio e la tradizione degli avi. E in effetto, come so dai più vecchi, fu nostra costante abitudine di non mai quietare un momento, fin da quel giorno che si trasferì in noi questo imperio dei Medî per opera di Ciro distruttore di Astiage. Un Dio guida visibilmente le cose nostre; e noi, obbedendogli, meritiamo di essere per lo più fortunati. Nè già è necessario di ripetere a voi, che già le sapete, le gesta e le conquiste meravigliose di Ciro, di Cambise, di Dario. Io poi, dacchè ereditai il trono di Persia, questo ebbi sempre in cima dei miei pensieri: di non lasciarmi mai sorpassare da chi occupò prima di me questo seggio, e di non parere inferiore a nessuno nell’opera di accrescere la potenza persiana. Nè mi contento di semplici aspirazioni: ma nell’atto che vagheggio e spero, so anche pensare ai mezzi più adattati per dilatare la nostra gloria; per accrescere i nostri possessi di altre terre, non meno vaste nè meno bone di quelle che possediamo, ma più feconde dimolto; per dare, infine, il gastigo che meritano a quelli che hanno provocata la nostra vendetta. E appunto io vi chiamai intorno a me al fine di proporvi quello che intendo fare. Mia volontà dunque è: di collegare artificialmente le due rive dell’Ellesponto; e poi, guidando il mio esercito attraverso l’Europa, penetrare nell’Ellade, affine di vendicarmi di quegli Ateniesi che di tante reità sì macchiarono contro mio padre e contro i Persiani. E già vedeste, come anche Dario avvampò del desiderio di muover guerra a costoro. Ma la morte gl’interruppe il disegno, e non gli venne fatto di vendicarsene. Ma io, per amore di lui e di tutti i Persiani, non mi acqueterò mai infino a tanto che non mi sia impadronito di Atene e non l’abbia ridotta in cenere. Poichè i suoi cittadini furono ben essi i primi a provocare l’ira di Dario e la mia, in quel giorno che investirono Sardi insieme con Aristagora di Mileto, e ci misero in fiamme i sacri boschi ed i templi. Quale specie di trattamento poi ci riserbasser costoro, allora che noi siamo entrati in appresso nel loro dominio, sotto la guida di Dati e di Artaferne; voi tutti conoscete perfettamente e non accade di ricordarlo. Per tutti i detti motivi, adunque, io mi sono deliberato a movere guerra ad Atene: e la forza del ragionamento m’induce a scoprire immensi vantaggi, se ci riesca di sottomettere, insieme cogli Ateniesi, anche i loro vicini abitatori della terra pelopica.
Imperocchè in tal modo noi daremo alla Persia per confine il cielo. Nè il sole guarderà più alcuna terra che chiuda e circoscriva la nostra: ma, attraversando io insieme con voi, vittorioso, l’intera Europa, di tutte le terre possibili ne farò una sola. Conciossiachè io abbia intima persuasione, che non ci sarà più città o popolo al mondo capace di contrastarci coll’ armi, dopo che saranno state abbattute quelle genti che vi menzionavo pur dianzi. E così accadrà, che il servil giogo peserà in conclusione non meno sugl’innocenti che sui colpevoli. Voi poi mi obbligherete assaissimo, se vi disporrete a obbedirmi in quello che son per dire. Quando, cioè, io vi avrò indicato il momento, nel quale sia necessario che conveniate insieme, fatelo senza dimora: e chiunque condurrà seco un nerbo d’armati perfettamente ordinato ed istrutto, riceverà da me in dono quanto di più prezioso cade nell’estimazione dei Persiani. Affinchè poi non crediate che io mi governi unicamente col mio privato consiglio, vi sottometto tale qual’è la quistione; esortando, chiunque ne abbia talento, a manifestare sulla proposta materia la sua opinione. Ciò detto, si tacque.
9. E finite le parole del re, si levò Mardonio, e incominciò: O mio Signore, io credo che tu superi in eccellenza tutti i Persiani presenti e futuri, dappoiché ci hai tenuto un così giusto e sublime ragionamento, e ci hai fatti certi che non sarai mai per soffrire che li Ioni di Europa (indegnissima razza di gente) possano prendersi gioco dei fatti nostri. E sarebbe, per verità, cosa incredibile e enorme, che noi abbiamo sottomessi, e teniamo in condizione di servi, i Saci, gl’Indi, gli Etiopi, gli Assirî, ed altre molte e cospicue nazioni; non per nessun male che ci abbiano fatto, ma per pura sete d’ingrandimento; e poi lasciamo correre impunite le provocazioni e i maleficî dei Greci. Che cosa temiamo, finalmente, da loro? Forse la prevalenza straordinaria del numero? O la grande efficacia delle ricchezze? Sappiamo bene qual’è la loro maniera di combattere; sappiamo quanto sieno imbecilli le loro virtù guerresche; e i figli degli Elleni d’Europa vivono da un pezzo a noi soggetti in questo nostro continente, sotto i nomi di Ioni, di Eoli e di Dori. Io medesimo ho potuto fare esperimento di quanto valgano i Greci europei, quando dovetti marciare contro di loro per commissione datami da tuo padre. Chè essendomi spinto col mio esercito fino alla Macedonia; e giunto, per conseguenza, quasi alle porte di Atene; nessuno fu ardito di venirmi incontro o di contrastarmi. Nel rimanente, sogliono i Greci, per quanto odo, regolare le loro guerre intestine con certe massime inconsultissime, dove l’inscienza gareggia colla stravaganza. Imperocché, dopo essersi reciprocamente dichiarata la guerra, vanno a cercare le più belle e distese pianure, nelle quali discendere ed affrontarsi a vicenda. Di guisa tale che gli stessi vincitori ne partono con gravissimi danni; e non mi occorre neppur parlare dei vinti, essendo chiaro che non ne deve restare uno vivo. Eppure, trattandosi di popoli che parlano una sola lingua, avrebbero dovuto per opera di araldi e di messaggeri, e con qualunque altro mezzo piuttosto che colle armi, aggiustare le loro liti. Ma se non c’era proprio altra risoluzione possibile che la guerra; dovevano almeno farla in tale condizione di sito, dove riuscisse alle due parti difficilissimo il superarsi, e quivi tentare la fortuna dell’armi. Ma nonostante questo loro procedere sciocco e avventato nel far la guerra; il fatto è, come testé dicevo, che a questi Greci, allorché io mi spinsi coi mio esercito fino alla Macedonia, non entrò neppure in pensiero di contrastarmi. Chi poi sarà cosi temerario di opporsi ai tuoi progressi, o mio re, quando moverai seguito da tutte le genti e da tutte le navi dell’Asia? Io per me stimo, che a tanta arroganza non può giungere l’orgoglio dei Greci. Ma se m’ingannassi nel mio concetto; e, spinti da incredibile accecamento, i Greci oseranno di contrastarti; fa che essi apprendano come noi siamo i più forti guerrieri che si conoscano. Al quale effetto niente deve lasciarsi intentato: perchè non c’è cosa al mondo che provenga spontanea; ma tutto dipende dallo sforzo e dall’industria degli uomini. Colle quali parole avendo Mardonio ridotti a più equa proporzione i concetti smisurati di Serse, cessò di dire.
10. E mentre tutti gli altri tacevano, e nessuno ardiva di mettere avanti un’opinione diversa da quella che era stata proposta, Artabano, figlio d’Istaspe, e zio paterno di Serse (perciò molto addentro nella sua confidenza), cominciò a parlare in questo tenore: Insino a tanto che in qualunque disputazione non si troveranno di fronte due opposte sentenze, sarà sempre cosa impossibile di scegliere la migliore. Nella stessa guisa che non si può saggiare a dovere la purezza di un pezzo d’oro, so non se ne fa il paragone mediante la prova della confricazione con un altro. Io poi son quel medesimo che anche tuo padre e mio fratello, Dario, ammonii di non movere guerra agli Sciti, i quali non hanno mai stanza determinata né ferma. Ma egli, fiducioso di poter ad ogni modo conquidere questi nomadi, non volle ascoltarmi; fece la spedizione di Scizia; e fu poi costretto a tornare indietro, dopo aver perduta una gran quantità, ed il fiore, della sua gente. Ma tu, mio re, stai ora per cimentarti con uomini di ben altro valore che gli Sciti, e che hanno riputazione di essere fortissimi in terra e in mare. Ora, quanto pericolo risieda in questo consiglio, è utile e dicevole che te io esponga. Tu ragioni di gettare un passo sulle rive dell’Ellesponto, e di spingere il tuo esercito attraverso l’Europa nella mira di attaccare la Grecia. Ma può ben anche intervenirci di essere superati per terra o per mare, od in tutti i due modi insieme. Perchè avremo a fare con uomini stimati valorosissimi. E che la riputazione sia giusta, basterebbe a provarlo il fatto luminosissimo che gli Ateniesi, da soli, furono buoni a disperdere tutto quanto l’esercito penetrato nell’Attica con Dati ed Artaferne. E meno male che quella volta la vittoria ellenica fu solamente terrestre. Ma se avverrà che ci assalgano e ci vincano anche per mare; che si dirizzino all’Ellesponto; che distruggano il passo; dimmi, o re, se fatto più orribile potrebbe mai immaginarsi. Né è da credere che io mi diverta a coniare tali supposizioni di mio cervello. Ma di quale e quanta calamità non fummo per poco colpiti, quando tuo padre, dopo avere costrutto un ponte sul Bosforo Tracio, e averne gettato un altro sull’Istro, passò nella terra scitica? Allorché gli Sciti, in tutti i modi possibili, circuivano e sobillavan li Ioni perchè rompessero il ponte sull’Istro, che era stato commesso alla loro guardia. Nella quale occasione, se Istieo, tiranno di Mileto, avesse egli pure seguita la sentenza comune, invece di resisterle, come fece, gagliardamente, le sorti persiane erano sprofondate senza rimedio. Ed è cosa da far raccapriccio al solo udir menzionarla: che dall’arbitrio di un uomo abbia potuto per un istante dipendere la salute del re e del regno di Persia! Non volere tu, dunque, esporti a così grandi pericoli, molto più che nessuna urgente necessità ti ci spinge; e porgi piuttosto benigno orecchio a quanto ti sto per dire. Licenzia per ora quest’assemblea, e poi; quando lo crederai ben fatto, e che avrai teco stesso ponderata maturamente ogni cosa; potrai mettere di bel nuovo in consulta quei partiti che ti parranno migliori. Imperocché io riconosco sempre un sommo guadagno in una calcolata e retta estimazione delle cose. E quantunque alla giustezza delle previsioni alcuna volta non corrispondano i fatti, non ne resta perciò menomamente alterata la bontà intrinseca dei formati giudizi; ma dovremo solamente concludere, che anche i migliori giudizi soggiaciono non di rado al ludibrio della fortuna. E poniamo che un pessimo consiglio sia seguitato da felici successi, l’uomo potrà rallegrarsi della buona ventura, non ce n’è dubbio; ma la magagna del pessimo consiglio resta la stessa. Guarda poi attentamente, o mio re, come la divinità scagli di preferenza i suoi fulmini sopra i più grossi animali, non sofferendone la iattanza; e degli animali piccoli non si curi. E guarda inoltre come le saette del cielo vadano per lo più a ferire gli alberi di alto fusto, e gli edifizi che si levano più sublimi. Imperocché la divinità ama di atterrare tutte le altezze superbe: ed è perciò che vediamo tante volte anche un grosso esercito sbarattato e distrutto da pochi armati. Allorché l’invidia celeste mette fra le numerose schiere lo sgomento; allorché le fulmina senza pietà, e le fa cadere in un modo indegnissimo di loro stesse. Perchè, insomma, la divinità non patisce negli uomini certi concepimenti troppo vasti e magnifici, quasi che essi sieno un’usurpazione dei suoi diritti. Il procedere poi troppo affrettato negli umani negozi partorisce errori che per lo più si tirano dietro delle immense sciagure; laddove, camminando con lenta e misurata ponderazione, si ottengono vantaggi, non sempre forse chiari e palpabili al primo tratto, ma che coli’ andare del tempo sogliono rivelarsi. Questi sono adunque, o re, tutti quei consigli che era nel mio intendimento di darti. Ed ora mi rivolgo a te, Mardonio, figlio di Gobria, per dirti di smettere una volta codesto tuo vacuo ed ingiurioso linguaggio contro dei Greci, i quali non meritano di essere trattati in tal guisa. Perchè calunniandoli come tu fai, vieni a sollevar sempre più l’animo del re, e ad inclinarlo maggiormente alla guerra: al quale effetto appunto, per quanto mi sembra, mirano visibilmente tutti i tuoi sforzi. Ma le cose non succederanno come desideri. Essendo la calunnia un’azione turpissima, dove due sono gli offensori contro un offeso. Dappoiché offende il calunniatore accusando un assente; e offende chi si lascia prendere dai calunniosi artifici prima di avere appurata la verità. Dall’altro lato chi si trova lontano, mentre di lui mal si discorre, resta offeso in doppia maniera: primieramente da chi lo calunnia; in secondo luogo da chi lo crede cattivo sulla fede e nella parola del calunniatore. Ma se veramente e assolutamente necessita che questa guerra contro i Greci si faccia; orsù via, non per questo il re abbandoni la sua residenza. Piuttosto; dopo avere dato ciascun di noi due i propri figli in reciproco ostaggio; assumi tu il carico dell’impresa, e mettiti a capo di un esercito, per la qualità e per il numero, affatto corrispondente ai tuoi desideri. E se le cose succederanno così prosperamente, come tu le predici, sieno messi a morte i miei figli ed io con loro. Ma se invece saranno le mie previsioni quelle che si chiariranno per vere, tocchi la medesima sorte ai figli tuoi e a te con loro, se pure ti riuscirà di tornare indietro. Ricusando poi tu dì accettare questi patti, e volendo in tutti i modi guidare un esercito persiano contro la Grecia; io so fin d’ora che quelli che rimarranno a casa, un giorno o l’altro udiran raccontare: come Mardonio fu rinvenuto, in qualche angolo dell’Attica o della Lacedemonia, con il corpo tutto squarciato dai cani e dagli avvoltoi, dopo aver esso, finalmente, conosciuto contro qual popolo tu vorresti ora persuadere il re a mover guerra.
11. Cosi favellò Artabano; e Serse, acceso d’ira, gli rispose in questa maniera: O Artabano, tu sei il fratello di mio padre. Questo riguardo ti preserverà dal ricevere il degno merito delle tue temerarie parole. Ma nondimeno io voglio infliggere il vituperio che si conviene alla tua viltà e alla tua dappocaggine, non conducendoti meco nella spedizione di Grecia, e lasciandoti qui in compagnia delle donne. Ed io intanto condurrò senza te a perfettissimo termine tutto quello che dissi di voler fare. Imperocchè non sarei più Dario, discendente d’Istaspe, di Arsame, di Ariaramme, di Teispe, di Ciro, di Cambise, di Achemene (3), quando non prendessi le dovute vendette degli Ateniesi. Sapendo assai bene che, dato pure che noi quietassimo, essi non quieterebbero, e una grossa invasione ellenica nelle nostre terre ci minaccerebbe continua; se è lecito argomentare il futuro dai primi passi mossi da quella gente contro di noi, allorché, pochi anni addietro, essi penetrarono nell’Asia e incendiarono Sardi. Onde, né agli uni né agli altri, è più concesso d’indietreggiare. La gara è ormai aperta fra li due popoli: e l’esito della pugna dimostrerà, se tutte le cose nostre dovranno cadere in podestà dei Greci, o se per contrario tutte le cose dei Greci dovranno cadere in podestà dei Persiani. Ogni termine di concordia fra le due parti nemiche è divenuto impossibile. Ed è bello, mi pare, che noi, i quali soffrimmo le prime ingiurie, ci moviamo per vendicarle; e che io faccia l’esperimento delle molte disgrazie che mi si predicano, mentre mi rivolgerò contro un popolo che fu già sottomesso da Pelope, Frigio, già servo dei nostri padri; e sottomesso per modo, che fino ad oggi, uomini e paese, si chiamano col nome del conquistatore.
12. Qui cessarono i discorsi, e l’assemblea si disciolse. Al sopraggiungere poi della notte, Serse cominciò a provare certo qual turbamento per i consigli di Artabano e seguitando, col progredir della notte, a meditare seriamente nei casi suoi, alla fine si risolvette che la spedizione di Grecia non era affare buono per lui: e posciachè gli si furono mutati nell’animo i primitivi propositi, si addormentava. Ma in quella notte medesima (secondo un racconto tramandatoci dai Persiani) Serse ebbe una visione: poichè parvegli che gli si facesse dappresso una grande e bella figura d’uomo, e così gli parlasse: Tu dunque, o Persiano, hai mutato consiglio, e non vuoi più guidare il tuo esercito contro la Grecia, dopo di avere da tutte le parti della Persia chiamato armi ed armati? Questa tua volubilità non mi piace, e non troverai uomo che sia disposto a approvarla. Riprendi, dunque, gl’intermessi propositi, e rimettiti per l’antica strada. Ciò detto, a Serse parve che la figura incontanente si dileguasse.
13. E allo spuntare del giorno, il re senza fare il menomo caso del descritto sogno, richiamò a parlamento quei medesimi personaggi che aveva adunati prima, e rivolse loro queste parole: Persiani, voi mi userete indulgenza, se ora io vi vengo innanzi con una improvvisa mutazione di consiglio. Perchè dovete considerare che io da per me non posso sempre raggiungere, per quanto me ne sforzi, l’apice della prudenza; e che quelli, i quali vogliono tirarmi da una certa parte, non mi si scostano mai un momento dai fianchi. Udito poi che ebbi l’avviso di Artabano, mi sentii d’un tratto ribollire gli spiriti giovanili nell’anima, al punto di scagliargli contro disoneste parole, e tali che alla gravità della sua persona certamente non convenivano. Ma ora sconfesso il mio errore, e aderisco al parere di Artabano senza riserva. Sicché avendo io mutato interamente consiglio, e non pensando più di movere guerra alla Grecia, vi esorto a mantenervi tranquilli. E i Persiani, udite ch’ebbero queste parole, coll’animo pieno di gioia si prosternarono in terra.
14. Ma nella notte seguente apparve di bel nuovo a Serse nel sonno lo stesso fantasima, che se gli appressò e gli disse: figlio di Dario, tu hai in cospetto dei Persiani manifestamente disdetta l’impresa ellenica, non tenendo in nissunissimo conto le mie parole, come se da nessuno ti fossero state dette! Ma sappi bene che, se tu non ripiglierai immediatamente l’assunto, come in breve sei divenuto grande e potente, con altrettanta precipitazione ricadrai nel fondo.
15, Ora, Serse atterrito da questa visione, saltò giù frettoloso dal letto, e mandò un suo messo in cerca di Artabano. E venuto che questi fu, il re gli parlò in tal modo: Io in sulle primo non mi comportai davvero da savio, assalendoti con ingiuriose parole in ricambio dei buoni consigli che tu mi davi. Ma non tardai molto a mutare avviso; e conobbi ben presto come i tuoi suggerimenti erano davvero i più utili al fatto mio. Ora peraltro, anche volendolo, non mi è più possibile di seguirti. Perchè, dopo la trasformazione e il ravvedimento accaduto nel mio animo, sono perseguitato continuamente da un notturno fantasima, il quale non vuole in nessuna maniera che io ottemperi ai tuoi consigli, e anche poco fa mi ha lasciato pieno d’ira e di minaccie. Se dunque è un Dio quello che mi manda questa visione; e se a lui sta veramente tanto a cuore che noi assumiamo l’impresa ellenica; io credo che dovrà apparire a te pure lo stesso fantasima che apparve a me, e che ti darà i medesimi ammonimenti. Questo anzi, a quanto vedo, accadrà infallibilmente, se tu ti risolvi a prendere tutte le mie sembianze; a indossare le mie vesti; a sedere nel mio trono; a dormire nel mio letto.
16. Così favellò Serse: e Artabano non credette in sulle prime di dover piegarsi alle volontà del re, siccome quello che non si reputava degno di assidersi sul trono reale. Ma poi, costretto, fece quello che gli era imposto, non senza però avere antecedentemente parlato al re in questa forma: Il retto sentir delle cose, e la pieghevolezza dell’animo ai buoni consigli, sono due virtù che io non so distinguere una dall’altra, e che hanno un egual pregio nella mia convinzione. Ora tu, o mio re, le possiedi certamente entrambe; e non è che l’usanza con tristi uomini che ti trasvia. Nello stesso modo che il mare; la utilissima delle cose ai mortali; è qualche volta dal soffio di contrari venti impedito di mostrare la benefica sua natura. Io poi, quando tu mi assalisti colle tue contumelie, non mi afflissi tanto di questo quanto di un altro fatto. Chè, essendoci innanzi al consesso dei maggiorenti Persiani due opposte sentenze di fronte; l’una fatta per esaltare la nostra insolenza; l’altra per abbassarla, e per insegnare quanto sia malvagia cosa il commovere gli animi a desiderar sempre cose maggiori di quelle che si possono conseguire; ti vedevo pur troppo inclinato verso il partito più pernicioso a te ed al paese. Ed ora che tu ti eri convertito a miglior consiglio, e che avevi rinunziato in tuo cuore alla spedizione di Grecia, mi narri di una ripetuta visione, mandata a te da qualche Dio, la quale in forma d’uomo t’inibisce di disdire l’impresa ellenica, lo però dubito forte che ci sia nulla di divino qua dentro. Perchè la natura dei sogni, che vanno vagando pel mondo ed occupando gli spiriti dei mortali, è appunto così come te la definirò io, che nacqui molti anni prima di te. Le visioni, cioè, che sotto specie di sogni ci visitano nella notte, sono il più delle volte in intima corrispondenza con quelle immagini che più ci hanno occupata la mente durante il giorno. E tu sai benissimo come, in questi giorni passati, il grande affare dell’impresa ellenica fosso per tutti noi il pensiero continuo, la cura predominante. Ma se le cose non sono realmente come io le credo, e nel fatto di questo tuo sogno bisogna proprio riconoscere un intervento divino; allora trovo fondata in ottimo ragionamento l’illazione che n’ hai dedotta. E sia pur dunque, che a me ancora apparisca codesto fantasima, e che mi comandi le stesse cose che a te. Ma non vedo per qual ragione esso dovrà apparirmi più facilmente, se io sarò chiuso nei tuoi vestimenti, anziché nei miei propri; e se dormirò nel tuo letto anziché nel mio, posto che la visione debba aver luogo veracemente. Perchè non posso credere che, qualunque sia l’essere che si nasconda in questo tuo notturno fantasima, giunga egli a tal grado di melensaggine da prendermi in iscambio teco, argomentando dai vestimenti. Che se poi non saprà cosa farsi dei fatti miei, né si degnerà di apparirmi menomamente, sia io vestito dei miei abiti o dei tuoi; ma nonpertanto le tue notturne visioni non s’intermettano; questo fatto meriterà bene che si conosca. Perchè, data la continuità dell’apparizione, io pure sarò finalmente costretto di tenerla per un effetto divino. Nel rimanente però, se tu hai fatto proprio su me il disegno che mi esponesti, e tutte le mie ragioni non sono state buone a distogliertene; ed è proprio deciso che io debba andare a dormire nel tuo letto; ebbene, farò quello che mi comandi: e quando l’avrò fatto, apparisca dunque a me pure questo fantasima. Ma finché l’apparizione non avvenga, io starò fermo nella mia opinione.
17. E ciò detto, Artabano, fiduciosissimo di poter dimostrare tutta la vanità delle parole di Serse, ne eseguiva peraltro appuntino i comandamenti. Ma poscia che ebbe indossate le regie vesti; che si fu assiso sul regio trono, e che andò infine a coricarsi nel regio letto; gli apparve in realtà, in mezzo al sonno, lo stesso fantasima, che soleva apparire a Serse; vedendoselo stargli dritto sul capo, e poi udendolo pronunciare queste parole: Tu sei dunque quel desso che vuoi distogliere Serse dalla spedizione di Grecia, come se lo avessi in tutela? Ma pensa, che i tuoi sforzi contro la ragione e la convenienza non resteranno impuniti. E in quanto a Serse, quale pena lo aspetti, rimanendo sordo alle mie ammonizioni, già glie l’ho dichiarato.
18. Con questi accenti, pertanto, sembrò ad Artabano che il fantasima lo minacciasse, e che inoltre volesse con un ferro rovente bruciargli gli occhi. Ond’egli, forte gridando, si scagliò dal letto; e andato che fu a sedersi accanto a Serse, e esposti tutti i particolari della visione, seguitò dicendo: Per verità, o mio re, avendo io veduto nel corso delta mia vita molte altezze superbe abbattute da menomi accidenti, non volevo permettere che tu in ogni cosa cedessi alle illusioni dell’età giovanile. E però conoscendo quanto sieno perniciose le immoderate cupidigie, memore della spedizione di Ciro contro i Messageti, conchiusa con esito così funesto; memore della spedizione di Cambise contro gli Etiopi; ed essendo stato compagno di Dario nella sua disgraziata impresa contro gli Sciti; riandando io dico, meco medesimo tutte queste cose insieme, finalmente mi risolvetti, che se tu non ti movevi, saresti stato giudicato beatissimo nell’opinione concorde di tutti gli uomini. Ma posciachè c’è ora di mezzo un’impulsione celeste; e pare che ai Greci sovrasti davvero qualche gran malanno per disposizione divina; anche io mi ricredo, e non dubito più di disdire le antiche idee. Tu, adunque, fa noto ai Persiani i voleri superni; e comanda che riassumano tutti gli apparecchi di guerra già da te precedentemente ordinati. Governati insomma in tal guisa, per il riguardo che merita questa intromissione divina, che dalla parte tua nulla resti a desiderare, Così parlò Artabano a Serse: e, ambidue scossi dalle ricevute visioni, Serse (non appena si fece giorno) comunicò ai Persiani lo stato reale delle cose, e Artabano, che prima si trovava solo a contraddire scopertamente l’impresa ellenica, ora la promoveva senza velami.
19. E quando Serse si era già lasciato indurre a ripigliare in mano la spedizione contro la Grecia, ebbe una terza visione, in cui i Magi, interpreti, trovarono indicato un intimo rapporto con tutta la terra, e questa essenziale significazione: che tutti i popoli del mondo avrebbero un giorno obbedito al dominio di Serse. La visione poi, di cui parliamo, fu in questo modo: Parve a Serse di essere incoronato di una fronda d’olivo; e che l’albero di olivo, ond’era stata svelta quella fronda, coprisse dei suoi rami tutta la terra; e che finalmente l’impostagli corona scomparisse d’un tratto. La quale visione essendo stata iaterpretata dai Magi nel modo che abbiamo detto, subito tutti i maggiorenti Persiani, convenuti al congresso, partirono e si dispersero per le singole prefetture; mettendo ognuno il massimo studio nella esecuzione degli ordini ricevuti, tanta era l’emulazione destatasi fra di loro per il conseguimento dei decretati doni. E Serse, dal canto suo, non c’era angolo del continente asiatico dove non andasse a frugare al fine di mettere insieme una straordinaria massa di combattenti.
20. Imperocchè, dalla ricuperazione dello Egitto in avanti, il re consumò quattro interi anni nell’opera di radunare un grosso esercito, e di fornirlo di tutte le provvisioni e gli amminicoli necessari. Di sorte che questa nuova sua spedizione riuscì certamente più grandiosa e magnifica di quante ne conosciamo. E, per verità, si possono considerare come un nulla al paragone, sia l’impresa di Dario contro gli Sciti, sia l’impresa antecedente de’ Sciti contro i Cimmerî; quando per perseguitare questi, essi entrarono dentro la Media, sottomettendosi quasi tutta l’Asia superiore, e per tal cagione tirandosi poi addosso la vendetta di Dario. Nè reggono meglio, dirimpetto alla spedizione greca di Serse, i fatti cantati dell’impresa iliaca per opera degli Atridi; e neppure quanto fecero i Teucri ed i Misî prima della guerra troiana: i quali, essendo passati mediante la traversata del Bosforo in Europa, sottomisero tutti i Traci, e poi si allargarono fino al mare Ionio a occidente, e fino al Peneo a mezzogiorno.
21. Insomma la spedizione greca di Serse fu una cosa unica al mondo; e a petto di lei tutte le altre impallidiscono e non reggono al paragone. Qual popolo, infatti, dell’Asia potrebbesi nominare, che Serse non guidasse contro la Grecia? Quale riviera non gli si disseccò davanti per il dissetamento di tanto esercito, dai grandi fiumi in fuori? E poi, fra le nazioni soggette al re persiano, tu vedevi; questa dover fornire le navi, quella i fanti, una terza i cavalli. Mentre altri popoli erano pure specialmente chiamati, quali alla provvisione delle barche per il trasporto della cavalleria; quali alla provvisione delle navi lunghe per la costruzione dei ponti, e quali, finalmente, a somministrar navi e vettovaglie insieme.
22. Ma innanzi tutto piacerai di riferire, come, in considerazione dei gravi infortuni dianzi toccati a chi aveva voluto oltrepassare, navigando, il monte Ato; Serse da quasi tre anni applicava massimamente l’animo alle faccende appunto dell’Ato. Però nel porto di Eleo, città del Chersoneso, stavano ancorate alquante triremi: e di là movevano militi di ogni nazione destinati a lavorare, a colpi di scudiscio, nella grande opera di scavamento, gli uni di continuo succedendosi agli altri. Anche le popolazioni poste nelle circostanze dell’Ato si travagliavano del loro meglio nei progressi di quest’impresa: e Bubare, figlio di Megabazo e Artachee, figlio di Arteo, uomini persiani, soprantendevano ad ogni cosa. L'Ato poi è un monte, grande e nobilissimo, sporgente nel mare, e abitato dagli uomini; il quale, dove declinando termina in continente, prende come la figura di una penisola, e forma un istmo della larghezza di dodici stadi all’incirca. E il luogo apparisce come un’aperta campagna; solo qua e là interrotta da piccole collinette, collocata fra il mare di Acantio e 1'altro mare, che batte contro Torone. Su questo istmo poi, in cui termina il monte Ato, trovasi la città greca di Sane: e le città che si vedono a mezzogiorno di Sane; le quali, per fatto del re di Persia, divennero allora insulari da continentali che prima erano; si chiamano: Dio, Olofixo, Acrotoo, Tisso, Cleona. E costituiscono precisamente tutta la parte abitata del monte Ato.
23. L’opera poi dello scavamento eseguivasi in questo modo. I Barbari avevano distribuito il lavoro fra le varie nazioni loro suddite, dopo aver tirata una linea retta dal punto dov’è la città di Sane in giù. Quindi (arrivata che fu la fossa a una certa profondità) chi, stando nel fondo della medesima, scavava la terra; chi trasmetteva continuamente la terra scavata ad altri che l’aspettavano montati su delle scale: e questi poi la passavano di bel nuovo ad altri; infino a che si arrivava ai lavoratori posti su in cima, che la terra, finalmente, estraevano e buttavano via. Ma a tutte le nazioni impiegate in questo lavoro, eccettuati i Fenici, veniva naturalmente un sopraccarico di fatica dallo stato sempre precipitevole delle sponde, le quali essendo tenute in un’egual distanza fra loro dalla cima al fondo, non poteva accadere diversamente. Ma i Fenici, che si dimostrano già in ogni cosa uomini ingegnosissimi, anche in questa tali si palesarono. Imperocchè così procedettero nella scavazione del tratto loro toccato in sorte: che la bocca della fossa costrussero il doppio più larga della fossa medesima. E a mano a mano che progredivano nel lavoro, la distanza delle sponde sempre più andavano restringendo; col fine prefisso che la misura del fondo dovesse perfettamente corrispondere alla misura adottata da tutti gli altri. Ivi presso poi stendevasi un prato, che serviva come di fôro annonario a quella popolazione di lavoranti: e là concorreva gran quantità di grano venuto da tutte le parti dell’Asia per isfamar quella gente.
24. Io però (se devo dire quel che mi detta l’animo) credo che Serse s’inducesse a ordinare la scavazione dell’istmo mosso principalmente dal desiderio di ostentare la sua potenza, e di lasciare di sé un durevole monumento. Perchè, potendosi con nessuna fatica trasportare le navi da una parte dell’istmo all’altra, egli volle cionondimeno scavarlo, ed aprirlo al libero ingresso del mare, facendolo di tal larghezza da potervi passare comodamente due triremi di fronte a sforzo di remi (4). E ai medesimi uomini, cui era stata commessa la scavazione della fossa presso il monte Ato, fu eziandio ordinato da Serse di congiungere con un ponte le rive dello Strimone.
25. E mentre che il re occupavasi di queste cose, non trascurava le debite diligenze perchè fossero messe in pronto le funi necessarie al legamento dei ponti, affidandone l’incarico ai Fenici ed agli Egiziani. Quindi, perchè mai non avvenisse che gli uomini ed i giumenti addetti alla spedizione dovessero patire la fame, provvedeva accuratamente al servizio delle vettovaglie; ed investigati i luoghi che gli parevan più acconci alla formazione dei magazzeni, ivi comandava che concorressero le provvigioni, facendole venire su navi da carico e da trasporto da tutte le parti dell’Asia. E il deposito principale fu raccolto nel luogo chiamato Leuce Acte nella Tracia: e altri minori se ne formarono, a Tirodiza nei Perintì, a Dorisco, a Eione sullo Strimone ed in Macedonia.
26. E mentre le surriferite cose si prescrivevano e si eseguivano, le genti a piedi si avviavano sotto la guida di Serse alla volta di Sardi, essendosi egli mosso da Critallo, città della Cappadocia, dove aveva avuto luogo il convegno generale di tutte le milizie destinate a camminare insieme con Serse per terraferma. Se poi mi si vuol domandare chi fosse quel Prefetto che conducesse le sue particolari milizie nel più acconcio e compiuto assesto di guerra, in guisa da meritare la ricompensa promessa, in verità che non saprei dirlo. Non essendo neppure chiaro del fatto, se poi si procedesse realmente a simigliante giudizio. Nel rimanente poi, l’esercito persiano, dopo avere varcato il fiume Ali, entrò nella Frigia, e passando attraverso a questo paese, pervenne alla città di Celena, dove scaturiscono le sorgenti del Meandro, e di un altro fiume minore, chiamato Catarratte; il quale ha il suo nascimento proprio nella piazza di Celena; e poi si riversa finalmente nel Meandro. Ed è in questa stessa piazza di Celena che vedesi sospesa la pelle di Marsia; il Sileno scoiato per vendetta d’Apollo, come narrano i Frigi (5).
27. Nella città medesima, finalmente, un certo Pitio, figlio di Ati, e Lido di sua nazione, si era messo a aspettare l’esercito persiano con Serse, accogliendoli e gratificandoli, al loro arrivo, colle dimostrazioni ospitali le più larghe e le più magnifiche; e facendo promesse di danaro, per il desiderio grandissimo di conferire egli pure al buon esito della guerra. Ma al suono di tali promesse, il re domandò subito ai Persiani che gli stavano intorno: Che specie d’uomo fosse questo Pitio; e se possedesse realmente tante ricchezze che giustificassero le sue parole. Alla quale interrogazione di Serse fu risposto: Questo è quel medesimo individuo, o re, che già fece dono a Dario, tuo padre, dell’aurea figura di platano e dell’aurea figura di vite; ed è, dopo te, l’uomo più facoltoso che noi conosciamo.
28. Serse restò maravigliosamente colpito da quest’ultima proposizione; e rivoltosi quindi a Pitio, domandò un’altra volta, a quanto precisamente sommassero le sue ricchezze. E Pitio a lui: Non credere, o re, che io mi ti voglia infingere, e che sia per ricorrere a scuse d’ignoranza per celarti il vero. Mi è perfettamente nota la quantità dei miei averi, e con altrettanta esattezza mi dispongo a descriverteli. Perchè, come prima ebbi acquistato il convincimento che tu tendevi realmente verso il mar di Grecia; e desideroso di venirti in aiuto colle mie sostanze in cotale impresa; mi misi subito a investigare di quanto tu potevi effettivamente disporre. E, a calcoli fatti, trovai che possedevo duemila talenti d’argento, e quattrocento miriadi di statere doriche d’oro, meno settemila (6). Ora, o Serse, tutte queste facoltà io te le dono. In quanto a me, quel che mi resta di servi e di campi, per il mio trattenimento, è abbastanza.
29. Dai quali detti Serse meravigliosamente allettato, tostamente rispose: O ospite Lido, dacché io uscii dai confini di Persia, non mi avvenne di abbattermi ancora in nessun altro uomo che si facesse incontro al mio esercito con offici ospitali, nè che, venuto al mio cospetto, mi offerisse spontaneamente pecunia in sostegno di questa guerra, da te in fuori. Ma tu invece accogliesti il mio esercito con una ospitalità splendidissima, e mi fai la promessa di un’enorme quantità di danaro. Ora, ecco i doni che io alla mia volta ti profferisco. Acquisterai anzitutto presso di me i diritti di ospizio: e di più completerò del mio le quattrocento miriadi di stadere che menzionasti, dandoti le settemila che ti mancano, di guisa che per mio mezzo ti ritorni la somma perfettamente colma e integrata. Goditi pure, adunque, tranquillamente tutte le ricchezze che ti acquistasti; e sappi essere sempre tale uomo quale or ti dimostri. Così facendo, nè ora nè mai, ne avrai pentimento.
30. Dette poi che ebbe Serse queste cose, e attenute le fatte promesse, si spinse più oltre colla sua marcia. E trapassata Anava, città frigia di questo nome, e trapassato il lago salino, arrivò a Colossa; grande città della Frigia, posta nella medesima situazione del fiume Lico, quando egli scomparisce ad un tratto precipitando in una voragine, e poi a cinque stadi d’intervallo ricomparisce di nuovo, e finalmente si riversa nel Meandro. Partitosi poi da Colossa l’esercito persiano, pervenne ai confini della Frigia e della Lidia; dove un cippo fissato in terra e postovi fino dai tempi di Ciro, indica con un’iscrizione il termine dei due paesi.
31. Entrato poi che fu Serse dalla Frigia in Lidia, e pervenuto a quel punto, dove la strada si divide in due, talchè prendendo a sinistra si va verso la Caria, e volgendosi invece a dritta si mira a Sardi (ma qui è inoltre di assoluta necessità di varcare il fiume Meandro, e di attraversare la città di Callatebo, dove si trovano quegli uomini che compongono miele fatto di grano e di tamarice): essendosi avviato, dunque, io dico, per questa strada a man dritta il re di Persia, si abbattè in un platano; e perchè questo era di bellissima forma, dispose che fosse fregiato di aurei ornamenti, e lo raccomandò alla custodia di un Immortale. Il giorno dipoi Serse arrivava alla metropoli della Lidia.
32. E posatosi che egli fu a Sardi, spacciò per prima cosa suoi araldi per la Grecia, i quali dovevano richiedere l’offerta della terra e dell’acqua, e comandare i necessari apprestamenti per la mensa reale. Ad eccezione di Atene e di Lacedemone, la richiesta della terra e dell’acqua Serse mandò a farla per ogni dove (7); e mandò a farla per una seconda volta, indotto dalla fermissima persuasione che coloro i quali si erano primieramente rifiutati all’intimazione di Dario, ora, scossi dalla paura, avrebbero ben ceduto alla sua. Sì che per certificarsi più positivamente del fatto, replicò l’imbasciata. E in seguito si dispose a proseguire il suo cammino spingendosi verso Abido.
33. Intanto coloro cui era stato commesso il carico di allacciare l’Asia all’Europa mediante un passaggio costruito sull’Ellesponto, avevano dalla stazione di Abido fornita l’opera loro. E quel tratto di piaggia del Chersoneso Tracio che, discorrendo sul mare, e interponendosi fra le due città di Sesto e di Madito, è situato proprio dirimpetto ad Abido, apparisce estremamente aspro e scosceso. Dove per l’appunto; non trascorso gran tempo dai fatti che riferiamo, e mentre era Santippo di Arifrone capitano supremo degli Ateniesi; Artaitte, prefetto persiano di Sardi, dopo essere stato fatto prigione, venne vivo sospeso in croce. Perchè non aveva dubitato d’introdur donne perfino nel tempio di Protesilao in Eleo, commettendo orribili nefandezze.
34. Sul punto, dunque, della piaggia opposta or ora descritto, gettarono da Abido due ponti quelli che ne avevano assunta l’impresa; servendosi i Fenici per legare uno di detti ponti di corde fatte di bianco lino, e gli Egiziani di papiracee per legar l’altro. Lo spazio poi interposto fra le due sponde si può calcolare di sette stadi. Ma terminata che fu l’opera di detto passaggio, sopraggiunse una così furiosa tempesta che conquassò e distrasse ogni cosa.
35. Il qual fatto risaputo da Serse, egli se ne gravò indicibilmente; e comandò quindi che fossero amministrati all’Ellesponto trecento colpi di frusta, e fosse calato giù nel mare un paio di ceppi; e udii perfino rammentare che, oltre a tutto ciò, prescrivesse l’uso di opportuni strumenti per imprimere dolorose punture nell’Ellesponto. Questo però è certissimo, che il re volle che coloro i quali erano deputati a battere l’Ellesponto, accompagnassero i loro colpi con queste barbare ed insane parole: O acqua amara, il signor nostro t’infligge questa pena, dappoichè tu gli facesti ingiuria, senza che egli te ne abbia dato nessun motivo. Ma tieni pure per fermo che il re Serse ti varcherà, o che tu lo voglia o che non lo voglia: Ed è ben ragionevole che non si trovi nessun uomo, il quale ti onori con sacrifici, dappoichè tu sei un fiume salso ed ingannatore. Nel tempo stesso poi che Serse comandava che il mare fosse punito in quel modo che abbiamo detto, egli faceva troncare il capo agli architettori dei ponti (8).
36. E quegli ufficiali, cui spettava l’ingrata incumbenza, fecero appunto come fu lor comandato. Altri architetti poi sottentrarono ai primi nella costruzione dei ponti, e li costruirono in questo modo. Formando, cioè, un sustrato composto di navi a cinquanta remi combinate con navi a tre remi, e impiegandone trecento sessanta per il ponte volto verso l’Eusino e trecento quattordici per l’altro. Ma quello verso l’Eusino piegavasi obliquamente nella sua tratta; laddove il secondo ponte tagliava in dritta linea il corso dell’Ellesponto. Così, un ponte servendo come di schermo all’altro, le corde del ponte di sotto potevano maggiormente resistere all’impeto dei marosi. E dalle congiunte navi detti architetti calarono giù lunghissime ancore, perchè servissero, dalla parte del Ponto, contro i venti spiranti dal mare interno; e dal lato di ponente e dell’Egeo contro l’euro ed il noto. In tre diversi luoghi poi fecero sì che le navi maggiori, scostandosi alquanto l’una dall’altra, si aprissero a modo di una finestra, per lasciar libero il passo alle piccole barche che volevano entrare ed uscire dal Ponto. E dopo avere eseguito tutto ciò, incominciarono, da star sulla riva, a distender le corde dando loro il giro con verrucelli di legno. Nè questa volta avvenne che si servissero, qui di una data specie di corde e là di un’altra affatto diversa. Ma con eguale distribuzione impiegarono, tanto in un ponte quanto nell’altro, due corde fatte di bianco lino e quattro papiracee. La grossezza e la buona apparenza erano per verità le medesime: ma le corde di lino avevano in confronto una saldezza molto maggiore, dappoichè bastava la lunghezza di un cubito per pesare un talento. E congiunto che fu lo stretto nel modo sopranarrato, gli architetti del ponte, fatti tagliar tronchi d’albero di tale misura che essa agguagliasse la larghezza del ponte stesso, li disposero ordinatamente sopra il tratto delle corde, da ambedue i lati; e così disposti, li strinsero di bel nuovo insieme il più fortemente che mai potevasi. Indi li rivestirono di sermenti: e dopo avere messi regolarmente in opera questi sermenti, ci trasportarono sopra dimolta terra. E con tale agglomerazione di terra condussero di qua e di là uno stecconato, il quale impediva che i giumenti e i cavalli, guardando dall’alto del ponte il mare sottoposto, per avventura non s’impaurissero.
37. Data poi che fu perfezione ai due ponti, come pure alle opere ordinate circa al monte Ato; e quando giunse l’avviso che la scavazione del canale era già compiutamente fornita, ed erano eziandio in pronto le dighe che si erano fatte alle imboccature del canale medesimo, per impedire che il libero flusso del mare non ci creasse qualche temibile interrimento; allora fu che l’esercito di Serse, dopo avere svernato a Sardi, e trovandosi allo aprirsi di primavera in perfetto assesto di guerra, incominciò a movere verso Abido. Ma nell’atto appunto che si moveva, avvenne che il sole, abbandonata la celeste sua sede, tutto ad un tratto scomparve; nè c’erano nubi oscuranti, ma un perfetto sereno. Onde nel più bello del giorno si fece notte. Il qual fatto veduto e considerato da Serse, gli entrò nell’animo un’ansia ed un sospetto grandissimo: onde volle interrogare subito i Magi intorno al vero significato di quel portento. E i Magi risposero: che esso prediceva agli Elleni la distruzione delle loro città, perchè (soggiungevano) il sole è il nunzio del futuro agli Elleni; e ai Persiani invece, la luna. Delle quali parole essendo rimasto lietissimo il cuore di Serse, egli spingeva innanzi la marcia delle sue genti.
