Un giorno a Madera/V. Reliquie di William e di Emma
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V.
RELIQUIE DI WILLIAM E DI EMMA
Fa ciò che devi; avvenga che può.
La grandezza dell’uomo è il dovere.
william a emma
Londra 12 gennaio, 18...
Voi vorrete perdonarmi se vi scrivo; vorrete perdonarmi ancora se vi scrivo come se questa non fosse la mia prima lettera a voi diretta ma la centesima e la millesima. La parola scritta è più solenne della parola parlata, questo è verissimo; e non ho mai sentito come in questo momento la verità di questo fatto, ma io credo di avere il diritto di dirigervi il mio pensiero anche per questa via.
È già più d’un anno ch’io vi ho veduta, e voi sapete dove e come e quando. Nell’incertezza che mi tormenta, ho questa carissima compiacenza che anche voi ricordate quel giorno, quell’ora, quel momento. E da quel giorno, miss Emma, voi lo sapete io non ho pensato che a voi, io non ho cercato che voi, io non ho vissuto che col vostro nome sulle labbra, colla vostra immagine nel cuore. Ho amato tutte le creature vestite di azzurro, ho prestato un culto di adorazione al cielo azzurro, ai fiori azzurri, ai nastri azzurri, perchè vi aveva veduta per la prima volta vestita con un abito bianco stretto da un lunghissimo nastro di quel colore. Perdonate la mia puerilità, ma io ho adorato le lettere dell’alfabeto che, intreciate fra loro, formano il vostro nome. In tutto quest’anno di speranze ineffabili e di tormenti senza nome ho voluto aver la potenza di Napoleone il grande, il genio di Byron, le ricchezze di Rothschild per essere degno di voi, per poter gettare ai vostri piedi potenza, oro e genio, e dirvi: tutto questo è vostro, tutto questo in cambio d’un sorriso che mi dica: io ti amo.
Io vi ho seguita da per tutto, a Londra, a Bath, in Italia; io son riuscito a farmi presentare a casa vostra, mi son fatto amare da vostra zia: io mi son sentito trascinato nella vostra orbita, e senza di voi e fuori di voi non mi sentiva vivo. Ed io taceva sempre. Timido, riservato, a volta a volta pieno di terrore per l’orgoglio di avervi osato amare, io taceva sempre e vi guardava.
Con uno guardo avreste potuto farmi il più infelice tra gli uomini, potevate allontanarmi per sempre da voi; ma invece voi vi lasciavate guardare; e quando nei miei occhi versava tutto il fuoco della mia passione, dei miei desiderii, tutto il torrente dei miei pensieri che eran tutti vostri; quando, guardandovi profondamente, caldamente, convulsivamente, io parlava colla parola delle pupille ai vostri occhi, voi smarrivate sovente la serena e malinconica pace del vostro volto; i vostri occhi lampeggiavano anch’essi e d’un subito nascondevano il loro fuoco sotto il velo delle palpebre. Oh! non dite che non mi amate: io non lo crederei. Chiamatemi stolto, superbo: insultatemi col peggiore dei vostri disprezzi ma non mi dite una menzogna inutile. — Al disopra delle molte reticenze dell’educazione, al disopra dell’ipocrisia, al disopra delle cento lingue che separano gli uomini e li fanno stranieri gli uni agli altri, Dio ci ha lasciato un raggio di luce del suo paradiso; e ce l’ha messo nel fondo delle nostre pupille. Due occhi nel lampo d’un minuto possono scagliarsi contro torrenti di bile, vampe di desiderio, onde d’amore; l’occhio può odiare, può disprezzare, può adorare; può fremere, può dubitare, può bestemmiare e benedire. L’occhio può comandare e obbidire; può chiedere e rispondere; può tutto fuorchè mentire. Così cogli occhi vostri avete detto d’amarmi e se mi amate, perchè mi fuggite?
E voi mi fuggite da un mese: voi mi fuggite da quella sera in cui a bordo del Thyne noi passavamo insieme la Manica. Voi ritornavate da un viaggio in Italia fatto colla vostra zia, viaggio che io aveva fatto con voi, accompagnandovi di lontano, e scomparendo e ricomparendo a volta a volta, or combattuto dal rispetto e dalla convenienza, or trascinato nell’orbita del mio sole. Ma il Thyne ci aveva raccolti sotto lo stesso tetto, e, in una bellissima sera, col mar tranquillo, colla luna che si nascondeva e compariva fra i fiocchi densi di fumo del nostro battello, voi eravate seduta sopra una banchetta del cassero avanti la vostra zia, che dopo aver ascoltato il mio lungo cicaleggio si era addormentata.
Voi mi lasciavate parlare, e guardando la luna, vi compiacevate di nasconderla ad ogni momento agli occhi vostri con un grazioso piegar del capo che vi faceva sparire l’astro della notte dietro il tubo nero nero del camino. Io non so quel che dicessi, ma parlava sempre; e continuava a parlare, perchè mi ascoltavate volentieri. Io non vedeva la luna, nè il solco bianco e spumeggiante e tranquillo che il Thyne apriva nel campo di bronzo dell’Oceano, io non vedeva che una cosa sola, il vostro volto divino che sembrava tuffarsi tutto nella luce serena e argentina della luna. Avevate tirato all’indietro i vostri ricci che allungati dall’aria umida della notte vi baciavan le vostre spalle, quando una brezza capricciosa non li portava ad accarezzarvi il mento.
