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£ 55di un altro fiume minore (seaturiacono le sorgenti), chiamato I ^^tarratte; il quale ha il suo nascimento proprio nella piasxa di CtU^a, poi si riterta finalmente nel Meandro. Ed è in questa ’teua piana di Celena che cedesi sospesa la pelle di Marsia; il fileno scoiato per veftdetta di Apollo, come narrano i Frigi.

Del fiame Catarratle qui meozìonato da Erodoto, come acaturiente nella piazza di Celeoa, oon si trova traccia né riscontro altrove. Sempre piuttosto, e da tutti (compreso lo stesso Erodoto al Capo 1 Di’ del Libro V) detto fiume ò designato col nome di Marsia. Il quale Sume Harsia nasceva effettivamente entro una grotta ecavata nel pendio roccioso su cui ergevasi l’acropoli di Celena, e traversando precipitoso la città, sboccava poi nel Meandro. Ma da questa precipitosa cadala appunto del Marsia dall’alto al basso, vediamo subito come assai appropriatamente poteva dirsi ciie egli venisse giù a modo di cataratta. Perchè però Erodoto da una tale circostanza abbia preso il curioso arbitrio di cambiare il nome solito e riconosciuto di un fiume io un altro nome di sua fattura, non è cerio cosa di piana e facile ipiegazione. Talmentecbè qualche critico credette di dover ricorrere a certe aggiunte e variazioni del testo. Ma sono forse più nel vero coloro, i quali dicono che il nostro Storico, col suo Catarratte, non volle probabilmente fare altro che restituire al fiume Marsia la pib antica e originaria denominazione. Denomiuaziono che forse Erodoto credeva gli fosse stala in appresso cambiala nell’altra più nova e più recente di Marsia, come uu ricordo dello scoiato Sileno e della teniota vendetta di Apollo. 11 quale (secondo la leggenda riportata da Senofonte) appese la pelle di Marsia precisamente all’imboccatura di quella grotta che, come dicevamo pur dianzi, era scavata nel roccioso pendio su cui ergevasi l’acropoli di Celena.

N. C. il^^iaQoy Koi eùpov Xot»2!ó(ì€vo^, dpTopiou nèv bOo x,^i<i^<"^ ioùaa^, ioi ToXdvTWv imbeoOaa? iuta xi^iaS^uiv (§ 28).

A calcoli fatti trovai (io Pitio) che possedeva due mila talenti d’argento e quattrocento miriadi di statere doriche d’oro, meno settemila.

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Seeondo i diversi criteri adottati dagli eruditi nel raffrontare la moneta antica colla moderna, si scorge una qualche diversità nella lomma complessiva di ricchezza attribuila a Pitio dai vari commentatori, quando (nell’illustrare il passo erodoteo surriferito) ce la traducono in talleri, lire, tìorini, ecc. Ma in qualunque modo la si rsggnagli e valuti, essa risulta pur sempre una ricchezza enorme, incredibile, portentosa. Tale (si può ben dire) che dirimpetto a lei i facoltosi più celebri dell’antica Grecia si prenderebbero per pitocchi. E bisogna ripaniare proprio a Creso e alle sue magnificate dovizie, per avere un

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