38. E già le schiere persiane mettevansi in movimento, quando Pitio, il Lido, coll’animo commosso dal portento celeste, ed esaltato dai doni, essendo stato introdotto al cospetto di Serse, gli parlò in questa guisa: Io vorrei, o Signore, chiederti una grazia che a te costerebbe poco il concedermi, e sarebbe invece un gran fatto per me di ottenerla. E Serse pensando che si trattasse di tutt’altra cosa da quel che era, gli promise di soddisfarlo incuorandolo a esporre liberamente il suo desiderio. E l’altro allora, presa baldanza da sì fatte parole, tostamente soggiunse: Signor mio, io ho cinque figlioli, ai quali tutti toccò in sorte di seguitarti in questa spedizione di Grecia: ma tu, o re, avendo compassione alla mia tarda età, proscioglimene almeno uno dall’obbligo della milizia, e sia il maggiore; affinchè egli possa aver cura di me e de’ miei beni. Gli altri quattro conducili pur con teco; e, compiute le tue grandi imprese, possa tu tornare felicemente a casa.
39. Ma Serse si sdegnò fieramente a queste parole, e incollerito rispose: O perfido, mentre io stesso mi movo a combattere contro la Grecia, e mi guido dietro i figlioli e i fratelli e i famigliari e gli amici, tu hai l’ardire di farmi motto di un figlio tuo, il quale, come mio servo, ha strettissimo obbligo di seguitarmi insieme con tutta la tua famiglia e colla tua moglie insieme? Ma tu fa bene questa ragione; che è negli orecchi degli uomini la sede propria dell’animo: onde, se ascoltiamo buone cose, ci riempiamo tutti di allegrezza; e se le ascoltiamo invece contrarie, ci gonfiamo di sdegno. Infino a tanto però che tu mi compiacesti con degne opere, e altrettante me ne promettesti, non potrai certo vantarti che il re si sia lasciato avanzare nella gara dei benefici, Ma ora che sei divenuto così riottoso e insolente, avrai il merito che si addice al tuo operare, quantunque in grado molto minore del convenevole, Perchè tu, e gli altri quattro tuoi figlioli, conserverete tranquillamente i miei doni ospitali; e tu pagherai il tuo delitto colla vita di quel solo figlio che più ti preme. E posciachè Serse ebbe risposto in questa maniera, comandò incontinente a quelli de’ suoi ministri che erano deputati a cotali offici, di andare in cerca del primogenito di Pitio, e di dividerlo in due; distribuendone lo stracciato corpo parte a destra e parte a sinistra della via. L’esercito doveva passare in mezzo.
40. Ed eseguito che fu il fiero comandamento, l’esercito infatti traversò per quel mezzo. Precedevano i giumenti colle bagaglie, e dietro veniva una grossa moltitudine composta di tutte le nazioni suddite al re di Persia: non però le une dalle altre ordinatamente distinte, ma senza regola mescolate e confuse. Detta moltitudine costituiva più che la metà dei seguaci di Serse; e fra essa e il re aprivasi un intervallo, non dovendo essere fra loro nissun contatto. Nel regio corteo poi andavano innanzi mille cavalieri, espressamente scelti all’uopo fra tutti i Persiani; quindi venivano altrettanti sceltissimi astati; e questi eran seguiti da dieci sacri cavalli, detti Nisei, ornati di magnifiche bardature. I quali cavalli sono denominati Nisei per questo fatto: che esiste una vasta pianura nel paese di Media col nome di Nisea; ed è appunto in tal luogo dove si alleva quella grossa razza di cavalli. Dietro poi ai dieci cavalli summenzionati procedeva fornito di tutto punto il sacro carro di Giove tirato da quattro cavalli bianchi. Il qual carro era seguito da un auriga a piedi che teneva le briglie; imperocché nessun mortale avrebbe mai ardito di mettersi in quella sedia. Appresso compariva la persona del re sopra un altro carro tirato da quattro cavalli Nisei; e stavagli allato, in qualità di auriga, un cotal Patiranfe, figlio di Otane.
41. Questo fu il modo onde Serse fece l’uscita da Sardi: e, ogni volta che gli pareva comodo, passava dall’altezza del suo carro in una vettura da viaggio. Immediatamente lo seguivano mille astati, scelti fra i più forti e più nobili figli di Persia, colle lancie dritte. Indi procedeva un altro migliaio d’uomini di eletta cavalleria persiana; e dopo i cavalli s’avanzavano diecimila fanti raccolti essi pure dal fiore della gente persiana. Dei quali fanti, ce n’erano mille che avevano delle melagrane d’oro sostituite ai puntali inferiori delle aste, e questi mille stendendosi in giro accerchiavano tutti gli altri. I novemila fanti poi, così cinti e serrati da quelli, avevano le melagrane d’argento. E qui è il luogo opportuno di aggiungere, che portavano melagrane d’oro alle loro aste anche i cavalieri dalle lancie arrovesciate; e che ci portavano invece delle figure di pomi, quelli che venivano al seguito immediato di Serse. Dietro ai diecimila fanti era stato disposto un corpo di diecimila cavalieri persiani. E dopo questa cavalleria s’interponeva uno spazio di due buoni stadi: finalmente, veniva tutto il resto della moltitudine disordinata e confusa.
42. Uscendo dalla Lidia, l’esercito di Serse dirizzò primieramente il suo cammino verso il fiume Caico e il paese di Misia. Poi, movendo dal Caico, e avendo alla sua destra il monte Cana, giunse alla città di Carina per la via d’Aterneo. Donde egli passò nei piani di Tebe, attraversando le città di Atramitteo e di Antandro Pelasgico. Quindi, avendo il monte Ida alla sua sinistra, penetrò nella terra iliaca. Dove, avendo voluto sostare la prima notte appiedi dell’Ida, fu sorpreso dal romoreggiare del tuono e dall’impeto delle saette, le quali fecero non piccola strage di quella gente.
43. Arrivato poi che fu l’esercito sulle rive dello Scamandro; per la prima volta, dacché egli si era messo in istrada, s’imbatteva in un fiume lasciato in secco dalla corrente, e incapace a dissetare gli uomini e gli animali. E quivi fu che Serse volle ascendere ai luoghi, dove già sorse Pergamo, la sede di Priamo, desiderosissimo come era di visitarli. E visitati che li ebbe; e presa esatta informazione di tutto quanto; sacrificò mille bovi a Minerva Iliaca, e i Magi celebrarono riti espiatori agli eroi. Dopo i quali fatti, e durante la notte, un grande e improvviso terrore invase il campo persiano. Onde Serse coi suoi, al primo spuntare del giorno, si levarono di là e progredirono innanzi, lasciandosi a sinistra le città di Reteo, di Ofrineo e di Dardano (la quale ultima confina proprio con Abido), e a destra i Gergidi Teucri.
44. Giunti poi che furono in Abido, volle ivi il re Serse compiacersi della vista di tutto il suo esercito: e gli era stato a tal fine apparecchiato sopra un’altura un seggio di candido marmo, espressamente fabbricato da quelli di Abido per antecedente comando del re. Il quale, sedendo in quel trono, e allungando lo sguardo per la sottoposta spiaggia, poteva assai bene goder lo spettacolo dell’esercito terrestre e del navilio. E considerando più specialmente il navilio, fu preso da grandissimo desiderio di assistere ad una prova di battaglia sul mare. E la prova essendosi fatta, ed essendo riusciti in essa vincitori i Fenici Sidoni, il re si compiacque eccessivamente dell’offertogli spettacolo e dell’armata.
45. Vedendo poi egli da quella eminenza tutto l’Ellesponto coperto di navi, e la spiaggia e i campi d’Abido formicolanti di uomini, Serse si confessò beato. Ma poi poco dopo, si sciolse in lagrime.
46. Del qual fatto essendosi avvisto Artabano, zio paterno di Serse; quel medesimo che già gli aveva espressa in addietro liberamente la sua opinione, volendolo dissuadere dall’impresa di Grecia; questi gli si rivolse e lo interrogò in tal modo: Che strana e nova disparità di contegno fu mai la tua, o mio re, da un momento all’altro? Testè ti confessavi beato; e ora ti sciogli in lagrime. E Serse a lui: Non ho potuto difendermi da una improvvisa pietà, considerando quanto sia breve la vita umana: dappoichè di questa immensa quantità di uomini che mi sta innanzi, è certo che neppure uno vivrà più fra cent’anni. Ma Artabano gli rispose: Il corso della vita umana è sottoposto a molte miserie ben peggiori di questa. Poiché non c’è uomo del mondo nato a così felice destino, che, nonostante la brevità del nostro vivere, non sia ripetutamente indotto a presceglier la morte. Le disgrazie che ci perseguitano, i morbi che ci tormentano, ci fanno parere lunghissima una vita effettivamente assai breve; e però la morte suole affacciarsi agli uomini come il più desiderabile dei refugi, quando vogliamo sottrarci alle calamità delta vita. E se di tanto in tanto i Numi ci accordano qualche momento felice, nel più bello del godimento mostrano d’invidiarcelo.
47. Alle quali parole cosi replicava il re: Sia pure (né lo contrasto) che le condizioni della vita umana procedano veramente come tu dici: ma lasciamo di occuparci di ciò; e non pensiamo ai mali, in un momento che ne ridondano tutti i beni desiderabili. Vorrei piuttosto che mi sapessi dir questo: Dato che quella notturna visione non ti fosse così chiaramente comparsa; persisteresti tu sempre nella tua primitiva sentenza, esortandomi tuttavia a non proseguire l’impresa ellenica, o avresti per avventura cambiata idea? E Artabano a lui: Quella visione, o mio re, che mi apparve nel sonno, abbia pure quell’esito che è desiderato da entrambi. Ma contuttociò io mi sento sempre l’animo pieno di gran timore, e la ragione quasi mi si smarrisce, molte cose considerando, e due in particolar modo, le quali mi sembrano avversissime ai tuoi interessi. 48. Allora il re sorse esclamando: O spirito bizzarro; e quali potranno mai essere codeste due cose che tu mi giudichi cosi contrarie? Forse che ti dà noia il poco numero delle mie forze terrestri, e credi che i Greci saranno in grado di contrappormi un esercito più copioso? Ovvero pensi che il nostro naviglio possa essere avanzato dal loro? O sono queste due cose insieme che ti conturbano? Ma se di ciò veramente si tratta, e ti sembrano insufficienti i nostri apparecchi, è facile e pronto il rimedio: si farà una nuova chiamata d’uomini alle armi.
49. Allora Artabano replicò in questa forma: Non è di certo sulla quantità delle tue milizie e delle tue navi, che un uomo di sana mente possa trovar nulla a ridire. Chè anzi, quanto più sì accrescesse il numero dei tuoi seguaci, altrettanto diverrebbero più pericolose ed avverse quelle due cose, di cui parlavo: le quali sono in conclusione, l’acqua e la terra. Imperocchè, a mio giudizio, non trovasi per tutta la distesa dei mari un luogo di tal natura che, al sopravvenire di una qualche burrasca, sia abile a ricevere il tuo naviglio, dandogli un sicuro ricetto. E neppure basterebbe uno solo di questi porti desiderabili: ma ce ne vorrebbero tanti quanti sono i continenti che dovranno essere costeggiati dalle tue navi. E in difetto, dunque, di porti adatti e capaci sul mare, ricordati, o Serse, che sono i casi della fortuna quelli che signoreggiano gli uomini, e non il contrario. Ma dopo avere così parlato del primo punto, veniamo al secondo. E dico che la terra; posto che non si affacci nessun ostacolo ad interromperti; ti diverrà tanto più nemica quanto più progredirai avanti nel tuo cammino, 1 spinto continuamente dalla cieca voglia delle conquiste: liappoichè gli uomini non si saziano mai delle cose che li dilettano. Ed io porto quest’opinione, perchè credo che, Dell’assenza di ogni ostacolo capace di trattenerti, e fatto libero di progredir quanto vuoi nelle tue conquiste territoriali; verrà immancabilmente il giorno che le tue penti travaglieranno di fame. Ma l’uomo avveduto e discreto deve procedere riguardosissimo, e quasi pauroso, prima di risolversi ad operare, bilanciando scrupolosamente tutti gli accidenti che possono intervenirgli. Quanto però la consulta deve essere ponderata, altrettanto ardita l’azione.
50. Alle quali osservazioni Serse prontamente rispose;
D tuo discorso, o Artabano, è indubitatamente in ogni
sua parte dei più aggiustati. Ma bisognerebbe anche che
tu smettessi un poco codesto vezzo di avere paura di tutto,
e di sottilizzar su ogni cosa. Perchè se ad ogni proposta
rbe ti si fa, tu vorrai metterti a ventilarla in tutte le
Kiie possibili contingenze, non concluderai mai uno zero.
Ed è molto meglio di affrontare animosamente qualsiasi
impresa, col rischio di incontrare la metà almeno dei mali
che si prenunziano, anziché non patire nulla come una
conseguenza di temer tutto. Oltredichè, se nel mentre
che tu contraddici a tutte le opinioni altrui, non saprai
poi opporre qualche cosa di certo dal canto tuo; i tuoi
giudìzi peccheranno per lo stesso verso di quelli degli
aryersari, e il disordine sarà il medesimo. Io poi non
credo che a nessuna mente umana possa esser dato di
afferrare la certezza, in quel modo che i nostri bisogni
richiederebbero. E, insomma, in questo mondo il successo’
saole arridere agli uomini risoluti; ma quelli che si per -42- V
dono in sottigliezze e in tentennamenti non approdano a nulla. Tu vedi bene, a quanta grandezza ò giunta la fortuna persiana. Ma se i re, miei predecessori, pensato™ avessero a modo tuo; o, non pensando anche a modoB tuo, avessero però seguiti i consigli di uomini della tua specie; non vedresti ora di certo le cose del loro regno giunte all’altezza in cui sono. Ma essi ve le condussero affrontando coraggiosamente pericoli di ogni fatta: e già le grandi cose senza grandi pericoli non si compiono. Noi, dunque, esemplandoci sui nostri maggiori, abbiamo scelta per moverci la stagione più propizia dell’anno; efl dopo che avremo corso da vittoriosi l’intera Europa, sono certo che potremo tornarcene alle case nostre senza aver patito nessun travaglio di fame né altro malanno. Pri mieramente, perchè ci portiamo dietro un’abbondante prov’ visione dì vettovaglie; e in secondo luogo, perchè avremo sempre a nostra balìa i granai dei paesi e dei popoli cui tendiamo. I quali non sono già tribù di nomadi, ma comunanze d’agricoltori.
51. Ma dopo questa argomentazione di Serse, sorgendo Artabano, replicava: Dappoiché, o mio re, tu non vuoi assolutamente permetterci dubbi o timori di alcuna specie, presta almeno benigno orecchio a quest’altro consiglio che son per darti; non potendosi fare a meno di moltiplicare i discorsi, allorché preme la moUiplicith dei negozi. Ciro, figlio di Cambisc, sottopose e rese tributaria ai Persiani tutta la Ionia, ad eccezione di Atene. Imperò ti supplico e stringo a non volere, sotto nissuna forma pretesto, spingere i tuoi sudditi Ioni contro ì loro .progcnitori.. ^nche senza essi potremo benissimo debellare i nostri avversari. Ma se questi Ioni rimarranno nel no Siro seguito, accadrà inevitabilmente che essi dovranno mostrarsi, o uomini iniquissimi, cooperando con noi alla jogiyezione della metropoli, o uomini al contrario pieni di drittura e di onore, aiutando la metropoli stessa nella sua lotta per la libertà. Se eglino però saranno iniqui, noi non ritrarremo certo gran frutto dalla loro nequizia. Laddove procedendo li Ioni, nel momento difficile, da uomini dritti e onorati, è inestimabile la rovina che potranno tirare addosso all’esercito persiano. Onde ti esorto a rivolgere spesso (icU’animo quell’antico e veracissimo detto: che insieme coi principi delle cose non si discopre mai tutto il fine.
52. Alle quali parole Serse alla sua volta rispose: Fra tutte le opinioni da te sostenute, o Artabano, credo davvero che non ce ne sia altra piìi nova e piìi fallace di questa: quando tu ci esprimi il timore di una diffalta do’ Ioni. Rimanendoci sempre vivo nella memoria un loro splendido fatto, al quale tu stesso puoi rendere buona testimonianza insieme con quanti accompagnarono Dario nell’impresa di Scizia. Imperocché non v’ha dubbio che ci fu allora un momento, che stette nelle mani de’Ioni il decidere della perdita o della salute dell’esercito persiano. Ma essi ci si addimostrarono equi e fedeli, e non commisero nulla per disservirci. Oltredichè, avendo li Ioni lasciato in regioni sottomesse al nostro dominio e figli e mogli e sostanze, non può neppur cadere in pensiero che essi vogliano macchinar novità. Sgombra quindi dalraoimo anche questi timori; e rincuorato completamente, pensa piuttosto ad essere buon g-uardiano della mia casa e dei miei domini, avendo io risoluto di commettere a te solo la custodia e la difesa dei miei regali diritti.
Mm 53. Detto ciò, Serse inviò Artabano a Susa, e poi chiamò intorno a sé a parlamento i maggiorenti dei Persiani. Convenuti poi che questi furono insieme, il re favellò loro in tal modo: Io vi adunai, o Persiani, in questo convegno al fin di esortarvi ad essere uomini valorosi, e a non macchiare con vergogna la fama delle grandi e gloriose gesta dei nostri padri. Ma ciascuno per sé, e tutti insieme, mostriamoci pronti e animosi, dappoiché si tratta di un bene comune che dev’essere proseguito con un eguale sforzo da tutti. Perciò vi ammocifico di andare incontro a questa guerra col maggiore impeto e calore possibile; che (per quanto mi è giunto all’orecchio) avremo da combattere contro uomini valorosissimi; de’ quali riuscendo noi superiori, iiissun altro esercito della terra sarà più abile a contrastnrci. Ma omai è tempo che procediamo al passaggio, dopo avere invocati gii Dei protettori della
54. PersiaE tutto quel giorno fu infatti impiegato nei preparativi del passaggio. L’indomani poi si misero i Persiani ad aspettare con desiderio il sole nascente, mandando in aria profumi di ogni specie nei ponti, e stendendovi sopra come uà tappeto di mirto. E quando il sole comparve infatti all’orizzonte, Serse con una coppa d’oro in mano fece libazioni al mare; e poi rivoltosi al sole nascente, lo pregò; perchè nissun caso gl’ intervenisse, il quale lo costringesse a interrompere la soggezione dell’Europa prima ch’egli fosse arrivato agli estremi confini della medesima. E finita che ebbe questa preghiera, gettò ai flutti dell’Ellesponto la coppa; ci gettò anche una mezzina, e una spada persiana, o se volete meglio, un acinace, come dicono essi. Io non saprei
A 5 peraltro definire con sicurezza, se Serse gettasse tutte (jaeste cose al mare come atto di devozione al sole nascente. non piuttosto perchè, rimordeadog’li la coscienza del flagellato Ellesponto, abbia voluto placarlo con tali
dODÌ.
55. Fornite poi che furono tutte queste preparazioni, incominciò il passaggio. E il ponte costrutto verso l’ Eusìdo servì al transito di tutti i fanti e di tutti i cavalli: quello invece che guardava l’Egeo, fu usato per i giumenti colle bagaglio e per il servidorame. Precedevano i diecimila, tatti cinti il capo di una corona; e dopo <)Qesti veniva la confusa moltitudine di ogni fatta nazioni già menzionata più sopra. Questi passarono il primo giorno. E all’indomani, andavano innanzi a tutti i mille cavalieri e i mille astati dalle lancio rovesciate, tutti incoronati essi pure: indi procedevano i sacri destrieri e il «acro cocchio reale; e appresso veniva Serse in persona, immediatamente seguito da quegli altri astati e da quegli altri mille cavalieri già da me descritti a suo luogo. Fioalmeote passò tutto il resto del grande esercito; e anche le navi furono tirate all’altra parte dello stretto. Né voglio neppur lasciare di aggiungere che, secondo una certa fama, il re sarebbe stato effettualmente l’ultimo a eseguire il passaggio.
56. E poi che Serse ebbe posto il piede sul suolo d’ Europa, volle vedere tutto il suo esercito marciargli davanti sotto l’azione delle sferze. Il qual passaggio durò per sette giorni e sette notti continue. senza alcuno intermezzo. Narrano poi che, dopo il transito di Serse all’altra xtrte dello stretto, un Ellespoatio esclamasse: Perchè — 4
« mai, Giove, camuffandoti delle 6nte sembianze dì un i-e di Persia, e prendendo a prestanza il nome di Serse, tu vuoi mettere sossopra la Grecia movendole contro tutto lo sforzo dell’Asia? Non avevi già d’uopo di questi inganni per conseguire l’intento.
57. Compiuto poi che fu il passaggio di tutti i seguaci di Serse, e mentre essi progredivano nel proprio cammino, si offri alla loro vista un singolare portento, al quale peraltro Serse non badò punto, quantunque fosse assai facile di penetrarne il significato. Una cavalla partorì una lepre. Al quale portento era ben ovvio, come io diceva, di dare questa interpretazione: Che Serse avrebbe bensì ffuidato con grande strepito e vantamento il suo esercito contro la Grecia; ma poi sarebbe stato costretto a rifare i suoi passi, e a guadagnarsi 2)remurosamente la vita. E già prima di partire da Sardi, il re Serse avea veduto un altro prodigio. Una mula, cioè, partorire un puledro con doppia forma di genitali, i mascolini, cioè ed i femminini; mostrando i primi sovrapposti ai secondi.
&8. Ma non avendo Serse avuto alcun riguardo né all’uno né all’altro dei narrati portenti, egli progredì risolutamente innanzi; e con lui progredirono innanzi tutte lo sue milizie terrestri. Il naviglio poi, uscito che fu fuori dell’Ellesponto, si mise a costeggiare il lido, procedendo in un senso contrario a quello in cui camminava l’ esercito di terra. Dappoiché il naviglio navigava nella direzione occidentale, avendo in mira il capo Sarpedonio, dove (secondo gli ordini ricevuti) doveva fermarsi e aspettare. Laddove per contro l’esercito di terra camminò ^^^^ primieper la via del Chersoneso, verso oriente, lascian 7 dosi a destra il sepolcro di Ella figlia di Atamante (9), e a sioistra la città di Cardia. Ma posciachè ebbe attraverMta l’altra città, che appellasi Agora, esso girò il golfo Melanico; e dopo avere varcato il fiume Melo (c!ie fu iflSDificiente allora a dissetare le milizie persiane colte tue acque, e dà il nome al golfo summenzionato), anche l’esercito di terra drizzossi verso occidente, attraversando l’eolica Eno e il lago Stendoride, finché pervenne a Dorisco.
59. E per Dorisco, s’intende primieramente una certa estensione del lido tracio con una vasta pianura circostante, in mezzo alla quale discorre il fiume Ebro. Ma in detta pianura era stato costrutto un regio fortilizio, al quale fu parimenti applicato il nome di Dorisco, e dove trovavasi sempre un presidio persiano stabilitovi da Dario fico dai tempi della spedizione scitica. Il qual luogo fu stimato da Serse accomodatissimo per ischierarvi in buona ordinanza tutte le sue milizie terrestri e per numerarle. In quanto poi alle navi; dopo di essersi esse pure fermate tutte nelle acque di Dorisco, furono spinte dai comandanti del naviglio, e per espresso comando di Serse, contro la spiaggia vicina, dove si trovano le città samotracie di Sala e di Zona, e sporge il capo Serreo all’estremità della linea. La qual regione era stata in antico abitata dai, così detti, Ciconi. E spinte, dunque, che furono le navi persiane contro quel lido che abbiamo detto, ivi le tifarono a terra per raddobbarle; nel frattanto che Serse, sulla pianura di Dorisco^ rivedea le sue genti.
60. Ma quanti uomini comprendesse ciascuna delle naaoni ond’era formato l’esercito guidato da Serse, Dnn
A 8 saprei dirlo con esattezza, essendo affatto muta su questo punto ogni testimonianza. Dirò bensì che dalla rasseg-na fatta sui piani di Dorisco, la somma totale di quell’ esercito risultò di centosettanta miriadi d’uomini. Il quale risultato si ottenne col seguente procedimento. Incominciarono, cioè, dal radunare in un luogo solo diecimila uomini ben contati: e dopo averli serrati insieme il piìi strettamente che era fattibile, disegnarono un circolo intorno a loro. Quindi, rinviati i dieci mila primieramente descritti, innalzarono sulle traccie del disegnato circolo un muricciuolo tanto alto da arrivare all’ombelico dell’uomo. Il che fatto, altri (quanti ce ne potevan capire) introdussero entro quel chiuso, e poi altri e poi altri, infino a che non pervennero in questo modo alla totale enumerazione di tutto l’esercito. E dopo averlo calcolato nel suo complesso, si fecero anche a descriverlo per ordine di nazioni.
61. I diversi popoli che militavano sotto la guida di Serse, erano i seguenti. Primieramente i Persiani, i quali andavano vestiti ed armati in questa maniera. Portavano in capo delle, così dette, tiare, specie di berretti flosci e pendenti; e il corpo involgevano in vesti fornite di maniche e variopinte, che facevano anche la figura e l’ ufficio di corazze ferrate a squame di pesce (10). Avevano poi brache per protegger le coscie, e in luogo di scudi alla foggia nostra, usavano targhe quadrate con teste di vimini. Pendevano loro di dietro i turcassi; corte le aste, grandi gli archi, le freccie di canna; e, finalmente, tenevano al fianco destro sospeso un pugnale dalla cintura. Avevano per loro duce Otane, padre di Amestri moglie di Serse. E anticamente dai Greci erano chiamati Cefeni; ripeteTano) il nome di Artei. Ma posciachè Perseo, prole di Danae e di Giove, pervenne sino a Cefeo fig-lio di Belo, e si onì in matrimonio con Andromeda Bjfliola di lui; gli nacque un fanciullo cui impose il nome di Perse, e là lo lasciò mosso dal caso che Cefeo non aveva figlioli maschi. Di qui l’origine della nuova denominazione (11).
62. I Medi procedevano con eguale corredo d’armi e di vestì; ed anzi il costume finqui descritto deve direi piuttosto medico che persiano. E i Medi avevano a proprio duce Tigrane della famiglia degli Achemenidi. Una volta tutti li chiamavano Ari: dacché però Medea, la Colchica, pervenne da Atene in mezzo a questi Ari, essi pure cambiarono l’antico nome, e sono i Medi medesimi che ce lo Barrano. I Gissi poi si conformavano puntualmente al costume persiano, dalla copertura del capo in fuori, portando essi mitre invece di tiare. Li comandava Aoafe figlio di Otane. E gli Ircani io nessun punto del loro wredo dai Persiani si distinguevano, e obbedivano a ^Mepano; quel medesimo che in appresso ottenne la prefettura di Babilonia.
63. Gli Assiri portavano in capo delle celate di bronzo, di forma cosi barbaricamente involuta che sarebbe difficile di descriverle. I loro scudi, le loro aste, i loro pugnali somigliavano molto all’armadura degli Egiziani. E osavano oltracciò di mazze con nodi di ferro e di usberghi di lino. I Greci li appellavano Siri, e dai Barbari per contro erano detti Assiri. Con essi si trovavano frammisti i Caldei; e stavano sotto il comando di Otaspe figlio di .\.rtacbeo.
ttioei. hlori’ Erodoto, HI. ’ dire che non si diflFere oziassero dai Medi: ma avevano i loro archi costrutti di canne paesane, e le aste corte. I Saci, gente di razza scitica, portavano in capo delle, così dette, cirbasie, che erano una foggia dritta, rigida, acuminata. E in quanto al resto vestivano brache; e usavano archi indigeni e pugnali, e per di più certe ascie, cai essi danno il nome di saffari. Questi, che erano in verità Sciti Amurgì, nell’esercito di Serse venivano designati per Saci; dappoiché i Persiani costumano di chiamare così gli Sciti universalmente. Al comando poi dei Battrì e dei Saci insieme, fu preposto Istaspe, figlio di Dario e di Àtossa, figlia di Ciro.
65. Gl’Indiani indossavano vesti fatte di bambagina; e maneggiavano archi e saette fabbricate con canne del paese, munendo inoltre le saette con punte di ferro. Tale era pertanto l’arredo proprio degl’Indiani; e Farnazatre, figlio di Artabato, aveva avuto l’incarico di comandarli.
66. Gli Ari erano provveduti di archi fatti alla foggia medica, e in tutto il resto del loro costume si accostavano ai Battrì. Li guidava Sisamne figlio d’ Idarne. I Parti poi, i Corasmì, i Sogdi, i Gadarì e i Dadici seguivano esattamente in ogni parte delle vesti e dell’ armadura le usanze dei Battrì; avendo per lor comandanti,! Parti e i Corasmì, Artabazo figlio di Farnace; i Sogdi, Azane figlio di Arteo; e i Gardarì coi Dadici, Artifio figlio di Artabauo.
67. I Caspi procedevano chiusi in certa specie di cappe, che essi chiaman sisirne; maneggiando archi fabbricati di canna paesana, e facendo anche uso di spade. Nel qual modo coperti e arredati, essi avevano a loro duce Ariomardo figlio di Artifio. I Sarangi si distinguevano, e spiccavano dagli altri, per il colore dei vestimenti; avevano i loro calzari tirati fino al ginocchio, e usavano archi ed aste di foggia medica. Li guidava Ferendate figlio di Megabazo. I Patti poi erano coperti anch’essi di cappe, dette da loro sisirne; portavano archi composti di materia del paese, e pugnali; obbedendo ad Artinte figlio d’Itamatre.
68. Gli Utì, i Mici e i Paricani erano vestiti ed armati nella stessa guisa dei Patti. E avevano per comandanti: gli Uti e i Mici, Arsamene figlio di Dario; i Paricani, Siromitre, figlio di Eobazo.
69. Gli Arabi comparivano involti in sottane ampie e succinte; e portavano sospesi alla spalla destra degli archi lunghi e pieghevoli per ogni verso. Gli Etiopi poi erano vestiti con pelli di leone e di leopardo; e avevano i loro archi costrutti con rami di palma, lunghi non meno di quattro cubiti: corte però le freccio da adattarvisi sopra, e munite in cima, in luogo di una punta di ferro, di una punta fatta di pietra; la quale serve loro anche per l’ incisione dei sigilli. Oltredichè questi Etiopi erano pur forniti di aste, in cui infiggevano delle corna acuminate di capra, così convertendole in lancie; e brandivano grosse e nodose mazze. Quando, infine, si avviavano al combattimento, soleano imbiancarsi una metà del corpo col gesso, e colorirsi l’altra metà col minio. Agli Arabi poi e agli Etiopi abitanti della regione superiore all’Egitto, comandava Arsame, figlio di Dario e di Artistona, figlia di Ciro. La quale Artistona essendo stata, fra tutte le altre, 1» moglie prediletta da Dario; e^rli si fece lavorare a martello una statua d’oro di questa donna. E, dunque, come dicevo, Arsame fu deputato a comandare g-li Arabi insieme cogli Etiopi, abitatori della regione superiore all’Egitto.
70. Ma due diverse specie di Etiopi militavano nell’esercito di Serse. Quelli che abbiamo descritti, ed altri che, dalla loro provenienza, erano chiamati Orientali. I quali ebbflro il loro posto assegnato accanto agi’ Indiani: ma nella forma del corpo e nell’insieme delle apparenze, in nulla si distinguono da quegli altri, salvo che per il linguaggio e per i capegli. Dappoiché gli Etiopi Orientali li tengono diritti; e i Libici invece sono i più ricciuti uomini che si conoscano. Questi Etiopi dell’Asia poi comparivano io un arredo quasi del tutto simile a quello degl’Indiani, e si rendevano solo osservabili per questo particolare: che avevano ciascuno il capo coperto di una pelle equina divelta da altrettante teste di cavalli, insieme colle orecchie e colla criniera; afiSnchè la criniera sembrasse come un pennacchio, e le orecchie si mostrassero tese e diritte sopra il capo degli uomini. In cambio di scudi, finalmente, avevano tutto il corpo difeso da pelli di grue.
71. I Libi procedevano vestiti di pelli; usavano giavellotti temperati a fuoco, e avevano per loro duce Massage figlio di Oarizo.
72. I Paflagoni portavano in capo degli elmi di complicata struttura; brevi i loro scudi, e non grandi le aste; ed erano anche foruiti di giavellotti e pugnali. I piedi « che arrivavano a mezzo stinco. I Ligui, i Matìeni, i Mariaodini e i Siri seguitavano interamente nel loro costume le usanze dei Paflagoni. Ma i summenzionati Siri, 4i Persiani detti erano Cappadoci. E i Paflagoni iusieme coi Matieni erano comandati da Doto figlio di Megasidro; nel mentre che i Mariandini, i Ligui ed i Siri avevano per capo Gobria figlio di Dario e di Àrtistona.
73. I Frigi portavano un costume somigliantissimo a Quello dei Paflagoni, differenziandosi da essi in piccolissime parti. E questi Frigi, secondo l’attestazione dei Macedoni. infino a tanto che rimasero fermi in Europa, e seguitarono a vivere congiunti co! popolo macedonico, si chiamarono Bigi. Ma quindi passati in Asia, essi vollero cambiare insieme col paese anche il nome, convertendosi in Frigi. Gli Armeni poi, coloni dei Frigi, erano vestiti ed armati nello stesso modo di questi: e all’una «all’altra gente fu preposto Artocme, genero di Dario.
74. I Lidi per la natura e la forma delle loro armi si accostavano moltissimo ai Greci. I quali Lidi in piiì remoti tempi si erano chiamati Meoni: e fu da Lido, figlio di Ati, che presero il nuovo nome. I Misi portavano in capo degli elmi di una cotal foggia tutta particolare, e nsavano scudi assai brevi. I loro giavellotti erano temperati a fuoco. Questi Misi poi dobbiamo considerarli come coloni dei Lidi, ne va pretermesso che, in grazia del naonte Olimpo, essi prendono anche il nome di Olimpi. K ai Lidi e ai Misi comandava Artaferne figlio di quell’altro Artaferne, che, insieme con Dati, fece impeto contro Uva tona. volpe; avevano il corpo vestito di tuniche, e queste tuniche portavano involte in ampie e sinuose sottane. Intorno ai piedi e alle gambe avvolgevano delle pelli di cerbiatto; ed erano, finalmente, provveduti di giavellotti, di piccole targhe e di piignaletti. Questi Traci poi, dopo che si furono tramutati in Asia, presero il nome di Bitini; ma prima, per loro mdesimo testimonio, si erano chiamati Strimonì in causa della loro sede prossima allo Strimone. E sono eglino stessi che narrano come dovessero un giorno esulare per forza fatta loro da un assalto di Teucri e di Misi. Ai Traci asiatici presiedeva Bassace,. figlio di Artabano.
76. I Calibi (12) usavano piccole targhe fatte di pelle bovina, e ciascuno di loro portava due spiedoni (di quelli che servono per la caccia dei lupi). E vedevi loro in capo degli elmi di bronzo, sormontati da orecchie e ria corna di bove, parimenti in bronzo, e da pennacchi. Le gambe poi essi s’involtavano con fascie color di porpora. E in mezzo a questo popolo risiede un oracolo di Marte.
77. I Cabeli Meoni, conosciuti più volgarmente sotto il nome di Lasoni, usavano un costume identico a quello dei Cilici. E quale precisamente fosse il costume cilicio lo vedremo nel seguito della mia descrizione. I Milui maneggiavano piccoli scudi, e portavano le loro vesti raccomandate alle fibbie. Alcuni di loro erano eziandio provveduti di archi liei; e tutti coprivano il capo con celate di cuoio. Ai Calibi, ai Cabeli, ai Milui, presiedeva Badre, figlio d’Istane. invece le lancie infisse nelle medesime. I Tibareni, i Macroni e i Mosineci procedevano in un arredo affatto simile a quello dei Moschi. E i Moschi, come i Tibareni, riconoscevano per loro ordinatore e capo Ariomardo, figlio di Dario e di Farmi, figlia di Smerdi e nipote di Ciro. I Macroni, invece, e i Mosineci sottostavano ad Artaitte, figlio di Cherasmi, quello stesso che teneva dipoi il governo di Sesto sull’Ellesponto.
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^M 79. I Mari proteggevano il capo con elmi di foggia ^^ntta loro propria e attorcigliata; usavano piccoli scudi di cuoio, e scagliavano giavellotti. I Colchi si mostravano con celate di legno, con piccoli scudi fatti di pelle bovina, e con aste corte; ma oltre alle aste usavano anche di spade. Duce dei Mari e dei Colchi fu Farandate, figlio di Teaspi. E gli Aladorì ed i Saspiri si accostavano onninamente per l’armadura al costume dei Colchi; obbedendo essi a Masistio figlio di Siromitra.
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80. Gl’insulari, finalmente, che seguivano il campo; ed erano tratti da quelle isole del Mar Nero, dove il re
asgna il domicilio agU uomini dannati al bando; avevano ed armi in tutto simili a quelle usate dai Medi. E n comandava Mardonte figlio di Bageo, quel medesimo che un anno dipoi perdette la vita nella battaglia di
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81. Queste sono, pertanto, le nazioni che seguitavano Serse pel continente, e che formavano in conseguenza la porzione terrestre delle sue forze. Il quale esercito di terra era per l’appunto guidato da quei personaggi che 6 ho Bnquì menzionati. Essi furono che l’ordinarono; essi che ne descrissero il novero; essi, finalmente, che designarono i comandanti inferiori, vale a dire, i Chiliarchi ed i Miriarchi. I quali Mirìarchi nominarono poi alla loro volta gli Ecatontarchi e i Decarchi di tutto l’esercito. Ogni nazione aveva anche certi altri suoi capi particolari: ma essi tenevano sempre un grado inferiore verso quegli altri capi che abbiamo detto.
82. Ma sopra a tutti quanti stavano, come condottieri generali e supremi delle genti a piedi, Mardonio figlio di Gobria, Tritantecme figlio di Artabano; quello stesso che aveva sempre sconsigHata l’impresa ellenica; e Smerdomene figlio di Otane (i quali due ultimi erano nepoti per parte di fratelli di Dario, e però cugini di Serse). Indi Masiste, figlio di Dario e di Atossa, Gergi di Arizo e Megabizo di Sopirò.
83. Questi erano, adunque, i personaggi superiormente prepoeti a tutto l’esercito, eccettochè ai, così detti, dieci mila. 1 quali dieci mila, scelti dal fiore della gente persiana, stavano sotto l’unico e appartato comando d’Idarne, figlio d’Idarne. E avevano anche il nome à’immortali per questa ragione: che ogni volta che alcuno di essi, o per morte o per malattia, veniva a mancare, era incontanente supplito da un altro milite; di sorta che il numero di dieci mila restava sempre intatto, e non erano mai né di pi il né di meno. Grandeggiavano sopra tutti per lo splendore della comparsa, ed erano anche tenuti per i più prodi. Il modo dell’armaditra non appariva, per verità, diverso nei dieci mila da quello che abbiamo descritto parlando degli altri Persiani: ma le loro vesti scintilla cui conducevano le loro amasie, e il loro servidorame in issise di gran valore. Ed anche la provvisione delle vettovaglie, recate a spalle di camelli e di altri giumenti, era fatta per gl’immortali in un modo particolare e diverso che per l’altra gente.
84. L’esercito di Serse aveva pure cavalleria. Ma non cosà che le diverse nazioni, ond’esso era composto, tutte gliene somministrassero. E le poche piuttosto atte a somministrarne si riducevano a queste sole. Veoivano, cioè, primieramente i cavalieri Persiani, per le vesti e per le armi in tutto simili ai fantaccini, salvo che alcuni di loro portavano in capo certe foggie fatte di piastre di bronzo e di rame lavorate al martello.
85. Avvi poi un certo popolo di nomadi, chiamati Salarti; gente di razza persiana e che parla il persiano, ma il cui costume intramezza fra il persiano e il pattiaco; i quali Sagarti fornirono un corpo di ottomila cavalieri. Ma essi non usano di portare addosso alcuna arma né di bronzo né di ferro, dai pugnali in fuori. E si servono invece ad offesa di certe funi composte con liste (li cuoio; le quali bastano a renderli fiduciosissimi. Il loro modo, finalmente, di combattere è questo. Che affrontati che «sono coU’inimico, scagliano tosto le dette funi, le quali tutte terminano con un laccio. E qualunque uomo o cavallo resta preso da questi lacci, il Sagarte Io tira a sé. Tutti poi gì’ individui che vennero così accalappiati, sono
Btinati alla morte. Tale è pertanto il modo di combatfere di questa gente; e nella distribuzione delle ordinanze fa messa insieme con i Persiani. 86. 58I cavalieri Medi usavano un arredo d’armi e di vesti in tutto uguale a quello dei loro fanti; e lo stesso avveniva dei Gissi. Anche gl’Indiani a cavallo non differivano niente nel proprio costume da quelli a piedi. Ma oltre ai cavalli da corso conducevano pur seco dei carri; e a tirar questi carri adopravano indiflFerentemente i cavalli e g-li asini selvatici. La medesima convenienza poi d’armi e di vesti fra i cavalieri e i fanti riscontravasi eziandio nei Battri, nei Caspi e nei Libi. I quali ultimi però erano piuttosto, e generalmente, conduttori di carri. Né accadeva diversamente il fatto nei Caspiri (13), nei Paricani e negli Arabi. Se non che gli Arabi sostituivano i cammeli ai cavalli; e avevano tali cammeli che si lasciavano dietro nel corso qualsiasi cavallo.
87. Queste, dunque, che ho finquì enumerate, furono le sole nazioni, le quali somministrassero all’esercito di Serse cavalleria: e! a somma totale dei cavalieri ci raggiunse il numero di ottantamila, non tenuto conto de cammeli e dei carri. Essi furono ordinati schiera schiera, dandosi agli Arabi l’ultimo luogo. Il che si fo per cansare il probabile paventar dei cavalli, i quali dif cilmente sopportano la vista di un cammelo.
88. Della cavalleria erano supremi comandanti, Armi mitre e Titeo, figli di Dati. I quali però in principio avJ vano avuto un terzo collega in Farnuche; ma dovette lasciarlo a Sardi ammalato. Perchè nel mentre che \’{ sercito esciva appunto da Sardi, quegli fu sopraggionf da un tristissimo caso. Perchè nell’atto che cavalcai innanzi, un cane attraversò all’ improvvista le gami del suo cavallo; onde questo adombrato s’impennò, e get sangue, e il suo male a poco per volta si converse in tisico. I famigliari poi di Farnuche inflissero subito a quel cavallo ilgastigogià decretatogli dal suo padrone. Lo condussero, cioè, sul luogo medesimo dove aveva gettato a terra il padrone, e quivi gli troncaron le gambe nella piegatura proprio delle ginocchia. E in questo modo, dunque, avvenne che Farnuche fu sciolto per forza dal comando della cavalleria.
89. Venendo poi a discorrere del naviglio, dirò che esso si componeva in totale di mille trecento triremi; e che le nazioni, le quali concorsero a somministrarle, furono le seguenti. Primieramente i Fenici, i quali insieme coi Siri Palestini ne somministrarono trecento. E l’arredo, in cui si mostravano questi popoli, era di tal maniera. Avevano elmi in capo di forma somigliantissima agli elmi ellenici; proteggevano il corpo con usberghi di lino; imbracciavano scudi senza nissun giro di ferro che li cerchiasse, e maneggiavano giavellotti. Detti Fenici poi, conforme alla loro stessa testimonianza, abitarono primitivamente sulte sponde dell’Eritreo, donde poi in appresso migrarono, ed ora hanno la toro sede nella regione marittima della Siria. La qual regione, insino ai confini dell’Egitto, tiene il nome generale di Palestina. Gli Egizi somministrarono dugento navi. E questi portavano in capo degli elmi attorcigliati; usavano scudi di forma concava e muniti di grossi cerchi; brandivano aste acconcie alle pugne navali, e scuri di smisurata grandezza. Alquanti dì loro si proteggeano anche il corpo di buoni usberghi, e maneggiavano grosse spade. E tale era pertanto, come detto ho, l’acconciamento egiziano. cinquanta navi; ed erano arredati in tal modo. I loro re portavano cinto il capo di quelle foggie che si chiamano mitre; il rimanente del popolo indossava la tunica; e per ogni altra parte delle vesti e dell’armadura, gl’insulari di Cipro non si distinguevano punto dai Greci. Questi insulari poi (come lo affermano essi medesimi) sono costituiti da un aggregato di molte diverse nazioni. Perchè, chi di loro proviene da Atene e da Satamina, chi dall’ Arcadia, chi da Citno, chi dalla Fenicia, e chi perfin dall’Etiopia.
91. I Cilici per proprio conto somministrarono cento navi. Ed essi portavano in capo degli elmi modellati alla foggia patria i usavano piccole targhe fatte di pelle cruda di bove in luogo di scudi; vestivano tuniche di lana; e, infine, ciascuno di loro maneggiava due giavellotti, e teneva una spada di forma somigliantissima alle spade degli Egiziani. Questi Cilici in più remoti tempi erano stati chiamati Ipachei. Ma in grazia di Cilice, figliolo di Agenore, di razza troiana, essi presero il nome che hanno presentemente. Anche i Parafili somministrarono trenta navi, ed erano arredati all’ellenica. I quali discendono da quel nucleo di Greci che si disperse dopo la guerra troiana sotto la guida di Amfiloco e di Calcante.
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92. I Liei alla loro volta accomodarono Serse dì cinquanta navi; e si distinguevano pei loro usberghi e pei loro gambali. Oltredichè eglino usavano di archi costruiti con legno di corno, di freccie fatte di canna e non alate, e di giavellotti; peUi caprine pendevano loro giù dalle intorno come una corona di penne, e, finalmente, andavano armati di pugnali e di falci. I Liei poi, provenienti originalmente da Creta, furono in antico chiamati Termili; ma quindi da Lieo ateniese, ebbero il nome presente.
93. I Dori asiatici fornirono di suo trenta navi; portavano armadura alla greca, e loro madrepatria è il Peloponneso. I Cari ne fornirono settanta; e il complesso del loro arredo mostravast in tutto simile a quello dei Greci, salvo che essi ci aggiungevano anche falci e pugnali. In quale altro modo poi questi Cari si chiamassero anticamente, io l’ho già detto altrove.
94. Li Ioni concorsero all’ impresa con cento navi; e Oliavano vesti ed armi uguahssime a quelle usate nella Grecia propria. I quali Ioni, per tanto tempo quanto rimasero in quella regione del Peloponneso, che ora appellasi Acaia ( innanzi all’avvenimento nel Peloponneso stesso di Danae e di Xuto), ebbero, per affermazione dei Greci, il nome di Pelasghi Egialei. Ma in processo di tempo, e in grazia di Ione figlio di Xuto, essi si trasformarono in Ioni (14).
95. or insulari somministrarono diciassette navi, ed erano armati all’ellenica. Ma anche il popolo delle isole fa primitivamente un popolo pelasgico. E se in appresso cambiò l’antica denominazione in un’altra, ciò avvenne per il medesimo processo onde furono, al loro tempo, chiamati Ioni quei coloni ateniesi che andarono a piantare le dodici città ioniche dell’Asia. Gli Eoli poi dettero sessanta navi: erano essi pure arredati in tutto alla greca» «, secondo la tradizione ellenica, il loro nome eziandio si confuse anticamente col nome pelasgico. Gli EUesponti, finalmente ( ad eccezione degli Abideni, che non dovevano moversi, perchè era stata loro commessa dal re la guardia dei ponti); gli EUesponti. dico, aggiunsero di suo cento altre navi all’armata di Serse. I quali EUesponti costituivano in effetto altrettante colonie delli Ioni e dei Dori dell’Asia.
96. Sopra tutti indistintamente i legni che formavano l’armata di Serse, era imbarcata una milizia navale composta in ispecial modo di Persiani, di Medi e di Saci. E le navi di miglior servigio le avevano fornite i Fenici, e fra i Fenici, i Sidoni. A guida poi dei singoli popoli, tanto per le milizie navali come per le terrestri, stavano dei compatrioti. I quali peraltro, non essendoci io astretto da nessuna ragione storica, lascerò volentieri di nominare. Sì perchè questi capi particolari erano ( generalmente parlando) uomini di piccolo affare; e si anche perchè se ne trovavano tanti quanti erano, sto per dire, le città che concorsero alla impresa di Serse. Per giunta essi avevano piuttosto le apparenze che il vero grado di capitani, cou fondendosi essenzialmente la condizione loro nella universal servitù. Ma quali fossero i veri duci, tanto generali quanto parziali, dell’esercito terrestre; o (in altri termini ) quali fossero i duci persiani del medesimo, noi già lo dicemmo più sopra.
97. Venendo poi ora a raccontare i capitani marittimi, diremo che al naviglio supremamente imperavano: Ariabignè, figlio di Dario; Praxaspe, tìglio di Aspatine; Megabizo, figlio di Megabito; e, finalmente, Achemene, figlio di Dario. Ma più specificamente ancora possiamo aggiungere: che Ariabigne, figlio di Dario e della figlia di Gobria, ebbe il comando della squadra ionica e caria: che Achemene, fratello di Serse, fu messo a capo degli Egiziani: e che tutto il resto del naviglio sottostava a quegli altri due. Alle già menzionate triremi poi si aggregava un conserto di navi minori, quali a trenta remi, quali a cinquanta remi; oltre a un certo numero di scialuppe e di barche lunghe per il trasporto dei cavalli: le quali tutte insieme sommavano credibilmente a tremila (15).
98. E dopo i duci supremi sopradescritti, nella guida del naviglio persiano massimamente si distinguevano: Tetramnesto, figlio di Aniso, di Sidone; Mapen, figlio di Siromo, di Tiro; Merbalo, figlio di Agbalo, di Arado; Siennesi, figlio di Oromedonte, della Cilicia; Cibernisco, figlio di Sica, della Licia; Gorgo, figlio di Chersi, e Timonace, figlio di Timagora, ambidue di Cipro; e, infine, i tre Cari, Istieo figlio di Timne, Pigre figlio di Seldomo, e Damasitimo figlio di Candaule.
99. Sugli altri comandanti delle ordinanze navali; dacché non ho nessuna necessità di parlarne; volentieri passerò sopra, eccettuata peraltro Artemisia. La quale, stupisco che, nella sua qualità di donna, volesse andare proprio in persona a combattere contro i Greci. Ma il fatto è, che, dopo morto il marito, avendo ella occupato il regno, colla successione assicurata in un figlio già adolescente; non da altro mossa, che da una cotal sua naturale alterezza d’animo e dagli spiriti virili che l’animavano; non dubitò di seguire, da nissuna necessità costretta, ma di 84 U0 proprio impulso, l’armata persiana (16). E questa donna, dunque, come già dicemmo, si chiamava Artemisia, ed ebbe a genitore Ligdami; ritraendo quindi per il lato paterno da Alicarnasso e per il lato materno da Creta. Ella poi stendeva il suo domìnio sugli Alicarnassì, sui Coi, sui Nisiri e sui Calidnì: e somministrò cinque navi all’armata di Serse; le quali cinque navi furono quelle che, dopo le Sidonie, riuscirono le più gloriose di tutte quante. Oltredichè Artemisia grati6cò sempre il re dei piti sapienti consigli. E tutte quelle città che io già dissi che le obbedivano, affermo con sicurezza che appartengono interamente alla razza dorica. Concìossiachè gli Alicarnassi sieno originalmente una colonia di Trezene, e gli altri derivino da Epidauro. Ma abbastanza ho già discorso del naviglio persiano.
100. Serse, dopo che fu compiuta la numerazione e rordinamento di tutto l’esercito, desiderò di farne la rassegna egli stesso. E così eseguì infatti come aveva desiderato. Assiso sopra il suo carro, passò innanzi alle singole schiere delle diverse nazioni che il seguitavano, interrogando e informandosi minutamente di tutto. Ci erano poi degli scribi che a mano a mano notavano le sue impressioni. E seguitò in tal modo quella rassegna, finché non fu giunto dall’uno all’altro estremo delle genti a piedi e dei cavalli. In appresso; dopo essere state risospinte le navi in mare; Serse montò in una nave sidonia, e ivi sedendo sotto magnifico padiglione’, passò in rassegna le schierate prore di tutta l’armata; interrompendo, anche qui, per ogni nuova nave innanzi a cui trascorreva, la visita colle quistioni, e facendo annotare dagli scribi ogni cosa. Le navi poi, essendosi discostate perla ’fermarono, per disposizione dei comandanti, surte sull’ancore, colle prore tutte drizzate verso terra, e ordinate in una fola fronte. Alle milizie navali, finalmente, fu ingiunto di mostrarsi in quella occasione arredate ed armate come nell’ora della battaglia: e il re assisteva a tutto ciò, aggirandosi in mezzo fra le prore schierate ed il lido.
101. Dopo avere, dunque, riveduto il naviglio, Serse lasciò la nave dove s’era imbarcato, e fece a sé chiamare Demarato figlio di Aristone; il quale venutogli alla presenza, lo interrogò in tal modo: Mi è grato in questo momento, o Demarato, di domandarti alcune cose che io desidero di sapere. Tu sei Greco, e per quanto da te medesimo è da altri Greci, in cui mi avvenne di abbattermi, ho potuto raccogliere, tu appartieni ad una città che non è certamente delie più deboli né delle meno considerate. Dimmi, pertanto, se, a tuo giudizio, i Greci saranno abili dì resistermi osando di alzare le mani contro di me. Giacché, per quanto a me pare, neppure una congiunzione generate dei Greci e degli altri popoli occidentali sarebbe capace di contrasfarmi il passo, salvo il caso che si stabilisse fra tutti loro una perfetta concordia. Ma contuttociò mi è caro di udire anche il tuo avviso in siffatto argomento. Ck)sì interrogava Serse; e Demarato gli rispose: Prima di tutto, o re, bisogna che io sappia se tu vai in cerca di verità o di lusinghe. E l’altro allora gl’impose di dire schiettamente la verità, promettendogli che, in quaInnque modo, non sarebbe mai scaduto dalla sua grazia.
102. Il che udito, Demarato tosto soggiunse: Tmperoccbè, dunque, assolutamente tu vuoi che io ti dica il vero,
Rhc), tHor,e Erwlotti, III. i mai il giorno in cui tu mi possa riprendere di menzogna. È cosa connaturata agli Eileoi di dover vivere di privazioni: ma essi hanno nel tempo stesso una virtià acquisita, e prodotta in loro dall’uso della sapienza e dal rispetto delle tradizioni. Onde divengono abili a superare le privazioni e a ribattere i dispotismi. Io poi mi sento grandemente inclinato a encomiare gli Elleni tutti abitatori dei paesi dorici. Ma non per questo allargherò il mio discorso per tanto spazio di terra e di popoli; e mi restringerò a dire unicamente dei Lacedemoni. I quali, primieramente, mantengo che non accetteranno giammai la tua proposta di servitù per la Grecia; e che anzi ti si faranno incontro coll’armi, quand’anche tutti gli altri Elleni si accomodassero ai tuoi voleri. Né, per riguardo al numero, ti devi brigar di sapere quanti potranno essere gli Spartani apparecchiati a combatterti. Perchè, se si troveranno in mille, essi ti combatteranno in mille. E ti combatteranno egualmente o in minor numero od in maggiore.
103. Serse, udite che ebbe tali parole, si cacciò a ridere, e tostamente riprese: Ma che ciance sono mai codeste, che mille uomini possano esser buoni a contendere con un esercito sì smisurato? Dimmi un po’ infatti. Tu professi di essere re di tal gente: ma ardiresti tu di metterti lì su due piedi a combattere da solo contro dieci? Che anzi, verificandosi realmente in tutti i cittadini del tuo paese tanta virtù quanta è da te predicata, tu, come re, dovresti mostrarla doppia, secondo i patri statuti. Onde se ciascuno Spartano è proprio atto a combattere contro dieci uomini del mio esercito, io posso pretendere che tu opponga uguale virtù contro venti. In questi termini sol J tali magnificamenti procedono da uomini della ’ «complesione e della statura che io vedo in te e negli altri Greci che conosco, bada che essi non si risolvano in una vaoissima ostentazione. Esaminiamo in prova le cose col calcolo dei probabili. E come mai, io chiedo, sarà fattibile che mille, diecimila, anche cinquantamila uomini; totti fra loro egualmente liberi, e non soggetti al comando di un solo; possano resistere a un tanto esercito quanto è il mio? Imperocché innanzi tutto, dato, per esempio, che il campo nemico fosse composto di cinquemila combattenti, noi possiamo serrare in mezzo ciascun uomo con mille uomini. Ma se almeno, come avviene da noi, questi nostri nemici obbedissero a un solo capo, potrebbe anche darsi che per la tema di lui e per l’ apprensione della frusta, divenissero migliori che la loro natura non porterebbe, e atti quindi a affrontarsi anche da pochi contro molti. Ma sciolti come essi si trovano da ogni tìdcoIo, e abbandonati totalmente al proprio arbitrio, non può seguire né Tunu nò l’altra di dette cose. E credo piuttosto che ai Greci, ragguagliate anche le forze dalle due parti, debba riuscire molto difficile di cimentarsi con i Persiani, Presso cui si trovano veramente quelle prerogative di forza di cui tu parli. Non dirò già molto sparse; ma pur si trovano in qualche caso. E fra i Persiani, per esempio, che formano il mio cjjrteo, ve n’ha indubitatamente taluno paratissimo a lottare da se solo contro tre Greci insieme. Ma tu queste cose non sai, e però vai cicalando a tua posta.
104. Allora Demarato a lui: Già fin da principio, o re,if sapeva benissimo che dicendoti la verità non ti avrei desiderasti dal mio labbro verissime parole, io ti esposi quel clie realmente io sentivo dei Lacedemoni. Quantunque, di quale amore io debba amare costoro presentemente, tu devi saperlo meglio di ogni altro. Essi mi cassarono da ogni onore e da ogni dignità patria, facendo di me un esule ed un fuggiasco. Ma tuo padre raccog-liendomi, mi ha conceduto albergo e trattenimento. Né è cosa credibile che un uomo di mente sana voglia respingere un effettuai beneficio; ma molto più credibile invece che se lo tenga stretto meglio che può. Io poi non sono acconcio a promettere di lottare contro dieci, né contro due; ed, anzi, finché la cosa può restare in mio arbitrio, non vorrei sperimentarmi neppure in una singolare tenzone. Ma se la necessità, o qualche gravo urgenza lo richiedesse, mi sarebbe sopratutto dolcissimo di cimentarmi con uno di quei cotali, i quali si gloriano di valere quanto tre Greci insieme. E già ti posso affermare che i Lacedemoni generalmente, messi uno contro uno, non la cedono a verun altro uomo de! mondo; uniti poi insieme, operano prodigi. Perchè quantunque sien liberi, non sono però liberi da ogni parte; dappoiché hanno un supremo signore che li governa, e qnesto signore è la Legge. Verso la quale eglino si addimostrano molto piò. riverenti, che non i tuoi sudditi verso te. Imperocché li Spartani obbediscono pontuali,«simi ai suoi precetti. I quali precetti sono poi sempre i medesimi: vale a dire. di non cedere mai del campo, qualunque sia il numero dei nemici contro cui si trovino a fronte; e di restar fermi nelle ordinanze, risoluti a vincere od a morire. Ma. ee dicendo queste cose a te par che io motteggi, sarà meglio il tacere del rimanente. Quanto esposi finqui, lo M succedano, o re, come tu le desideri.
J05. Cosi parlò Demarato. E quando ebbe conchiuso, SiTse si mise a ridere di gran gusto. Ma non per questo «nostro alcuno sdegno verso il suo ospite; e anzi piacevolmente lo accomiatava. Terminato poi che fu il detto colloquio, Serse spinse innanzi il suo esercito per la Tracia contro dell’Eliade, dopo di avere costituito a prefetto delia città di Dorisco (dove si era fino allor trattenuto), Mascame figlio di Megadoste, e rimossone colui che ci era stato posto da Djrio.
106. Il qual Mascame si mostrò poi, nel commessogli ufficio, uomo dotato di tali pregi, che Serse gratificava ogni anno lui solo di qualche dono, riconoscendolo per il prefetto più prode di quanti mai egli medesimo e Dario aveva creato. E Artaserse, figlio di Serse, proseguì ad onorare di uguale preferenza li successori. Imperocché, innanzi che avvenisse la spedizione di cui ora parliamo, si trovavano già nella Tracia e in ogni punto dello Ellesponto, stabiliti dei prefetti persiani. Ma dopo l’esito deir.impresa di Serse, sia dalla Tracia e sia dall’Ellesponto, furono tutti quauti scacciati via per opera degli Elleni, dal prefetto di Dorisco in fuori. Dappoiché riasci sempre impotente ogni assalto fatto contro Mascame. quantunque fossero molti che si provarono ad isfor^arlo. Donde il fatto dei continui doni largitigli dai re di Persia.
107. Fra tutti quei prefetti persiani poi che furono cacciati via dagli Elleni, neppure uno si mostrò tale da meritare la stima del proprio re, ad eccezione del solo Boge, prefetto di Eione. Del quale Serse non sapeva cessarsi di far gli elogi; e i figli di lui, rimasti in Persia, ricolmava di onori. Ma fu veramente questo Boge uomo degno di somme lodi. Fmperocchè, quando gli Ateniesi e Cimone, figlio di Milziade, lo stringevan d’assedio; avendo’ potuto uscirsene libero e tornarsene in Asia, se consentiva ad accordi, non volle, perchè agli occhi del suo re non paresse che egli avesse comprata la vita a prezzo della ignominia: e resistette fino all’estremo. Venuta poi meno entro le difese mura ogni vettovaglia, esso innalzò un grandissimo rogo; sgozzò i figlioli, la moglie, le amanti. i famigliari; e così tutti sgozzati, li gettò alle fiamme. Avendo poi raccolto quanto oro ed argento si trovava nella città, dall’alto delle mura lo disperse buttando tutto nello Strimone, e poi si scagliò esso stesso nel foco. Onde meritamente la fama di Boge dura anche ai nostri giorni grandissima fra i Persiani.
108. Uscito poi che fu Serse dalla città di Dorisco, e mentre drizzavasi contro la Grecia, in quanti popoli gii interveniva di abbattersi, altrettanti costringeva di seguitarlo. Imperocché, secondo che ho più. sopra narrato, tutta la coutrada che si distende fino ai termini della Tessaglia era già stata anteriormente condotta alla devozione del re di Persia e fatta sua tributaria, per opera, prima di Megabazo, e poi di Mardonio. E provenendo Serse da Dorisco, dovette primieramente attraversare alcuni punti fortificati appartenenti alla Samotracia, di cui l’ultimo e il più occidentale forma la città di Mesembria; cui prossima sta l’altra città dei Tasi chiamata Strime. Fra l’una e l’altra poi delle dette città, scorre il 1 fiume LÌ6S0; il quale non fu a pezza sufficiente per dissetare le milizie di Serse. E questa regione di cui ora parlianao, una volta si denominava Gallaica; presentemente la chiamano Briantica. Ma essa pure, a propriamente parlare, appartiene ai Ciconi.
109. Varcato quindi che ebbe Serse il disseccato alveo del Lisso, attraversò coll’esercito le città elleniche di Maronea, di Dicea e di Abdera. Attraversò, dico, le predette città, e i seguenti la^hi celebratissimi che stanno loro dappresso: cioè, il lago Ismaride, che s’interpone fra Maronea e Strime; poi il lago Bistonide, che trovasi in proesimità di Dicea, e dove confluiscono il Trauo e il Compsato. In quel di Abdera non ebbe, per verità, Serse occasione di tragittare nessun lago di molto grido; ma ci varcò il fiume Nesto, che quivi appunto mette foce nel mare. E oltrepassate che ebbe queste regioni, Serse tra%’ersò altre cittfi del continente, presso ad una delle quali trovavasi un lago di trecento stadi all’iocirca di circuito, copiosissimo di pesci, e singolarmente salato. Il qaal lago, bastarono i soli giumenti dell’esercito persiano per metterlo in secco. E la città di cui parlo aveva il nome di Pistiro. Serse poi, essendosi lasciate a mano manca
’tutte queste città elleniche e litorali, progredì oltre nel sao cammino.
110. I popoli della Tracia, in mezzo a cui ebbe luogo il passaggio di Serse colle sue genti, son questi: i Peti, i Ciconi, i Bistoni, i Saper, i Dersei, gli Edoni e i Satri. Fra i quali, gli abitatori della costa marittima furono obbligati a seguitare il naviglio; laddove i continentali, ad eccezione dei Satrì, vennero tutti forzatamente descritti fra le milizie terrestri.
H 2 IH. I Satri però non caddero mai, che io sappia, in soggezione altrui; e soli fra tutti i Traci si raautennero sempre liberi fino ai di nostri (17). Imperocché essi abitano altissimi monti, tatti coperti di selve e di perpetue nevi; e sono prodissimi in guerra. Gli è poi nel loro dominio che trovasi il famoso oracolo di Bacco, oracolo stabilito sui monti di piii alta vetta; e dove i, cosi detti, Bessì, sacerdoti del tempio, interpretano i responsi. I quali responsi sono dati per bocca di una fatidica, come in Delfo, né certo con maggiore ambiguità di parole.
112. Percorsa poi che ebbe Serse la regione da me finora descritta, passò in seguito accanto ai due fortilizi dei Pieri (18), che si chiamano, uno Fagre e l’altro Pergamo: e messosi per tal via, si lasciava egli a mano destra il monte Pangeo; grande ed altissimo monte, con ricche miniere d’oro e d’argento, che dai Pieri, dagli Ódomanti, ma massimamente dai Satri, erano usufruttate.
113. Dopo avere, dunque, il re persiano attraversati anche i Peoni, i Doberi e i Peopli, a settentrione del monte Pangeo, egli piegò ad occidente, sempre procedendo infìno a clie non ebbe raggiunte le rive dello Strimene, e la città di Eione, dove già governava quel Boge di cui ho parlato pur dianzi. E tutto questo paese, che si allarga intorno al Pangeo, ha il nome di Filli, arrivando orientalmente fino al fiume Angitc, confluente dello Strimone, e dalla parte di mezzogiorno, fino allo Strimone stesso. Al quale i Magi offerirono il sanguinoso sagrificio di non so quanti cavalli bianchi.
114. E compite queste e molte altre celebrazioni in
j onore del detto fiume, i Persiani di Serse raggiunsero negli Edoni, e nel luogo precisamente chiamato le Nove vie, le teste dei ponti onde essi già trovarono congiunte le rive dello Strimone. E avendo poi risaputo che quel luogo aveva l’appellazione di Nove vie, altrettanti fanciulli e vergini ci seppellirono vivi. Chè già questo è costume persiano; di seppellire, in certe congiunture, la gente viva. Essendomi venuto, fra gli altri esempi, a notizia, che anche Amestri, moglie di Serse, avendo voluto gratificare il, così detto, Nume infernale, per la concessagli longevità, seppellì vivi in suo onore quattordici figli dei più illustri personaggi di Persia.
115. Varcato poi che ebbe l’esercito lo Strimone, e dilungandosi alquanto da esso, gli si apriva occidentalmente davanti un tratto di costa; dove (come anche più in alto) stendesi quella regione che si chiama Bisaltia, e dove è piantata la città ellenica di Argilo, traverso a cui passò il detto esercito. Quinci proseguì il suo cammino, avendo prima a mano manca quel golfo di mare che è sopraggiudicato dal tempio nettunico; poi passando in mezzo al campo Sileo, e raggiungendo finalmente il punto di Acanto. Ne! mentre che egli continuamente ingrossavasi di ciascuno di questi popoli, e dì quelli che circondano il monte Pangeo, e degli altri già da me più sopra descritti. Dei quali popoli, i littorani dovevano rifornire il naviglio, e quelli posti entro terra dovevano invece seguitare la milizia terrestre. Tutta questa strada, infine, per la quale Serse condusse il suo esercito, i Traci non la smovono nè la seminano: ma l’hanno sempre tenuta fino ai miei giorni in grandissima riverenza.
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116. Pervenuto poi che fu il re persiano in Acanto, gratificò gli Acantini dei diritti d’ospizio; li ammise al privilegio della veste medica; e li esaltò inoltre con magnifiche Iodi per la prontezza dei loro apparecchi militari, e per lo zelo mostrato nella grande opera del canale.
117. Ma mentre Serse soggiornava in Acanto, avvenne la morte di Artacheo cagionata da malattia; di quell’ Artacheo che aveva in supremo grado presieduto alla scavazione del canale. Il qual’ uomo godeva di somma riputazione appo il re; apparteneva alla schiatta degli Achemenidi; sopravanzava di statura tutti i Persiani, mancandogli sole quattro dita all’altezza di cinque cubiti; possedeva, finalmente, una voce più forte di ogni altra voce umana. Laonde Serse, pieno l’animo d’immenso dolore, procurò che Artacheo fosse onorato di solenni esequie e di magnifica sepoltura. L’intero esercito concorse alla erezione del suo tumulo: e tuttavia gli Acantini, mossi da un oracolo, fanno celebrazioni in onore di lui (come si suol cogli eroi), e ne invocano il nome.
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118. Quegli EUeni poi che furono obbligati ad accogliere e nodrire Serse con il suo esercito, precipitarono in fondo d’ogni miseria, a tal segno di dover andare 1 qualche volta come raminghi ed esclusi dalle proprie case. Nel quale proposito noterò primieramente il fatto dei Tasi; che avendo dovuto, in grazia dei possessi dì terraferma, accogliere e nodrire l’esercito di Serse, e avendo eglino deputato a siffatta bisogna Antipatro figlio di Orge, uomo di somma reputazione nel paese, questi presentò loro un conto di quattrocento talenti di argeuto. 119. E presso a poco in egual cifra si riassumevano i calcoli fatti e le spese dimostrate dai governanti negli altri luoghi. Imperocché ai necessari apparecchi per la measa di Serse e dei suoi seguaci; mensa ordinata sempre un gran tempo prima, e predisposta sempre con somma cara; procedevasi in questo modo. Non appena si faceva adire intorno intorno la voce degli araldi che prenunziava l’arrivo dello esercito persiano, i cittadini ripartivano fra di loro quante biade si trovavan raccolte nella città, e tutti concorrevano alla fabbricazione di farina sì d’orzo e si di grano, quanta avrebbe potuto bastare per molti mesi: oltredichè procuravano l’ingrassamento del bestiame grosso e minuto, acquistato del piìi bello e di maggior prezzo; e attendevano alla coltura di molti volatili non meno terrestri che acquatici, allevandoli quali in casa e quali in vivaio, per il trattenimento dell’ esercito: finalmente facevan provvista di calici e di coppe, e di quanti altri arredi ci vogliono per apprestare una mensa. Queste ultime cose peraltro erano unicamente destinate alla mensa del re e dei suoi convitati: per il resto dell’esercito bastava la pura somministrazione delle cibarie. Al giungere poi di Serse colle sue genti presso i popoli che l’aspettavano, egli trovava già eretto e pronto il padiglione che doveva servirgli di stanza: il resto dell’esercito si accampava all’aperto. Venuta quindi l’ora della mensa, gli ospitanti si affannavano in un gravissimo lavorìo. Laddove quegli altri, dopo essersi ben satollati, passavano tranquillamente sul luogo tutta la notte. E la mattina appresso, abbattuto il padiglione, e rimosso quanto era possibile di rimovere, si dilungavano, senza lasciar nulla indietro, ma seco portando ogni cosa. felice uscito di bocca a Megacreonte, cittadino di Abdera, quando esso coQsighò gli Abderiti di raccogliersi tutti insieme, uomini e donne, nei patri templi, e di pregare, in atto di supplicanti, gli Dei, affinchè mandassero loro anche in appresso sempre i malanni a mezzo: rendendo poi, in quanto al passato, infinite grazie alli Numi, perchè Serse non avea l’abitudine di fare due pasti al giorno. Che se in vero ( conchiudeva Mcgacrconte ) egli avesse loro ordinato di preparargli, oltre alla cena anche il desinare, gli Abderiti si sarebbero necessariamente trovati in questo bivio; o di non aspettare la venuta di Serse; altrimenti, di rimanere schiacciati sotto il peso d’un infortunio senza esempio. Ma nientedimeno tutte queste genti, sfidando il travaglio che le opprimeva, obbedivano agli ordini ricevuti.
121. Da Acanto Serse licenziò da sé le forze navali, ordinando ai comandanti di queste di procedere avanti, e di andarlo ad aspettare a Terma. A quella Terma che giace sul golfo Termeo, il quale prende da essa appunto il suo nome (19). Dappoiché il re aveva appreso che la via più breve per lui era da quella parte, Nel rimanente poi la marcia dello esercito da Dorisco fino ad Acanto fu regolata con quest’ordine. Serec, cioè, incominciò dal ripartire tutte le sue forze di terra in tre diversi corpi; disponendo quindi che uno di questi corpi, guidato da Mardonio e da Màsiste, camminasse lunghesso il mare andando di conserva con il naviglio; un altro, sotto Tritantecme e Gergi, doveva invece inoltrarsi per le vie più interne: e il terzo, con cui procedeva insieme lo stesso Serse, tenne una strada media fra gli altri due, essendogli duci Smerdomene e Megabizo. — 17 —
122. L’armata, dunque, licenziata che fu da Serse e tragittato il canale costrutto nel monte Ato, il quale mette nel g-olfo popolato dalle città di Assa, di Piloro, di Singo, di Sarta; e dopo avere anche da queste citth levato un certo numero di milizie; proseguì la sua navigazione verso il golfo Termeo. E oltrepassato l’Arapelo, promontorio di Torona, ella fece una specie di scorreria innanzi alle città elleniche di Torona, Galepso, Sermila, Meciberna ed Olinto, costringendole tutte al tributo di navi e di milizie. La regione poi occupata da dette città, si chiama Sitonia.
123. Ma l’armata di Serse se ne tornò poscia innanzi al promontorio di Ampelo; e quinci per la via più dritta e piti breve passò avanti all’altro promontorio, detto Canastreo, il quale forma il punto piiì eminente di tutta la regione Pallcnica. Donde partendosi, incettò navi e levò milizie dalle città di Potidca, di Afiti, di Neapoli, di Ega, di Terambo, di Sciona, di Menda e di Sana; città tutte piantate nella regione che ora si chiama Pallene, e che «na volta aveva il nome di Flegra. Oltrepassato poi che ebbe anche questo paese, l’armata tirò innanzi pel suo destino, levando però milizie anche dalle città prossime alla Pallene. e confinanti col golfo Termeo, i cui nomi sono: Lipasso, Combrea, Lisa, Gigono, Campsa, Smila, Enea. E la regione, alla quale dette città appartengono, la chiaman Crossea. Ma superato il punto di Enea (che è la città da me menzionata per ultima nella fatta enumerazione), il naviglio di Serse si trovò messo dentro il golfo Termeo e nelle acque della Migdonia: quindi, finalmente, aflfcrrò la città proprio di Terma, e lo altre due città di Sindo e di Calestra poste sulla foce del fiume questa contrada più si restringe nella direzione del mare, s’incontrano le due città d’Iena e di Fella (20).
124. L’armata, dunque, fece sosta dentro al golfo Termco nelle circostanze dell’Axio, della città di Terma e delle altre città interposte, in aspettazione del re. Serse poi coir esercito di terra prese le vie interiori per raggiungere la meta di Terna. E passando per la regione Peonicae la Crestonica, s’indirizzE) al fiume Echedoro (21). Il quale nasce nei monti della Crestonia, scorre attraverso alla Migdonia, e sbocca infine nel mare presso a quel padule che sì forma nelle vicinanze dell’Axio.
125. E mentre Serse facea suo cammino nel paese sopradescritto, intervenne che i cammeli deputati al trasporto delle bagaglio furono assaliti dai leoni. Perchè queste belve, uscendo nella notte dai loro covi, non facevano alcun male agli uomini né agli altri giumenti; ma contro i soli cammeli si avventavano da disperati. E a qualclie meravigliosa cagione si attiene per certo il fatto singolarissimo di codesti leoni, da non so qual forza impediti dal nuocere a chicchessia; ma aizzati invece a scagliarsi contro i cammeli, specie di bestie non mai da loro per innanzi esperimentata nò vista.
126. Ma già tutte queste contrade sono piene di leoni e di bovi silvestri; di quelli che vanno famosi per le altissime corna, di cui si fa sì gran tratta per portarle in Grecia. Il confine poi imposto dalla natura ai detti leoni è determinato, da una parte dal fiume Nesto scorrente per quel di Abdera, e dall’altro lato dall’Acheloo scor 9 rcnte per l’Acarnania. Imperocché, oltre ai detti termini; non è più possibile di vedere, né ad oriente né ad occidente, alcun leone: ma tutti nascono e vivono nello spazio interposto fra’ due fiumi summenzionati.
127. Pervenuto poi che fu Serse nelle circostanze di Terma, ivi si fermò col suo esercito. I cui alloggiamenti si distendevano lungo la costa dei mare dalla città di Terma e dal territorio migdonico fino ai fiumi, detti Lidia e Aliacmone; i quali, confondendo a un dato punto le loro acque in un solo corso, separano la Bottiea dalla Macedonia (22). E di tutti questi fiumi da me testé menzionati, il solo Echedoro, scaftiriente nei Crestonì, non fu bastevole a dissetare l’esercito.
128. Frattanto Serse, che dalla sua stanza di Terma vedeva in prospetto i due altissimi monti tessalìci dell’Ossa e dell’Olimpo, essendo stato informato che in mezzo ai delti monti si apre una gola, per la quale discorre il flume Peneo; e avendo di più saputo che ci era quivi una strada per la Tessaglia; desiderò di andare a vedere per mare lo sbocco del Peneo. Imperocché egli già era sul punto di guidare l’esercito per la via interna e montuosa della Macedonia infino ai Perrebi e ai pressi di Gonno, nella persuasione che altro migliore e più sicuro viaggio non si trovasse (23). E così appunto fece Serse come aveva desiderato. Montò, cioè, sopra una uave Sidonia ( quella medesima che soleva sempre adoprare in simili congiunture); e poi fece segno alle altre navi di edogliere e di prendere il largo, lasciando ferme le milizie terrestri al lor posto. Raggiunta poi che ebbe Serse ia foce del Peneo, e consideratala attentamente, ne fu 80preso di grandissima meraviglia. Poi chiamate a pò le sne guide, domandò loro: Se era fra le coso possibili di divertire il corso di quel fiume, e di farlo sboccare nel mare da qualche altra parte.
129. È fama che la Tessaglia formasse anticamente un lago, es-^endo cinta da altissimi monti per ogni parte. Dappoiché dal lato d’oriente la chiudono i monti del Pelio e deirOt<sa (i quali fra loro confondono le proprie radici); a settentrione l’Olimpo; ad occidente il Pindo; a mezzogiorno la catena dell’Otri; e la terra che tiene il mezzo di questi monti forma appunto la Tessaglia; paese basso e fatto come tma conca. Donde poi avviene che i cinque maggiori e piìi nominati suoi fiumi, oltre a molte altre riviere di minor conto; e sono il Penco, l’Apidano, l’ Onocono, l’Enipeo ed il Pamiso; riversandosi nella medesima, dapprima si diflfondono precipitando dai monti circostanti, entro il piano tessalìcn; e poi per mezzo di una gola di monte trovano sbocco nel mare. Ma ciò, dopo avere confase le loro diverse correnti in un solo Ietto: di maniera che da quel punto in poi dove accade la confusione delle acque, il solo nome del Peneo sopravvive e trionfa, e tutti gli altri nomi scompaiono. NegH antichi tempi però, e prima che fosse aperta quella gola e quell’emissario, dicesi che gli odierni fiumi della Tessaglia, e oltre ai fiumi il lago Bibei(ie ancora, non si distinguessero già con quei nomi con cui oggidì si distinguono; ma nientemeno occupassero allo stesso modo il paese, in guisa da formare di tutta la Tessaglia un sol lago. Gli stessi Tessali poi sono quelli che attribuiscono a Nettuno l’apertura della gola, per la quale corre e sbocca il Penco; e credo che dican bene. Imperocché chiunque pensa che Nettuno sia il
somà movitor della terra, e conseg-uentemente gli effetti dei terremoti gli ascrive; al vedere quella gola tessalica, deve tosto indurre che fu fatta da lui, essendo sempre a me parso un chiaro effetto di terremoti quella distrazione di monti.
130. Le guide poi a cai Serse si era rivolto per conoscere se era cosa fattibile di divergere il corso del Penco, dandogli un altro sbocco nel mare; dopo aver presa una esatta notizia dei fatti; così gii risposero: Questo fiume non può avere altra uscita possibile al mare diversa da quella che ha ora, conciossiachè la Tessaglia sia circondata e chiusa dai monti per tutti i lati. Alle quali parole delle sue guide, narrano che Serse replicasse in questi termini: Conveniamo, che i Tessali sono uomini molto prudenti. Dappoiché già da un pezzo, coi loro trattati meco, provvidero da savi e con buon accorgimento alle cose loro. Mossi, io credo, oltre ad altre ragioni, anche dal fatto di possedere una contrada così facile ad esser vinta e prestamente occupata. Basterebbe infatti cacciare i) fìnme dentro la loro terra, respingendolo indietro mediante un argine che ne serrasse la gola; o basterebbe, in altri termini, che la corrente del Peneo fosse voltata contro tatte quelle altre correnti che l’alimentano; perchè la Tessaglia, ad eccezione dei monti, andasse tutta sott’ acqua. E queste cose diceva Serse, in rispetto massimamente degli Alevadi, i quali, primi fra tutti i Greci, ai re si erano sottoposti; e le cui promesse di amicizia, Serse anche credeva fossero state approvate da tutti i popoli tessalici. Terminate poi che ebbe il re le riferite parole, e dopo avere osservato quanto voleva osservare, se ne ritornò ▼orso Terma.
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Kko, luorii Erotloio.Ul. 6 131. 2 Quindi sostò pei’ diversi giorni uella Pieria, intanto che uno dei suoi tre corpi d’esercito spazzava per mezzo di tagli la via delle selvose montagne macedoniche, e apriva però il passaggio in Perrebia a tutte le schiere di Serse. Intanto facevano ritorno gli araldi spediti in Grecia a chiedere l’oEFerta della terra e dell’acqua: e chi di loro tornava vacuo d’ogni promessa, chi colia promessa in mano.
132. E i popoli che si piegarono alla ingiunzione di Serse furono questi: i Tessali, i Dolopi, gli Eniani, i Perrebì, i Locresi, i Magneti, i Mali, gli Achei FtioLici, e finalmente, i Tebani cogli altri Beoti, ad eccezione di quei di Tespi e di Platea (24). Contro i quali popoli, gli altri Greci che si risolvettero per la guerra al Barbaro, si strinsero con un giuramento che sonava così: Qualunque popolo ellenico si sarà sottomesso al re di Persia senza necessità, e mentre aveva le sue cose tuttavia ia fiore, verrà gabellato nel decimo dei propri averi in favore del Nume delfico. Questi furono, dunque, i termini della giurata alleanza (25).
133. Ma Serse non mandò alcun araldo nò ad Atene né a Sparta a chiedere l’offerta della terra e dell’acqua; e la ragione fu questa. Che quando, nei tempi anteriori, Dario spacciò suoi messi a tale effetto presso gli Ateniesi ed i Lacedemoni; i primi gettarono gli oratori persiani in un baratro, gli altri in un pozzo, invitandoli a trar fuori di là la terra e l’acqua da portare al re. Del quale misfatto qual gastigo riportassero gli Ateniesi non potrei dire, null’altro sapendo da questo in fuori; che la loro città e il territorio fu effettivamente in appresso devastato e diserto. Ma senza che io vegga contuttociò uu intimo e necessario rapporto fra tali fatti e l’espiazionò di qaella colpa.
134. Sui Lacedemoni invece si ag-gravò visibile l’ira di Taltibio, il famoso araldo di Ag-amenuone. Imperciocché ceso ha tempio e culto in Isparta; dove sopravvivono sempre i successori di Taltibio, conosciuti col nome di Taltibì, ai quali per intatto privilegio sono state perpetuamente affidatele ambasciate lacedemoniche. Da quell’ora però che fn commesso il misfatto, non accadde mai più agli Spartani di poter fare un sacrificio propiziatorio; e durava già da un pezzo questo infelice stato di cose. Per lo che i Lacedemoni profondamente scossi e attristati, avendo tenute parecchie concioni di popolo, e avendo, infine, pubblicato un bando in cui si diceva che si facesse innanzi chiunque era pronto a morire per la salute di Sparta; allora fu che Spertia 6glio di Aneristo, e Buli figlio di Nicolao; uomini di nobile stirpe e di singolare ricchezza; si dichiararono parati ssimi a mettersi in balìa di Serse, e a pagare essi qualunque pena per gli uccisi messaggeri di Dario. Talmentechè gli Spartani li spedirono in Media, come destinati a morte.
135, Ma è veramente degna di meraviglia la fortezza d’animo di tali uomini, come sono degne di meraviglia le parole che di loro riferiremo. Perchè essendo essi pervenuti, mentre si avviavano a Susa, alla residenza d’Idame; personaggio persiano cui era commesso il comando delia costa marittima dell’Asia; questi li accolse con diatoctrazioni di squisita ospitalità, e mentre li trattene^ volse loro improvvisamente tali parole: E perchè voi rifiutate di divenire amici del re? Eppo 4 che voi guardaste in me e nelle cose mie, per apprendere in qual modo il re sappia onorare li valentuomini. Assoggettatevi, dunque, voi pure al re, il quale vi ha in conto di uomini prestantissimi; e ambidue vedrete toccarvi in sorte il governo di qualche parte della Grecia per grazioso favore di Serse. Al quale discorso gl’inviati Spartani risposero in questa forma: Il tuo consiglio, o Idarne, non ha saldo né equanime fondamento. Perchè tu ci consigli, trovandoti in tal condizione che hai fatto bensì ottimo sperimento di una cosa, ma sei affatto ignaro di un’altra. Sai in vero benissimo che cosa vuol dire esser servo: ma non avesti mai sentore alcuno di libertà; e ignori quindi se essa sia dolce cosa o non sia. Che se l’avessi per tuo conto sperimentata, siamo certissimi che ci consiglieresti a difenderla, non pur colle aste ma colle scuri. Questa fu la risposta che coloro dettero a Idarne.
136. Pervenuti poi che furono a Susa, e entrati al cospetto del re, per prima cosa ricusarono di prosternarsi dinanzi a Serse, nonostante gl’inviti e la violenza usata dai cortigiani; affermando che non avrebbero mai fatto una cosa tale, neppure se per forza si fosse sbattuto loro il capo per terra, si perchè non entrava nelle proprie usanze l’adorazione di un uomo, e perchè non erano venuti a tal fine. Schermitisi quindi gl’inviati spartani dalle dette pressure, essi si rivolsero a Serse con queste o somiglianti parole: re dei Medi, i Lacedemoni ci mandarono qui perchè noi pagassimo il fio della uccisione commessa a Spartane! vostri araldi, Ma dicono che Serse, principe dotato di alti e generosi sensi, rispose: Che egli non avrebbe già seguito contro di loro l’esempio dei Lacedemoni, e non volea manometterli. Né era neppur da credere ( aggiunse ) che, contrapponendosi uccisione a uccisione, venissero quindi prosciolti i Lacedemoni dello antico misfatto.
137. Comunque, l’ira di Taltibio, dopo i descritti procedimenti di Sparta, rimase per allora vinta e attutata, nonostante il ritorno di Bull e di Spertia in patria. Ma, dopo lungo tempo, ella riarse; e riarse precisamente durante la guerra del Peloponneso, secondochò affermano i Lacedemoni. Nella qual cosa io vedo più che mai chiaro l’effetto di un’operazione divina. Perchè se si fosse esercitata tale ira su quei legati medesimi che erano andati a Susa per placarla, nou quietandosi ella fino a tanto che non diventasse pieno l’effetto della promessa; il fatto poteva avere una ragionevole spiegazione. Ma il farla cadere, come avvenne, sui figli loro, chiamati Nicolao ed Aneristo (quello stesso Aneristo che riuscì a predare i poveri Alici, coloni di Tirinto (26), avendo afferrata la loro spiaggia con una nave oneraria piena d’armati); sarebbe per me UQ fatto inconcepibile, se non lo riferissi ad un influsso divino. Il certo è peraltro, che i detti figliuoli di Bull e Spertia, essendo stati spediti dai Lacedemoni, come messaggi, nell’Asia; per tradimento di Sitalcc figlio di Tere, re dei Traci, e di Nimfodoro figlio di Pete, cittadino di .ibdera, furono sopraggiunti in prossimitìi di Bisante sull’Ellesponto, e trascinati nell’Attica; dove trovaron la morte per mano degli Ateniesi, insieme con Aristea figlio di Adimanto, cittadino di Corinto. I quali fatti però accaddero molti anni appresso alla spedizione di Serse (27).
138. Ma è ormai tempo che, rifacendomi indietro, io riattacchi il filo della mia narrazione. E dirò dunque, mover g-uerra ad Atene, fa effettivamente rivolta contro l’intera Grecia. La qual cosa essendo stata subodorata per tempo dai Greci, essi si trovarono dipoi in varie disposizioni d’animo riguardo a Serse. Perchè, quelli che avevano ceduto al re persiano mediante l’oÉFerta della terra e dell’acqua, nodrivaoo gran fiducia che nulla di dispiacente sarebbe loro toccato dal Barbaro: e quegli altri invece che gli avevano resistito, vivevano in gran timore^ stante la scarsità delle forze navali che la Grecia poteva opporre all’assalitore, e la riluttanza addimostratasi nelle moltitudini di stringersi insieme in una difesa comune. inclinando esse piuttosto, e con un certo calore, alla causa medica.
139. Qui poi la necessità mi costringe a diro schiettamente quello che io penso, per quanto possa essere ingrata alla maggior parte degli nomini la mia opinione. Ma siccome credo di esser nel vero, così nulla mi tratterrà dal manifestarlo. Se gli Ateniesi, spaventati dall’imminente pericolo, avessero abbandonato ii loro paese, non abbandonandolo, si fossero soggettati a Serse, è certo che nessun altro popolo ellenico avrebbe osato di contrastare per maro al re di Persia. Onde, venuta meno ogni resistenza nel mare, ecco come sarebbero infallibilmente seguite le cose di terraferma. Quantunque i Lacedemoni avessero protetto l’Istmo dì molte o forti linee. di mura, pure abbandonati dai loro soci (non per volontà, ma p<ir forza, in grazia dello investimento e della presa delle singole città per opera del naviglio barbarico), essi sarebbero rimasti soli. Ridotti poi a tale stato di solitudine, avrebber dovuto, dopo alcune provo gloriose, gene seppure, vedendo gli altri Greci inclinare alla causa medica, non avessero anche loro aderito finalmente alle pretensioni di Serse. Ma in un modo o nell’altro, la conclusione ritornava al medesimo: vale a dire, che la Grecia sarebbe divenuta suddita dei Persiani. Imperocché io non giungo a capacitarmi, di quale utilità potessero essere qnelle linee di mura tirate nella larghezza dell’Istmo, .infino a che il re di Persia prevaleva sul mare. Onde, chiunque dirà che gli Ateniesi furono i salvatori della Grecia, si apporrà al vero. Imperocché da qualunque parte essi si mettessero, là doveva tra beccar la bilancia. Avendo quindi risolutamente abbracciato il partito della libertà ellenica, da se soli bastarono a scotere quanti erano tuttavia nella Grecia non fautori dei Barbari: e in conseguenza, dopo l’obbligo che ci lega agli Dei, dobbiamo saper grado a loro della cacciata del re. Nò i terribili e paurosi oracoli di Delfo furono sufficienti per indurli a disertare la causa patria. Ma rimasero fermi al loro posto, e osarono attender da prodi l’impeto dell’invasore.
140. Imperocché gli Ateniesi avevano in effetto spediti loro messaggi all’oracolo delfico. I quali messaggi, dopo avere adempiute nel giro del tempio le debite cerimonie, ed essere poi entrati- e sedutisi dentro la cella, udirono dalla bocca della Pitia. che si chiamava Andronica, il wguente responso:
A che, stolti, sedete? Oh della terr.i Agli estremi fuggite; e case, e l’alte Rocclie lasciato di cittade a cerco. Chò capo, e busto, o mani e piedi estremi Illoii oon aadran; e ancor del mezxo Pur OOQ vedrai alcuna parto intatta; Assiso lopra del Sirìaco carro. E molte belle e poderose terre Cadon coal; e tu non sei più sola. Stermina il fuoco nella sua ruioa Dei numi i templi per timor sudanti, E tremebondi per terra; da’ tetti Groada atro sangue apportator d’estremi DaoDi. Lasciate i sacri peaetrali, E contro i mali riafrancate il core.
’
141, Ricevuto che ebbero dunque questo respoaso, i legati ateoiesi si sentirODO dentro un’afflizione inestimabile. E dappoiché essi erano rimasti coll’animo profondamente scosso e prostrato, Timone fig-ho di Aodrobulo, uno dei maggiori e più reputati cittadini di Delfo, fece opera di rincorarli; consigliando loro di prendere in mano un ramo di oliva, e di rientrare così nell’edicola per chiedere un nuovo oracolo coU’attitudine di supplicanti. Il qual consìglio essendo stato seguito dagli Ateniesi, essi indirizzarono al Nume delfico questa preghiera: O re Apollo, sii a noi e alla patria nostra cortese dì migliori oracoli, benignamente guardando a questi rami di olivo con cui ti veniamo innanzi: altrimenti promettiamo di non moverci piiì da questa cella, ma vi rimarremo fermissimi fino alla morte. Cosi dissero i legati ateniesi: e la fatidica donua rispose loro conquesto secondo oracolo;
Palla pregante propiziar non può te Con molti detti, e col profondo senno L’olimpio Giove; ma responso, saldo Quale adamante, poigerotti ancora. Quando sia presa ogni alti’a parte, quanta fì tra il confin Europio e la lat^-bra Del diviu Citerone, allora Giove Dall’ampio «guardo alla Tritooia prole Darà che solo ioespugiiato resti Il ligneo muro, a te utilo e ai figli: Non cavalieri o fanti, onde un’inimensa Oste Bul continente a te vien centra, Ta tranquillo aspettar, ma il loco cedi. Volgendo il dorso. Verrà giorno in cui Anche tu starai contro: o Salamioa Diva, tu perderai di donne i figli, O sia Cerere sparsa, o?7er raccolta.
142. Le quali parole essendo sembrate a; legati (come in effetto erano) pili morbide delle prime’, essi subito le ti^scrissero, e poi se ne tornarono alla volta di Atene. Riferito però che ebbero al popolo l’ottenuto responso, in molti e vari giudizi si divise l’opera degl’interpreti; ma due principalmente furono le opinioni che vennero fra loro a più aperto e decisivo contrasto. Dappoiché alctini dei seniori affermavano: che a parer loro, il Nume delfico aveva voluto unicamente significare che l’acropoli sarebbe rimasta in piedi. La rócca d’Atene era protetta infatti anticamente da uno steccato: e, in considerazione appunto di questo steccato, coloro congetturavano che a lui si riferisse quel luogo dell’oracolo, dove si tocca del muro dì legno. Ma altri invece opponevano, che Apollo con tale espressione dovette avere in mira le navi; e però raccomandavano che navi si allestissero, che navi si radunassero, dismettendo il pensiero di ogni altra cosa. Se non che questi stessi che interpretavano il muro di legno nel senso di «a»/, restavano poi perplessi e confusi dirimpetto agli ultimi versi della
Pitia:
o Salamioa
Divsi tu perderai di donne i figli,
Ò sia Cerere sparsa, orrer raccolta. interpretate di tal maniera, come vi si predicesse una sconfitta degli Ateniesi presso Salamina, dato che eglino si fossero apprestati a combattere una battaglia navale da quelle parti.
143. Ma viveva in quel tempo dentro Atene un uomo, da poco tempo innalzato alle prime cariche dello Stato, e che aveva nome Temistocle, benché fosse più generalmente chiamato il Jtglio di Neoclc. Il quale uomo però si mise a sfatare come insussistente ed assurda Tinterpretazione generalmente data alle ultime parole dell’oracolo delfico, cosi ragionando: Se realmente queste parole riferir si dovessero ad Atene, mi pare evidente che Apollo non avrebbe usate espressioni così soavi. E invece di dire: diva Salamina, avrebbe esclamato piuttosto: miserabile Salamina; dappoiché presso a lei avrebbe dovuto avverarsi una strage dei suoi paesani. Ma, facendo giusta estimazione delle coso, gli è ai nemici del nome ellenico che devono riferirsi le predizioni di Apollo; non già agli Ateniesi. Onde riuscì Temistocle a persuaderli di apparecchiarsi ad una lotta navale; imperocché, secondo lui, a questo punto aveva mirato l’oracolo colla sua espressione del muro di legno, E intervenuta pertanto quest’aperta dichiarazione di Temistocle, gli Ateniesi trovarono l’opinione di lui molto più vera e accettabile di quella de^li altri interpreti. I quali dissuadevano il popolo da ogni apprestamcuto navale, o la somma del tutto riducevano in un completo abbandono di ogni maschio proposito. Cosicché gli Ateniesi, secondo loro, non avrebbero dovuto alzare neppure un dito contro l’oste nemica, ma esulare piuttosto dalla patria, o andare in cerca di nuova terra. 144. Ma, ancbo in tempi anteriori, la sentenza di Temistocle aveva opportunamente vinto il partito nei consig-Ii pubblici. Perchè allorquando il tesoro di Atene riboccò di pecunia, in causa dcH’affluenza dei metalli preziosi provenienti dalle miniere del Laurio; e già sì stava per eseguire una distribuzione di danaro fra’ cittadini, onde sarebbero toccate duo dramme per testa; Temistocle ci si oppose, e indusse invece gli Ateniesi ad impiegare quel danaro nella costruzione di dwgento navi, che dovevano servire, diceva egli, per la guerra contro gli EgiBcti. La qual guerra digiti appiccata fra’ due popoli, si può ben dire che tornasse in vera salute della Grecia, dappoiché costrinse gli Ateniesi a darsi agli esercizi e alle provvisioni navali. Né quelle dugento navi che abbiamo dette, furono effettivamente adoperate al fine antiveduto e proposto; ma riuscirono poi opportunissime alla Grecia in un’altra occasione. Perchè infatti gli Ateniesi le ebbero in pronto nell’ora dello distrette persiane, oltre alle altre che dovettero costruirne di giunta. E in seguito alle consulte fatte dopo il ricevuto oracolo, gli Ateniesi deliberarono di andare incontro all’invasore pereiano con tutte le loro forzo raccolte sopra le navi, credendo di obbedire con ciò all’espresso volere del Nume delfico; e con disposizione di unirsi a quanti altri Greci avessero la voglia di seguitarli. Cosi stanno, adunque, Io cose rispetto agli oracoli ottenuti dagli Ateniesi.
145. Posciachè poi si trovarono riuniti nel luogo convenuto, i rappresentanti dei popoli più saggi e patriottici dell’Eliade, propriamente detta; e seguito fra loro un certo ricambio d’ideo e le protestazioni della reciproca fede; tutti finalmente si accordarono in questo concetto: essere
’ troncare ogni guerra che potesse per avventura sussistere fra i membri confederati (28). E c’erano in realtà delle guerre avviate fra loro; massimamente quella che ardeva da qualche tempo fra Atene e l’ isola di Egina. Avendo poi risaputo i confederati che Serse si trovava nella città di Sardi con il suo esercito, stabilirono di mandare propri esploratori in Asia, i quali s’ informassero della vera condizione delle cose. Parimente fermarono di spedire ambasciadori in Argo, perchè procurassero di attrarre anche questo Stato nella lega armata contro i Persiani: e altri decretarono d’inviarne a Gelone, figlio di Dinomene, in Siciha; altri a Corcira; altri in Creta; colla commissione d’impetrare da tutte queste parti aiuti alla causa ellenica. E in tal modo confidavansi di unire i diversi popoli della Grecia in uno sforzo comune, e di vederli procedere stretti e concordi dirimpetto a un pericolo che li minacciava tutti del pari. Infinitamente poi maguiScavasi la grandezza di Gelone, al cui confronto pareva che impallidisse ogni altra grandezza ellenica.
146. Stabilite, dunque, che ebbero i confederati le dette deliberazioni, e data tregua alle reciproche inimicizie, essi mandarono per prima cosa tre esploratori in Asia. I quali essendo giunti a Sardi, e avendo cominciato le proprie investigazioni intorno all’esercito nemico, furono soprappresi, e subito dipoi interrogati dai capi delle milizie persiane. In conseguenza di che già stavano per esser condotti a morire, perchè dannati nel capo. Ma Serse, avendo avuta notizia del fatto, biasimò altamente la condotta dei capitani; e spacciò di presente alcuni dei suoi satelliti, coir ordine espresso di condurgli avanti gli esploratori, se li trovavano ancora vivi. Ma avendoli in effetto trovati vivi, e condotti (secondo l’ordiDe ricevuto) alla presenza del re; questi, dopo avere domandato agli spioni greci il motivo della venuta, comandb ai detti satelliti di menarli intorno a vedere tutto l’esercito persiano, a piedi e a cavallo: quando poi fossero stati sazi dello spettacolo, dovevano lasciarli andar sani e salvi dove loro piacesse meglio.
147. Serse quindi giustificava col seguente discorso la ragione del suo operato; che se quegli spioni morivano, né i Greci avrebbero mai saputo di quanto sovrastava alla fama la sua potenza, né d’altra parte un gran danno sarebbe venuto ai nemici colla perdita di tre uomini. I quali, invece, tornandosene a casa, non esser fuori del verosimile che gli Elleni, bene informati da essi degli apparecchi persiani, si risolvessero a sacrificare la libertà, anche prima di cimentarsi a nessuna impresa. l,onde poteva seguire il fortunatissimo caso, di ottenere ciò che si voleva senza gl’incomodi della guerra. I quali sentimenti di Serse avevano una gran convenienza con quelli già da lui espressi in un’altra occasione. Allorché, cioè, trovandosi egli in Abido, scorse alcune navi cariche di grano, che attraversavano l’Ellesponto, dirette alla volta di Egina e del Peloponneso. Onde i consiglieri che lo circuivano, non appena si furono addati che erano navi nemiche, subito si disposero per catturarle; ansiosi aspettando un cenno regio che a tanto li licenziasse. Ma Serse invece domandò loro: Per qual direzione navigassero quelli là. E gli altri avendo risposto: Vanno ai tooi nemici, o signore, portando grano; il re tosto riprese: Ma anche noi ci avviamo alla stessa parte, obbli alle altre provviste: che ingiuria, dunque, ci fanno essi, aiutandoci se non altro nel trasporto delle granaglie? Quegli esploratori greci, dunque, di cui dianzi parlammo, dopo avere ogni cosa nel campo persiano attentamente osservato, e quindi licenziati da Serso, se ne tornarono ÌD ^latria.
148. Ma i Greci collegati contro Persia, alla spedizione degli esploratori fecero pure succedere l’invio di propri messaggeri in Argo. E secondo la tradizione degli Argivi, le cose passarono in tal modo. Che gli Argivi ebbero prontamente notizia delle prime mosse del Barbaro contro la Grecia: e informati di queste, e consapevoli insieme clie gli altri Elieni inviterebbero loro pure ad entrare nella lega autipersiana, spacciarono in diligenza legati all’oracolo di Delfo, i quali dovevano interrogare il Nume sul punto: Che cosa ad essi più conveniva di fare, volendo provvedere nel miglior m^ possibile alle cose sue. Dappoiché poco prima aveva ceduto seimila dei loro cittadini uccisi per mano a Lacedemoni e di Cleomene, figlio di Anassandrida. E questo precisamente (secondo la tradizione argiva) fu il fatto che dette causa alla spedizione dei legati a Delfo. I quali, alla propria interrogazione, ottennero dalla Pitia il seguente lespouso:
Inviso ai tuoi dintorno, e ai numi caro, In guardia stalli dentro il propugnacolo. Sol bada al capo; ei saWeratti il corpo.
E posciachè la Pitia aveva già dato agli Argivi detto responso, sopraggiuusero gli oratori della lega, i quali essendo stati introdotti innanzi al senato, esposero la
À commissione di cui erano incaricati. Ai quali gli Argivi risposero: Sè essere prontissimi a fare tutto quello che si chiedeva da loro, purché avessero potuto prima conchiudere una tregua di trent’anni coi Lacedemoni, e purché si affidasse ad essi il supremo comando sulla metà delle forze confederate. Perchè, quantunque in diritto questo supremo comando spettava lor per intiero, si acquietavano a dimezzarlo (29).
149. In tali termini, adunque, dicono che rispondesse
il senato, nonostante la proibizione fatta agli Argivi
dall’oracolo di stringer patto cogli altri Greci. Ma più che
il timore di Apollo pare che prevalesse in quelli la brama
di conchiudere coi Lacedemoni una tregua di trent’anni,
affinchè la generazione di fanciulli sopravissuta allo
eccidio avesse il tempo di diventare una generazione di
uomini. Dappoichè, se doveva loro mancare il beneficio
di quella tregua, troppo fortemente temevano; che a tutti
i danni sofferti aggiungendosi anche il malanno della
guerra persiana, nissun’altra via ormai restasse loro
possibile fuorché il sottomettersi interamente all’arbitrio dei
Lacedemoni. Alle proposizioni poi messe avanti dal senato
argivo, dicono che fra i legati ellenici, replicassero quei
di Sparta: Che in quanto allo affare della tregua
desiderata con Lacedemone, riferirebbero al popolo. Ma rispetto
all’altro punto, del supremo comando delle forze alleate,
avevano già espresso mandato di subito rispondere e
dichiarare: Che gli Argivi avendo un solo re, e gli Spartani
invece possedendone due, non era conveniente che nè
l’uno nè l’altro potesse esser lasciato in isciopero in
prazia altrui. Il che però non toglieva che, nei comuni
consigli, non fosse concessa al re d’Argo una voce uguale
a quella dei due re lacedemonici (30). Ma qui gli Argivi
ci dicono, che non parve loro più tollerabile l’arroganza
spartana: onde prescelsero di andare incontro all’
oppressione dei Barbari anziché cedere ai Lacedemoni.
Talmentechè il senato ingiunse ai legati di Sparta di
sgombraro dalla città prima del tramonto del sole, se non
volevano essere trattati come nemici.
150. Io però fino ad ora non ho fatto altro che narrare le cose come gli Argivi stessile rappresentano. Ma corre anche un’altra tradizione per l’Eliade: che, cioè. Serse, prima d’imprendere la spedizione contro la Grecia, inviò un suo messaggere in Argo. Il quale, poi che fu là giunto, dicono che così favellasse: Argivi, il re di Persia vi manda a dir queste cose: Noi crediamo che quel Perse, da cui deriviamo, sia stato figlio di Perseo e nipote di Danae, nato da Andromeda figliola di Cefeo: sicché noi verremmo ad essere in effetto discendenti vostri. E quindi non è decente, né che noi moviamo guerra ai nostri progenitori, né che voi, per venire in altrui soccorso, vi mettiate in condizione di accamparvi contro i Persiani. Ma molto meglio invece sarebbe, se trovaste il modo di rimanere tranquilli a casa. E vi prometto che, se le cose mi succederanno prosperamente, nissun popolo mi sarà mai più caro del vostro. Le quali parole di Serse, dicono che andassero dritte al cuore degli Argivi; e dicono inoltre, che questi, a tutta prima, nulla promisero e nulla chiesero in mezzo al!o agitarsi della questione persiana. Ma posciachò furono invitati dagli altri Elleui ad entrare nella lega contro Serse, allora solamente (benché prevedessero benissimo l’opposizione che avrebbero incontrata nei Lacedemoni, misero innanzi quella loro pretesa della
i ’iirisione del comando, ncciocchè servisse loro a pretesto per restar fermi.
151. Ma alcuni Greci sostengono che c’è eziandio un altro fatto, il quale consuona perfettamente con quelli or ora detti, quantunque avvenuto in tempi assai posteriori. E il fatto è: che, mentre capitarono a Susa (nella città Memnonia), quah messaggeri di Atene, Calila figlio di Ipponico, ed altri suoi colleghi in questa ambasciala, Tenuti ad adempiere una certa loro peculiar commissione; contemporaneamente gli Argivi per mezzo di espressi legati, facevano domandare a Artaserse: se rimanea sempre fermo quel trattato d’amicizia che eglino avevano stretto con Serse, oppur il novo re voleva considerarli come nemici. Ai quali, dicono che Artaserse rispose: che l’antica amicizia doveva restare fermissima; e che egli non conosceva altra città, la quale fosse di Argo pili benevola al nome persiano.
152. Ove però mi si domandasse: se realmente Serse mandò in Argo quell’araldo a farvi le proposizioni che riferimmo; e se realmente dei legati argivi si portarono a Snsa per interrogare Artaserse sulla quistione dell’ amicizia, non potrei rispondere con certezza; né voglio in tatto ciò impancarmi ad affermare cose diverse da quelle che dicon gli Argivi. Ma questo so molto bene: che se tatti gli uomini mettessero in comunione i loro peccati al fine di scambiarli con quei del prossimo; dopo avere però meglio veduto i peccati altrui, ciascuno volentieri d riporterà indietro i suoi. Donde concludo, che la condotta degli Argivi (anche come la rappresentano gli altri Greci) non fu certamente delle peggiori (31). Io poi sono
Ricet, IéUtU Brodaio, HI. ’ obblicrato a ripetere quello che si racconta, quantunque non sia obbligato a credere a tutto quello che si racconta. E detta osservazione mi valga per tutto il corso di questa Storia. Imperocché si arriva perfino a dire: che gli Argivi furono proprio quelli che chiamarono i Persiani nell’Eliade, in seguito al cattivo esito della guerra sostenuta coi Lacedemoni; parendo loro preferibile ogni altro male alla durissima condizione in cui eran rimasti.
153. In Sicilia andarono altri legati della confederazione ellenica per trattar con Gelone, e fra essi era un certo Siagro rappresentante di Sparta. Progenitore poi di Gelone fu un tale abitante di Gela, oriundo dell’isola di Telo, posta proprio a fronte del promontorio Triopio; il quale si unì coi Lindi di Rodi, e col loro duce Antifemo, quando essi mossero alla fondazione di Gela. E i suoi discendenti, nel progresso del tempo, ebbero il costante ufficio di gerofanti delle Dee infornali; ofEcio primitivamente ottenuto da uno dei loro maggiori, detto Teline; e ottenuto in questa maniera. Perocché, essendosi una volta rifugiati a Mactorio, città sovrastante a Gela, alcuni cittadini Geloni ribellati e vinti; Teline riuscì di ricondurli alla patria, non soccorso da verun argomento umano, ma per sola virtù di certi riti attinenti al culto di quelle Dee. Donde egli però questi riti scovasse, o come se ne impadronisse, mi sarebbe davvero impossibile di affermarlo. Ma il fatto è, che affidatosi interamente alle sacre sue arti, riuscì nel proposito: ma a condizione che i propri discendenti ottenessero l’ufficio perenne di gerofanti delle Dee infernali. E tanto più mi meraviglio, quando odo che Teline sia stato capace di far quel che fece, attesoché imprese di tal maniera non sogliono pe^l
A 9 In più condursi a buon termine, se non da uomini forti ed arditi. E costui invece, i Siciliani ce Io rappresentano lutto il contrario, perchè di natura molle ed effi!minata. Ma, comunque, è certo clie egli ebbe quell’ufficio di gerofante nel modo descritto.
154. Morto poi Oleandro, figlio di Patitare; il quale, dopo avere regnato sopra Gela sette anni, fu ucciso dal gelono Sibilio; avvenne che il fratello Ippocrate gli successe nel principato. E durante il suo regno, Gelone.che era discendente del gerofante Teline, insieme con molti altri: e fra questi con Enesidemo figlio di Pataioo; fu deputato alla guardia particolare d" Ippocrate. Poi, iu progresso di tempo, pei molti meriti che il distinguevano, venne assunto al comando di tutta la cavalleria. E mentre Ippocrate oppugnava i Calltpoliti e i Naxì, gli Zanclei ed i Leontini, e così pure i Siracusani oltre a molti barbari dell’isola; la virtti di Gelone spiccò in tutte queste guerre tn na modo sfolgorantissimo. Di tutti i popoli summenzionati poi, nissuno fu abile di sottrarsi al giogo d’ Ippocrate, eccettuati i Siracusani. I quali essendo stati vinti in battaglia presso il fiume Eloro, trovarono aiuto nei Corinti e nei Corciresi; a cui intercessione fu stipulata la pace a questo patto: che i Siracusani avrebbero ceduta ad Ippocrate la città di Camarina, dappoiché Camarìna apparteneva primitivamente ai Siracusani.
155. Essendo poi avvenuto che Ippocrate, dopo avere regnato tanti anni quanti il suo fratello Oleandro, cadde morto in battaglia presso la città di Ibla, combattendo coi Siculi: Gelone dapprima fece le viste di operar per tutela di Euclide e di Oleandro, figli di Ippocrate; del 0 governo de’ quali i cittadini non volevaa saperne; ma in effetto poi, sottoposti che ebbe i ribelli, s’impadronì egli del regno, cassati avendo i diritti degl’Ippocatrei. E dopo avere ottenuto questo insperato successo. Gelone riuscì a impadronirsi anche di Siracusa, quando ci ricondusse dalla città di Casmena i, così detti, gamori, ossia ottimati siracusani, che dal popolo e dai loro servi, conosciuti col nome di cilliri, erano stati antecedentemente cacciati fuori. Ma, allo appressarsi di Gelone, il popolo di Siracusa commise interamente la città e se medesimo alla sua discrezione (32).
156. Divenuto poi che fu Gelone padrone di Siracusa, non ebbe più in molto pregio il dominio di Gela, che cedette al suo fratello lerone. Ed esso attese anzitutto ad accrescere o fortificare Siracusa, dappoiché Siracusa era diventata il tutto per lui. Ondo questa città in breve tempo toccò un grado di progresso o di floridezza inestimabile. Che il nuovo tiranno ci condusse dentro e vi creò cittadini tutti i Camarinesi, dopo aver distrutta Camarina; usando un egual trattamento colla maggior parte degli abitatori di Gela. In quanto poi a quei Megaresi che si erano fissati in Sicilia; dopo averli Gelone oppugnati e vinti; i ricchi, che erano stati gli eccitatori della guerra, e pensavano quindi di doverla scontar colla vita, mise dentro Siracusa e creò cittadini: e la plebe megarica per l’opposto; la quale non aveva avuta nissuna parte nella rottura di questa guerra, e non doveva quindi ragionevolmente aspettarsi alcun male; condannò ad esser venduta, e ad esser venduta con tal condizione: che essa dovesse sgombrare dalla Sicilia. Nello stesso modo si diportò Gelone verso gli Eubei dimoranti in Sicilia; che, dopo di averli vinti, separò quivi pure la plebe dai doviziosi. E così egli procedette con ambidue i detti popoli, stimando a bò troppo ingrato e pericoloso il contatto piebeio. Tali furono, insomma, le arti con cui il tiranno (.ìelone si fece grande.
157. Come giunsero, dunque, i legati ellenici a Siracusa, e vennero introdotti al cospetto di Gelone, essi gli parlarono in questa forma: C’iuviarono qui i Lacedemoni e gli Ateniesi e gli altri alleati, perchè t’invitassimo a confederarti con loro contro il Barbaro. Dappoicliè tu (levi saper certamente che il re di Persia si dispone ad assalire la Grecia, e sta sul punto di trasportare di qua, per mezzo della congiunzione dell’Ellesponto, tutte le suo .forze d’oriente, per Rivolgerle poi contro l’Eliade. Perchè, qaantunque egli vada pretessendo il disegno peculiare di Atene, ciò che gli sta effettivamente nel core, si è d’impadronirsi di tutta Grecia. Ora tu, o Gelone, sei al certo dotato di gran potenza, e buona parte dell’Eliade ti èsottomessa, dappoiché imperi sull’isola di Sicilia. Presta, danqae, il tuo aiuto ai liberatori della Grecia, e unisciti a loro nel vendicarla. Dappoiché la Grecia non può essere militarmente grande se non colla unione di tutti i membri che la compongono, e in questo modo soltanto essa potrà gareggiare coi suoi nemici. Ma se alcuni dei nostri ci tradiscono; altri rifiutano di aiutarci, e una piccola parte della nazione rimane sana; c’è davvero molto a temere che la Grecia tutta si sfasci. Imperocché non devi darti a credere, che se il re di Persia riesce a prostrarci colle sue armi, non sia poi per rivolgerle anche contro di te. Ma provvedi piuttosto a’ casi tuoi, innanzi che questo accada: e considera che, prestandoci aiuto, tu non farai altro ia 02sostanza che proteg-gere te medesimo. Le cose poi incominciate con sapiente consiglio, sogliono per io piiì avere un ottimo risultamento. Così parlarono quei
158. legatiMa Gelone con insistente veemenza replicò loro in questi termini: Greci, voi veniste qui a fare un discorso molto arrogante per sollecitarmi a darvi il mio aiuto contro il Barbaro. Ma voi, quando io, implicato essendo nella mia guerra contro i Cartaginesi, imploravo il vostro soccorso contro altri Barbari, e instavo perchè vendicaste la morte di Dorico, figlio di Anassandrida; e di più vi promettevo il mio concorso nella liberazione di quegli empori, donde tante utilità e tanti comodi vi derivavano; né voleste fare cosa alcuna in grazia mia, né vi moveste menomamente per vendicare Dorico: e, se dipendeva da voi, quei felici empori, di cui parlavo, ancora sarebbero sotto i Barbari. Ma quando vedeste che Ogni cosa a me era succeduta prosperamente, e che si erano contro di voi accumulati tutti i pericoli della guerra; vi siete alfine sovvenuti die esisteva Gelone. Nonostante però il modo vituperevole con cui mi trattaste, io non voglio seguitare il vostro esempio; ma sono pronto di venirvi in aiuto con dugento triremi, con duemila opliti, con duemila cavalli, con duemila sagittari, j^B con duemila frombolieri, e con duemila cavalieri corridori
^H armati alla leggera. Finalmente prometto di
^somminiH strare grano all’intero esercito ellenico, finché dura la ^H guerra. Ma tutte queste cose prometto ad una condizione:
^H che, cioè, io sia riconosciuto come il capo e il duce
^suH premo dei Greci in que.sta impresa contro il Barbaro. 159. Le quali parole avendo udite Siagro, non portarle in pazienza, ma corrucciato rispose: Troppo sarebbe lo sdegno del Peiopida Agamennone, se risapesse che gli Spartani furono privati del supremo comando da Gelone di Siracusa (33). E sarà molto meglio che tu non metta più avanti pretensioni di questo genere. Ma se vuoi venire in aiuto dei Greci, ricordati che dovrai sottostare all’imperio dei Lacedemoni. E ove ciò non ti garbi, faremo a meno del tuo soccorso.
160. Allora Gelone, che aveva ben sentita tutta la forza dell’opposizione di Siagro, fece un’ultima proposta dicendo: Le insolenti parole, o ospite spartano, sogliono per lo piiì commovere a ira l’animo degli uomini; ma tu, nonostante il tuo oltraggioso linguaggio, non m’indurrai a risposta che esca dai termini del decoro. Questo dico bensì; che K voi altri siete tanto gelosi delle prerogative del comando, ragion vuole che più ancora sia geloso io. che tengo in potere un numero d’uomini e di navi molto maggiore che non abbiano gli altri. Ma poiché veggo che tanto vi ripugna questo discorso, modererò alquanto la crudezza delle mio antiche proposte, e comporremo le cose in questi termini: che se voi comandate le milizie di terra, io comanderò il naviglio; e se voi comanderete il naviglio, io comanderò le milizie di terra. Ma all’uno all’altro dei detti partiti bisogna acconciarsi; ovvero potete andarvene senza aver nulla concluso meco.
161. Tali, pertanto, furono le proposte di Gelone. E il legato di Atene preoccupò quello di Sparta, rispondendo egli al tiranno in questi termini: La Grecia non ci inviò già a te per chiedere un capitauOj ma un esercito. Questo
I potette esercito però tu ricusi di darlo se alla Grecia medesima non comandi, avendo un grande appetito di tale impero. Ora, infino a tanto che tu perduravi in quella tua prima smisurata ambizione di general primazia, noi Ateniesi potevamo ben restare in silenzio, giacché bastava il rappresentante dei Lacedemoni a difendere le ragioni di entrambi. Ma dappoiché nnunziasti alla pretensione di voler tutto, e dici che il governo dell’armata ti basterebbe; tocca a noi il protestarti (e iiiBggilo bene nella memoria): che quand’anche gli Spartani inclinassero a concederti quel comando, non te lo concederemo noi. Perchè lo teniamo per un ufficio nostro, ogni volta che i Lacedemoni non vogliano esercitarlo essi stessi. A loro non ci opponiamo: a ogni altro sì. E sarebbe inutile che noi avessimo allestite le piii grosse forze navali di tutti i Greci, se nella gara del supremo comando dovessimo poi inchinarci alle pretensioni siracusane. Inchinarci noi, che rappresentiamo il popolo più antico dell’Eliade, e il meno scomposto da migrazioni! Del quale, anche il poeta Omero ci narra: come un prestantissimo uomo dei nostri andò fino ad Ilio per ordinare ed istruire l’esercito troiano. Onde nessuno potrà farci rimprovero, io credo, se ti teniamo questo linguaggio.
162. E Gelone a lui: O ospite ateniese, di comandanti pronti mostra che voi ne abbiate parecchi; ma mancherà poi l’esercito cui comandino. Posciachè, dunque, non volete cedermi in nulla, e pretendete aver tutto, andatevene di qui il piii presto che sia fattibile; e annunziate a tutta la Grecia che il tempo di primavera è per lei svelto dall’anno. Parlare figurato, con cui Gelone, posta la naturai maggioranza della primavera fra le stagioni del l’anno, e la vantata maggioranza del proprio esercito fra gli altri eserciti della Grecia, veniva a mettere in paragone la fallita confederazione fra sé e il resto dell’Eliade colla scomparsa della primavera dall’anDO.
163. I legati della Grecia, dunque, ternainata che ebbero con Gelone la propria imbasciata, fecero vela per casa loro. E Gelone, travagliato di timore pei Greci, credendoli incapaci di resistere al Barbaro; ma cui d’altra parte sapeva troppo duro e insoffribile di dovere (lui re di Sicilia) obbedire ai Lacedemoni, se passava in Peloponneso; non volle assolutamente sottostare ad una tal condizione. e si appigliò piuttosto a quest’altro partito. Non appena, cioè, seppe che Serse varcato avea l’ Ellesponto, spedi a Delfo Cadmo, figlio di Scite, oriundo di Coo, con tre navi a cinquanta remi, molta pecunia o temperate istruzioni; avendo egli l’ incarico di attentamente osservare da che parte inclinassero le sorti definitive della guerra: e se Serse era ii vincitore, dovea .abito presentarlo dell’arrecata pecunia, e fargli insieme l’offerta della terra e dell’acqua. Ove poi al contrario vincessero i Greci, Cadmo avea ordine di portare indietro tutti i doni.
164. E il Cadmo di cui parliamo, in tempi anteriori, dopo essere succeduto al padre nel regno ben assodato dei Coi. di suo spontaneo volere e da uiun pericolo astretto; ma mosso unicamente dal sentimento della giustizia-, depose il comando nelle mani dei cittadini, e trasmigrò in Sicilia. Dove insieme coi Samì occupò ed abitò la città di Zancle, c!ie mutù poi il suo nome in quel di Messana (34). Questo, dunque, fu il Cadmo, che 6 capitato essendo in Sicilia nel modo surriferito, venne poi da Gelone mandato a Delfo, per la grande opinione da sé concetta della bontà e dirittura dell’uomo. Il quale, oltre a molti altri, lasciò anche questo non piccolo esempio di sua giustizia: che essendo in possesso della grossa pecunia affidatagli da Gelone, avrebbe potuto abusarne a proprio vantaggio, e non volle. Ma quando vide che la vittoria nella battaglia navale di Sulamina restava ai Greci, e che Serse col suo esercito mettevansi in ritirata, anch’esso tornò in Sicilia e restituì puntualmente a Gelone ogni cosa.
165. Ma ottiene fede anche quest’altra opinione fra’ Siculi: che Gelone si sarebbe poi indotto a correre in aiuto dei Greci, a patto eziandio di dover obbedire ai Lacedemoni, se Terillo tìglio di Crioippo, tiranno d’Imera, essendo stato cacciato da Imera per opera di Terone tìglio di Enesidemo, aionarca di Agrigento, non avesse chiamato in Sicilia un esercito di trecento mila uomini composto di Punici di Libi, di Iberi e di Liguri, di Elisicori, di Sardi, di Corsi, sotto il supremo comando di Amilcare figlio di Annone, re dei Cartaginesi (35). E Amilcare era stato indotto ad assumere questa impresa dalie ragioni di ospizio invocate da Terillo: ma principalmente poi dalle sollecitazioni venutegli da Anaxilao, figlio di Cretina, tiranno di Regio, il quale mandò i propri figli in ostaggio ad Amilcare, e usò tutti i mezzi possibili per determinarlo a passare in Sicilia, e a vendicare suo socero. Dappoiché Anaxilao aveva appunto per moglie una fighola di Terillo, chiamata Cidippe E così, dunque, si vuole che Gelone, impedito di recar soccorso agli Klleni, si decidesse per inviare quel suo messo e quei suoi doni a Delfo. 166. E oltracciò raccontano i Siculi, come in quel medesimo giorno che Gelone e Terone debellarono Amilcare in Sicilia, accadde la vittoria greca di Salamina (36). Di questo Amilcare poi, Cartaginese dal lato paterno, e dal lato materno Siracusano, sento dire che, dopo la battaglia e la sconfitta siciliana, disparve, né fu mai più possibile di trovarlo né vivo né morto, nonostante tutte le diligenze e le industrie usate da Gelone per seguirne le traccie.
167. Al quale proposito narrano i Panici, e credo con probabile fondamento, che la battaglia appiccatasi fra Barbari e Greci in Sicilia durò dal sole nascente fino al tardo vespro: ma che, durante tutto questo tempo, Amilcare rimase sempre fermo negli alloggiamenti, attendendo continuo a sacrifici ed a libazioni, e immolando interi corpi di vittime sopra una grossa pira. Avendo però veduto il proprio esercito rotto e fugato, in quel mentre appunto che egli spandeva vino sopra una vittima, si gettò da se stesso nel sacro foco; e quindi avvenne che, così consunto, scomparisse dal mondo. Ma sia che la disparizione di Amilcare seguisse realmente la questo modo, come affermano i Punici, sia nell’altro modo voluto dai Siracusani (37), il fatto certo è: che i Cartaginesi gli dedicarono sacri riti, e gì’ innalzarono monumenti in tutte le loro città coloniche; massime poi in Cartagine. Ma basti omai il finqui detto delle cose siciliane.
168. I Corciresi si portarono iu guisa verso i legati della confederazione, che una cosa promisero e un’altra fecero. 1 legati spediti loro per persuaderli alla lega fu 8 rono precisamente i medesimi che prima erano andati in Sicilia; e ripetettero quivi gli stessi argomenti che già usato avevano con Gelone. Quei di Corcira promisero subito tutti gli aiuti immag-ìnabili, dicendo che nessuna cosa doveva più interessarli quanto la salute della Grecia. Imperocché se questa periclitasse, sarebbero stati tratti necessariamente anche loro in una prossima rovina: onde sentivano l’obbligo di aiutare con tutti gli sforzi possibili la causa ellenica. Ma queste erano lustre. Perchè, quando venne il momento bono d’agire, i Corciresi mostrarono ben diversa intenzione. E quantunque avessero allestite e poste in perfetto assetto di guerra cinquanta navi, pure mossero di mala voglia alla spedizione, tenendosi sempre accosti al lido peloponnesio, e fermandosi, surti sull’ancore, fra i due punti laconici di Pilo e di Tenaro, in aspettazione dell’esito ultimo delia lotta. Non sopravviveudo in essi alcuna speranza che i Greci potessero riuscir superiori; ma tenendo anzi per certa una strepitosa vittoria persiana, e la conscguente soggezione di tutta l’Eliade. Onde i Corciresi fecero quel che fecero con calcolato disegno, e al fine di potere un giorno rivolgersi a Serse, e dirgli: Noi, o re, quantunque invitati dai Greci alla loro lega, in grazia delle non poche milizie e delle uon poche navi (le più numerose dopo le ateniesi), di cui potevamo acconciarli; non volemmo nientedimeno mover le armi contro di te, nò fare cosa alcuna che potesse esserti ingrata. Col qual discorso speravano poi di ottenere un trattamento migliore degli altri; e l’avrebbero, credo io, ottenuto in effetto. Ma i Corciresi avevano la loro scusa bell’e pronta auclie riguardo ai Greci; e se no servirono, quando vennero da questi accusati del mancato aiuto, allegando: Che essi avevano bensì alle Stile, e poste in perfetto assetto di guerra, cinquanta navi; ma che poi impediti dai venti etest, era stato loro impossibile di girare il capo Maleo. Onde provenne die non giunsero a tempo nello acque di Salamina, e senza loro colpa però rimasero esclusi dalla battag-lia navale là combattuta. Tutte parole composte ad arte per ingannare frii Elieni.
169. I Cretesi, posciachè dai messi Elleni a ciò deputati furono invitati alla lega, presero (a seguente risolnzione. Inviarono, cioè, per comune consiglio, loro nomini a Delfo col mandato d’interrogare il Nume, se fosse o DOn fosse per riuscir loro giovevole di aiutare la causa ellenica. E la Pitia rispose: stolti, che ancor vi dolete iella lunga materia di lagrime apprestatavi dall’irato ìfinosse, per la ragione che i Greci non si u)iiro7io già a voi per vendicare la violenta morte da lui trovata a Cantico, ma voi invece vi uniste a loro per vendicare la rapita Spartana! Il quale responso come fu riportato e udito dai Cretesi, essi sospesero tosto ogni appareccliio ili aiuto.
170. Nel rimanente, è fama die Minosse essendo passatoia Sicania, ora detta Sicilia, alla ricerca di Dedalo, ivi incontrò difatti una morte violenta; e che in progresso di tempo, e per esortazione degli oracoli, tutti i popoli di Creta, ad eccezione dei Policniti e dei Presi (38). mossero con potente naviglio contro quell’isola. E dopo avere per cinque anni tenuta assediata Gamico (città poi occupata ai miei giorni dagli Agrigentini); nò potendo riuscire a prenderla, e d’altra parte travagliando di fame; aJla Gne se ne partirono disperati dell’impresa. E narrasi costeggiavano le coste della lapigia, furono da una fariosa tempesta scagliati contro terra, e le loro navi ne andarono io pezzi. Onde esclusi d’ogni speranza di pili riafferrare la Creta, ivi rimasero dove erano stati gettati dall’onde, e ci fondarono la città d’Iria, mutato l’antico nome di Cretesi in quello di Iapigi Messapi (39), e divenuti continentali da insulari che prima erano. Avendo poi essi dalla città d’Iria condotte, e qua e là stabilite, diverse colonie; dicesi che moves-sero, molto tempo dopo, i Tarentini per rovesciarle, e che seguisse nel conflitto una grossa strage di questi. La piìi grossa strage di gente ellenica, di cui ci resti fino ad ora memoria (40): e non di Tarentini soltanto, ma ancor di Regini. Imperocché dei cittadini di Regio, accorsi per ordine di Micito, figlio di Chero, in aiuto de’ Tarentini, ne perirono in quella occasione più di tremila. Il numero poi dei Tarentini uccisi fu così grande che sfugge a ogni calcolo. E quel Micito testé da noi menzionato, fu un ministro del re Anaxilao, che rimase dopo la morte di lui investito dell’amministrazione del regno. Ma avendo in appresso dovuto sgombrarne, andò a ripararsi a Tegea in Arcadia, e dedicò in Olimpia quelle molte statue che tutti sanno.
171. Ma queste cose dei Regini e dei Tarentini voglio che sieuo dette come per digressione. E tornando alla Creta, i Presi raccontano che, dopo essere rimasta l’isola anticamente v6ta di abitatori, altre genti concorsero a popolarla, Eileni massimamente (41). Che durante la terza generazione dopo l’avvenimento di Minosse, ebbe luogo la grande impresa troiana, iu cui le milizie cretesi non si Ili mostrarono dappoco fra le altre schiere giierregg-ianti per Mf-nelao. Ma clie in grazia appunto di questo aiuto (iato agli EUeni (posciachò i Cretesi ritornarono da Troia) furono desolati dalla peste e dalla fame, micidiali non meno agii uomini che alle greggi. E che, finalmente, fatta una seconda volta la Creta vdta d’abitatori, fu ripopolata da una terza frenerazione di uomini che alle poche reliquie degli antichi coloni si mescolarono. Il qaal complesso di cose essendo stato, nei tempi di cui parliamo, revocato alla mente dei Cretesi dal responso della Pitia, essi vennero trattenuti dal portar soccorso alla Grecia.
172. I Tessali tutti quanti si mostrarono per necessità l principio inclinati alla causa medica. Ma poi raccordo fu rotto: e la maggior parte di loro non seppe piìi acponciarsi alla politica e ai maneggi degli Alevadi. Talmentechè quando appresero che il re di Persia stava per passare in Europa, mandarono tosto anch’essi i loro messaggeri all’ Istmo, dove convennero i deputati di tutti pli Sfati ellenici più devoti alla comune patria. E in mezzo a cotale assemblea i Tessali parlarono in questa forma: rappresentanti della Grecia, bisogna, prima di tutto, provvedere a una buona guardia dello sbocco olimpico, acciocché la Tessalia e la Grecia intera sieuo messe efficacemente al riparo dei pericoli di questa guerra. Ora, noi siamo prontissimi di concorrere all’opera; ma bisogna eziandio che voialtri vi disponiate a sorreggerla con un grosso esercito. Altrimenti, sappiate che la congiunzione col re di Persia. sari l’unico nostro scampo. Imperocché non sarebbe giusto nò ragionevole che noi soli dovessimo immolarci per la sahite degli altri, esposti 12come siamo, tanto più avanti del rimanente dell’Eliade, all’urto nemico. E se ()oi voialtri non volete aiutarci, non avete neppure il dritto d’imporre a noi nessun obbligo, imperocché non ci sono obblighi che tengano contro Tirapossibile. Così, dunque, parlarono i Tessali.
173. E in seguito a tale ragionamento, gli Elleni liberarono di mandare subito per la via del mare esercito iu Tessaglia, perchè andasse a custodire lo sbocco olimpico. Il quale esercito come fu raccolto, varcò navigando lo stretto di Euripo; e approdato avendo alla città di Alo in Acaia, ivi lasciò le navi e discese a terra, inoltrandosi per la Tessaglia infin che pervenne alla valle di Tempe, ove esiste appunto quello sbocco che dalla bassa Macedonia introduce nella Tessaglia, lunghesso il fiume Penco; il qual fiume discorre in mezzo all’Ossa e all’Olimpo. Là fu che stettero a campo circa diecimila Greci di grave armadura, a cui si aggiungeva la cavalleria tossalica. E delle milizio spartane era duce supremo Eveneto figlio di Careno, scelto a tale ufficio fra i Polemarchi, ma non di regia prosapia (42). Agli Ateniesi invece comandava Temistocle, figlio di Neocle. Ma non 1 restarono fermi che pochi giorni nel luogo sovrindicato. Imperocché li sopraggi unse i-o alcuni legati di Alessandro il Macedone, figlio di Aminta, coU’incarico di persuaderli ad andarsene, se non volevano essere sopraffatti e pesti fra quelle gole di monti dall’esercito invasore. Colla quale espressione, di esercito invasore, volevano significare l’e-j norme moltitudine di milizie terrestri e di navi che seguitavano il re di Persia. E siccome i dati consigli parevano provvidissimi, e rette si addimostravano le intenzioni del Macedone, gli Elleni facilmente ci si adattarono. Ma io per
d usine credo, che l’argomento massimo di persuasione a "loare il campo, stesse nella paura entrata loro nell’animo, jando appresero che il nemico, oltre allo sbocco olimco, aveva aperta un’altra via per passare in Tessaglia, ^Tirando per l’alta Macedonia, e quinci penetrando nei
lerrebì e nelle circostanze di Gonne. La qual via fu sfatti quella praticata da Serse per entrare nella
.’Tesafjlia. E dunque i Greci, già congregati nello sbocco
olimpico, senz’altra dimora, riguadagnarono le loro navi
e se ne tornarono all’Istmo.
174. La spedizione tessalica, di cui abbiamo finora parlato, ebbe luogo proprio in quel nientre che il re di Persia stava per varcare il confine fra l’Asia e l’Europa, e già era pervenuto ad Abido. I Tessali poi, vedendosi privi di lileati e destituiti d’ogni sostegno, abbracciarono fervorosi, e senza più ombra di esitazione, la causa medica. Di guisa che divennero nelle future occorrenze come ausiliari efficacissimi al ^e di Persia.
175. E tornata che fu la spedizione tessalica all’Istmo, i legati greci là congregati, sul fondamento delle cose rappresentate da Alessandro, si misero a discutere un’ altra volta intorno al migliore indirizzo da doversi dare alla guerra, e alla sede più conveniente per farla. Ma vinse finalmente il parere, che si dovesse difendere il passo delle Termopile; sì perchè evidentemente più angusto che non quell’altro all’ingresso della Tessaglia, e si perchè piii vicino. Quel sentiero però, in grazia a cui i Greci rimasero dipoi avviluppati nelle Termopile, essi nemmeno npevauo che esistesse prima ohe, digià entrati nelle «tesse Termopile, lo apprendessero dai Trachini. E fu
Rkci, Xuorù Erodoto, III. a 4 dunque deliberato, che l’ingresso della Grecia dovesse «s« ser conteso al Barbaro tiel punto suddetto, nel mentre che il naviglio dovea portarsi verso Artemisio, che è il promontorio in cui sporge la regione estiotica dell’Eubea (43), Imperorchè Artemisio e il passo delle Termopile sono due luoghi fra loro vicini: ondo è facile di sapere nell’uno ciò che interviene nell’altro. Ma ecco che vengo a la precisa descrizione dei siti.
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176. Il promontorio Artemisio è anteceduto da quello stretto che, rinperranrlo in sé le acque del mar di Tracia, passa fra la Magnesia e l’isola di Sciato: appresso si stende il lido artemisio dell’Eubea, sopra cui sorge il tempio della dea Artemide. Dove poi è più stretto il passo che metti» nell’Eliade per la Trachinia, esso non supera il mezzo plettro. Ma non è nemmeno là che si trovi il punto più angusto di tutti i tratti interposti fra l’Età e il mare: sibbene prima e dopo delle Termopile. Imperocché presso al borgo di Ampelo; che viene dopo: appena c’è lo spazio sitftiricnte al passaggio di un carro: e presso al fiume Fenico; che antecede le Termopile; nelle vicinanze di Antela, si avvera la stessa cosa. Ad occidente quindi delle Termopile stesse si levano monti altissimi, scoscesi, inaccessibili della catena dell’Età; e ad oriente del transito, mare e paduli occupano ogni rosa. In mezzo a questo passaggio sgorgano fonti calide, a cui i paesani danno il nome di olle; e sopra dette fonti sta un’ara saci’ata ad Ercole. Quivi stesso poi era stato costrutto un muro, dove fino ab antico fu aggiustata una porta. E quel muro innalzarnno i Focosi per il timore che li assalì, posciachè i Tessali venuti dalla Ter-spurtia erano passati su quelle terre eoliche che ora posseggono. Avendo infatti i -115 —
suddetti Tessali mostrata l’intenzione di assoggettarseli, i Focesi si premunirono subito con quel muro. E scavarono, e ruppero inoltre in piià luoghi il passo dello Termopile, mediante la deviazione dello acquo calide. Niente lasciarono, insomma, intentato per impedire l’ invasione tessalica nel proprio paese. Ma il muro alzato dai Focesi apparteneva a tempi molto remoti: la maggior parte di esso ora ormai crollata per vetustà. Onde, nell’ora di cui parliamo, i Greci decretarono di ristorarlo per farsene il mezzo principale di resistenza coatro il Barbaro invasore. Prossimissimo poi alle Termopile stava (come già dianzi accennammo) il borgo di Ampelo; donde gli Elleni argomentavano di poter trarre comodaoeote le vettovaglie.
177. Questi pertanto furono i lunghi che ai Greci si addimostrarono come piìi idonei alla base della difesa. l»i sorte che, dopo avere a ogni cosa diligentemente provvisto; e dopo essersi persuasi, che in quelle angustie di ai il nemico non avrebbe potuto cavar nessun frutto dalla folla dei combattenti uè dalla cavalleria; risolutamente conchiusero di aspettare là di pie fermo l’impeto degl’invasori.
17H. Ma nel mentre che i Greci si disponevano ad opporsi in fretta da due parti al nemico, quei di Delfo mossi dal gran timore concepito per se medesimi e per tutta l’Eliade, vollero consultare l’oracolo. Dal quale ebbero il .Bgaente responso: Che dovevano colle loro supplicazioni gratificarsi i venti; perchè i venti sarebbero stati in oppresso i migliori ausiliari dell’Eliade. I Delfl allora »i affrettarono a spandere fra tutti i Greci, fautori di li berta, questo vaticinio: e ne ebbero in cambio da esu,
per il timore orrendo in cui vivevano del nome barbarico, una gratitudine imperitura. Quindi i Delfi consecrarono un’ara ai venti in Tuia; dove esiste un tempio dedicato a Tuia (44), figlia di Cefisso, la quale appunto dette il nome al luogo; e cercarono di placarli coi sacrifizi. Ma neppure oggi cessano i DelB (conforme al Benso di quell’oracolo) di dare opera alla placazione dei venti.
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179. L’armata dì Serse, scioltasi dal porto di Ter fu preceduta da dieci delle sue navi di miglior corso, le quali direttamente si spinsero sopra l’isola di Sciato; dove già si trovavano, in atto di esploratrici, tre navi elleniche, cioè, una trezenia, una eginetica, e un’altra attica. Le quali, non appena si avvidero dell’accostarsi delle navi barbariche, dettero volta e si precipitarono in fuga.
180. Ma la nave trezenia, comandata da un certo xino, fu tostamente inseguita e catturata dai Persiani quali avendo tirato a prora uno dei combattenti Greci; che era il più bello della frotta; spietatamente lo uccisero, arrecandosi a lieto augurio che il primo di que|fl Elleni, che avevano preso, fosse anche il piij binilo. La vittima poi di questo scempio si chiamava Leone; e dovette forse aver grado dell’accidente intervenutogli alla quali del suo nome.
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181. La nave eginetica, governata da Anesitlemo, motivo ai nemici di una qualche trepidazione, trovandosi io essa imbarcato un certo Pitea figlio di Ischenoo, il quale dette in quel giorno segni di una virtù
A senza pari. E posciachè la nave era già stata presa, egli «S’aitò tuttavia a resistere ed a combattere, infino a tanto che il suo corpo non fu tutto pesto e stracciato. Ma i Persiani delle navi circostanti, avendolo veduto cadere che ancor respirava; e annettendo un gran pregio al salvamento di un uomo di quella fatta; si dettero a medicare con cura e a bendare con fascio di bisso le sue ferite. Quindi, avendo raggiunto con movimento retrogrado il grosso dell’armata, naostraroiio a tutti Pitea come una meraviglia, e sempre poi con lui benignamente trattarono. Laddove i suoi compagni di cattura furono messi in ceppi.
182, Così, dunque, due di quelle navi esploratrici greche caddero in poter dei nemici. La terza poi, che era l’ atem’ese, comandata da Formo, cercando salute nella fuga, andò a rompere sullo sbocco del Penco; e della nave stessa poterono bensì impadronirsi i Barbari, ma non degli nomini. Imperocché dopo aver questi tirata a terra la loro nave, subito ne discesero, e preso il cammino attraverso la Tessaglia, si ricondussero per quella parte in Atene. I quali fatti essendo stati segnalati, per mezzo di fuochi accesi nell’isola di Sciato, agli EUcni che stanziavano col loro naviglio avanti ad Artemisio; questi se ne sbigottirono in tal maniera che ripararono subito nel porto di Calcide, per mettersi a guardia del passo deil’Euripo, dopo aver lasciate vedette in esplorazione sovra alcuni punti eminenti dell’Eubea.
183. Di quelle dieci navi barbariche poi che, come dicemmo, precorsero il resto del naviglio persiano, tre ce ne furono, le quali andarono a raggiungere quel banco di mirmex; e i Barbari ci piantarono sopra una colonna di pietra che avevano all’uopo portata seco. Sì che fatta sicura da ogni inciampo la via, tutte le navi persiane; dopo già undici giorni trascorsi dacché il re aveva lasciato Terma; potettero partirne esse pure, e proscguinj quinci gagliardamente il loro cammino contro la Grecia. Fu poi Pammone di Sciro che additò ai nemici quel banco di sabbia piantato proprio sulla loro strada. E i Barbari, avendo navigato l’intero giorno, si portarono difìlati da Terma al capo Sepia in Magnesia, e al lido interposto fra la città di Castauea e la spiaggia Sepiade.
184. Fino a questo punto, dunque, e fino alle Termopile, tutte le forze persiane di terra e di mare progredirono senza ostacoli e senza danni. E il numero dei seguaci di Serse in allora, per quanto mi risulta dal mio conteggio, si può determinare nelle seguenti cifre. Posto, cioè, che le navi venute dall’Asia fossero mille dugentosette; e calcolando dugento uomini somministrati a ogni nave dalle diverse nazioni che concorsero a formare il naviglio persiano; avremo una massa totale primitiva di dugentoquarantunmila e quattrocento imbarcati. Ma oltre ai marinari tratti dalle singole nazioni, ogni nave contava un presidio armato composto di trenta combattenti fra Persiani, Medi e Saci; donde risultava una somma di altri trentaseimila dugentot redici uomini. A questi poi, e agli antecedentemente descritti, aggiungerò quelli che popolavano i legni leggeri. I quali potendo, su per giìi, ragguagliarsi a ottanta per barca; e delle dette barche essendosene adunate, come già dissi, un tremila; avremo altri dugentoquarantamila uomini da computare.
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M Di guisa che il numero totale delle forze marittime pasll sa(e con Serse dall’Asia fu, dunque, tutto sommato, di ff cinquecento diciassettemila e secentosedici uomini. In quanto poi all’esercito di terra, esso contava un milione e settecentomila fanti con ottantamila cavalli. Ai quali bisogna aggiungere gli Arabi portati a dosso di cammeli, e gli Africani trascinati sui carri; un ventimila Domini. Onde riducendo insieme tutte le forze navali e le terrestri finquì descritte, avremo a risultamento In Bomma di due milioni, trecentodiciassettemila e secentoilieci uomini. Questa pertanto fu la cifra raggiunta dalle milizie persiane di ogni genere, come esse erano ( secondo ho detto) alla loro uscita dall’Asia (45); e senza computarci il lungo codazzo dei famigli, né le barche frumentarie e coloro che le guidavano.
185. Ma a tutte le forzo persiane finquì descritte, bisogna anche aggiungere quelle altre che vennero progressivamente raccolte da Serse in Europa; nella cui enumerazione dovrò tenermi alle più probabili congetture. E dirò, dunque, come i coloni Greci. sparsi nella Tracia, e nelle isole circostanti, contribuirono all’ impre«a con centoventi navi, le quali rappresentavano un tutto di ventiquattromila inabarcati. In quanto poi all’aiuto somministrato all’esèrcito di terra, dai Traci, d»i Peoni, dagli Bordi, dai Bottiei, dai Calcidici, dai Brigi, dai Pieri, dai Macedoni, dai Perrebì, dagli Eniani, dai Dolopi, dai Magneti, dagli Achei, e da tutti i popoli del lido tracio; credo di poter ragionevolmente valutare l’insieme delle milizie fornite da questi popoli a treccnlomila uomini. Alle quali cifre aggiungendo le cifre antecedenti, rappresentatricì delle forze persiane 20venute dall’Asia, abbiamo una somma di due milioni^ trecento diciassettemila e secentodieci uomini.
186. Ma se tanto fu, quanto ho detto, il numero dei combattenti, non credo che dovesse esser minore; ma maggiore piuttosto; la moltitudine dei famig-li che seguitavan l’esercito sommati coi conduttori delle barche frumentarie e di tante altre minori. Diremo almeno che tutta questa gente agguagliava l’altra; e se non l’ avanzava effettivamente di numero, non restava certo al di sotto. Onde così pareggiata la massa dei combattenti eoo quella dei non combattenti, avremo naturalmente per risultante una cifra doppia di quella surriferita. E dovremo conchiudere; che Serse, figlio di Dario, fu seguitato fino al promontorio di Sepia e fino alle Termopile, da cinque milioni dugentottautatremila e dugentoventìj uomini.
187. Questo, dunque, fu il numero totale cui montavano le genti condotte da Serse. Ma nissuno sarebbe altresì buono a ridii’e la cifra esatta delie donne addetl al panificio, delle meretrici e degli eunuchi; come pui delle bestie da soma e dei cani dell’India, che innu re voli seguitavano il campo persiano. Onde non accadono’ meraviglie, se ci ebbero parecchi fiumi inadequati a setare tanta moltitudine; ed io piuttosto stupisco che si^ sia potuto trovar modo di nudriro sufficientemente, ni lungo cammino, tante miriadi d’uomini. Imperocché, f’ ceodo il mio calcolo, e riducendo anche a una chenice di grano il consumo di ogni individuo al giorno, non piùj mi risulta pur sempre un consumo giornaliero di cen diecimila e trecento quaranta mcdimni (46). Né in quesl
N computo faccio ancora entrare la razione dovuta alle donne e agli eunuchi. alle bestie da soma ed ai cani. Dirò, finalmente, che nonostante tutte le enumerate miriadi d’uomini, sì per la beltà delle forme come per la struttura gigantesca del corpo, Serse restava pur sempre il personaggio più degno di esercitare cotanto imperio.
188. Scioltasi poi che fu l’armata da Terma, e arrivata, come già dissi, a quella spiaggia della Magnesia, che intramezza fra la città di Castanea e il capo Sepia; non offerendo però quella spiaggia comodità possibile al distendimento di tutto il naviglio persiano, alcune nari soltanto potettero afferrar terra; e le altre rimasero surte sull’ancore, avendo le loro prue rivolte contro il mare, e ordinate in otto liuee. Levatasi quindi l’alba del giorno appresso con cielo tranquillo e sereno, tutto a un tratto cominciò a ribollire il mare, e a scatenarsi una grossa tempesta al soffio impetuoso di quel vento levantino, che gli uomini del paese denominano ellespontio. Ora, tutti quei comandanti delle navi persiane, i quali ebbero prescienza dello ingagliardire del vento e qualche comodità di rifugio, potettero prevenire i danni della tempesta, tirando a terra in fretta le navi, e salvando cosi se medesimi coi loro legni. Ma tutte quelle altre navi invece che furono investite dal vento, trovandosi in alto mare; quali andarono a perdersi in quei cavi del Pelio che si chiamano forni, quali nella spiaggia vicina. E alcune ruppero contro il capo Sepia, altre furono cacciate dall’onde addosso alle rive di Melibea e di Castanea. Da si furiosa tempesta non c’era scampo.
189. È poi accreditata la fama, che gli Ateniesi in quel torno di tempo invocassero Borea, in ossequio di un responso delfico da essi ottenuto, il quale li invitava a chiamare l’aiuto del proprio cognato. Ma Borea appunto, secondo la tradizione ellenica, ebbe per moglie una donna attica, e fu Orituia, fi«?lia del re Eretteo (47). Per i quali motivi di affinità, dunque, avendo gli Ateniesi, come raccontano, ravvisato precisamente in Borea il cognato predetto dall’oracolo; quando, dalla loro stazione navale di Calcide in Eubea, essi videro l’ingrossare della tempesta (o prima ancora), si dettero a placare con sacrifizi e ad invocare divotamente Borea ed Orituia, acciocché venissero in loro aiuto e disperdessero per converso il naviglio dei Barbari, come avevano già fatto sotto il monte Ato. Ma se debba poi proprio attribuirsi a una cagione simile il rovinio fatto dal vento Borea nella stazione nemica, non voglio accertarlo. Gli Ateniesi però fermamente mantengono: che Borea, in allora come già anteriormente, venne ad essi effettivaniente in aiuto, e fu il vero operatore di tutto. Onde, ritornati a casa, gli dedicarono un tempio presso del fiume Ilisso.
190. E nel conquasso sofferto per la detta fortuna dì mare dal naviglio persiano; quelli che riducono il danno alle menome proporzioni, parlano di non meno di quattrocento navi mandate a picco, di un numero infinito di uomini sommersi, oltre a una quantità inestimabile di ricchezze perdute. Talmentecliè questo naufragio riuscì poi a grandissima utilità di un tale Aminocle figlio di Cretina, abitatore della Magnesia, il quale aveva i suoi possessi accosto al promontorio di Sepia. Giacché egli potette in appresso raccogliere molti vasi d’oro e molti d’argento, gettati al lido dalla tempesta; oltre a diverse arche di contenuto prezioso, e a innumerevoli cimeli d’oro. Ma nonostante le molte ricchezze acquistate, quest’uomo DOD fu per ogni rispetto felice; es^setnio intervenuta masamamente ad affliggerlo l’uccisione casuale di un suo 6gliolo.
191. Innumerevoli poi furono le barche frumentarie e altre minori che andarono a fondo. Onde ì capitani supremi del naviglio, temendo che i Tessati non co^lie^ssf^ro il momento dell’infortunio per assalirli, bì asserragliarono con un palancato fatto di tavole avanzate dal i)aut’ia;iio. E quella tempesta durò tre giorni. Ma, fìiialmi,nte, i Magi con riti espiatori, con incantesimi, e con altre celebraaooi fatte in onore di Teli e delle Noreidi riuscirono a sedare, nel quarto giorno, l’ira del vento; se non vogliamo creder piuttosto che esso quietasse da se medesimo. E gli onori speciali resi a Teti ebbero la loro ragione w\ fatto, di avere appreso dalli Ioni: che proprio in quni luoghi era seguito il ratto di detta Dea per opera di Ptdeo, e che la spiaggia Sepiade era particidarmpnte sacra a Teti e alle altre Nereidi. Nel quarto giorno, dunque, come abbiamo detto, si calmò il vento.
192. Ma nel secondo giorno dacché era cominciata la tempesta, gli esploratori discesoro dalle alture deli’Eubea, e corsero a narrare agli Elioni tutti i particolari del succeduto naufragio. Onde qnesti, informati dei nuovi casi; dopo aver fatto lor libazioni, e invocato il nome di Nettano Salvatore; se ne tornarono celerissimi avanti ad Artemisio, nella speranza di non trovar f,iù che poche navi nemiche a fronte. Così, dunque, i Greci si nii.<ero la seconda volta in osservazione nelle acque di Artemisio: ed è da quel giorno in poi che hanno preso l’usanza di
invocare Nettuno coll’aggiunto di Salvatore. ^
193. Ma i Barbari, cessato che fu il vento, e tranquillati i flutti, rimisero le loro navi in mare; e sempre costeggiando il lido, oltrepassafono il capo di Magnesia, entrando poi difilati entro al golfo, il quale apre la via a Pegaso. E nel giro di questo golfo c’è un luogo reso chiaro da Ercole, che, essendo colà disceso dalla nave Argo per la provvista dell’acqua dolce, fu abbandonato da Giasone e dagli altri compagni, mentre tendevano ad Ea di Colchide alla ricerca del vello d’oro. Imperocché era convenuto che, riforniti che si fossero gli Argonauti dell’acqua dolce, dovevano quinci sciogliere novamente e rimettersi in mare: donde poi venne al detto luogo il nome di Afeta. E fu appunto nel porto di Afeta che ripararono le navi di Serse.
194. Ma avvenne puro che quindici di dette navi, ri-" maste in coda, furono risospinte in alto mare: donde
i Barbari avendo scorte le navi elleniche che stanziavano avanti ad Artemisio, le credettero delle loro, e drizzato ad esse il corso, caddero senza accorgersene fra i nemici. E duce delle dette quindici navi era un tal Sandoce, figlio di Tamasio, prefetto di Cuma Eolica; il quale, in tempi anteriori, era stato condannato da Dario alla erociBssione, perchè scopertolo reo di corrotta giustizia nel suo uffizio di regio giudice. E già Sandoce trovavasi sospeso in croce, allorché Dario, considerando che i suoi meriti verso la regia casa di molto avanzavano i maaIcamenti; e confessando però di avere operato verso di |lui ia modo piiì precipitoso che savio; ne ordinava la ’ liberazìone, Di guisa che Sandoce riuscì ad aver salva la
u rita dalla senteoza di Dario. Ma poi, ai tempi di cui ragiono, essendo andato a urtare ne’Greci sul mare, non potótte fuggire la morte daccapo. Percliè i Greci avendo veduto venirsi incontro questi Barbari, e accortisi dell’equivoco, immantinente si lanciarono loro addosso facendone facilissima preda.
195. In una di dette navi fu preso Aridoli, tiranno degli Alabandi nella Caria; e in un’altra fu preso Pentito figlio di Demonoo, il duce dei Pafì. Il quale avendo condotte dodici navi da Pafo, e perdutene undici nella burrasca scoppiata presso il capo Sepia, venne quindi catturato coir unica che gli restava nelle acque di Artemisio. Questi prigionieri poi, dopo essere stati interrogati dai Greci intorno a tutto ciò che volean sapere dell’esercito di Serse, furono messi in ceppi e trasportati in tal modo all’istmo di Corinto.
196. Così, dunque, il naviglio barbarico; diminuito però delle quindici navi comandate da Sandoce, di cui abbiamo testé discorso; approdò ad Afeta. Intanto Serse e le sue milizie terrestri, dopo essere passati attraverso alla Tessaglia e all’Acaia, entrarono il terzo dì nella regione Maliaca. In Tessaglia poi il re volle esperimentare la virtii della propria cavalleria messa in confronto con quella dei Tessali, dappoiché aveva inteso dire che la cavalleria tessalica era la migliore di tutta Grecia. Ma il saggio quella volta riuscì a grande umiliazione dei Greci. E dei fiumi della Tessaglia, il solo Ooocomo non ebbe acqua «ufficiente a dissetare l’esercito persiano; mentre invece fra quelli scorrenti per l’Acaia, a stento l’Epidano ( quantunque sia il più grande di tutti) potette supplire all’uopo. 197. Pervenuto poi che fu Serse ad Alo in Acaia, quelli che gli facevan da guida, desiderosi com’erano di ridirgli ogni cosa, vollero esporgli anche una tradizione patria riguardante il tempio di Giove Lafistio. Onde presero a narrare come Atamante figlio di Eolo, avendo d’intelligenza colla sua seconda moglie Ina macchinata la perdita del figliolo Frixo; in progresso di tempo gli Achei, mossi da un oracolo, incominciarono, e tuttavia seguitavano, a punirne i discendenti nel seguente modo. Interdicendo, cioè, ad ogni primogenito della detta famiglia l’accesso del Pritaneo (che gli Achei più volentieri chiamano Leito), e stabilendo espresse custodie per mantener fermo il divieto. Ma se, nonostante tutto, alcuno riesce ad cntriire, non gli sarà però piìi possibile uscire prima che non venga immolato sull’ara di Giove Lafistio. E agginiigcvanu inoltre, che molte di queste vittime designate cercavano di sottrarsi al temuto pericolo migrando in altre contrade. Ma se poi alcuno degli errabondi tornava indietro, ed era cólto nell’interno de! Pritaneo, tosto era sacri ticato con grande sfoggio d’infule e pompa di processioni. Conchiudeva no, fin;ilmente, il racconto col dire; che erano propriamente i discendenti di Citissoro, figlio di Frixo. quelli che soggiacevano alla dura legge: posciache, nell’atto rhe gli. ^chei stavano per compiere il sagrificio espiatorio di Atamante, fu questo Citis.-:oro che comparve da Ea Colchica per liberarlo. Onde poi avvenne che si raccolse contro i suoi discendenti tutta l’ira del Nume. E Serse, dopo avere udite codeste cose, allorché giunse al. «acro bosco di Giove Lafistio, si guardò bene dal violarlo, uè permise che fosse violato dalla sua gente; usando altresì una gran riverenza verso il sacro recinto, come verso le tombe dei successori di Atamante. 198. Ma queste cose apparfengfono sempre al passaf?f?io di Serse attraverso la Tessafrlia e l’ Acaia. Indi però egli entrò, come già dicemmo, nella regione Maliacìi, in fondo a on golfo di mare, ove il flusso e il riflusso delle onde si mostra continuo. E presso a detto golfo, ora si allarga, ora si restringe eccegsivamente la parte piana del paese; il quale è tutto intorno circondato da montagne alte ed inaccessibili, denominate Pietre trachinie. La prima città poi che incontra nel giro del golfo, chi viene dall’ Acaia. è Aiiticira; nei cui pressi il fiume Sperchio, discendendo gii» dagli Eniani, sbocca nel mare. E a venti stadi d’ intervallo da detto fiume ne scorre un altro, cbe si ctiiama Dira; il quale, come porta ia fama, sarebbe nato per dare aÌDto ad Ercole che abbruciava (48). E dopo altri venti stadi, se ne incontra un terzo col nome di Mela.
199. Non più di cinque stadi dal Mela dista la città di Tischi. E là precisamente dove è situata la città di Trachi trovasi il pnnto più largo, dai monti al mare, di tutta questa contrada, aprendosi ivi nna pianura che può calcolarsi di ventiduemila plettri. II monte poi che chiude il territorio Trachinio, propriamente detto, apparisce spaccato in guisa a mezzogiorno di Trachi, che il fiume Asopo scorre in mezzo alle radici del monte stesso.
200. Havvi eziandio un altro fiume a mezzogiorno doll’Asopo, chiamato Fenico; e non grande. Il quale, dopo «sere sceso giù dai monti Maliaci, confonde le sue acque con qaelle dell’Asopo. Ed è proprio in prossimità di detto fiume Fenico che trovasi il punto più angusto della contrada; dacché la via che ci hanno aperta daccanto, non dà il passo che a un solo carro, Dal fiume Fenico poi allo
kail 28Termopile evvi un intermezzo di quindici stadi; nel qua! intermezzo trovasi la borgata, chiamata Antela, presso a cui scorrendo l’Asopo, si getta nel mare. E nelle circostanze di Antela torna ad allargarsi alquanto il terreno, in guisa che vi sorge il tempio di Cerere Anfizionide, la sede del Consiglio anfizionico, e il tempio di Ai GzioDO stesso.
I
201. Il re Serse si accampò nel piano Traohinio: e i Greci invece si fermarono in quel sito che, dalla maggior parte degli Elleni, è detto il passo delle Termopile; ma che i paesani e i circonvicini chiamano semplicemente il passo delle Pile. E queste furono dunque le posizioni prese dai due nemici: che Sorse si allargava coi suoi a settentrione delle Termopile; e i Greci invece occupavano i luoghi posti a settentrione delle medesime.
202. I Greci poi che si fermarono ad attendere i Persiani nel punto surriferito, furono i seguenti: cioè, trecento Spartani di grave armadura; mille fra Tegeati e Mantincnsi (cinquecento per cadun popolo); centoventi venuti da Orcomeno d’Arcadia, e mille dall’altra Arcadia; di più, quattrocento Corinti, dugeiito di Fliunte, ottanta di Micene- E questi furono quelli che convennero dal Peloponneso. Ai quali si aggiunsero, fra i Beoti, settecento Tespiesi e quattrocento Tebani.
203. Ma oltre ai sopraddetti comparvero al campo, per espresso invito ricevuto, anche i Locri Opunzì con tutte le loro forze, e mille Focesi. Ai quali era stata spedita dai Greci adunati alle Termopile un’ambasciata, colla commissione di rappresentar loro: che i Greci attualmente «Ile Termopile non costituivano altro che l’autiguardo dei
combattenti; ma di giorno in giorno si aspettava l’arrivo
degli altri confederati. Né era stata pretermessa l’attenta
guardia del mare, a cui provvedevano gli Ateniesi insieme
cogli Egineti e cogli altri popoli destinati al fornimento del
naviglio. Di eccessivi timori, per ultimo, mancare ogni
ragionevole fondamento; dappoiché l’aggressore della
Grecia non era. in fin de’ conti, un nume ma un uomo.
E non ci fu, né ci sarà mai essere mortale non sottoposto
60 dal suo nascere ai sinistri accidenti della vita. I quali
anzi sogliono più terribilmente colpire chi sta piìi alto.
Onde conchiudevano; che anche l’aggressor della Grecia,
come mortale, doveva prima poi discendere dalla sua
gloria. Dalle quali parole capacitati i Locri e i Focesi
inviarono senz’altro il loro soccorso ai Greci dalla parte
di Trachi.
204. Ai suddetti corpi di milizie convenute al passo delle Termopile, presiedevano altrettanti capi particolari quanti erano i popoli che le avevano mandate. Ma sovrastava a tutti per autorità della persona congiunta all’eminenza del grado, Leonida il Lacedemone, il quale ebbe a padre, Anassandride; ad avo, Leone; e come progenitori, Euricratide, Anassandro, Euricrate, Polidoro, Alesimene, Telecle, Archelao, Agesilao, Dorisso, Leobote, Ecbestrato, Agi, Euristene, Aristodemo, Aristomaco, Cleodeo, e finalmente Ilio figlio di Ercole. Questo Leonida occupò il regno di Sparta in un modo molto impensato.
205. Perchè avendo due fratelli di lui maggiori, Cleomene e Dorico, non poteva egli faro naturalmente che
Sioo, UltrU Srodoto, UI. 1 0 diseg-ni molto lontani di regno. Ma Cleomene essendo mancato senza prole maschile, mentre Dorico eragià anch’egli antecedentemente morto in Sicilia, ne sejjui che le ragioni del regno caddero in Leonida, il quale era nato prima di Cleombroto (ultimo dei figli di Ànassandride), e aveva oltracciò presa in moglie la figlia di Cleomene. Detto Leonida, dunque, fu quegli che passò da Sparta alle Termopile coi trecento uomini di sua scelta, nomini tutti già pervenuti all’età regolare dei guerrien lacedemonici, e che lasciavano prole a casa. Prima però di raggiunger la meta, egli levò milizie da Tebe in quel numero che già dicemmo, le quali genti tebane ftrono comandate da Leontiade figlio di Eurimaco. E Leonida si affrettò tanto a fare verso i Tebaui ciò che con fece in nissun’altra parte, perii gran sospetto che si aveva che essi inclinassero alla causa medica. Ond’egli volle chiamarli subito all’armi, per vedere se in effetto mandavano aiuti all’impresa, se apertamente ricusavano di collegarsi cogli altri Greci. Ma i Tebani, sebbene a talento, mandarono aiuti all’impresa.
206. Gli Spartani poi spinsero avanti Leonida e i suoi compagni colia intenzione die gli altri confederati, mossi da tale esempio, si disponessero a andare contro il o®’ mico; né per avventura accadesse che eglino pure p’^ gasserò verso Media vedendo gl’indugi di Sparta. AP" presso poi deliberarono: che, lasciata a Sparta una co^" veniente custodia, avrebbero mosso con tutte le loro fof’® contro i Persiani, non appena finita la celebrazione del’’ feste Gamie, da cui presentemente erano trattenuti. ^ propositi di egoal genere mostravano anche gli altri cot,^ federati. Dappoiché ricorreva proprio in quei giorni 1^
j celebrazione delle Olimpiadi: ed essi non credendo mai, che potessero essere così presto decise le sorti della guerra al passo delle Termopile, si fecero intanto precedere dalle loro vanguardie. Cosi pensarono, e così fecero.
207. Ma i pochi Greci assembrati alle Termopile, quando il re di Persia si trovò vicino al passaggio, cominciarono a sbigottirsi e a consultare fra loro della ritirata. Ai Peloponnesi, per esempio, non appartenenti alla dizione lacedemonica, pareva buono di ritrocedere in Peloponneso, e di mettersi ivi alla guardia dell’Istmo. Ma Leonida, al vedere quanta indegnazione eccitasse una tale idea nei Locri e nei Focesi, votò per il partito di restar fermi; e di mandare piuttosto messaggi per tutte le città dell’Ellade a chieder soccorsi, conciossiachè fosse evidente che in cosi pochi non potevano ributtare l’esercito medico.
208. Ma mentre i Greci stavano in queste consultazioni, Serse spacciò un suo cavaliere con ufficio di esploratore, il quale doveva scoprire quanti realmente quelli fossero, e che cosa facessero. Posciachè, fin da quando era in Tessaglia, egli aveva inteso dire che un piccolo gruppo di armati erasi radunato alle Termopile sotto la guida dei Lacedemoni e di Leonida, eraclide di sua schiatta. E pervenuto che fu, dunque, detto cavaliere presso agli alloggiamenti, non potette già osservare tutto il campo dei Greci. Perchè quelli di loro che erano dietro al muro restaurato e difeso, necessariamente sfuggivano alla sua vista. Vide bensì quelli che stavano e accampavano fuori; e il caso portò che in quel momento proprio fossero i Lacedemoni: di cui alcuni attendevano ad esercizi ginnastici, , altri a riavviarsi i capelli. Del quale spettacolo rimase molto stupito l’esploratore, e prese nota del numero dei nemici. Dopo avere poi ogni altra cosa attentamente considerata, voltò indietro con tutta pace, e senza che alcuno pensasse a perseguitarlo; perchè fatto segno piuttosto d’infinito disprezzo. E ritornato che fu il cavaliere a Serse, gli riferì per disteso tutto quello che avea veduto.
209. Ma Serse, dopo udito ogni particolare, non arrivò nientemeno a farsi un giusto concetto di quel che era. Vale a dire, che i Greci, alle Termopile, si disponevano tutt’insieme a morire e ad uccidere il maggior numero possibile di nemici. Ad esso invece, i loro disegni si rappresentavano come ridicoli; onde fece a sé chiamare Demarato, figlio di Aristone, che stava nei suoi alloggiamenti, desiderando conoscere quali intenzioni in effetto avessero i Lacedemoni. Quegli allora rispose: Tu udisti già altra volta il mio giudizio intorno a codesta gente, quando stavamo appunto per movere per l’impresa ellenica. Ma, mentre mi ascoltavi, tu ti facevi beffe dei fatti miei, sentendo come io antivedeva l’esito probabile delle cose. Imperocché io ho il prepotente bisogno, o re, di essere sempre in faccia a te veritiero. Onde ascoltami anche ora. Codesti uomini intendono evidentemente a contrastarci colla forza il passo delle Termopile, ed è a questo che si apparecchiano. Perchè, vedi: quando stanno appunto per mettersi a qualche supremo cimento, essi devono, secondo i loro istituti, ravviarsi prima la chioma. Ma voglio ancor che tu sappia: che se arriverai a sottomettere costoro, e gli altri loro fratelli di Sparta, nessun altro popolo di questo mondo oserà più di alzare le mani per contrastarti. Imperocché tu ora hai che fare col regno e colla comunione meglio organata di tutta l’Ellade, e cogli uomini più intrepidi che ci vivano. Dei quali ragionamenti peraltro non potendo Serse in verun modo capacitarsi, tornò a domandare: Come mai quel piccolo gruppo d’armati avrebbe potuto contendere con un esercito come il suo? E Detuarato gli rispose: re, mi contento che tu tratti meco come si aspetta a un mendace, se le cose succederanno diversamente da quel ch’io dico.
210. Ma contuttociò Serse non si persuase. E lasciò passare quattro giorni, sempre sperando che i Greci in questo mezzo da se stessi se ne fuggissero. Venuto però il quinto giorno, e vedendo che quelli non se ne andavano; ma rimanevano anzi in un’attitudine di resistenza, come a lui pareva, temeraria e imprudente; lanciò loro contro, irato, i Medi ed i Cissi, con ordine di prenderne quanti più potevano, e di menarglieli avanti. E all’urto ricevuto dai Medi, molti Greci caddero estinti. Altri però subito sottentrarono ai primi; né cedetter del campo, quantunque fossero afflitti da molta strage. Restando così chiaro a tutti, e al re di Persia massimamente; che di fronte ai combattenti delle Termopile, il campo persiano presentava sì una gran moltitudine di gente, ma pochi uomini. Detto combattimento si prolungò tutto il giorno.
211. Ma posciachè i Medi ebbero il peggio in questa fazione, si tirarono indietro; e sottentrarono loro nell’assalto i Persiani della schiera degl’Immortali, comandati da Idarne; come se a questi Immortali avesse dovuto riuscire facilmente ogni cosa. Quando però anch’eglino coi Greci si mescolarono, non fecero nessun progresso maggiore dei Medi, e rimasero allo stesso punto: dappoiché dovevano combattere in un luogo angustissimo, e senza possibilità alcuna di distendervi le ordinanze, oltre all’incomodo derivante dalla cortezza delle loro aste in confronto delle aste elleniche. Ma i Lacedemoni operarono in questa occasione cose memorabili, dando a vedere quanto la loro perizia nelle cose guerresche prevalesse all’imperizia degli avversari; massimamente quando, voltate le spalle al nemico, tutti si precipitavano in fuga. Ma poi nell’atto che i Barbari, con clamorose grida inseguendoli, già stavano per afferrarli; essi con un rapido girare di fronte tornavano all’assalto, facendo in questa maniera una strage inestimabile di Persiani. Anche alcuni Lacedemoni peraltro caddero nella mischia. Posciachè poi i Persiani si furon convinti della vanità d’ogni tentativo, essendo tutti i loro assalti (e assalti di ogni genere) riusciti impotenti a sforzare il passo, se ne tornarono indietro.
211. E mentre ferveva la mischia testé descritta, dicesi che Serse; il quale stava poco di lungi a osservarla; tre volte si rizzasse in sussulto dal trono, temendo per le sue genti. Così dunque fu combattuto in quella giornata. Il dì appresso poi i Barbari vollero rinfrescare la pugna; ma senza miglior successo. Perchè calcolando nel poco numero degli Elleni, e nell’afflizione delle ferite; onde inducevano che poche più forze potessero lor rimanere alla resistenza; s’incorarono a un nuovo assalto. Ma i Greci invece, organizzati com’erano per ischiere e per popoli, gli uni sottentrando agli altri, tutti si presentarono alla battaglia, eccettuati i Focesi; i quali erano stati destinati al monte per guardia dell’appartato sentiero k| tiero. Avvedutisi però i Persiani che non facevano nis^un |l flisg’gior profltto che il giorno avanti, per il meglio si J ritirarono. . Ora, mentre il re pendeva incerto fra contrari consigli, Efialte, figlio di Euridemo, della regione Maliaca, si restrinse con lui, sperando ottenere dal re un grosso premio per la rivelazione che volea fargli. Gl’indico infetti quel sentiero che, andando attraverso a’ monti, sboccava alle Termopile; e fu così il primo autore della rovina dei Greci ìk radunati. In appresso Efialte, per timore dei Lacedemoni, riparò in Tessaglia: e i Pilagori (tostochè il Consiglio anfizionico sì congregò, dopo questi fatti, lUe Termopile) misero il suo capo a prezzo (43). Essendo poi egli, dopo un certo intervallo di tempo, tornato in Anticira, rimase ucciso per mano di Ateuade, cittadino di Trachi. Il quale però lo uccise per uu’ altra cagione, che io specificherò altrove. Ma nonpertanto i Lacedemoni lo gratificarono del proposto premio. E questa fu, dunque, nel progresso del tempo la fine di Etìalte. . Corre anche un altro rumore, il quale attribuirebbe piuttosto ad Oiieta figlio di Fanagora, caristio, e a Coridallo, anticirese, il fatto di quel colloquio col re, e della indicazione data ai Persiani della strada attraverso a’ monti. Ma a me, per verità, un tal rumore non pare punto credibile: e non pare credibile, iu primo luogo, perchè i Pilagori, i quali dovevauo meglio di ogni altro sapere quel che facevano, misero a prezzo il capo del trachinio Efialte, e non quello di Oneta e di Coridallo. Secondariamente, perchè sappiamo che Efialte fuggì via in grazia precisamente della sua colpa. E sia pure che Oneta — 1
(36quatitunque non nato nella regione Malìaca) avesse potuto conoscere benissimo l’appartato sentiero, se eg-li tornò frequentemente da quelle parti. Ma il fatto sta, che Efialte, e non altri, g^uidò il nemico attraverso a’ monti per l’indicato sentiero: ed io noto qui la sua colpa.
215. Serse poi, il quale aveva con gran lietezza del core accolte le promesse e i disegni di Efialte, spedì senza indugio verso il monte, Idarne ed i suoi; ed essi sul far della notte (in quell’ora che si accendono le lanterne) uscirono dagli alloggiamenti. Ma voglio anche aggiungere: che il sentiero montagnoso, di cui abbiamo già più volte parlato, fu primieramente scoperto dagli uomini del paese; dai Mali; i quali lo indicarono ai Tessali mossi contro i Focesi, allora quando i Focosi, avendo sbarrato con una muraglia il passo delle Termopile, credevano di essersi messi al ripago da ogni possibile assali mento. Ma è pur vero che, da quel tempo in poi, i Mali non cavarono piiì alcun profitto della loro notizia.
216. Eccomi quindi a fare la descrizione del montagnoso sentiero. Esso incomincia sul fiume Asopo, là dove questo discorre in mezzo a quella spaccatura di monte, che già dicemmo. E tanto il monte solcato da detto sentiero quanto il sentiero medesimo hanno un nome comune, chiamandosi l’uno e l’altro, Anopea. La qual via Anopea, dunque, procede girando intorno al sommo del monbe, e terminando pres.?o Alpcno ( prima città locrese verso i Mali); dove è il famoso sasso, detto di Melampigo, e la sede dei Cercopi (50); uno dei punti più angusti di tutto il passo. -137 —
217. Per il descritto sentiero, dunque, s’avviarono i Persiani, dopo il passaggio dell’Asopo, e camminarono l’ intera notte, avendo a destra la catena dell’Età e a sinistra i monti Trachinici. Come poi spuntò il nuovo giorno, essi erano già arrivati al punto piìi alto della via. Nel qual luogo precisamente stavano a guardia tremila opliti Focesi (conforme a quanto abbiamo accennato anche dianzi), ì quali là tutelavano il proprio paese nella difesa di quel sentiero. Dappoiché il passo inferiore era ben guai-dato dagli altri popoli che enumerammo: e la via del monte la custodivano i Focesi, i quali si erano spontaneamente offerti a Leonida a tale efiFetto.
218. I Focesi però non si accorsero della presenza dei Persiani, se non quando questi furono molto prossimi; dacché essi salivano nascosti dall’immensa quantità di qucrcie onde il monte era tutto pieno. Ma arrivati a gtan vicinanza; e non spirando nissun fiato nell’aria; in grazia del rumore prodotto ( come suole ) dal calpestar delle foglie sparse per la terra, i Focesi improvvisamente si «cossero, e vestirono in fretta le loro armi. I Barbari erano già li. I quali, come videro quegli armati, se ne meravigliarouo forte: perchè, mentre stimavano di non dover trovare nessuno a contendere il passo, s’ imbattevano invece in un corpo di ordinate milizie. E allora Idarue, temendo che fossero Lacedemoni quelli che in effetto erano Focesi, domandò ad Efialte; a che razza appartenesse tal gente. E saputane la verità, dispose subito isuoi Persiani in ordine di battaglia. Quindi i Focesi rimasero sopraffatti da una grandissima e fitta pioggia di .lar.li; e credendo che quello sforzo persiano fosse specialmente diretto contro di loro, si ritirarono in fretta sul — 1
38cacume del monte, pronti a morir fino airultirao in quella lotta ditsuguale. Tale era il sentimento di quei Focesi: ma i Persiani guidati da Idarne e da EBalte, non prendendosi nessuno pensiero di loro, si affrettarono invece a discender giù per la china della montagna.
219. Intanto, ai Greci accampati alle Termopile, cominciò prima l’indovino Megistia ( in seguito allo studio fatto delle vittime) a pronosticar strage e morte pel ritorno del nuovo giorno; soprag-giunsero quindi imentre durava ancora la notte) i disertori persiani, che raccontarono il giro preso dal nemico per involger gli Elleni; finalmente, spuntata l’aurora, corsero giù dalle alture gli esploratori, e ripetettero le stesse cose. Di guisa che gli Elleni venuti al punto di deliberare, si divisero in contrarie sentenze. Imperocché gli uni opiniivanoche non si dovesse lasciare il campo: gli altri invece sostenevan tutto l’opposto. E, sciolto il consiglio, quali di loro ripresero la via della patria, e quali invece protestarono di volere star fermi con Leonida.
220. Ma dicesi, che fosse lo stesso Leonida che rimandò quelli a casa per amor di salvarli; protestando insieme, che né a sé né ai superstiti Spartani era lecito abbandonare quel posto che avevano avuto in custodia fin da princìpio, Ed io puro partecipo volentieri all’opinione, che Leonida, al vedere quei suoi Soci di si poco animo e titubanti a fronte del pericolo, li invitasse a tornarsene indietro: ma in quanto a sé, por contrario, reputasse una indegnità il ritirarsi. Imperocché, tenendo il fermo, certo è che egli provvedeva egregiamente alla sua fama, nel ’«mpo st esso che non lasciava oscurarsi la riputazione di — 139 —
Sparta. E già 6a da quando, sui primordi di questa guerra, i Lacedemoni consultarono l’oracolo delfico, ebbero dalla Pitia il seguente responso: Ohe Lacedemone sarebbe stata rovesciata dai Barbari, ovvero che un re di Sparta sardbe morto in battaglia. E il responso sonava precisamente così:
Di Sparta spaziosa abitatori, a voi distrutta l’inclita cittade Da’ Persi fìa, oppure estinto il rege O’EracIeo sangue piangerà il Lacone. De’ Medi all’urto nò leon né tori Resisteranno. Egli ha il poter di Giove, E solo alloi-a arresterassi, io dico, Che l’uD de’ re avrà del tutto domo.
Leonida, dunque, ripensando al detto vaticinio, e cupido di procurare ai soli Spartani una gloria immortale, fu lui (come io credo) che rinviò effettualmente gli altri Soci a casa; anziché supporre che questi, per differenza dì opinioni, di proprio moto e scompostamente partissero.
221. E a non piccola riprova di tutto questo può aggiungersi il fatto: che insieme con tutti gli altri fu evidentemente licenziato da Leonida ( perchè non dovesse incontrare il fato comune) anche quel Megistia di Acarnania, che seguitava in qualità di vaticinatore l’esercito, e che aveva dianzi predetti i futuri accidenti della faxione. Ma quegli, non ostante il ricevuto licenziamento, timase fermo; e rinviò piuttosto a casa un suo figlio ■nnico, che militava come Socio in quella impresa delle Termopile.
"^l. I Soci, dunque, per la maggior parte (obbedendo il cenno di Leonida), se ne tornarono via, da lui licenziati; — MO —
e altri più non restarono a fianco dei Lacedemoni che i Tebani e i Tespiesi soli. I primi però a malincuore, e per la violenza di Leonida che volle trattenerli a modo di ostaggi. Laddove per contro i Tespiesi rimasero di lor pieno e deliberato volere; protestando che non avrebbero mai abbandonato Leonida e i suoi compagni, e che sarebbero restati uniti con loro fino alia morte. Li comandava Demofilo, figlio di Diadroma.
223. Spuntato poi che fu il nuovo giorno, Serse fece le sue libazioni; e lasciato in mezzo un certo intervallo, egli assalì il nemico precisamente io quell’ora, che si chiama, di pieno mercato. Cosi governandosi secondo gli avvertimenti datigli da Efialtc. Imperocché la discesa del monte riesce sotto ogni aspetto più breve-, e molto più spiccia è quindi da quella parte la via alle Termopile, in paragone di tutto il giro e di tutta l’ascensione antecedente, I Barbari, dunque, guidati da Serse progredirono contro il nemico: e gli Eileni di Leonida, che ornai si consacravano a certa morto, si spinsero molto piìJ avanti di prima verso un punto piuttosto largo della gola. Non già che avessero per questo abbandonata la difesa del muro: ma nel mentre che ai giorni andati sempre h avanti al muro, e perù nel più angusto del passo, avevano combattuto; ora procedettero più all’aperto. E certo una delle conseguenze di questa mossa fu una maggiore uccisione di Barbari. Dappoiché i comandanti dei diversi manipoli barbarici spingevano innanzi i loro uomini a furia di staffilate. Onde molti precipitavano e si sommergevano in mare; altri in maggior numero erano calpestati vivi dall’urto dei sopravenienti, e nissuno si occupava di chi restava morto nello scom - 14
1 piglio. I Lacedemoni poi alla loro volta; i quali ben sapevano la sorte fatale cbe li attendeva per parte di quelli che avevano girato il monte; vollero far contro i Barbari le mostre estreme della prodezza, non avendo alcun riguardo alla propria salute e battendosi da disperati.
224. Ai Greci spesso accadeva di aver le aste spezzate; e allora uccidevano i Persiani a colpi di spada. Ma iatamto, nel furore della mischia, cadde il fortissimo Leonida, e altri illustri Spartani caddero intorno a lui; dei quali (come di uomini degni di tanta stima) io volli sapere i nomi, come già volli saperli di tutti quanti i Trecento. Ma anche dalla parte persiana molti uomini illustri, in qnelJ ’occasione, furono desiderati. Fra gli altri, Abrocome e Iperante, 6gli di Dario, che egU avea avuti da Frataguoa 6glia di Ariane. Il quale Artane era poi fratello di Dario, perchè anch’esso figlio d’ Istaspe e nepote di Àname. E detto Artane nel dare a Dario la figliola, gli donò insieme tutto il suo avere, perciocché non aveva altra prole che lei.
225. Cosicché due fratelli di Serse caddero nel descritto combattimento. Ci fu poi fra Elleni e Persiani una fiera lotta e un serra serra incredibile intorno al corpo di Leonida: ma finalmente riuscì alla virtù dei Greci di sottrarlo di mano ai nemici, che essi misero in fuga per quattro volte. E così fu combattuto intìno a tanto che non comparvero dall’altra parte le genti condotte da Efialte. Ma non appena i Greci ebbero lingua del loro arrivo, cambiò subito aspetto la forma della battaglia. Perocché eglino si rimisero entro le angustie del passo; e progredendo al di là del muro, posarono tutti riuniti, ad — 142 —
eccezione dei Tebani, sopra un pog-gio che s’alza proprio all’ingresso delle Termopile; dove oggi si vede scolpito in pietra quel leone che fu fatto fare in onore di Leonidi E là appunto intervenne che i Greci, che si echermivano colle spade (quelli che ancor le avevano), ovvero si siatavano colle pugna e coi denti, furono all’ultinlo sopraffatti dalle Baette dei Barbari. Alcuni dei quali, incalzandoli di fronte, atterrarono perfino il muro di difesa, mentre gli altri li circondavano da ogni parte.
226. In tal guisa dunque si segnalarono quei Laced moni e quei Tcspiesi; ma le massime prove di valore si attribuiscono in detto fatto a Dienece di Sparta. Quei medesimo che, prima che fosse cominciata la lotta coi Medi, avendo inteso dire a un cotale di Trachi: siccont i Barbari, allorché lanciano in aria i loro dardi, (Wflc rana il sole, tanto è f/rande la moltitudine di essi Bar- ì bari; non si lasciò però scuotere da questi detti. Ma fc-J cendosi anzi befife della vantata moltitudine dei nemid narrano rispondesse: c7ie non poi&a veramente quélXt di Tracia ajyportare una miglior novella; perchè Barbari s’incaricavano di oscurare il sole, i Oreci at) bero combattuto con più comodo all’ombra. Né questo i ma molti altri detti memorabili si attribuiscono a Di’^ nece lacedemonio.
227. Dopo lui poi, gli Spartani dicono che tenessero il primo luogo nel fatto d’armi del poggio, Alfeo e Maroné, figli di Orifante. E fra i Tespiesi, si segnalò sopra tutt: un certo Ditirambo, figlio di Amartida.
228. Tutti questi ottennero sepoltura nel luogo mede - 1
43simo dove caddero: e tanto in onor loro, come in onore di quegli altri che avevano lasciato la vita sul campo, prima che seguisse la partenza dei Soci licenziati da Leonida, fu posta l’iscrizione seguente:
Contro tt’Aceoto qai miriadi ud giorno Quattit) mila pugnar Peloponnes!.
Così diceva l’iscrizione comune. Ma un’altra anche ne tenne posta a ricordo particolare dei Lacedemoni, concepita io questi termini:
Ospite, a Sparta riferisci come Qui Siam caduti ai detti suoi fedeli.
Una terza, finalmente, fu dedicata al vate Magistia, che diceva così:
11 monumento di Magialìa è qoesto. L’illustre vate, dello Sperchio al passo Da Medi estioto. E di sua morte certo, Di Sparta i duci disertar non volle.
Delle dette iscrizioni poi, e dei cippi che le portano, autori furono gli Anfìzioni, eccettochè per quel che spetta a Magistia. La cui epigrafe fu dettata da Simonide, figlio di Leoprepe, a titolo d’amicizia.
829. Fra i trecento Spartani che pugnarono alle Termopile, si fa speciale menzione di un Eurito e di un Aristodemo. I quali, se avessero voluto, potevano di comune accordo, o tornarsene sani e salvi a Sparta, dacché Leonida li avea congedati, e già stavano in Alpeno a curare la grave malattia d’occhi che li affliggeva; ovvero, non volendo tornare a casa, potevano tutti due insieme andare incontro, cogli altri compagni, alla morte. Ma dicono che, posti dirimpetto ai due suddetti partiti, non seppero intendersi fra di loroj e tirati piuttosto da diverse opi niont, ne seguì che Eurito, non appena conobbe la mossa girante dei Persiani, chiese e vestì le sue armi, comandando a UDO dei propri Itoti di condurlo sul luogo del combattimento. Donde poi narrano, che l’Ilota conduttore tostamente se ne fuggisse; nel mentre che Eurito, precipitandosi nel folto della mischia, cadeva subito estinto. Aristodemo per contro, vinto dal suo poco animo, non si mosse. Ora, io sono persuaso, che se il solo Aristodeuio fosse stato afflitto degli occhi, o se ambidue fossero tornati a casa insieme; gli Spartani non avrebbero mostrata nissuna stizza. Ma al vedere che ubo di quelli era caduto morto sul campo, e l’altro ( che si trovava pure nello stesso caso) non aveva voluto esporsi al pericolo; naturalmente seguì che i Lacedemoni fortemente si adirassero contro di Aristodemo.
230. Nel modo detto, adunque, e con tutto le circostanze surriferite, alcuni dicono che accadesse il ritorno di Aristodemo sano e salvo alla patria. Altri invece spiegano la cosa diversamente: e narrano come costui essendo stato spedito con una special commissione fuori del campo, meutre avrebbe potuto dipoi ripigliare il suo posto fra’ combattenti, non volle; ma indugiandosi perla strada, gli riusciva così di salvarsi. Il compagno invece che egli aveva avuto nella commissione suddetta, non solamente, a tempo acconcio, tornò a combattere, ma lasciò la vita combattendo.
231. Checchessia peraltro di tutto ciò, resta pur sempre vero che. Aristodemo, tornato che fu a Lacedemone, pati ogni sorta di onte e di villanie; a tal punto che nissuno Spartano gli voleva prestare il suo foco (51), né sosteneva di entrare in colloquio con lui; ma, per colmo di strazio, tutti lo chiamavano Aristodemo il vigliacco(52). Se non che quest’uomo stesso, alla battaglia dì Platea, seppe riscattarsi ampiamente delle antiche accuse.
232. Narrano ancora che un certo Pantite, appartenente egli pure al novero dei Trecento, essendo stato spedito messaggere in Tessaglia, riesci in quel modo a salvar la vìta: ma che poi tornato in patria, e caricato ivi d’ogni ignominia, si appiccò da sè per la gola.
233. I Tebani poi, comandati da Leontiade, seguirono fino a un certo punto, per forza, la parte ellenica, e a fianco degli Elleni combatterono il re di Persia. Ma quando videro prevalere la fortuna persiana; e nel mentre che i Greci di Leonida si affrettavano a occupare il poggio; essi abbandonarono le ordinanze, e colle palme levate al cielo, andarono ai Barbari, dicendo (come era verissimo), che la loro devozione alla causa medica restava inconcussa; e che eglino per i primi avevano fatto al re l’omaggio della terra e dell’acqua. Che la forza soltanto aveva potuto indurli a prender parte alla fazione delle Termopile; onde erano netti da ogni colpa per i passati travagli di Serse. Così parlarono i Tebani, e così si salvarono: molto più che avevano anche nei Tessali dei buoni testimoni dei loro detti. Ma non perciò le cose loro trascorsero affatto liscie. Perchè, quando i detti Tebani furono ammessi entro al campo nemico, e vennero così in potere dei Barbari, alcuni di loro rimasero uccisi; e agli altri tutti fu, per comando di Serse, impresso di stimmate il corpo, cominciando da Leontiade. Il cui figliolo Eurimaco fu, in progresso di tempo, ucciso dai Piateesi,
RICCI, Istorie Erodoto, III. 10 - 14
6 posciachè egli, alla testa di quattrocento Tebani, ebt occupata Platea.
234. Nel modo, dunque, da me narrato si combattè dai Greci al passo delle Termopile. Quindi Serse, fatto a sé venire Demarato, lo interrogò, dando principio ai suo discorso in questa maniera: Demarato. tu sei un valentuomo. E me ne certifica il fatto, che tutte le tue predizioni si sono rigorosamente avverate. Ma ora dimmi: quanti altri Lacedemoni si contano al mondo, oltre a quelli che ci sono venuti iucoutro; e dìratiii ancora quanti di questi altri eguaglino in virtiì belligera gli Spartani delle Termopile, se pure non mi dirai che gii uguagliano tutti? E Demarato a lui; Grande è senza dubbio, o re, il numero dei Laccdtjmoui, e molte sono le città che popolano il loro Stato. Ma per beue chiarirti di quanto tu vuoi conoscere, impara: che nella Laconia esisto una città principale col nome di Sparta, la quale è forte di ottomila uomini, per dir molto; ma questi uomini hanno tutti un valore eguale a quello mostrato da coloro che qaa sono venuti a combatterci. Laddove gli altri Lacedemoni (quantunque molto (irodi anch’essi) pur di merito non li arrivano. Allora Sersc tostamente riprese: In qual modo, dunque, o Demarato, noi potremo venire a capo di sottomettere, colla minor fatica possibile, questa gente? Orsù, me lo dici. Perdio tu sei stato loro re, e devi conoscer bene tutto il giro dei loro consigli.
235. Gli rispose allora Demarato in questa forma: Dappoiché, re, tu ricorri al mio parere con tanto studio, ò ben giusto che io ti dia in ricambio il miglior consiglio che posso. Ora il miglior consiglio che posso darti si è: — 14
7 di spedire prontamente trecento delle tue navi alla volta delia Laconia. Presso alle cui rive giace quell’isola di Citerà, della quale soleva dire l’accortissimo Chilone: che «irebbe stata gran ventura per gli Spartani, se invece di ergersi come ella fa sopra il mare, fosse stata inghiottita dai flutti. Imperocché egli teneva che detta isola costituisse il migliore approccio possibile, per dare poi alla Lacooia quel felice e sicuro assalto, che appunto qui io ti propongo.
Né certamente così opinava e diceva Chilono per una lontana previsione che egli avesse del tuo naviglio, neper il timore indistinta di qualunque naviglio possibile, diretto contro di Sparta. Dall’isola di Citerà, dunque, facciano le toe navi impeto sui Lacedemoni, e li atterriscano. Col nemico in casa, non c’è più luogo a temere che essi accorrano in aiuto dell’altra Grecia, vinta e infrenata dalle tue armi terrestri. Sottomesso poi che sia tutto il restante dell’Eliade, anche il popolo laconico diverrà fiacco e invilito. Se poi tu non vorrai fare quel che ti dico, ecco ciò che infallibilmente ti aspetta. Angusto è l’istmo del Peloponneso: e se ivi si congregheranno tutte le forze peloponnesie congiurate per contrastarti, sappi che avrai a sostenere altre battaglie molto piìi fiero e terribili di quelle sostenute finora. Ma governandoti invece come io ti consiglio; e l’istmo e le città tutte verranno senza lotta alla tua devozione.
236. Dopo le quaH parole di Demarato, Achemene, fratello di Serse e duce supremo del naviglio persiano; il quale trovavasi alla presenza, e temeva che il re si lasciasse convincere; cosi interloquiva: Per dire il vero, tu mi hai l’aria, o re, di voler quasi cedere ai ragiona
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8 menti di un uomo, che invidia manìrestamente alla tua felicità, e lavora fors’ anche al tradimento de’ tuoi interessi. Imperocché gii Elleni sogliono generalmente essere’ di questo genio: cioè, invidiosi della felicità altrui, e odiatori della potenza. Venendo quindi al merito della questione, io ti dico: che se, nella presente condizione delle cose, e posciachè noi avemmo quattrocento delle nostre navi calate a fondo, tu ne distaccherai altre trecento dall’armata per mandarle nelle acque della Laconia; ci troveremo d’ora innanzi a fronte di un nemico di forze eguali. Quando invece, conservandosi intero il nostro navigUo, riusciran sempre vanì contro esso tutti gli sforzi possibili degli avversari, e il loro smacco è sicuro. Oltredichè le forze navali e le terrestri, procedendo di conserva, possono darsi un reciproco aiuto. Ma se le scindiamo, né tu sarai piìi di nissun utile a quelle, né quelle a te. Provveduto poi che tu abbia convenientemente alle cose proprie, così ti acconcia dell’animo da non darti più alcuna bripa dei fatti dei tuoi nemici, in guisa da non dover più domandare: Dove metteranno i nemici il campo; che cosa faranno; quanti mai sono? Si può viver certi d’ altronde che essi sanno procurare benissimo le cose loro, nello stesso modo che noi sappiamo procurare le nostre. Che se poi i Lacedemoni si disporranno a venire novamente incontro ai Persiani, non sarà piiì a una sola disfatta che avranno da rimediare.
237. Serse allora rispose: Farmi in verità, o Achemene, che tu ragioni dirittamente, e mi atterrò al tuo consiglio. Ma anche Demarato dice quello che dice colla espressa intenzione di giovarmi, quantunque il tuo discorso sia intrinsecamente migliore del suo. Imperocché
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9 io non posso ammettere che egli pure non desideri in CDore il buon successo della mia causa. E in questa opinione mi confermano le antecedenti sue ammonizioni, e la ragione intima delle cose. Imperocché il cittadioo porta per lo pili invidia alla felicità dell’altro cittadino, e suole tuergìi tacitamente infesto. Chi poi è richiesto da un 800 paesano di consiglio, difEcilmeote s’indutfe a dargli U migliore, se già esso non è pervenuto ad un grado eminente di virtìi. Fra ospite e ospite, invece, le cose passano molto diversamente: uno gode sempre delle felicità dell’altro, e Io scambio dei buoni consigli non manca mai fra di loro. Onde io interdico assolutamente a chicchessia di usar maldicenza contro il mio ospite Demarato.
238. Dette che ebbe Serse queste parole, incominciò a passare in mezzo ai cadaveri dei nemici. E fermatosi sopra Leonida; quando seppe che quegli era il re e il duce supremo dei Lacedemoni, comandò che gli mozzassero il capo e lo affiggessero in croce. Il qual fatto, oltre a molti altri, massimamente mi prova; che dovette essere straordinaria l’ira concepita da Serse contro Leonida vivo: né sarebbe in altro modo spiegabile tanto accanimento mostrato contro il suo corpo. Imperocché io non conosco altri uomini più dei Persiani rispettosi alla memoria dei prodi. Nel rimanente, gli esecutori degli ordini regi fecero come fu lor comandato.
239. Ma qui io voglio rifarmi un po’ addietro per dar compimento a una narrazione che lasciai in tronco. Dico «ra pertanto, come i Lacedemoni furono eflfettivamente i primi ad essere informati dei disegni di Serse contro la Grecia; e che ebbero questa notizia in un modo mera - 150 —
viglioso. Donde appresso seguì l’invio della loro ambasciata all’oracolo del6co, il quale dette loro quel responso che abbiamo più su riferito. Siccome poi io credo (e la ragion delle cose avvalora la mia opinione) che Demarato. figlio di Aristone, esulando fra Medi, abbia mantenuto sempre animo grosso contro i Lacedemoni; sussisterà conseguentemente il dubbio, se per vera benevolenza verso la patria, o non piuttosto a dileggio, s’inducesse a fare quello che son per dire. Ma, comunque si spieghi la cosa, il fatto è: che Demarato, il quale trovavasi a Susa, non appena ebbe contezza dei disegni bellicosi di Serse, volle comunicarli subito ai Lacedemoni. E non occorrendogli ali’ mente altra via di possibile trasmissione, la quale non io mettesse in pericolo di essere interrotto e sorpreso, ricorse al seguente ingegno. Presa, cioè, una tavoletta ripiegata da scrivere, e raschiatane via la cera, egli impresse sul legno quel che volea far sapere dei disegni del re: poi riversò daccapo altra cera sopra la sua scrittura, acciocché la tavoletta apparentemente nuda non potesse recare nessun sospetto nelle guardie stabilite lungo la via. Ma pervenuta che fu questa tavoletta « Sparta, i Lacedemoni non avrebbero saputo indovinar nulla senza la guida illuminata della figlia di Cleomene e moglie di Leonida, Gorgo. La quale, dopo aver fatta attenta considerazione di tutto, comandò che fosse raschiata la cera, dicendo: che, sotto la cera, avrebbero trovata scrittura. E avendola obbedita i suoi cittadini, trovarono infatti la scrittura e la lessero; e poi la mandarono in giro per tutta l’Eliade. Tale è almeno la narrazione più vulgata dì questi fatti. NOTE
N. 1. ol bi ’AXcudbm oStoi foav SeaoaXir)^ 3<i<ii\f^( (§ 6). Alevadi (stirpe regnatrice nei Tessali).
Grande e indubitata è l’importanza dei, cosi detti, Alevadi' nei destini e nel movimento storico della Tessaglia: ma non poca oscurità ed incertezza avvolge il vero carattere della loro dominazione, e le diverse attinenze che li legavano colle singole parti e coi singoli popoli tessalici. Che gli Alevadi derivassero da un antico e illustre progenitore, chiamato Aleva, strettamente congiunto con quegli Eraclidi, i Htu}\ colla forza dei Tersportl e dei Dorìesi cambiarono la faccia Ml’Efflonia (poi divenuta Tessaglia), mi pare certamente l’ipotesi piti Wi e più consentanea a tutto il filo tradizionale. Chiara e fermislÌBft poi è la leggenda, secondo cui gli Aievadi (cacciati e soggiogati i primi abitanti) Decaparono Larissa sul Peneo, impadronendosi di tatto il territorìo circostante e stabilendo ivi il seggio di una potenxa ha^ e famosa. Potenza esercitata dagli Aievadi (in modo, s’intende, ’i in misara diversa) non meno sugli antichi abitatori del suolo, ridotti in servitù, che sui liberi coloni cbe li avevano seguitati. Ma la 4oain&tìone esercitata da questi Atevadì sopra Larissa e le sue ^aprteseiue, dorrà considerarsi (domandano i critici) come una domiatiiooa monarchica o non piuttosto come una specie di oligarchia? n aolo &tto (secondo me) del designarsi costantemente nella tradizione eO«BÌca i dominatori di Larissa e del suo contado, sotto il nome genetale e collettivo dì Aievadi, mi pare già quasi a bastanza per risolTera la qaiatione.
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E sembra pure, che nella ricchezza territoriale consisteise per gli Alevadi una delle precipae e più yalide ragioni della comune supremazia. La quale comune «npremazia peraltro egregiamente si accorda con una forma monarchica primitiva, concretata e imperniata in un antico Alerà: poi nel volger del tempo allargataci e trasformatasi ia un governo di pochi privilegiali, secondo il processo quasi dovunque ripetuto e notato nei primi momenti del ciclo dorico. E che, invero, fra gli Alevadi di Larissa, un qualche primato e un certo grado di maggioranza durasse sempre nella famiglia propria, e nella linea diretta di un primo Aleva, mi pare che risulti evidente dal fatto di quell’altro Aleva che comparisce coi primi albori dei tempi storici; al quale si attribuisce ia divisione dell’intera Tessaglia io quattro scompartimohti, non già per farne uno Stato solo, ma una federazione di Stati, a scopo specialmente militare e per difesa comune del paese; costituendo poi se medesimo a cupo della lega tessalica colla dignità e col nome di tagos, ossia di tupremo duce. E quantunque non trovisi documento che provi l’ereditaria trasmissione di quella dignità e dì quel nome, il certo è però che ì successori diretti di Aleva ci vantai-ono sopra un’ostinatissima pretensione.
Ma ciò che importa massimamente, è il qualificare la vera natura del nesso federativo che, da una certa ora in avanti, legò le varie regioni della Tessaglia coi potenti domiuatoi’ì di Larissa. Il quale nesso formava evidentemente ua’allean^a dipendente, consimile alle tante altre allearne dipendenti che s’incontrano nella storia della Grecia; e che bisogna sempre e attentamente distinguere dalle alleanst libere e basate sul principio della eijuagliansa giuridica delle due parti. Imperocché queste alleante dipetidenli si risolvevano, iosomma, in una effettiva supremazia politica dì un popolo sopra un altro; supremazia esereitata certo nella pib mite possibile delle sue forme, ma senza che se ne potesse cambiare perciò la natura o se ne distruggessero le conseguenze. Donde poi veniva uu continuo impulso alla diffidenza o all’oppressione nei dominanti; all’emanceppazioae e alla riscossa nei dominati. Quale altro motivo, infatti, più chiaro, più ovvio, più naturale, può sommi nistrarci la critica per ispie^’ai’e la tresca degli Alevadi col re di Persia, se non atlribueudola al bisogno prepotente che essi sentivano di cercare un appoggio esterno contro quegli alleati Tessali che mordevano il freno, e che stavano forse per fuggire loro di mano, se un valido aiuto non soccorreva dì fuori? Per tenere fermi i soli sudditi di Larissa non avevano certamente gli Alevadi bisogno di Serae. E che negli alleati Tessali covassero realmente dei ti’isti umori contro il primato usurpatosi dagli Alevadi, e contro la loro bieca ed opprimente politica; spiando eglino attentamente la prima buona occasione per liberarseue; ce lo dice chiarissimo Erodoto nelle prime parole del Capo 172’ di questo Libro: I Tessati tutti guanti ti mostrarono pernecessità a principio inclinati alla causa medica. Ma — 153 —
poi l’accordo fu rotto; e la magi/ior parte di loro non seppe più aeeonciarsi alla politica e ai maneggi degli Alevadi. Talmcnteché, quando appresero che il re di Persia stava per passare in Europa, mandarono tosto anch’essi i loro messaggeri all’Istmo, dote contennero i deputati di tutte le comunità elleniche più devote alla tatua comune. Dalle quali parole risulta massimamente, at determinali e sì chiara, l’importaDtissima distinzione fra ì sudditi dì Larissa e gli altri Tessali, semplici alleati degli Alevadi, Alleati perù dipeadenti, sospettati, oppressati; e che quindi (secondo raccontaci il Noilro nel luogo surriferitoj alla prima occasione propizia vollero romp«fe il giogo; né altra occasione più propizia del Congresso ellenico (oll’Utmo certamente poteva darsi. Osacrvaremo poi, in ultimo, che se gli alleati Tessali ebbero, a un dato momento, il modo di praticare ana politica affatto opposta a quella dello Stato dominante, ciò fu tenia dubbio in grazia di quel tanto di indipendenza basata su ordini prt,pri, che i singoli popoli tessalici, anche a petto della supremazia di Laritsa e degli Alevadi, sempre avevano conservato.
-V. 2, <£TiXdaeti ■»àp ÙTiò ’lintdpxou toO TTeioioTpdTou 6 ’OvondKpiTo<; t- ’Aenv^uiv (§ 6).
Dappoiché questo Onomacrito era slato antecedentemente bandito da Atene per opera di Ipparco, figlio di Pisistrato.
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L’Onomacrito, di cui qui parla Erodoto, rappresentandocelo spedtlmeote nelle sue qualità fatidiche e auruspicali, è generalmente teoato per qu;,l medesimo Onomacrito che, insieme con altri tre poeti del tempo, aintò efficacemente Pisistrato nella grande opera di ricottitniione e di riordinamento dei poemi omerici. Piacendosi egli eziandio (come dicono) di innestarci in mezzo dei versi propri, nello stesso modo che si piaceva d’interpolare de’ vaticini propri fra i vaticini di
inseo. Siccome però fra la gita di Ouomacrito a Susa e la morte di latrato corse uno spazio di quarantadue anni, cioè dal 527 al 485 1. C., sorge naturale il dubbio, come mai ad un uomo che (vivente Pisistrato/ doveva essere ancor tanto giovane, potesse addossarsi verosimilmente un incarico di tanta importanza e di tanta mole, quale «ra la ricostituzione e il riordinamento dei poemi omerici. Per lo cbo alenili si risolvono per attribuire non al solo Pisistrato, ma anche ad Ipp’rco (col quale appunto vediamo dal passo erodoteo che Onomacrito ebbe moltissima iulnusìchezza); e ai Pisistratidi generalmente; quella de impresa letteraria, che i secoli ci tramandarono come congiunta nome del primo tiranno d’Atene.
E sì vuole anche che rOuotnacrito di cui parliamo, poela e magico iosieme, fosse un buon continuatore di Arìone nella coltivazione del Ditirambo, e nbbia preceduto Pindaro nel ritrovamento dei metri eolici; Imo accetto ed accarezzato, al pari di Simonide e dì Anacreonte, nella corte elegante e letterata dei Pisistratidi. 1
54N. 3. lii^i Tùp £lr|v tu Aapciou toO TaTdancoi;, toO ’ApadMe<K...^ TOO ’Axainévfo? TPfovilx; (§ 11).
Imperocché tran sarei più Dario, discendente cTlMtatpe, di Arsame, di Ariaramne, di Teiipe, di Ciro, di Cambile, di Teitpe, Achemene.
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In aegaito specialmente dalla famosa e importantissima scoperti dell’iscrizione Bisutuna, da una parte ebbe riprova e dall’altra eoa’ fotazione la genealogia di Daino, secondo il teato erodoteo 8urri/«rit«. Essendo in esso compiuto e cronologicamente esattissimo l’elenco degli ascendenti di Dario; ma confondendocisi la linea primogenita eoUi linea secondogenita degli Achemenidi per l’intromissione scorretta di Cambise e di Ciro; e ai accrasce anche maggiormente il garbuglio per la duplicazione del nome Teispe, notato nel primo luogo come uà figlio di Ciro, contro ogai tradizione e ogni documento conoscioto. Quando invece il vero è: che di Teispe non ce ne fu che uno solo, eiot il figlio di Achemene, primogenitore comune, insieme con Achema di Cambise, Ciro, CambiS’- (ramo primogenito); e ài Ariaramne,! lame, Istaspe, Dario (ramo secondogenito). Se poi gli errori cheì riscontrano nella genealogia di Dario, secondo Erodoto, debbano ascriversi proprio a lui o non piuttosto a equivoco d’amanuensi; seseM deve dare la colpa ad inesatto notizie, ovvero a documenti male inb e confusamente considerati, ò cosa impossibile il definirlo.
N. 4. napEòv fàp, nibiva móvov Xa^óvrac;, tòv IdOuòv rài; hmpiiaai. ... iXaOTpeun^va? (§ 24).
Perchè, potendosi con nessuna fatica trasportare le nnvi da parte dell’istmo (del monte Ato) all’altra, egli (Serse) tolle eiow dimeno scavarlo ed aprirlo al libero ingresso del nuore; faeeni di tal larghetta da potervi passare comodamente due triremt H fronte a sforso di remi.
Si è disputato, e si disputa ancora fra gli eruditi, intorno alla «■ tìUl della narrazione orodotea sullo scavamento dell’istmo del moni’ Ato, ordinato ed eseguito da Serse. Parendo ad alcuni che quanto, , recita io questo riguardo dal nostro Storico, sia chiai-amente e vitto’ riosamente annullato dal fatto, che il monte Ato rosta pur tempt’ congiunto mediante il suo istmo colla terraferma. La quale argomW’ tazione peraltro perderebbe molto del suo apparente valore, se il teop" e gli studi venissero a confermare lo osservazioni di quei modem’ viaggiatori, i quali, nell’istmo del monte Ato, hanno creduto di scor’ gere delle chiare vestigie di un vero e antichissimo scavamento.
N. b. Kol ixépou oÙK èXdooovo? f\ Maidvbpou noranoO, ti|, oùvoci
Tuifxdvci lòv, Kara{tpT\)cTr\(i ùnò AnóXXwvo^ ^icbap^vra àyaKpaiur
oOiVvai (§ 26). 1 -1
£ 55di un altro fiume minore (seaturiacono le sorgenti), chiamato I ^^tarratte; il quale ha il suo nascimento proprio nella piasxa di CtU^a, poi si riterta finalmente nel Meandro. Ed è in questa ’teua piana di Celena che cedesi sospesa la pelle di Marsia; il fileno scoiato per veftdetta di Apollo, come narrano i Frigi.
Del fiame Catarratle qui meozìonato da Erodoto, come acaturiente nella piazza di Celeoa, oon si trova traccia né riscontro altrove. Sempre piuttosto, e da tutti (compreso lo stesso Erodoto al Capo 1 Di’ del Libro V) detto fiume ò designato col nome di Marsia. Il quale Sume Harsia nasceva effettivamente entro una grotta ecavata nel pendio roccioso su cui ergevasi l’acropoli di Celena, e traversando precipitoso la città, sboccava poi nel Meandro. Ma da questa precipitosa cadala appunto del Marsia dall’alto al basso, vediamo subito come assai appropriatamente poteva dirsi ciie egli venisse giù a modo di cataratta. Perchè però Erodoto da una tale circostanza abbia preso il curioso arbitrio di cambiare il nome solito e riconosciuto di un fiume io un altro nome di sua fattura, non è cerio cosa di piana e facile ipiegazione. Talmentecbè qualche critico credette di dover ricorrere a certe aggiunte e variazioni del testo. Ma sono forse più nel vero coloro, i quali dicono che il nostro Storico, col suo Catarratte, non volle probabilmente fare altro che restituire al fiume Marsia la pib antica e originaria denominazione. Denomiuaziono che forse Erodoto credeva gli fosse stala in appresso cambiala nell’altra più nova e più recente di Marsia, come uu ricordo dello scoiato Sileno e della teniota vendetta di Apollo. 11 quale (secondo la leggenda riportata da Senofonte) appese la pelle di Marsia precisamente all’imboccatura di quella grotta che, come dicevamo pur dianzi, era scavata nel roccioso pendio su cui ergevasi l’acropoli di Celena.
N. C. il^^iaQoy Koi eùpov Xot»2!ó(ì€vo^, dpTopiou nèv bOo x,^i<i^<"^ ioùaa^, ioi ToXdvTWv imbeoOaa? iuta xi^iaS^uiv (§ 28).
A calcoli fatti trovai (io Pitio) che possedeva due mila talenti d’argento e quattrocento miriadi di statere doriche d’oro, meno settemila.
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Seeondo i diversi criteri adottati dagli eruditi nel raffrontare la moneta antica colla moderna, si scorge una qualche diversità nella lomma complessiva di ricchezza attribuila a Pitio dai vari commentatori, quando (nell’illustrare il passo erodoteo surriferito) ce la traducono in talleri, lire, tìorini, ecc. Ma in qualunque modo la si rsggnagli e valuti, essa risulta pur sempre una ricchezza enorme, incredibile, portentosa. Tale (si può ben dire) che dirimpetto a lei i facoltosi più celebri dell’antica Grecia si prenderebbero per pitocchi. E bisogna ripaniare proprio a Creso e alle sue magnificate dovizie, per avere un
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6 altro esempio che la paragoni. Senza dimenticare nemmanco che questo Pitio apparteneva anch’agli alla ricchissima Lidia; a quel paese prediletto dal cielo, dove il fiame Fattolo trasportava le pagliuzze auree tirate giii dallo Tmolo. Ma pare altresì stabilito dai dotti (salla fede massime di Plutarco) che la principale fonte della ricchezza di Pitio stesse nella coltivazione delle miniere, alla quale egli volle che i suoi servi, anche con pregiudizio dell’agricoltura, in ispecial modo si dedicassero. Ed è poi molto curioso e notevole ciò che da Plutarco e da Polieno sì narra intorno al modo usato dalla moglie di Pitio (in tempi anteriori alla narrazione di Erodoto) per guarirlo dall’insana e inestinguibile sete dell’oro. Che (quando egli se ne tornava a casa per desinare) invece di mettergli avanti delle cose mangiabili, la donna gli apprestava oro. Novelletta morale, probabilmente inventata da qualche sofista con evidente imitazione della famosa favola di Mids.
N. 7. ’AniKÓtievo? òé i<; Zapbi?, irpCÙTa mév àitéite|itr€ icripiica; é^rflv ’E\Xdòa, alTifi(JovTa(; Tnv Te koI iittwp k. t. X. {§ 32).
Spacciò (Serse) per prima cosa tuoi araldi per la Grecia, « quali dovevano richiedere l’offerta della terra e deWacqua.
L’offerta simbolica della terra e dell’acqua, menzionata nel passo surriferito; e molte volte ripetuta nella narrazione erodotea delle guerre persiane; merita, secondo me, di essere attentamente considerata pel fatto, che essa serve a determinare una forma propria e tutta speciale di soggezione fra gl’infÌDiti popoli che dovettero più o meno piegarsi e sottentrare. al giogo dei re di Persia. Imperocché la semplice offerta della terra e dell’acqua non importava evidentemente uè occupazione nemica, né tributo permanente di uomini e di danaro, né cambiamento di polizia; ma costituiva piuttosto come un vincolo morale di sudditanza, e una specie di alleanza dipendente con oneri determinati a misurati a seconda delle circostanze. Dalla Macedonia, dalla Grecia propria, dalle Cicladi, tanto Dario quanto Serse non pretesero veramente a princìpio altra soggezione da quella che portava seco l’offerta della terra e dell’acqua. Chi rispose si, chi rispose no, secondo la varietà del sito, degli umori, degl’interessi; ma principalmente secondo la maggiore o minor paura sentita dai sìngoli Slati ellenici del nome e della potenza persiana. E in conseguenza però della natura essenzialmente morale del vincolo basalo suU’ofTerla della terra e dell’acqua, ora l’alleanza si rafforzava, ora si rammolliva, o si strappava anche finalmente del tutto, secondo i casi. Lo Cicladi, per esempio, si affrettarono a sottomettersi a Dario, quando il suo navìglio, comandato da Dati e da Artaferne, le attraversava (dopo la sconfitta di Naaso) volgendo per Maratona. E si affrettarono ancora, da buoni alleati, a ingagliardire l’armata di Serae dopo le vittorie persiane delle Termopilo e di Artemisio.. Non appena peraltro mutò il giro della fortuna; e dopo
- e dopo 1
J le vittorie elleniche di Salamina, di Platea, di Micale; le stesse Cicladi diventarono subito uno dei membri più importanti della confederazione di Delo. Ma di ben altra natura appariva la forma di sudditanza stabilita dai Persiani, non solamente noi Greci asiatici, ma anche in quelle In le colonie elleniche, che oltre i confini macedonici si steodeTano per tutta la Tracia; e che furono, prima da Megabazo e poi da Mardooio, ridotte o confermale nella devozione di Dario. Imporeiocchè il litio d’Islieo, tramutato per suo desiderio dalla tirannia di Mileto a quella di Mircìoo sullo Strimone, basterebbe già da se solo (mi paraj a bene edificarci sulla questione; dimostrandoci chiaramente dte le colonie greche della Ti-acia, al pari di quelle dell’Asia Minore, ■ggiaoqoero col dominio pei-siano a una vera trasformazione politica ■adiaate l’intromissione di magistrati scelti e imposti dal vincitore, 0, come li chiamavano, di tiranni. La quale forma di sudditanza fu poi, probabilmente, sempre congiunta, come nella Ionia, coll’ìmposizione di no tributo fìsso e determinato. Ma lungo lo rive europee dell’Egeo, dell ’EUe«ponto, del Bosforo Tracio (senza parlare dell’isola ài Cipro) ci incontriamo anche in diverse stazioni greche occupate un tempo da milizie persiane e a capitani persiani conseguentemente soggette; laddove nello semplici tirannie, il tiranno stesso era sempre un greco. L’occapazione militare di Dorisco per parte dei Persiani rimonta, secondo Erodoto, fino ai tempi dell’impresa scitica di Dario. Quella di Gone sullo Strimone ò difficile a definirò se debba considerarsi piuttoito opera di Megabazo o di Mardonio, quando (l’uno prima e l’altro dopo, come commissari del re di Persia) corsero, guastarono, asBogettarono il paese tracio. Le occupazioni militari persiane, finalmente, di BiMnzio sul Bosforo e dì Sesto nel Chersoneso, se per un verso parrebbe che dovessero riappiccarsi a quella compressione sanguinosa t terribile onde fu soflbcato il generale solleTamento, che, incominciato nella Ionia l’anno 500 a. C, si dilatù irresistibile per tutti i doniÌBi ellenici del re di Persia, dai confini della Caria fino alle foci ddl’Utro; chi sa però che non appartengano più veramente ad un’epoca posteriore, connettendosi piuttosto colla ritirata di Serse e collo .gombero del suo esercito dall’Europa? Avendo voluto probabilmente i P«niani; nonostante il rovescio della foi-tuna; mantenere saldo il piede in alcuni punti forti dell’Ellespouto e del Bosforo di Tracia, sia per prevenire i pencoli di un possibile inseguimento di là dal mare, «Ì8 per conservare come un addentellalo colle perdute proviacie, e quasi come on segno di una non lontana riscossa. In quale maniera però ì Greci, vittoriosi, la finissero con queste ultime ^reliaie del dominio persiano in Europa, la stoi’ia ce lo dice con una liKidilà e una minutezza che non potrebboro desiderarsi maggiori.
N. 8. Q? b’éTtùOcTo =.iplr\(i òeivà noicùnevo? tòv ’EX\f\OTrovTQv 4 ’4 TÒv ’EXXiìcrnovTov (^ 35).
Il guai fatto, risaputo da Serse, erjU sene gravò indicibilmente, e comandò quindi che fossero amministrati all’Ellesponto trecento colpi di frusta, ecc.
Intorno a questa famosa bastonatura (lall’Ellesponto, non c’è concordia fra gli eruditi. Volendo alcuni attribuirne la voce niente altro che all’estro poetico degli Elleni, e alle finzioni tragiche di Escbiln rappresentate sul teatro d’Atene. Tutta roba (dicono) eccitata e fomeotata dalla vanagloria nazionale, la quale doveva trovarsi naturalmente aocarezzatissima da una favola, che raffigurava il re ri’nfo dulia Grecia come un uomo che non avrebbe voluto lasciarsi vincere neppure dalle forze prepotenti della natura, e presumevA di castigarle per vendicarsene. Ma se i Frammenti di Ctesia tacciono in realtà dei matti furori di Serse contro l’Ellesponto, non mancano neppure altre buone testimonianze degli antichi in riprova del racconto erodoteo. E alcuni commentatori credono alla sua verità, argomentandola principalmente dalla famosa e quasi incredibile superbia dei re di Persia, e dal procedere sempre gonfio e pomposo in tutta la successione degli Achemenidi. Rammentando molto a proposito, per esempio, la celebre spartizione del Gindc in trecentosessanta canali, ordinata da Ciro non per altro che per punire l’insolente fiume dell’affogato corsiere.
N. 9. ó hi kot’ V)it«ipov aTpaTÒ(; irpòi; i\{ù t£ koI i^iXtou àvaroXit^ t-noiéito Tiyv óòòv 6iù Tf)(; Xepoovrioou, iv òeEif) fiév fxwv Tàv "EXXll? Tdipov tf)? ’ATà^avTot; {§ 58).
Laddove par contro l’esercito di terra camminò primieramente per la via del Chersoneso, verso oriente, lasciandosi a detira il sepolcro di Ella figlia di Atarnante.
Il sepolcro di Ella trovavasi precisamente sulla riva orientale di | quella lingua di terra tracia onde si chiude lo strotto di mare die forma come l’uscita doU’Ellesponto nella Propontide. E fu proprio nel citato stretto di maro che Ella (secondo la favola) cadde e fu inghiottita dai Stitti, mentre che col suo fratello Frixo era portata per l’aria j dal caprone d’oro, mandato ad entrambi dalla madre Nefele (moglie di Atarnante, ro leggendario de’ Miniesi) per sottrarli al pericolo di essere immolati in un sacrifìcio espiatorio. Dulia quale caduta di Ella, venne poi a tutto il mare che riga il Chersonoso Tracio il nome notissimo di Ellesponto,
N. IO. irtpl hi TÒ où»na JcTxov) KieUiva;; xeipo&urroùi; itoikìXou;, Xuiibof oibtiPt’iH finnv Ix0uoe\beó<; (§61). i; il corpo iittolgevano (i Persiani ) trt certe testi fornite di \
^ maniche, e a molti colori, cui erano sovrapposti degli usberghi di ferro fatti a squama di pesce.
Non può negarsi che il testo greco di questo passo non presenti una certa difficoltà, per la confusione che esso ingenera fra la veste variopinta e l’usbergo ferrato e squamato dei Persiaui, come se l’una e l’altra cosa (e non s’intende poi in qual maniera) formassero un tutto solo. Contro la testimonianza dello stesso Erodoto, che al Capo 22° del Libro IX tanto chiaramente e nettamente distingue la veste dall’usbergo di Masistio; e contro quanto ci provano i monumenti scoperti dal Layard nelle scavazioni di Ninive, dove si veggono i combattenti colle corazze a squama di pesce, le quali corazze hanno tutta l’apparenza di essere sovrapposte a tuniche di pannolino. Ond’è che alcuni commentatori sospettarono di una interpolazione nel lesto, e proposero addirittura che dopo la parola hoikìXoui; si aggiungessero le altre parole koI 6d,piKa(; colla quale aggiunta tutto doventa sicuramente facile e piano. Ma per la naturale e ragionevole ripugnanza di ammettere delle varianti introdotte per semplice ipotesi, e non sostentate da nessuna edizione o da nessun codice conosciuto; c’è chi antepone di sciogliere il nodo, attribuendo alla parola KtOdiva, usata nel primo inciso del periodo, non già il significato più ovvio e generale di tunica o veste, ma quello più raro (non meno appropriato però nè mono certo, in alcuni casi) di usbergo. Di guisa che Erodoto, nel passo che ci trattiene, avrebbe voluto dire: che i Persiani portavano degli usberghi con maniche variegate, usberghi ferrati e fatti a squama di pesce. E Adolfo Schoell dal suo cauto presume di risolvere ogni difficoltà in un’altra maniera tutta sua propria. Egli, ciuè, intende e spiega Kt6ùiva<; per tunica o veste; e poi dice che queste vesti, queste tuniche persiane, erano (secondo Erodoto) dipinte da cima a fondo a imitazione di squame di pesce fatta di ferro. Coficcbè, nel jiasso citato (a giudizio dello Schoell) non ci entrano usberghi, non si parla di usberghi; gli usberghi non sarebbero che una ftutasia dei commentatori. Né lo commove la nettissima distinzione (atta altrove da Erodoto fra la veste e la cornila di Masistio, trattandosi là di descrivere l’abbigliamento e l’armadura di un capitano, ^ni dei gregari. Oltredichè lo Schoell non sa capacitarsi come i Perliaai indossassero delle corazze ferrate, mentre poi imbracciavano delle targhe di vimini. Ma nonostante tutte queste belle ragioni del dotto e acutissimo signor Schoell, il tirare (come fa lui) le formali parole Xettì&oi; oi6ripén(; al senso di una semplice imitazione pittorica, mi parve un’arditezza ingiustificabile. Onde ho prescelto di attenermi, nel volgere il passo, alla interpretazione più conforme al confronto dei luoghi analoghi e alla riprova dei monumenti.
N. 11. intl iti TTepaeùc; ó Aavdr); re Kal A\bc, à^nUtTo ’ro.^^ V.’tv^a -tùv B^Xou... ini TovTou òé Ti)v £iraivu|ni»iv loxov ( 61). Ma posciachè Perseo, prole di Danae e di Giove, pervenne fino a Cefeo figlio di Belo, e si unì in matrimonio con Andromeda, figliola di lui; gli nacque un fanciullo, cui impose il nome di Perse, e là lo lasciò mosso dal caso che Cefeo non aveva figlioli maschi. Di qui l’origine della nuova denominazione.
Eschilo (nei Persiani) fa discendere lo stesso Serse in dritta linea da Perseo; e forse Erodoto ha voluto dire la stessa cosa, quando al Capo 125° del I Libro ricongiunge gli Achemenidi alla stirpe più antica e nobilissima dei Pasargadi. Convengo poi anch’io di buon grado nell’opinione, che abbia qui Erodoto studiosamente notato il passaggio di Perseo da Argo ellenica nei Cefeni asiatici, con tutti gli eventi che ne seguirono, al fine principalissimo di segnalare il curioso fatto di due famiglie regnanti che, durante la guerra persiana della Grecia, cosi fieramente l’una contro l'altra combatterono, mentre scorreva in entrambe lo stesso sangue. Perchè se Dario e Serse (secondo la tradizione ellenica) derivavano originariamente da Perseo; dallo stesso eroe dovevano procedere i Leonida, i Pausania, i Leotichidi della casa regnante di Sparta, fondata da due Eraclidi. Essendo cosa notissima che gli Eraclidi leggendariamente venivano dall’antico Danao, progenitore di Perseo, per la linea diretta di Linceo, di Abante, di Acrisio, a finalmente di Danae fecondata da Giove.
N. 12 àaTiIba(; H utt^oPoTva; ttxov OfiiKpà;... ■’Ap€Ói; iari
Xpr)OT^piov (§ 76).
I Ckilibi usavano piccole targhe fatte di pelle bovina E
mei20 a questo popolo risiede un oracolo di Marte.
%
In tutti i codici erodotei esiste evidentemente una lacuna al principio di questo Capo. Imperocché tutto l’abbìgliameoto e il corredo militare descritto nel Capo stosso, non può più al certo attribuirsi ai Traci del Capo antecedente; il cui abbigliamento, il cui corredo ^^_ militare, fu appunto, nel Capo antecedente, già descritto dall’autore
^^B in modo differentissimo. Ollredichè, Erodoto chiudo costantemente, come
^^1 vediamo, ciascuna di queste sue descrizioni col nome del capitano
^^1 deputato a guidare le singole nazioni che egli ci enumera: ma chi
^^1 fosse il capitano dei Traci, già ce lo ha detto. Non resta, dunque, ss
^^B non cercare il miglior mezzo di colmare la lamentata lacuna, e
^^voM dere quale sia il nome più probabile di popolo asiatico da sostituirvi.
^^P Ma tutti oramai son d’accordo nell’ approvare e noi seguire la
^^conH gettura del AVesseling, il quale credette, per più ragioni, che il nome
^^p. da surrogarsi al vóto dol testo fosse decisamente quello dei Calibi.
^^B Perchè i Calibi confinavano proprio culle nazioni, immediatamente
P sopra e immediatamente sotto, enumerate e descritte: perchè i Calibi
I abitavano un paese molto ricco di ferro, e che avea però grandissima
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1 coDT«DÌ6Dta col genere di armadura attribuita da Erodoto al popolo iDDominato: perch", fìnalmeate, nel paese del Calibi, esisteva infatti DO oncolo di Marte, e colla menzione di un oracolo di Marte termiaa ippunto il Capo 76» della Pulinnia.
N. 13. iti^ ^’aOTlJU? Kdaireipoi koI TTapixdvioi éocodxaxo ó.uoiiU(; koI <v Tii mZùi (ti 8C). N, aecadtca divgrsamente il fatto nei Cospiri, ecc.
Fa per congettura del Reiz obo veuno primieramente sostituito qui KóowEipot a KdoTnoi; cene si legge in tutti i codici e in tutte le edirioni antecedenti; al flue di tOrre di me^zo collo variante l’incomoda t itrana ripetizione della gente Caspia in questo elenco dei cavalieri ujatici. Ripetizione veramente inesplicabile, se non si attribuisca alla mente distratta dell’autore o ad un equivoco di amanuensi. Nò giova ,1 dir» che una ripetizione dello stesso genere si riscontra anche in quello elenco di popoli, che forma come la base del celebre ordinainenln dei tributi stabilito da Dario. Perchè, se anche in quell’elenco ’ Caspi sono nominati due volte, la cosa è però presto e facilmente piegabile, col semplice presupposto che essi costituissero, non un nk) circolo gabellarlo, ma due. La presenta Nota ciononostante non wel)be assoluta, se non aggiungessimo: che anche la tariantt; profusi» dal Reiz urta per verità contro un’obbiezione gravissima. E, tio’. che i Cospiri non appariscono punto nell’elenco fatto in antecedenza da Erodoto, della fanteria persiana, contrariamente al caso lìn Medi, dei Gissi, degl’Indi, dei Battrl, e di tutti i popoli, in una («roU, descritti in questo Capo 8(3°, come quelli che somministravano uvaUtrìa all’esercito del re di Persia.
S. 14. ’IUW&; bi, 6oov jiiv xpóvov tv TTeXonovvnoui oIkeov t^v vOv «nltoM^v ’Axaiir|v... ^Tti 6t ’lu)vo(; ToO HoOtou, ’Iu)v€i;(§ 94).
/ Juali Ioni, per tanto tempo, quanto rimasero in quella regione ili Peloponneso, che ara appellasi Acaia (itmiinzi all’actaniniento ^rì Peloponneso stesso di Danuo e di Xuto), ebbero, per affermaliont dei Greci, il nome di Pelasghi Egialei. Ma in progresso di lempt, e in grazia di Ione figlio di Xulo, essi si trasformarono W lotii.
Sirebbe forse difficile trovare altro testo dell’antichità, dove pib cWrtmente che in questo si afTormi e si stabilisca il punto interesMtiMimo della unità primigenia fra i Pelasghi e gli Elleni. I quali ^leai; che fino dai tempi della loro antica dimora nella Grecia centrale (e chiusi fra l’Asopo e l’Enipeo), dovettero aggiungere, secondo <S<ti varcisimiglianza, un grado non piccolo di privilegio e di magporiDza sopra i vicini; nella maturità poi dei tempi, e con lars^ hisKi’.n, /«ori» Erodoto, III. \\ - 162
-sime migi’azionì, ai cosi detti Pelasghi o Autoctoni pi-ogressivamente si sovrapposero, non già colle ragioui e i modi della conquista, ma piuttusto colla prevaleozB naturale del geaio e colla virtù irresistibile di UQ (lopolo più civile. I Pelasghi (ci narra Erodoto nel passo « urriferìLo} occupavano fìuo ab antico la regione ci/iatea, doventata poi aratea, del Peloponneso. Ci entrano un giorno gli Elleni della generazione di Xulo e di Ione. E che coiia fanno? Non uccidono già, né soggiogano, né bandiscono 1 primi abitatori del suolo; ma gli oscurano A un tratto si fattameote da dìspeiderne perfino il nome, ■■surDgandovi il proprio. Non è insomma un’opera di violenza e di distruzione la turo verso i primitivi Pelasglii, come sarebl,e accaduto con un pnpolo forestiero e nemico; al veramente di civile progresso, dì benefica trasformazione. E mostra che stesse veramente assai a cuore al nostro Storico di radicai’e bene neirsnimo dei suoi lettori questo carattere s|,ecialissimo del passaggio dall’era pelasgica all’ ellenica, nelle varie regioni della Grecia; al vedere come egli si esprime, anche nel Capo immediatamente seguente, intorno alla trasformazione l’ont’a dello Cicladi, e all’oscuramento progressivo del nome pelasgico dirimpetto alla luco crescente deWeolicismo.
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N. 15. Tpir|KÓvT6poi 6è Kol TtevTriKÓvTepoi, Kal KépKoupoi, koI iintoToiTÒ nXoìa dniKpà ouvcXGóvxa è(; tòv àpi9,»òv éqjóvt) TpiaxiXio i§ 971.
Alle tjià memionate triremi poi si ai/giuni/eva un conserto di navi minori, quali a trenta remi, quali a cinquanta remi; oltrt a un certo numero di srialuppe e di barche lunr/he per il trasporto dei ratalli: le quali tutte insieme sommavano credibilmente a tremila.
Erodoto ha voluto qui accuratamente e specificatamente distìnguere le diverse specie di legni destinati ai trasporti e alle altre bisogne dell’armata dalle vere e proprio navi da guerra, le quali col nome di triremi, unicamente e costantemente sì designavano. E le triremi possiamo rappresentarcelo come un pi^nterontoro triplicato, cioè, costrutte con tre ordini di banchi orizzontalmente disposti, e forniti di ci»iy«a)Wa remigatori per ogni banco; EsndVinjM’ por parte. I quali sommavano per conseguenza in tutto a rentofinquanla; setlantarinquc per parte.
Dicendoci poi Erodoto, nel luogo citato, che le navi minori dell’ armata persiana aggiungevano il numero di tremila; se le sommeremo insieme colle 1207 navi da guerra, ossia, colle 1207 triremi menzionate al Capo 89’, dovremo conchiudere che le forze marittime del re di Persia constavano, dunque, di 4207 legni.
N. 16. ’Aprcmoiiii; i,t-, Tf\(i ndXKJxa Siùna iroitOnai M rf)v ’£\\àha aTpaT£uoon^vr|i;, TuvaiKÓ;.... Qùòemni; io\)<jr\i oi dvaTKaini; l§ 99). -1
63Lt quale (Artemisia), m verità stupisco che, nella sua qualità di iùnna, ahhia voluto andare in persona a combattere contro i Grfi. Ma il fatto é che, dopo morto il marito, ella occupò la tiratiHide, avendo assicurala la successione in un figlio già adoleKsnti; € non da altro mossa che da una eotal sua naturale altentia.e datili spiriti virili che l’animavano, non dubitò di set/uire, ia nissuna necessità costretta, ma di suo proprio impulso, Varcata persiana.
Oli laogo citato risulto in modo irrefragabile che fra le tirannir «tibilite dai Persiani nelle colonie greche dell’Asia Minore, non tutte furono semplicemente personali, ma ce ne ebbero anche delle dinatticht. Artemisia regnava su Alicarnasso e altri punti circostanti, perchè era morto il marito: Artemisia regnava, avendo la successione inieorata in un figlio già adolescente. E con queste parole precisaniMit’: avendo la successione assicurata in un figlio i/ià adoleK«i««, io credetti di dover tradurre l’inciso erodoteo: Kal Tiaftò^ ùirdpXOVTo^ veiivicuj: perchè da una parte la particella congiuntiva preoecsa qui dall’autore, impedisce, secoudo me, di poter interpretare (Come tanno alcuni ) il grado occupato da Artemisia in Alicarnasso carne una specie di reggenza esercitata quale tutrice di un figlio ininorenne; e perchè d’altro cauto una traslazione letterale del testo, come quella, per esempio, che fa lo Schoell: iinrf au’h schon ein::-» Sohn im Julinr/s Alter hatta, non mi soddisfa del tutto, parendomi cli«, per l’intelligenza del lettore moderno, ci voglia una qualche aggiunti che renda più esattamente l’intera idea.
N. 17. XdTpai 6è oùbcvó^ xw dv8piljTtu)v ùirfiKooi ìt^vovto..’. moùvoi
epntwuv (§ HI).
/ Satrt però non caddero mai, che io sappia, in soygesione nlirMi; e soli fra tulli i Traci si mantennero liberi fino ai dì nostri.
Secondo il Gatterer, questi Satrl ai sarebbero stesi a settentrione ’^11 Edoni, per tutto il monte Parigeo fino al Nesto, e avrebbero U)ttito anche le vette del Rodope e dell’Emo. Risulta poi chiaramente dal luogo sopraccitato, come i diversi popoli della Tracia (ad occoxione ài gasili che trovavano schermo e riparo nelle alture dei monti), anche dopu la loro liberazione dal giogo persiano, non rimasero però padroni di W medesimi; ma caddero presto da una specie di servitù in un’altra, Ù ptr opera delle numerosissime colonie greche piantate sui lidi tnei, sia per effetto del continuo allargamento e delle moltiplicate ODBqaitte della Macedonia.
N. 18. napaMeiMidM(vo<; hi 6 E^pSn? Tf\v clprmévriv, beiiTcpa Tooxéujv iwpouciptTo Tcixca Tà TTUpujv (§ 112). — 164
Percorsa poi che ebbe Serse la regione da me finora deseritla, passò in seguito in mesto ai due fortilizi dei Pieri.
Si badi bene che qui si parla della Nuova Pieria, che bisogna attentamente distinguere d&WAntica Pieria. Conciossiaché la primitiva sede dei Pieri fosse a settentrione della Tessaglia; e precisamente fra l’Olimpo, il corso dell’Aliacmone e il mare. Donde essendo itati essi cacciati, quando ì Macedoni protrassero i loro confini da quella parte, ripararono appunto là dove li trovò Serse, nella sua marcia, cioè, presso al paese degli Edoni, tra il monte Pangeo e il mar di Tracia. E, secondo ogni probabilità, i fortilizi di cui parla Erodoto, nel presente racconto, li costrussero i Pieri per assicurarsi da che nuovo assalta dei re macedoni.
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N. 19. 6^p^r| hi Tf,, iv TU) GcpMaiuj KÒXnui olKr||Li^vi), ÒTr’rii; xal 6 k^Xttoi; oOtoc; ti?)v iirujvu^iiriv? x£i (§ ’21).
A quella T^rma che ijiare sul golfo Termeo, il quale prendi appunto da essa il suo nome.
La città di Terma ( la quale ebbe una parte cosi notevole nella storia della spedizione di Serse} giaceva sulla spiaggia occidentale della penisola Calcìdica: e il golfo Termeo, in cui era chiusa, faceva precieu riscontro col golfo Strimonìco dall’altra parte. Nell’etA di Serse, Terma apparteneva già alla dizione macedonica: e in appresso poi cambiò il suo ontìco nome in quello doUa moglie dell’impei-atore Cassandro, cioè, in Tessalonica. Modernamente, infine, il luogo dova sorse Terma e Tessalonica, si chiamò, e chiamasi tuttavìa, Salonicchi.,
N. 20. 6(; CAEiò?) oCipiZIei X^prfn Tif)v Mut6ov£»iv te koI BoTTiailba, Ti^? fxouai TÒ itapà eàXoaaav oxfivòv xujp’ov iróXui; ’Ixvoi t€ koI. mUa (§ 123).
... il quale (fiume. \xio) separa la Migdonia dalla Bottiea. E là dove questa contrada più si restringe nella direzione del marij incontrano le. due città d’Iena e di Pella.
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La Migdonia e la Bottiea, qui menzionate da Erodoto, non potevano più avere certamente, ai tera()i di Erodoto, altro senso e valore’ che dì semplici espressioni geografiche, essendo già entrambe da uu pezzo politicamente scomparse; essendo già entrambe da un pezzo politicament« comprese nel nomo generale di Macedonia. A tal segno che ni) la Bottiea era più abitata dai suoi Bottiei, né la Migdonia dai suoi Rdoni. Ma i primi (quantunque di razza ellenica) erano stati cacciati dagli Argivi, tramutati in Macedoni, dall’antica dimora fra il Lidia e rAxìo, e respinti giù fiao a Olinto sul confine settentrionale della Pallene. 1 secondi dovettero cedere anch’essi alla prepotenza
mace -
lesionici, quando i terribili invasori (varcato l’Axio! ruppero anche i
coofioi della Mìgdonia; e andarono però in cerca di nuove sedi sulle
rÌT6 dello Strimone e appiedi del monte Pangeo.
Uremo, infine, a complemento di questa Nota: come le due città, Iena Pclla; giacenti (dice Erodoto) là dove l’antica Bottiea si string»M verso il mare, fra la foce dell’Axio da una parte e la foce creata dilli confluenza del Lidia e dell’Alìacnione dall’altra; furono due città celebrate, la prima per il suo tempio d’Apollo, e la seconda per eswre doventata, nel progresso del tempo, la metropoli e la ròcca dei re Vtcedoni.
N. 21. i-nopi\)iTO hi (z.tfiir\c,) 6ià tf\c, TTaioviKns xal KptiaTwviKii<; r, T. X. i§ 184). E passando Serse per la regione Peonica e la Crestonica, ecc.
È reramente difficile a intendere perchè Serse scegliesse una via coti Innga e difficile per raggiungere la mHa della sua marcia, mentre le aveva innanzi un’altra tanto più naturale, tanto più agevole, tanto più corta. Bastava, infatti, che da Acanto egli traversasse la penisola di Calcide, e rimontasse la Crossoa, per trovarsi facilmente e brevemente alla prefissa m^ta di Terma. E invece che cosa fa? Girando «no stretto angolo al di sopra del lago Bolbe, attraversa tutta la Migdooia per quindi entrare nella Crestonia, posta a settentrione di <)aella e stondentesi fino al monte Cercine. Ma, giunto Serse a un certo punto della Crestonìa, dovette ripiegarsi a sud-ovest, percorrendo quella stretta linea che i Peoni (da non confondersi qui con <)aegli altri Peoni dello Strimone). occupavano lungo il corso dell’Axio in lopra alla città di Pella; per quindi volgere, dall’Axio inferioi’e, tovaoiente a sud-est verso la Migdonia, e raggiungere, finalmente, dopo tatto questo enorme giro, la mèta di Terma.
Volendosi trovare contultociò una qualche ragione ad un fatto cosi (trtDo, cosi inesplicabile, qualche commentatore dice che Erodoto, mUi citata narrazione della marcia di Serse da Acanto a Terma, non hi Tolnto fare altro che descrivere il grande arco segnato da una delle ali estreme dell’esercito persiano.
N. 22. Aplàyiivoi (ó orparò?) aitò Bip\ir\<; nóXio^ koI Tfì(; MuY^ov(^i;^ Vitpi Aub(«(l) T« noTOMoO koI ’AXidKHovo<;, o’i oiipiZouoi TÓv tiV ^BotliJa T€ Kol MaKtbovlba, ii; tiùutò ^^eOpov tò ùboip oumui(JTOVT«q
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t cui allofigiamenti (dell’esercito persiano) si distendevano lum/o ’a eoila del mare dnlla ritta di Terma e dal territorio iniijdonico Ano ai fiumi, detti, Lidia 4 Aliacmom, i quali confondendo a un ^«to punto le loro acque in un solo corso, separano la Bottiea ialla Macedonia. U Lidia e VAUacmone, confluenti e sboccanti insieme nel golfo Termeo, formavano effettivamente, ai tempi di Erodoto, come un teiiniae naluiale di divisione fra la Macedonia orientale ed occidentale. Talmentecbè il chiamare senz’altro e assolutamente, Macfdonia, la regione posta a destra del corso combinato dei detti fiumi, e Bollica la regione posta a sinistra, come fa Erodoto nel luogo che inlerpetriamo; non può spiegarsi altrimenti che come un effetto di reminiscenze storiche, e come un uso di semplici espressioni geografiche non più accor(lantÌ9Ì colla trasformazione politica del paese. Vuole, infatti, la tradizione più certa ed accreditata, che i coloni Argivi, guidati dai Temeoidi, primieramente posassero in quello stretto angolo che si forma, sulla deatra del Lidia, verso la sua confluenza coU’.Mìacmone. Là dove quei famosi culoni avrebbero poi cambiato l’antico nome in quello di Macedoni; e come Macedoni, si sarebbero primieramente allargati sulla destra del Lidia, conquistando a poco a poco i punti principali e i diversi popoli dell’^inatia, vale a dire, Edessa, Berea, la Lincestia, (a Orestia, la Etimia. Di maniera che la regione ematica, alla destra del Lidia, sarebbe stata effettivamente la prima a subire il giogo macedonico, e a trasformare l’antico nome in quello di Afacedonia. Ma la potente e prepotente dinastia dei Temenidi aveva, già prima delle guerre persiane, non solamente varcato il Lidia, e conquistata perù la Bollica; ma distendeva eziandio il suo dominio sulla Fioria, sulla Migdooia, aull» Calcide. E poco dopo la ritirata di Serse, mise anche la mano sulla Crestonia e la Bisalti^. protendendosi cosi fino alle i-ìve dello SCrìmone. ^H
N. 23. £épE»i<; bè óp^uiv Ik tt^ Q^PMI’; oOpea xà GeooaXiKà
6èit£u^r|oe TiXiiicFai; eeiicJaoeai rf\v Ik^o\ì\v toù TTiiveioO 6ti ti’Iv dviu ó&òv... dacpaXéOTOTov énuvedvero etvai f§ 128).
Serse poi, che dalla sua stanza di Terma vedeva in prospetto i
due altissimi monti tessaliri dell’Ossa e dell’Olimpo desideri) di
andare a- vedere per mare lo sbocco del Peneo. Imperocché egli era; fid sul punto di yuidare l’esercito p’r la via interna, liruro viaygio non ti trovasse.
Due erano effettivamente le strade che aprivano il passaggio d«lla Macedonia in Tessaglia. L’una che sboccava dall’Olimpo nella spiaggia Pierica, e s’introduceva poi nella vailo di Tempe oltrepassando la foce del Peneo; l’altra più occidentale (e da Erodoto chiamata qui superiore), che dall’interno della Macedonia (dalla Elimia) seguitava i monti Cambunici, e metteva finalmente in Perrebia. Ma se la prima di dette strade sarebbe riuscita effettivamente ai Persiani più comoda e più breve della seconda, non era per6 praticabile da un esercito: figuriamoci poi, da un esercito come quello di Serse. Dappoiché la via tagliata nella roccia fra il corso del Peneo e le pendici dell’Olimpo.
""" v/li".W. — 16
7 nella, coit detta, volle di Tempo, era talmente aogusta che due carri ili front’ non ci paiiavauo. Serae nuUadimeuo volle verificare cogli mtii propri {come ci uarra Erodoto) lo stato delle cose: ma quando III bua risoluto che l’unico passaggio elTetttiabile era per la via supcriora, ordinò subito la marcia dell’esercito da quella parte. Collo iettato di farlo sboccare iu Peri-ebia, e precisamente a Gonno, l’ antic’ lede dei Perrebt, posta verso l’imboccatura interna della valle di Tenpe.
!f. 24. Tùiv hi bóvTujv TaOra {ffff re nai Oiaip) éTrévovTo otte, 9« <JJoAol, AóXoncc;, ’Evinve(;... nXi^v Oeoméujv re KalTTXoTai^ujv (§ 132).
E i popoli che si pitijarono aWingiunjione di Serse ( rispetto illt offerta della terra e dell’acqua) furono questi: i Tessati, i
’»Dopi, r/li Eniani, , Perrebi ad ecce:iont di quei di Tespi e di
fkita.
In questa enumerazione di popoli, Erodoto non segue evidentemente Mmuta traccia e ordine geografico; ma li rimescola tutti insieme, nottndoli uno dopo l’altro come gli occorrevano alla memoria. Il fuw ■opraccitato poi dà luogo, secondo me, ad un’altra coasideralione di rilievo. Potciadié invero i Tessali, di cui si parla, non possano interpretarsi ,ffmat« specialmente del Capo 172’ di questo medesimo Libro) per i Nili lodditi degli Alevadi, ma debbansi piuttosto prendere per tutti i nembri delPunione tessalica; quando poi, nella enumerazione dei potifJi che fecero a Serse l’offerta della terra e dell’acqua, questi "Tesilt chiaramente e nettamente distìnguonsi dai Perrebi e dai Magneti; , ijiulj SODO introdotti a operare come genti costituite a parte e di xu rt^ione; chi non vede che ne va tutta sossopra la tradizione (voltre, secondo cui anche i PeUsghi della Perrebia e gli Eoli dellu Ibgoetia sarebbero stati involti nelle conquiste compiute nell’antica Eoiooja da Tessalo e dai Tcsprotì?
Onde bisognerebbe piuttosto concludere che, al pari dei Dolupi, al pari d«gli Achei Ftiotici, anche i Perrebi e i Magneti abbiano saputo .flèttasi mente conservare e difendere contro i Tessali il loro antico fnen; i loro antichi ordini; l’indipendenza, in una parola, lì che noti fKera certamente i Pelasghi di Larissa; non fecero i Mirmidoni; non ’wero gli Eoli di Arneo, oè gli altri Eoli che si steadovano un tempo luogo il golfo Pegaaico. E di nessuno infatti di questi popoli, sbanileggiali dall’Emonia o ridotti in piena servitù dai conquistatori, {comKRsce il nomo accanto al nome dei Tessati nell’elenco sovrallegato. Aggiungerò, finalmente, che i Locresi, rammentali essi puro nel detto tienco dal Nostro, dovettero essei-e di certo quelli che avevano l’ agpasto di Opumi, e non quegli altri che avevano l’aggiunto di Oioli; < che i menzionati Malt (dimoranti sul punto più occidentale del golfu Maliaco), e i menzionati Eniani, erano due piccoli popoli dimonati in quella regione che formava come una linea divisoria fra il settentrione e il centro della Grecia, e restava chiusa fra la catena dell’Otri ed i monti Elei.
N. 25. "Oaoi Tip TT^pori (boaàv a<pia^ aìiroù?... toutoik ft«oT€Ci,« TU) iw A€\(poiai 6€t|; (§ 132j.
Qualunque popolo ellenico si sarà sottomesso al n di Pirùt senta necessità. . . terrà yabellato nel decimo dei propri averi i» favore del Nume delfico.
Non c’è concordia nei chiosatori intorno al vero senso da attribuirti a quel toùtdui; fteKareOooi del luogo surriferito. Dappoiché alcani ini fondamento che, fino dai più remoti tempi, solevano i Greci dedictn all’oracolo di Delfo il decimo dei vinti nemici, acciocché in quilit di servi della globa coltivassero il terreno sacro ad Apollo; huof creduto che anche qui si ragioni di una decimazione di uomini» 110° di altro. Ma quelli che rosi opinano non hanuo forse abbastanza QUsidorato come, nel caso nostro, non si tratti già di nemici da opprimere e manomettere, ma di nazionali infedeli da castigare. E con» castigo di nazionali infedeli (’rimesso probabilmente al giudiiio d’i Consiglio anfiziouico), mi pai-e che una decimazione di averi ti» (», molto pili proporzionata e credibile che aaa. decimasione di ptmM. In questo modo infatti la intese il Valkenar, quando tradusse: in solvendam Deo delphico decimam adigere; in questo modo la interse il Boeck, quando tedescamente voltava: ihre Grundstücke zinspflichtig zu machen.
N. 26. 8<; ("Avi^piOToO tlU ’AXiéa? toù; ìk Tlpuveo? (§ 137). Quello slesso (Anerislo) che rivscl a predar» i poveri Aliei, O’ Ioni di Tirinto.
Non fu sempre scritto, né conseguentemente interpretato seapf cosi questo luogo. Ma nella stessa edizione del Wesseling, primo pi^ pugnalo^ della variante, si legge tuttavia, come in tutti i codiò < in tutte le stampe antecedenti, à\iéa<i toù? « TipuvBo^, che ars 5»’ ueralmsnte inteso e ti’adolto per pescatori di Tirinto, Ma il V’’ seling (come già dicevo) pel primo, appoggiato alla fede di StefU" Bizantino; il quale riporta in proposito un passo di Eforo; mise iW^ e sostenne l’opinione che non già à\i^a<, ma ’AXi^a; debba leggtr’’ nel luogo citato; e che però la detta parola non piii per peicaW’’’ mn per Aliei, ossia abitanti della città di Aliea, debba essere inttrpri-tata. Dappoiché questa A itea (che verrebbe come a dire città fscatoria), sappiamo che fu effettivamente piantata là sulla striKÌ’ driopica, alla punta meridionale dell’Argolide, in prossimità di Eione, — 169 —
« piantataci da coIodì Tiriotl eauli dalla patHa. Allorquando, sulla qurta Olimpiade dopo la spedizione dì Serse, Tirinto, che aveva gii\ .cquiitato uo tal grado d’indipendenza da comparire come uno dei BMOibrì della Dieta istmica, ricevette un novo e cosi terribile Ballilo dalla metropoli argiva, da esserne come distrutta. E la variante propoata dal Weaseliag fu poi generalmente adotUta, perchè, oltre alle altre ragioni che la sulTragano, essa conferisce Ucbe dimolto alla verosimiglianza della narrazione. Tuntumne apftralum (osserva benissimo il Hoeck) factum esse, ut piscatortn Tifynthii eapcrentur, homines ex plebe ac nuUius in republica nctoritatist
N. 27. toOto h^v vuv noXXoiai fieoi dOTCpov ér^veio toO PaatXéo; tniKov (§ 139).
I quali fatti però attennero molti anni appresso alla speditione a S.trst.
Avvennero, cioè, nel secondo anno della guerra del Peloponneso corrispondente all’a, 430 a. Cristo. Quando gl’inviati ateniesi, Learco . Aminiade, trovandosi già alla corte di Si talee, mentre ci arrivarono pure i lacedemoni Spertia ed Aneristo insieme col corintio Aristea; allo KOpo evidente di aggraduirsi il prìncipe tracio piima di prosegoire il cammino per Susa; ottennero guide per ormeggiare cou buon HKeetao i legati lacedemonici, e per soprapprendeili prima del loro traaaito in Asia. Al quale efletto, dice Tucidide, avere giovato masùmimeote il favoro di Sadoco, figlio di Sitalce, cittadino onorario di Atena. Sopra il cui auimo deve avere anche influito (secondo il citato puio dì Erodoto) l’azione determinante di quel Nìceforo, cittadino di Abdera, che era unitamente, cognato di Sitalce, e stretto eoo vincoli 4, oipisio cogli Ateniesi.
Inquanto poi alla sùbita morte incontrata in Atene da Spertia, da Aneiisto e dal corintio Aristea, ci è confermata anche da Tucidide. 11 <ìi,tle nota che gli Ateniesi onestarono il fatto coll’esempio di fatti allretlanto brutti e crudeli, commessi altra volta dai Lacedemoni.
N. 28. ZuXXrro|.iévujv bè é? tUiuvtò tiIiv ittpl Tfiv ’EXXdba ’EXXi’ivuJv tfiy Tó dpicivw qppoveóvTujv k. t. X. (§ 145).
Poiciackè poi si trotarono raccolti nel luogo coiitenuto i rapfutnlanti dei popoli più sati e patriottici dell’Eliade, ecc.
Qui parla Ci-odoto di quella famosa Dieta ellenica, adunata e delibarante sull’istmo di Corinto, che esercitò un’azictfie cosi importante . efficace durante tutta l’impresa di Serse contro la Grecia, Essa coililul una lega offensiva e difensiva contro il Barbaro fra molti Stati, ’pscialmeute peloponnest, sotto la guida auprema di Sparta: esaa bandi una tregua generale atta a interrompere ogni ostilità fra i confederati: essa mandò esploratorì in Asia, ed apposite ambascerìe ad Argo, in Sicilia, a Corcira, a Creta. Durante poi la primavera dell’a. 480 a. C. (e mentre Serse era in Abido), la Dieta dell’Istmo oi^ diuò ()uella spedizione di Tessaglia che fini presto in una ritirata: poi (mentre Serse era in Piena) ordinò la difesa dei passi delle Termopile e di Artemisio. A lei pure sì deve la deliberazione, secondo la ijuale, all’aatiguardo condotto da Leonida avrebbero tenuto dietro tutte le forze degli Spartani a degli altri PeloponnesI, non appena fossero sciolti dalle feste Carie i primi, dalle Olimpiache i secoadi, E la stessa mossa di Cleombroto con ragguardevoli forze spartane epeloponnesie alla difesa dell’Istmo fortificato, dopo la strage delle Termopile, deve presumibilmente connettersi ad accordi anteriori e eventuali presi dai rappresentanti della lega ellenica nel famoso convento. Il cui ultimo atto fu, secondo ogni verosimiglianza, il richiamo di tutto il naviglio greco all’Istmo di Corinto, dopo la vittoria di Salamina, per ivi distribuire presso l’ara federale i premi dovati ai pib gloriosi campioni dell’armata.
Ma se alla Dieta ellenica dell’Istmo parteciparono eziandio gli Ateniesi, e in modo più o meno diretto, anche altri Stati estrapelopoonesl; è però indubitato che gli Stati peloponnest erano rappresentati in una grandissima maggioranza, e che la prevalenza naturale del numero era vieppiù avvalorata dal fatto dell’egemonia lacedemonica. Di maniera che la Dieta istmica costituita contro l’impresa di Serse, fn dominata dal principio alla fine, in tutte le sue deliberazioni, in tutte le sue pratiche, iti tutta la sua condotta, da uno spirito infinitamente più peloponnesio che greco. Ella serve unicamente a pregiudizi peloponnest coU’indugiato soccorso a Leonida in grazia delle feste Olimpiche e delle Carie: serve unicamente alle necessità peloponnesie contrappoueodo all’infortunio dello Termopile le fortificazioni dell’Istmo e la mossa di Cleombroto: serve unicamente, infine, agl’ interessi peloponneal colla condotta imposta a Euribiade nelle acque di Salamina.
N. 29. érolfiol (lai ’ApTEÌoi tioi^eiv toOto rpii^KOVTO frta xal
iÌTs6|Li€voi xarà tò f(ti\av irdcrric; Tr)<; aunnaxini;’ koìtoi Kord ft t6 òiicatov TfiveoOai tiìv i^fft^oviriv ìujutOùv k. t. X. (§ 148).
Al quali gli Argivi risposero: sé essere prontissimi a fare tutto
quello che si chiedeva da loro, purché avessero potuto e fosse
slato affidato loro il comando sulla metà delle forte confederale. Perchè quantunque in diritto questo comando spettava loro per intero, si acquietavano a dimestarlo.
La pretensione degli Argivi non poteva basarsi in altro, quando cosi parlavano, che sopra una specie di diritto storico non più con -1
71somiite Cui fatti. Ei i-ichiamavano evidentemente il regno ài Ercole
colle loro orgogliose parole; richiamavano le gesta dei Peiopidi;
rìoiiitnarano il grado tenuto uu dt da Micene e dai suoi re su tutte
U altre città e gli altri princìpi peloponnest. Oltredichè era pure
veriiiimo, che lo stabilimento dorico d’Argo, rinforzato massimamente
iÌìIIa lega argolica, aveva tenuto già il primo luogo sugli altri Stati
coalermini, e aveva raggiunto il summo del lustro e della potenza
.otto il regno gloriosissimo dì Fidooe. Ma quando Sparta, dopo essersi
iMOggettata la Messenia, dopo avere allargati i suoi confini verso
l’Arcadia, dopo vinta e collegata Tegoa, riuscì anche a strappare
all’efflDla Argo tutta la costa orientale della Laconia, oltre al distretto
<1i Cinuria; le cose cambiarono affatto d’aspetto, e il primato
lacedeoooDÌco sottentrò evidentemente all’argivo. Onde mi pare che si possa
conchindere: che il discoreo dei senatori d’Argo, riferito da Erodoto
id passo che dichiariamo, s’indirizzasse ( se cosi posso esprimermi )
piuttosto al sentimento che alla ragione dei collegati.
N. 30. irepl fiiv anovbéwv dvoicreiv è? toù? itXrtva?, itepl 6t i\’(( ♦iXObK kujXÙ€iv où6^v (§ 149).
Ckt in quanto alla condizione apposta dagli Anjivi per il loro agretto nella lega, essi (i legati di Sparta mandati in Argo) ’\rifert,iljtro al popolo: ma rispetto all’altro punto, del supremo comando delle for:e alleate Il che però non toi/lieva che, nei
■omuni consigli, non fosse concessa al re d’Argo una voce eguale " quella dei due re laredemonici.
E cosa curiosa (non puCi negarsi) che mentre gli Spartani potevano, l,tK, aver pronte altre buone ragioni da opporre alla pretensione afficcista da Argo rispetto al comando supremo dei collegati, si sieno istece contentati di metter fuori uaicamente l’obbiezione dei due re; Dolto pid che, conferendo il passo citato colla legge iacedemooica ’♦ririta al C. 75» del L. V, la obbiezione apparisce piuttosto come un pretesto che un argomento. Ma c’ó anche un’altra singolarità io liitsta risposti dei legati di Sparta alle proposti) argive. Concìossiachè <’<<,brj, che essi riguardino come una specie di concessione fatta al re <li ktgo quello equiparare il voto dei suoi rappresentanti al voto dei rsppresenlanti dei re di Sparta (sia, deve intendersi, nella dieta "tmira, sia nei consigli militari del campo coafederato). Ma questo ’n giiL un principio stabilito, un diritto riconosciuto per tutti i mem, twi della lega.
N. 31. EiTÌaTa)iai bi toooOto, órt, el nóvTe^ SvOpuinoi xdi oln^ia «otó <4 fiiao’v <juvev€(Kai€v... oCStoi ht\ oùk ’ApT^ioicri aI(Txi<’’’’a n£Tio( r|Tm § 152). j
Ka questo so molto bene: che se tutti gli uomini mettessero in I -1
72romunione i loro peccati al fine di scambiarli con quei del proitimo; dopo avere però maglio veduti i peccati altrui, ciascuno colenlieri si riporterà indietro i suoi. Onde concludo che la condotta degli Argivi (anche rome la rappresentano gli altri Oreci) non f» certamente delle peggiori.
La figura, di cui si serve qui Erodoto per dichiararci la sua morale, non 6 nova, e fu messa in bocca anche a Solooe. Con essa si Tnols esprimere e stabilire in sostanza: che aon bisogna precipitare tenteuze di biasimo uè contro iadividui, nd contro popoli, ove ipecialniectc sia in gioco la molla pericolosa degrinteressi; di guisa che ii possa ragionevolmente temere che la passione offuschi la sereoiU e imparzialità dei giudizio. Il quale non sarà mai giusto ed equanime se chi si querela della condotta di un altro uomo, o della polilìcsdì un altro Stato, non guarderà ad alti’o che alle rclazioui di quelli condotta e dì quella politica col proprio utile, passando sopra aogii altra ragione determiuante. Quantunque questa ragione determininti! possa molte volte esser tale, da giustificare appieno i fatti e le ritoluzioni cbe si ceusuranu. Onde direi, cbe le parole di Ei-odoto postoso prendersi come un’ illustrazione o un commento del trito proveròio italiano: Che ne sa più il patto a casa tua che il savio a eato d’altri.
Il quali’ proverbio può applicarsi appunto benissimo al caio Jci Oreci e degli Argivi. Perchè i Greci avrebbero temperata di eerto l< sevoritA dei Inro giudizi intorno alle perplessità di questi iiell’aUHni con loro contro Sorse, se avessero saputo, o voluto, mettersi un po’ meglio uei loro panni. L’ iodìpendenza generale della Grecia dallo straniero era certamente, anche agli occhi degli Argivi, una miglia fica cosa. Ma prima di pensare all’ìndipondenza generale, voleTU’) assicurare la propria contro ì continui soprusi o le violenze di Spirti. Ora, non era ella spiegabile e giustificabile tale politica? Eroiiot^ dice di st.
N. 32. M£Tà &è toOto tò eflprma, toù? T<’M<Spou<; KaXcoMévoo? t’» £upr|Koua(utv ré\uivi ■itapa6i&oi tt^v nóXiv xal éuruTÓv (§ 155i.
E dopo atere ottenuto questo insperato successo, Gelone riut^’ a impadronirsi anche di Siracusa, quando ci rirondusst dal’’’ città di Casmena t, cosi detti, oahori, ossia ottimati Sira’’u«""’ che dal popolo e dai loro servi, conosciuti col nome di cilurI, «’■"«o stati antecedentemente cacciati fuori. Ma, allo appressarti di w’’ Ione, il popolo di Siracxisa commise interamente la città e ti’’" detimo alla sua discresione.
I gamori di Siracusa, qui menzionati da Erodoto, costituivano ’.’ olaate dei possessori del suolo fra i coloni dorici venutici da Coriato, 1 i^Mli «i-auo per cousegueoza come un’aristocrazia sovrapposta al grosso della restante popolazione, egualmente dorico-corintia, che KeTtlI seguitati. Popolazione, civilmente libera, politicamente soggetta. La quale però distinguevasi dalla terza classe inferiore, detta, iti ciUiri. E per questi riUirt, generalmente s’intendono gli antichi ’biUtori siculi del paese, ridotti alla servitù della gleba dai .conqnilitori. Ma (secondo che ci narra Erodoto nel luogo citato) vincitori I Timi si unirono a un dato momento contro i comuni oppressori; trionfò la rivolta, e i gamori vennero sbandeggiati. Se non che a giadicare dalla facilità con cui il popolo di Siracusa, rivendicato in lilwrtà, apri le porte a Gelone che si appressava cogli aristorrati, bisogna congetturare che egli fosse internamente travagliato da pesnni umori, e le condizioni della città venute in un gran disordine.
N. 33. "H K£ niY o^^lOteve ó TTeXoitibri; ’ Afa^itivwv, irueónÈvoc IitapTinra^ Tr)v i’|T€MOvir|V dirapaipriffeai ÙTtù réXtuvói; re koI Zupr| xoudiuiv (§ 159).
Troppo sarebbi lo sdegno del Pelopida Affamennone { rispose Si«gro), te rùapesie che gli Spartani furono privati del supremo romando da Gelone di Siracusa.
Questo richiamo del legato di Sparta alla memoria del Pelopida Agamennone, deve essere spiegato col fatto: che gli Rrnclidi condutturi e capi della conquista dorica (quelli in particolar modo che fonditono le case regnanti d’Argo e di Sparta) collegavano volentieri le loro ragioni di principato « di dominazione peloponneaia alle trailitioni sempre viventi del padre Ercole e dei Pelopidi; riconoscendosi come discendenti del primo per sangue, o dei secondi per immediata "KoMsicme, pOBciachè eglino si erano divise le spoglie di Oreste tìglio ili Agamennone.
N. 34. ’O bi Kd^^0(; oOtoi; npÓTepov tout^uiv uapabeEduEvo? itapci ^inpó^ ff(v Tupavviba Kibiuv.... otxsTO è? ZiKEX(r)v,? vea \ifrà 5Ia|uiu)v fcXt T{ xai KOToiKtioe iróXiv ZatKXr)v k. t. X. f§ 164).
R il Cadmo di cui parliamo, in tempi anteriori, dopo essere fvrridulo al padre nel regno ben assodato dei Coi.... depose il ■OBwncio nelle mani dei cittadini ■. trasmigrò in Sicilia. Dove «infmc ’01 Sa,nì occupò ed abitò la città di Zancle, che mutò poi «I ’"o ttome in quel di M^:ssana.
Che Cadmo, dopo avere volontariamente deposta la tirannide in ’^00, trasmigrasse in Sicilia, e precisamente a Zancle, sua antica ’pant, Eia bene. Ma che egli la occupasse in questa occasione proprio ’’Olla forza dei Samt, è un aneddoto insostenibile a fronte di quanto ci Barra lo stesso Erodoto al C. 23° del Libro VI, e alla verità Btovktk più accertala. Allora che Cadmo, insoniroa. passù da Coo in Sicilia, i Samt tenevano già Zancle da molto tempo; fino da quando, cioè, e’8i se ne impadronirono nell’a. 496 a. C. per suggestione di Anaxilao e per tradimento d’Ippocrate; cacciandone in bando, per prima cosa, Scita, padre di Cadmo, che ne era a que’ tempi il dominatore.
Ma il passo citato presenta anche un’altra difficoltà; non vedeado» bene come possa accordai-si ciò che ivi si dice della successione di Cadmo al padre nella tirannide dell’isola di Coo con un altro luogo di queste Storie, e precisamente col C. 24’ del Libro VI. Onde bisogna coogettui-are; che quando Scita dai primi eaigli d’Inìco e d’Ifflera passò a Susa presso Dario, questi effettivamente lo gratificasse della tirannide di Coo: ma egli non andasse mai personalmente ad assumerla, e ne delegasse subito l’esercizio al figliolo. 11 quale ne fece poi quell’uso che Erodoto ci racconta,
N. 35. fi tii\... TfipiXXoi; 6 KpivtTiTiou, TÙpawoi; Jibv ’l^^p1^(;, èirirrt Oit’ aÙTÒv Tòv xpivov toOtov 0oivìkujv Koi Arpùu,v... rpiriKovra uupidòo;, Kal OTparritùv oCit^ujv "AjjlO.kov tòv ’Awuivos, Kapxri’,o’v’"’v ióvta paoiXfia (§ 165).
Se Terillo figlio di Crinippo, tiranno d’ Imera...., non at«’l« chiamalo ir Sirili" un esercito di treiintomiia uomini compatto di Punici e di Libi, d’Iberi e di Ligvri, di Eliticori, di Sardi, di Corsi, sotto il supremo comando di Amilcare, figlio di Annont, rt dei Cartaginesi,
Amilcare non era già re nel senso proprio o stretto delia parola; ma trovavasi rivestito, quando avvenne la spedizioue di Sicilia, della carica e dignità di sufetc; magistratura in cui cumnlavasi (secondo gli ordini cartaginesi) l’autorità suprema, politica e militare, del paese. Siccome poi i due sufrti, per costante tradizione se non per legge, erano sempre estratti dalle genti più chiare e nobili di Cartagine; siccome duravano spesso in ufficio per molti anni, e esercitavano lai’ghi poteri; quindi provenne che negli scrittori greci e latini essi si trovino anche designati col nome di re. Né può nommanco tacersi in questo proposito l’opinionG espressa dal Khige nel suo Commentario alla Politica di Aristotele: che, cioè, quando il suf<-to comandava un esercito in guerra, prendeva effettivamente; per tutto il tempo della spedizione, il nome di re.
In quanto poi all’enumerazione di popoli, che fa qui Erodoto, per descriverci l’esercito di Amilcare, osserveremo: che pei Fenici, o Panici, nominati poi primi, si devono intendere principalmente i Cartaginesi o gli altri coloni Fenici stabiliti nell’Africa; pei Libi, Is popolazioni indigene dell’Africa suddite di Cartagine, e dei Fenici generalmente; per gl’lberi, i coloni Fenicio-cartaginesi spai’si sulle coste meridionali della Spagna, insieme coi loro sudditi indigeni: e per i - 17
5 Uguri, gli Elisicori, i Sardi e i Corsi seguenti; le altrettante colunie fenìcie piantale, sia nella Gallia meridionale sopra Marsiglia, sia più ad ostro versa Naibona, o nelle due grandi isole mediterranee ’i Corsica e di Sardegna.
N. 3(3. TTpò? 6è, Kol -ràbi XéTouoi, ók; truvé^n ’^<\i aùTfi<; ■l)\iipt\%? v
- TQ IiKcXiq RXojvo Ktti G^pujva vitóv ’AfjiXKOv tùv Kapxrj&óviov,
’ttiUv laXoviWt Toù? "EXXriva; tòv T\ipar)v (§ 166).
E ollracriò rarrontano i Siculi, come in quel medesimo giorno Gelone e Verone debellarono Amilcare in Sicilia, accadde la Hloria ijreca di Salamini.
Diodoro contraddice airasserzione di Erodoto in 4ue5to passo, aSbroudo invece che la vittoria aicula accadde nel mcdeaimo giorno della Kotifitta delle Termopile. Aggiungendo dì piti, che la foma sparsa dell) giornata d’Imera conlribul non poco a rialzare gli spiriti abtiatluti dei Greci del contitieote. Ma la versione di Erodoto ò dal canto .Ilo luiTragata da un tosto cliìarìsEÌmo di Aristotele. Nitlladimeno il Grote (Eittory of Grece, V, psg. 2(18) non vuol ccedere né a Diodoi’o aiti Nostro; e anche altri critici stanno in forse. Impressionati prindpilmente dal gravissimo dubbio cLe eìmili combioazioni fossero (fabIte apposta dai Greci-Siculi, per la smania di connettere i propri ti coi grandi fatti dell’Eliade, propriamente delta. Al quale scopo ti piu’lò anche di una lega fra Serse e Cartagine: talmeutechè la <uoi)<a di Cartagine avrebbe avuto il suo radicai fondamento in una ritta operazione di guerra concertata fra l’Asia e l’Africa contro «oui gli Elleni.
N. 37. d<pavio6^vTt 6è ’A^Ukcji Tpóniu cIte toioùtiu, ib? Ooivixe^ ^ouoi, (.tT€ érépu), iu(; ZupriKÓcrioi, Kapxn!,óvioi toOto h^v ol OOouai «. T. \. ig 167.
Un sia che la dispari: ion« di Amilcare seffuisse realmente in ìucsto ntoJo, lOmn vogliano i Punici, sia nell’altro modo voluto ’!’ Siracusani, il fatto certo è: rhe i Cartaginesi gli dedicarono riti, ecc.
’arrebbe da queste pai-ole, che aia stata indicata avanti da Ei’odoto inioue invalsa nei Siracusani sul modo della sparizione di Amìldì mezzo ai suoi; ma il fatto sta che di tiile opinione uou ce n’è Seppui’e non voglia dirsi, che da tutto l’insieme del Capitolo ente può facilmente ritrarsi che Amilcai’e ( secondo l’opinione ^Siculi diversa dalla credenza cartaginese) spari piuttosto dal campo di htttaglia che non dagli alloggiamenti. Ma c’è forse un altro modo nriglinre di raddrizzar la faccenda, considerando che la parola £ upr|KOÙatoi non trovasi in tutti i codici, e che il congiungere senza quella l’ùj( al prossimo Kapxn^àvioi; i quali Kapx,l2)óviot per conseguenza verrabbero a esser messi ia coatrasto coi <t,o{viKei; antecedenti (mentre qui le due forme non servono eridentemente che a indicare unoateaso popolo); produrrebbe una confusione e un’oscurità indecifrabile. Oud’è che il Weaseling ( ammessa voloutieri la soppressione della parola ZuprjKOUffioi) sospettò che il secondo dj; s’insinuasse nel perìodo io grazia dell’ibi; antecedente, usurpando il luogo di un primitivo e genuino articolo ol. Di guisa che, secondo lui, la buona lezione sarebbe; et T€ éxépuu, oi Kapxibóvioi toOto (xiv ol eOoudi k. t. \.
E l’opinioue del Wesseling fu anche difesa e vivamente sostenuta dallo Schweighìiuser.
N. 38. àvà hi xP’5vov Kpf)Tai; OsoO a<pia(; èiroTpùvovTO<;, ndvTac; itX’iv TToXixviT^uJv T£ uni TTpaiuiuiv, àiriKO^èvou; aróXi^i ^etdXifi <<; XiKOvInv
K. T. \. (§ 170).
e che in progresso di tempo, e per esortazione degli oracoli, tutti i popoli di Creta, ad eccezione dei Policniti e dei Presi, mossero con potente naviglio contro quell’isola (la Sicilia).
L’astensione dei Policniti e dei Presi dalla spedizione siciliana degli altri popoli della Creta, intrapresa (dice Erodoto) per vendicai-e l’ indegna moi’te di Minos; non può spiegarsi altrimenti che col fatto ch« Policniti Presi erano rimasti sempre schietti Pelasgi, interissimì Eteocrili: però sciolti dagl’influssi curetici e indipendenti dalla sovranità di Minosse, come di quelli che gli successero nel principato. Essi occupavano infatti quella regione sud-est della Creta, ove si mantenne piti perfettamente e più lungamente l’antica impronta; e dove la razza, i nomi, le memorie eteocrito-pelasgiche, potettero meglio salvarsi dai contatti stranieri.
N. 39. Kol METapaXóvra;, avxi pév Kpr)TiIiv fivioQai lntii»Ta<; M€0aaniou? (§ 170). Mutato l’antico nome di Cretesi in quello di Iapigi.
La lapigia Messapica, dunque; ossia l’estrema punta peninsolare e orientale d’Italia, fra l’Adriatico e il Ionio; sarebbe stata occupata da una colonia cretese fino da un secolo circa prima della presa di Troia. 1-2 il nomo generale di Japigia a. tutta quella regione italica che comprendeva, oltre la Messapia, anche la Daunia o la Paucfsia, vuoisi appunto che provenisse da lapigo, figlio di Dedalo, il conduttore della colonia cretese, il fondatore d’Iria.
N. 40. <SiaTi (pòvoc ’EXX’ivikòi; jiéTiOTo? oCto; b)\ ifévito itdvTunr Tùiv l^^€.^(; \hfi€v (§ 170). La più grande strage di gente ellenica di cui ci resti fino ad ora memoria.
A ragione osservano i commentatori, che Erodoto non avrebbe potuto mai usare tali parole a proposito della strage avvenuta dei Tarentini nella battaglia da loro sostenuta contro i coloni cretesi della Massapia, nell'anno 474 a. C., se gli fosse stata nota la strage molto maggiore di Ateniesi verificatasi durante la guerra del Peloponneso, nella celebre giornata di Siracusa. Onde bisogna concludere; o che Erodoto avesse scritto prima il passo surriferito senza poi curarsi di ritoccarlo, o, più probabilmente, che nell’anno 413 a. C. egli fosse già morto da fresca data.
N. 41. "E? bi Ti\y Kpnmv ipr\\iUjQf.Xaav, tb<; A^TOutJi TTpaioioi, éffoin&o^oi dX\ou(; Te dvepiùnou^, koI ^d\l(JTa "EHrivai; (§ 171).
I Presi raccontano che, dopo essere rimasta (l’isola di Creta) vòta di abitatori, altri popoli concorsero a popolarla, Elleni massimamente.
Ma chi erano questi Elleni, o, in altri termini, quale delle molteplici migrazioni elleniche nella Creta si ricorda o sì fissa colle parole sopracitate? La prima evidentemente; l’antichissima; quella avvenuta buon tempo avanti alla guerra troiana per opera dei Doriesi uciti dall’Estieotide, e guidati in Creta da Tettafo figlio di Doro, ttpote di Elleno. I quali Doriesi; stando alla più ripetuta e credibile tiadiuone; avrebbero trasformato talmente la Creta efiìgiandola dei loro costumi, del loro culto, dei loro ordini nazionali, che perfino la Bttropoli Cnosso, e il regnante Minos, ne sai’ebboro rimasti quasi intenaeotedoricizzati. E uno dei pili gravi e visibili effetti di questa prima Oigraxione ellenica nell’isola, sarebbe pure stata la depressione, e la niUB sempre più grande della primitiva popolazione eteocrito-pelasgica, lo parte costretta a ridursi nell’angolo sud-est dell’isola, e in parte , esulare in Sicilia e sulle coste d’Italia. Ma se i primi Elleni miplti in Creta doricizzarono in effetto Minosse, uou è dunque più vero SmIIo che dico Erodoto: che essi sottentrarono ai Cureti, i quali "enao sgombrata l’isola per andare a vendicare precisamente la ■urte di quello. E se la popolazione cretese passata in Sicilia, e poi i« Italia, non fu curetica, ma oleocrito-pelasgica; comò ò mai ■veroii&ile, in ogni modo, che essa proseguisse uno scopo come ò quello iodieato dal Nostro? I figli di Dedalo, andare a vendicare la morte dol tnassimo |uo nemico! Ma seguitando ad opporre tradizione a Ifsdilione, è ben chiaro; come anche la leggenda erodotea intorno al fjnioM responso della Pitia, e agli effetli che ne seguirono, resti tutta
iiipafa in aria e senza nissun probabile fondamento.
amento prababilìssimo invece ha quanto dice Erodoto, in questo
Bi«a, hiortt Broioto, IH. "A -1
78medogimo Capo 171°, quando egli acceoDB ad (materia rìpopolsuno; della Creta avvenuta io tempi assai piii recenti a a qnalclie diatina dalla caduta di Troia. Dovendosi certamente intendere per tite rip»polaziooe quella seguita per mezzo dello colonie doriche, sparttuetii argive, che migrarono in Ci-eta poco dopo il ritorno degli Er«cllcli. la conquista del Peloponneso. L’avvenimento delle quali eoloaie poi. infatti e giustamente, considerarsi come una terza ripopolaaione d^lll Creta in rispetto alle duo grandi migrazioni più antiche, d«i Curiti di Minosse e dei Dori della Tessaglia.
N. 42. iarpariyxK hi AoKcbaiMoviuiv n’v, Eùa(v€TOC ó Kapf|"W. h Tiliv iroX«n<ipX"’v dpaiprin^voi;, y^vto^ névToi t\i,v où toO
paaiXrjT’ E delie milìjie spartane era duce supremo Eveneto,; Camno, scelto a tal» ufficio tra i Polimarehi: ma non di refi’ prosapia.
L’ufficio del Polemarco mantenne a Spaila il suo originario e < timologtco significiito assai (liù lungamente che in Atene. Dove, bescltf il Polemarco (che era uno de’ novi Arconti) seguitasse a occopsR’fi certo un grado elevato nella milizia, anche dopo la creazione d«i dito strateiihi; come appare chiarissimainonte dal racconto erodoteo ddli battaglia di Maratona; ù però molto probabile che quella carica « trasformasse coU ben presto io una lemplice magistratora civile, ptrticolarmente deputata a conoscerò e sentenziare della materia Utigios fra i cittadini d’Atene ed i forestieri. A Sparta invece, con boim sempre corrispondente olla qualità dell’ufficio, si chiamarono in ogw tempo Polcmarchi i capi o comandanti delle, cosi dette, mort;it quali (come si sa) costituivano la divisione tattica di tutto l’-.-s^rcilo lacodemonico. Ma il comando generale e supremo spettava ordioiriimente ad uno dei re, e solo per eccezione, il luogo del re era qusl<li< volta tenuto da un Polemarco. Ora, gli è appunto per renderci «rvertiti di tale eccezione, che Rrodoto ha cura di aggiungere, nel lof cho stiamo spiegando: y^veo^ iLiévroi édiv oò ToO paatXtiTou.
N. 43.. f’ì; Tn<; ’laxianOTifto? ini ’ApTCniaiov (§ 175). Artemisio, che è il promontorio in cui sporge la regione ttti^ tiea dell’Eubea.
La grande itola di Bubea, che, comineiando dal fronteggiare il ooi^ dell’Attica, si iteudeva lungo tutte la rive della Locridee della BtoiU iu quella parte ove sta proprio dicoutro alla Tessagli» merìdioosl’i ossa prendeva il nome particolare di Estiea. Nome derivatole b un’antichissima migrazione di Perrebt tessalici nell’isola. I quali P^^ rebl oocupavano appunto nella Tosiaglia occidentale un paese comprMO in quella più vatta i-egiotie, che ora conosciuta dagli antichi -1
,79oito il Dome generale di Estieotide. E il pi-omontoi’ìo di Artemisio, "ooiaato da Erodoto nel luogo citato, formava precisamente la punta strema delta regione «itioiica dell’Eubea: accidente geografico, che per maggiore chiarezza) io nou ho dubitato di fissare anche nella traslazione del testo.
N. 44. \xvtà ht toOto, ol AcX(pol Totoi àyii\io\a\ 3ui|aóv re ànébcEav ^ 9uir|, Tr|n€p Tfn Kti<pioooO euforpòi; Ouirii; tò t^,i€vó<; èOTt (§ 178).
Q\{\ndi i Delfi eonsecrarono un’ara ai ventiin Tuia; dote esiste «.Il tempio dedicato a Tuia, figlia di Ce fisso, la quale appunto dette .I nome al luogo.
Qaesta Tuia era una divÌDità tutta delfica, per genealogia, per
colto e per ogni altra attiuen7.a. Infatti lo davano per padre Cefisso
e per amante Apollo; e la dicevano madre di Delfo. A lei poi, per
rigioni speciali di ricordanze, di presidenza, di patrocinio,
manifeitameute si riferivano le famose feste, ogni due anni, solennemente
ripetute dalle, cosi dette, Tuidiche; ossia, dalle donne attiche miste
ill« donne delfiche, le quali, tutte insieme, nelle alture del Parnasso,
cuttndo, danzando, sacrificando, sbaccaneggiando, celebravano alla
loro maniera i mistei’i di Bacco. La connessione poi fra Tuia e In
fvria d’-i venti; cui i Delfi intendevano di placare (dice Erodoto)
oadisDte un’ara loro dedicata in Tuia, dove sorgeva il tempio di
Tvia; la si vuol rintracciare nell’etimologìa stessa del nome,
Ci-elieodosi generalmente che la voce Outri derivi (secondo ogni proba
hiliti) dal verbo Outuj, il quale appunto ha il noto senso di furo.
S. 45. KOl hi\ TÓ T£ éK TlIlV V€lIlV KOl TOO IttroO TtXf^O? aUVTie<|H€V0V,
iWai bir\K6oiai T£ ^upidbeq koI TpifiKOvTO koI nia, Kal npò?, xi^ ^ nihrrà, koI éKOTOvxdbtc; li, koI biKàc,. ToOto név tó ti aùrfis tìy; AoitK OTpdi€t)(jia èEavaxeèv etprirai, fiveu re k. t. X. (§ 184),
Onde, ridu(endo itisieme tutte le forse navali e le terrestri finqul attirine, avremo a risultamento la somma di due milioni ^trecentoiatettemila e secentodieci uomini. E questa però fu la cifra ’tgr/iunta dalle milisie persiane di Offni genere, come esse erano xeondo ho detto) alla loro uscita daWAsia; e senta computarci ecc.
Baita che addizioniamo le singole cifre antecedenti, cioè:
Miliiie navali (compresi i remigatori) 517,610
Coti distinte:
1207 + 200 241,400
1807 -I- 30: . . . . 36,210
3000 + 80 240,000 Milizie terrestri l,800,000
cosi distinte:
Fanti 1,700,000»
Cavalieri 8O,0O0«
Conduttori di carri e camelli 20,000’
otterremo subito la somma totale di 2,317,610 uomini, quale precisamente ce la dà Erodoto nel passo soprallegato.
Facendo poi un’altra addizione colle cifre somministrateci immediatamente appresso dal Nostro; e comprendenti le forze terrestri e marittime, raccolte da Serse nel paese di Tracia e nelle isole circostanti; si avrà una nuova risultante di 2,641,610. Duplichiamola (come vuole lo Storico), per comprenderci dentro anche la massa enorme di famuli e di conduttori delle barche frumeutarie che seguitavano U spedizione; e otterremo con tutta esattezza quella somma finale di 5,283,220, con cui Erodoto riassume e conclude, al Capo 186°, la sua enumerazione dello forze persiane.
Molto poi, com’ è naturale, si è disputato fra’ critici intorno alla maggiore o minore veridicità di Erodoto io tale proposito. E quelli che lo difendono, si appoggiano principalmenlo alla considerazione: che tutto quanto ci racconta Erodoto, in questo Libro delle sue Storie, non solamente rispetto al numero, ma alle qualità e particolarità più minute dell’esercito persiano; egli dovette principalmente ritrarlo dalla cognizione e dall’attenta lettura di quelle famose cronache. in cai gli scribi dei re di persia diligentemente segnavano tutti i fatti pili notevoli della storia nazionale, trasmettendoli in questo modo alla memoria dei posteri. Ma il dottissimo Grote; il quale fra le altre cose nega allo cronache degli scribi persiani il carattere e l’importanza che generalmente lor si attribuisce; dice e sostiene, insieme con altri, che Erodoto, con quelle sue enormi cifre a proposito dell’esercito e dell’armata di Serso, non fece (secondo ogni probabilità^ che ripetere una tradizione volgare; tradizione incredibile e favolosa, contradetta eziandio dalle testimonianze di Ctesia, di Eliano, di Cornelio Nepote.
I quali autori per altro (si noti bene) se contraddicono a Erodoto, nemmanco è vero che consonino fra di loro: e già sappiamo quanto sin raro il trovare accordo fra gli antichi rispetto ai numeri. Conchiudo, che In più vera e accettabile fra le opposte sentenze è forse quella del Gibbon; il quale acutamente osserva: che quando bene Erodoto aUiagesse le sue notizie intorno al numero dell’esercito e dell’armata persiana alle più pure e accreditate sorgenti, gli doveva però riuscire difficilissimo, e quasi impossibile, di non esagerare per qualche parte; atteso il molto interesse che avevano non meno i Persiani che i Greci (ognuno per i suoi propri fini) di dare agli appai-ati guen’eschi di Serse proporzioni tragrandi, meravigliose.
N. 40. eOpioKUt Yàp au^paWEÓftevo^, ci xoWiKa nupwv EKaOTo; T^ -1
\81Viif,% {Xdtipove, «al \ir\biw nXéov, (vbtKa Mupidfta? ne6(nvujv ’<»<; TeXeojuiÉn’i^uépri éndarri, koì npùi;, Tpir|Kooiou(; t£ flWoui; n€S(|ivou<; koI tWotpÓKOvTa (§ 187).
Imperocché facendo il mio calcolo, e riducendo anche a una ^htnice di //ratio il consumo di ot/ni individuo al giorno, non più; "Il risulla pur tempre un consumo quotidiano di eeniodiccimita ’ Irecentoguarctnta medimni.
Qai il cuoto non torna, ed è cIiìbi’O. Volendoci, infatti, 48 chenice pfr fai-e an mt’dimno; e supposto con Erodoto, elio ogni uomo del aeguito di Serse consumasse nna chenicn di grano al giorno, non piti; per avere la somma di quanti medimni giornalieri in realtà abbisognivano alla nutrizione dei Persiani, non c’era evidentemente che da dividere 5,883,220 per 48. Ma, fatta la divisione, avremo per risultanle la cifra esatta di 110,007 medimni e 4 chenice; e non già di 110,340 medimni, come danno lutti i codici e tutte le edizioni conosciute.
L’errore del calcolo è corto. Ma se debba imputarsi piuttosto a trista di autore o ad equivoco di amanuensi, oè io né nessun altro potrà mai dirlo.
N. 47. Alerai ^€ XÓTo?, ib? ’A6r|vaioi tì!)v Bopf^v <k 6€OTiponiou iireKoUaavTO, ixeóvro? ocpi flXXou xP1<JTi|pfou n tóv yapi^pòv ÌTtÌKOupov KoXiaaoOai ■,. 8opf|q bi, Korà t6v ’EXX^vuìv Xó’fov, ixi\ yivoìko Attinjv, ’Opcifiulnv Tfiv ’Ep£xer,05" kotò bf\ tò Kiibo<; toOto ol Aerjvaìoi, CT. X. (§ 189).
È poi accreditata la fama, che gli Ateniesi in qw.l torno di tempo intoratsero Borea in ossequio di un responso delfico da essi DiUnuto, il quale li invitava a chiamare l’aiuto del proprio connoto. Ma Borea appunto, secondo la tradisionc ellenica, ebbe per ’toglie una donna Attica, e fu Orituia figlia del re Eretteo. Pei iwl’ motivi di affinità, ecc.
bùrca veniva, nella mitologia degli Elioni, considerato come una I)tit)i tracia, o generalmente settentrionale, essendo egli appunto un .tato che soffiava loro dalla parte di setteutriooo. Recita poi la ^fal«, come Borea rapisse un giorno la fìgli.i dell’attico re Eretteo, BitDtre ella stava cogliendo fiori sullo rive dell’ llisso. La trasportò ’0 «ri»; la converse in nube; e la feco madre, infine, di tutta una prole corrispondente alla subita trasformazione: del Jt-roio, cioè, della .KM, della tempesta e via dicendo. Né può dubitarsi, che anche il tome di Orituia non si connetta col volo fatto in cielo dalla regia fanualla, e col rapimento di Borea, significando esso nome precisamente /uren» in alto. Siccome poi il padre di Orituia, Eretteo, era riguardato dagli Ateniesi come uno dei più antichi e celebri patriarchi d«U& -182 —
nazione; e a lui si davano tutti conseguentemente per figli; quìadi, che l’oracolo, riferito da Erodoto, credette d’indicar beoissimo Borm, chiamandolo cognato di quelli; cognato, cioà, perchè marito di una loro sorella in Eretteo.
N. 48. duo 6è toùtou, bla cIkooì kou axabiujv, dXXo^ TtoTauò;,»’ oOvoiio KCixai Aùpai;, tùv PoriOiovra Tip ’HpaKXéi KOiOMèviu Wtoc tJ^i dva(pavf)vai; § 198).
E a venti stadi d’intervallo da detto fiume (dallo Sperchio’ m scorre xin altro, che si chiama Dira. Il quale, come porta la ftvu, sarebbe scaturito per darà aiiilo ad Ercole che aOhruciaca.
Questo Dira qui ccminato da Erodoto, doveva essere di certo U fìumicello scaturiente nelle alture dell’ Età. Ma appunto colle tltm dell’Età si annette il racconto mitologico, secondo il quale, Erwl» sentendosi affetto dal velenoso contatto della veste tinta nel uagu del centauro Nesso donatagli da Deianira, alzò un rogo sull’Eu,’ poi si gettò nello fiamme. Ove dicesi, iufatti, che rimanesse coniuiti la sua natura mortale, noi mentre che la divina era sollevata all’Olimpo. Celebre mito, al qualo (secondo il citato passo di Erodoto! i, vede che gli antichi innestavano anche la prodigiosa comparsa M Dira.
X. 49. tcai ol ipuTóvTi, ùitò xOùv TTuXaTÓpuiv, tùiv ’AiiqMKTuiviuv k Tt\\i TTuXairiv auXX€TO|aivujv, óp/ùpiov éit€Kripùxen (§213j.
In appresso Efialtc, per timore dei Lacedemoni, riparn in Titsaglia,e i Pilagori (lostochò il Consiglio an/ìsionico si riutii.doft questi fatti, alle Termopile) misero il tuo capo a pretto.
Qui si parla evidentemente della più grande, della più importasti, della più celebre fra le Anfisionie greche; di quella, cioè, eli» en costituita da dodici popoli circondanti più o meno da vicino il tempi" di Delfo: t quali popoli per mezzo di loro legati, chiamati appooli’ An fì3 ioni (cha viene come a dire circum morante«J, tenevano psriodiche radunate, in autunno presso al tempio di Cerere alle Termopila in primavera presso al tempio di Apollo a Delfo. Ora, che qa<it, grande e famosa lega anfizionica avesse princlpalmonto lo scopo niigioso della tutela e dell’incremento del culto delfico, non c’è T«f» dubbio, e ne convengono tutti. Ma cho ai vincoli religiosi si eosgiungesse anche una specie di trattato politico fra’ federati; quu’ d’anche altri argomenti mancassero per persuaderlo, ce lo mostrerfbb’ri^ tuttavia a sufficienza le seguenti parole del reciproco giuramento^ JVon distruggeremo nessuna città anfisionica, né devieremo dalUt’’ mura il corso delle acque sia in pace o sia in gu--rra: se alcuno fari ciò, andremo contro di lui e distruggeremo lasua cittA, Quale fop’!’
ma 1, vera natura, quali i conflni della politica anfìzionica? In quali (.«attiiiie, particolarmente, si trovò essa cogl’intetcssi e col moto geoerale dell’Eliade? Problemi di difficile risoluziune: ma cbe poro i ae non erro) nccroao grandissimo lume dallo elenco dei dodici popoli, che, secondo la j fiicoitante e probabile tradizione, formavano Is lega anfizionica di Delfo. IqUili popoli, dunque, erano: I Tessali, i Dorì.i Ueoti.li Ioni, i Perrebi, i Migneti, i Locridi, lì Euiaui, gli Achei Ftiotici, i Mail, i Dolopì, i Foceii. Ora, aia pure che al tempo della primitiva costituzione dell’Aolìtionia delfica non avesse ancora avuto luogo il gran dilagamento <Jmca per tutta la regione peloponnesia. Ma era stata pjeceduta di «rlu una tale costituzione (e basterebbe l’intcrvonto dei Tessali neli’Acfizioaato per diinosirarlo) da quall’imnionso moto ellonico, che {.urto fino dai più remoti tempi, gli Eoli Dell’Elide, netta Alessenia, ’Corinto; li Ioni nell’Attica e nell’Egìalo, in Epidauro e a Trezene; sii Achei nell’ArgoIide, nella Laconia, nella Trìlìlia. Ebbene, tutto <)nHtv coionio elleniche, che formavano indubbiamente il grosso & il nerbo principale della nazione, non avevano (come non la ebbero neppure, in appresso, i coloni durici del Peloponneso) rappresentanza né V’.ce nel Consiglio anfiziouìco. Imperocché, notisi bone, che quando <,’Il’eleoco dei popoli aolìzionicì si parla di Dori, non si può ìntenitn di altri Dori che di quelli ristretti tuttavìa nella Drìopide, o Donile, che dir si voglia; e (juando si parla di Ioni, nou si può intendere di alti’i Ioni che di qualche sciame ionico ancora chiuso in <)iliicbe angolo (né si saprebbe dir dove) dell’Eliade primitiva. Como Mnbbe stato, infatti, materialmente possibile che li Ioni dell’Attica si ’oiMfo potuti intendere con quelli deU’Egialo, a gli uni e gli altri fwi lontani fratelli d’Epidauro^e di Trezeni; (senza parlare degli ’’atailimeuti marittimi posteriori^ al fine di nominare una rappresenliiiu comune presso il Consiglio anfìzionico di Delfo? Ma ti’apassnndo ’ocb» una tale difficoltà; chi può credere che i superbi e estesissimi Iqdì volecsero slare, in qualunque assemblea, da pari a pari coi Mali, ",’ Dulopi, c^li Enianì?
Uoude conchìuderemo: che l’Anfizìooia delfica congiunse per certo ,i iiioi affici strettamente ieratici anche altri uffici aventi un certo (olorv ed importanza politica; ma in modo però sempre coordinato e <i,|jordinato ai fini particolari, e al carattere sopratutto religioso dell’iilltuto. Di maniera che non è ammissìbile l’opinione: che il ConUnttv anfizionico abbia potuto mai sostituirsi a una veitt Dieta ualioDale, dove gl’interessi di tutta la Grecia fossero debitamente e froponrionalmente rappresentati. E ciò è tanto vero, che quando %,«rta a Soci risolvettero di convocare a pailamento tutti gli Stati ollailici cbe si sentivan disposti a collegarsi insieme contro il Barbtro e doveva essere un vero parlamento nazionale codesto); ae ne geoeriN l’espressa e famosa Dieta dell’Istmo. Dieta, che alcuni vollero k&tl confondere col Congresso anfìzionico, ma senza nessun
probahM^^^^^^^i^^^^^^^ria probabile fondamento. E il vero è piuttosto: che la politica nazionale sostenuta sull'Istmo, tendendo a combattere il gran nemico non solo dell’indipendenza, ma dei Numi ellenici, dovette naturalmente trovare un perfetto riscontro nella politica religiosa degli Anfizioni. I quali, per conseguenza, non dubitarono di avvalorare e difendere di gran forza ( ma sempre nei loro termini particolari di azione ) l’impresa ellenica contro Persia. E cosi (come già vedemmo in uu’altrt Noti fu, secondo ogui probabilità, deferita al Consiglio anflziouico U punizione degli Siati infetti e convinti di medismo. Percbè gli Stali infetti e conviuti di medismo, coll’aiiito cbe davano al Bnrbsro, dnvevano essere per ciò stesso tenuti qunlt nemici del Nume delfico. Sei passo poi che ci ha dato motivo a ^lesta lunga Nota, Ei-odoto eii’ licitamente ci informa: cbe il traditore Efìalte fu dannato nel cip« per sentenza proininciata dai Pitagori nel convegno autunnale dtfii Anfìzioui. Ma chi erano questi Pilagori, e come essi si diftingnefiO’l’ dai leromnomini, i quali insieme coi PHagori assumevano poi, quanto sembra) il nome comune di A.nfiìionxt Non c’è in verità un completo accordo fra’ ci itici su questo punto. Ma confesso, cbo io sentomi molto attratto verso l’opinione di quelli, i quali fondandoli segnatamente sulla palpabile etimologia del vocabolo /«romnoniini, pensano che i leromnomini fossero quelli fra gli Anfiziooi cheetcrcitavano gli uffici più specialmente sacri del loro grado. Laddon i Pitagori avrebbero avuto in particolar modo il carico della politio e la funzione di giudicanti. Opinione, che trova nova o n<Jn mediont conferma (mi pare) anche nelle parole di Erodoto nel luogo toprillegato.
N. 50. T€ivti bt i"| AvÓTtam aOrri kotù ^dxiv toO oOpEOs, X/iTf ^ KOTù T« AVirrivòv ttóXiv, irpiiirriv toOanv tOjv AoKptbwv ■irpi)<; tuiv \MiUu,v, Kol KOTÒi KcpKiinuJv ^bpoi; (§ 216).
, La qual via Anopea procedi) girando intorno al sommo tnte, e terminando presso Alpeno {prima cillà logrese MMfll fati); dove é il famoso sasso, detto di Melampigo, ’ la sede àa Cereopi.
Questi Cereopi, qui menzionati da Erodoto, si favoleggiav» ckt foisero due fratelli, i quali a guisa di spiriti folletti si prendevtDO, spesso e volentieri, boflU degli uomini; li assalivano, li derubavano,’ in diversi modi li tormentavano. Oltredichè la leggenda dei Ccreof’ e particularmento intrecciata nel mito greco con quella dì Ercole»^ quale, fra gli altri suoi appellativi come mostra anche il citato pi di Erodoto), aveva pure quello di Melampigo. E si diceva, duo cbt; i detti Cerropi tendessero una volta un loro agguato ad ErcoUi in vicinanza dalle Termopile, assalendolo e molestandolo mentre dormiva. Ma che l’eroe, non appena risentitosi, agguantò i cattivelli)
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85iSgatìii per i piedi, se li portò via a penzolone dietro le spalle, senteadoli sghignazzare continuamente. E interrogati poi da luì, confessarono come la propria madre li avea già ammoniti di tenersi in gnardia da Melampii/o-, vale a dire, dall’uomo dalle tiatichc negre. Alla quale confessione dei due folletti, aggiunge la favola, che Ercole «oiTÌdesse, lasciandoli andare subito liberi e sciolti; e che si assidesse poi per istracco sopra quel sasso, al quale, per tale riposo, venne appunto il perpetuo nome di satso di Melampigo.
N. ól. ’AttovoaTriao? M i<, AaKcftainova 6 ’ApicJTÓ&r||uoi; OveiSói; re tlxe Kol ÓTindiv. Ttdoxiuv ^é TOidftE i^tìhuìto oOtj ol TiOp oùbtic; èvouc IwpxiriT^uJv K. T. X. (§ 231).
ila checchessia di tutto ci (3, resta pur sampre vero che Aristoiemo, tornato che fu a Lacedèmone, pati ogni sorta di onte e di tillanii:; a tal punto che nessuno Spartano volea prestargli il foco, ecc.
Ci-a uu antichissimo e sacro dovere nei Gi-eci di usare certi determinali affici di reciproca ospitalità verso i cittadini degni di questo Dome e non notati d’infamia. Tra i quali ufSci appunto ’campeggiaiDo quelli, della comunione del focolare domestico, e del permesso di tcreadere la propria lampada colla lampada del vicino. Le quali due coM possono essere benissimo comprese, io credo, nelle generiche pirolc di Ei-odoto: oOte ol irOp où&tii; fvaue ZrrapTitiTéujv. Onde io l’ire con alti’ettanta generalità di senso tradussi: a tal punto che iiiiuno Spartimo volea prestargli il foco. Né fece diversamente ^Adolfo Schoell, tedescamente voltando: Kein Spartiate Hess ihm Iti an seintm Feuer,
(% 52. 6 Tptaoi ’ApiOTÓbrino? KoXeónevo? (y 231). tmii lo chiamavano ARISTODEMO il vigliacco.
’ Col nome ign<:,minioBO, fìsso, consacrato, di tersanti, erano etfettiloDte designati io Isparta tutti coloro i quali avevano, in tempo °i guerra, disertate per viltà le ordinanze, o abbandonato in qualuaijue modo, e senza giustificato motivo, il campo dell’onore, E ì oiicmbili che portavano il marchio di tersante in fronte, non alla ile umiliazioni registrate da Erodoto venivano sottoposti, ma a molte «. Erano esclusi, per esempio, da ogni pubblico ufiìzio; tenevano itimo posto nei cori; dovevano scausarsi per via dinanzi a tutti, dere tempre il luogo anche daffronto ai più giovani; né potevano Sparire in pubblico, altrimenti che in veste lacera e col capo mezzo — 18
6 yota augi unta
Raggrupperò ia questa Nola aggiunta alcune avvertenza anteriormente sfuggitomi; ma che importano troppo (mi sembra) alla delucidazione del teato erodoteo, perchè mi sia lecito di pretermetterle. Al § 170° della Polinnia si legge: E quel tnuro (il muro a difesa del passo delle Termopile) innuUarono i Focosi per il timore che li assalì fposciacht i Tessali venuti dalla Tetprotia erano passati tu quella t-:rre eoliche che ora posseggono. Ma quali erano queste terre, precedentemente eoliche, eussegaentemente tessaliche. che per la loro situazione geografica davano tanta noia ai Focesi, venute che furono in mano di incomodi e prepotenti vicini? Furono indubbiamente i distrettì di Armiaio, di lulco, dì Arneo, posti lungo la costa meridionale della Tessaglia sul golfo Pegasico. Distretti tutti (secondo la più accertata o credibile tradizione) ingoiati, Ha dai primordi delia conquista, dai Tessali venuti dalla Tesprotia e dagli Eraclidi che li conducevano. Fatto immediatamente congiunto colPaltro fatto capitalissimo, del passaggio degli Eoli d’Arneo iu quella regione mediana dell’Eliade, che prese poi da loro un nuovo assetto politico, e un doto nome; il nome di Beozia.
Al § lOQ’^ della stessa PoUnnia troviamo, a proposito della marcia dei Persiani verso la Grecia, questa espressione: Intanto che Serte e le sue milizie terrestri, dopo essere passate attraverso alla Tessaglia e all’Acaia, entrarono il terso di nella regione ÌSaliaca. Quindi più sotto: B dei fiun^i della Tessaglia, il solo Onocono non ebbe acque suffìci’inti a dissetare l’esercito persiano; mentre invece fra quelli discorrenti per l’Araia, a stento l’Epidano ecc. E al principio del seguente Capo 107’; Pervenuto poi che fu Serte ad Alo in Acaia, ecc. Ma delia città di Alo in Acaia, già ci aveva parlato Erodoto anche al Capo 173» di questo medesimo Libro. Ora, in lutti i luoghi sovrallegatì, bisogna guardarsi bene dal confondere V Acaia, di cui si ragiona, dall’Acaia peloponiiesia; altrimenti non ci si raccapezza più nulla. E bisogna sempre intendere quella por l’ Acaia Ftiotica, ossìa per quella parte della Ftiotide (una delle grandi divisioni dell’antica Emonia ) dove gli Achei, dopo certi primieri errori, finalmente posarono; e dove un ramo di loro razza trovò (anche nei tempi storici) un cosi lungo e ben guardato ricetto. La cittì di — 187 —
poi, che costituiva come il porto doU’Acaia Ftiotica atil golfo di
^.Kaso, era situata proprio sui tei-mioi degli Eoli d’Aroeo, o degli
Eoli Beotici che dir si TOgliano. 1 (^uali essendo stati, come testé
(«dìiiimo, involti subito nella compìsta tessalica, ne segue che i domini
Idtlici, effettivamente e repentinamente, si allargassero fino allo
^ttreino meridionale di qael paese che, già ai tempi erodotei, si
compi’eodsva nel nome generico di Tessaglia. Quando, dunque, Erodoto
’’’ce; che Serse attraversò la Teìsaijlia e l’Acain, rappresentandoci
’’ Tessaglia, quasi una regione distinta, e posta come al nord
’’.deltwia, egli ci indica evidentemente la Tessaglia centrale; la quale
<!Oitiluendo la sede e la ròcca principale dei conquistatori, s’intende
t,’aissimo, come qualche volta usurpasse, e restringesse tutto in se
<t««sa, il nome proprio e specìfico di Tessaglia. E quinci sicuramente
provenne quel nomignolo di T(;MaIio(t«, applicato dipoi alla Tessaglia
del centro, per geograficamente determinarla e distinguerla dall’altra
Tessaglia.
Noterò, finalmente, che per iscorger subito e bene, nel § 223°, il {(game esistente fra il periodo che incomincia: Imperocché la discesa d«l monte riesce sotto ogni aspetto più breve, ecc. coi periodi anteriori; bisogna considerare, di quanta importanza fosse che l!assalto di fronte dato da Serse contro i Greci delle Termopile si combinasse, il più giustamente che era possibile, coli ’investimento alle spalle necomandato n Idarne ed agl’Immortali; i quali, sotto la guida di Efialte. eseguivano il movimento girante. Al quale effetto appunto, Efiaite (che fu la mente e l’anima di tutto lo strattagemma) consigliò a Serse di attaccare il nemico in sull’ora, che si dico, di pieno mercato, vale n dire, sulle dieci circa antimeridiane. Imperocché calcolava che, partendo esso Efialte con Idarne e cogl’Immortali sul far 4»lla sera dal campo di Tradii, non avrebbero potuto raggiungere la cima del monte prima dell’aurora. Ma calcolava anche In molto maggior bi-evità della discesa dalla salita; e conchiudevn quindi per la poMibilitK di trovarsi eglino in termine, fino dalle dieci circa antiDeriiiiaoe del giorno appresso, di sorprender da dietro i difensori ddle Termopile. Il fatto però mostrò (da quanto vediamo al § 225’J cbe i calcoli di Efìalte non ebbero tutta l’esattezza desiderabile, e che i^ movimento di Serse fu alquanto precipitato.
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