Non ebbi in quelle ore che un solo dolore che mi fece ripensare cose tristi: era la vista delle coste d’Inghilterra che si andavano facendo sempre più chiare ai miei occhi. Voi in tutta la sera non mi diceste che una parola sola:
«Che ne dite William? un tubo di ferro basta a nascondere tutto un mondo, un fiocco di fumo basta a celar tutto il mar di luce che spande intorno la luna. Non è forse così di tutta la vita, di tutto l’uomo? Vedere il cielo e non toccarlo mai, sentir Dio e non intenderlo, abbracciare il mondo e morire di mal di ventre?»
Non so quel che risposi, ma ben ricordo che voi un momento dopo avete lasciato cadere sul cassero il vostro fazzoletto su cui appoggiavate il vostro capo. Io mi chinai a raccoglierlo, le nostre mani si incontrarono e la vostra strinse la mia. Quanto abisso mi si aperse in quel momento! Emma, il tempo non esiste per il pensiero, l’orologio non fu fatto per misurare i moti del cuore.
Questo so, che voi di quella stretta vi pentiste o aveste paura... Vi levaste in piedi, diceste che l’aria della notte vi faceva male; svegliaste bruscamente vostra zia e con essa vi ritiraste nella vostra cabina. Tutto questo fu l’affare d’un minuto; credetti d’aver sognato; non so se risposi al vostro asciutto e freddo: Buona notte M.r William. Questo solo ricordo, che rimasi solo, inorridito di me stesso: tremante come un fanciullo, colla coscienza di essere in un momento solo un verme e un Dio. Metà dell’anima mia gridava ancora esultando: William, tu sei l’uomo più felice del mondo mentre l’altra metà malata, intirizzita, mi gridava ancor più forte: tu sei la più sciagurata, la più miserabile delle creature vive.
Da quella sera, miss Emma, un abisso ci ha separati. Voi mi avete sfuggito, e non contenta di cambiare ad un tratto il luogo della vostra passeggiata, la casa dei vostri ritrovi, voi non avete più voluto incontrare i miei occhi per quanto questi vi cercassero sempre, domandandovi l’elemosina d’uno sguardo. E perchè mai mi avete stretto la mano, se questa felicità d’un istante doveva darmi tanto dolore? E che avete in voi che sia più forte del vostro cuore? Perchè e come avete nell’anima vostra due genii, uno dei quali benedice e l’altro maledice? Perchè mi straziate voi a questo modo? Non sapete voi forse che cosa sia il dolore? Non sapete voi che io vivo soltanto, perchè mi tormenta e mi innamora il pensiero crudele che anche voi soffrite, che anche voi maledite qualche cosa o qualcuno che s’è posto fra me e voi? Sì, io vi vedo ogni giorno con gioia crudele divenire più pallida; e spesso leggo sul vostro volto colla voluttà dell’assassino le lagrime da voi versate nel silenzio della notte. Voi non dormite e voi piangete; casi come io piango, così come io non dormo. Questa barbara gioia mi tien vivo, questa voluttà crudele mi tiene in sesto la ragione che ad ogni momento sta per rompere la volta del mio cranio, coll’eruzione del delirio, coll’incendio della disperazione.
Io vi amava, vi amava in silenzio; vi amava tanto che l’idea che un giorno avreste potuto esser mia mi dava la palpitazione di cuore, mi faceva quasi paura. Non mi sentiva degno di voi; voleva adorarvi, voleva circondarvi poco a poco di un’atmosfera che fosse tutta un’emanazione del mio cuore. Voi non sapete qual riforma avete fatto del mio carattere per rendermi degno di voi. Dove trovava una macchia, dove scopriva una debolezza, io vi portava il ferro e il fuoco e vi metteva al posto della macchia e della debolezza il vostro nome, la vostra immagine divina, il mio amore per voi. Io aspettava di sentirmi perfetto, di sentirmi degno di voi per potervi dire colle labbra tremanti ma colla fronte alta: Emma, io voglio esser vostro! datemi la mano, siamo degni l’un dell’altro.
E il giorno non era venuto ancora. Io vedeva spuntare di lontano nella nebbia dell’orizzonte l’alba di quel giorno, di quell’ora di paradiso ma un immenso desiderio, ma un’angoscia senza nome mi davano coraggio ad aspettare, perchè in fondo di quella via io vedeva la mia Emma. Ah Emma, miss Emma, voi mi intendete di certo voi sentite in questo momento quel ch’io sento!
Ma voi avete rotto l’incantesimo, voi avete gettato a terra dalle fondamenta il tempio dove voleva collocare il mio Dio, voi avete colle mani crudeli strappato dal cespuglio di rose il nido dove aveva a collocare il nostro amore; avete messo quel nido sotto i vostri piedi; l’avete calpestato, l’avete fatto in pezzi. Ed io ho gettato il bastone da pellegrino con cui andava alla mia Mecca, e ho gridato come un viaggiatore che, ritornando in Europa colla fortuna laboriosamente raccolta in molti anni di lavoro e di stenti, si trova assalito dai ladri. Sì, miss Emma, io sono stato brutale. Io mi son presentato alla vostra zia e vi ho chiesta in isposa, vi ho chiesta, come foste una donna qualunque; come se anch’io, venuto all’età di raccoglier le vele, avessi deciso di prender moglie. Vi ho chiesto la vostra mano, per l’eternità, prima di sapere se a bordo del Thyne essa aveva stretto la mia per distrazione o per amore. Ho battuto alla porta del Paradiso, e col denaro in mano ho picchiato, perchè il portiere mi aprisse, perchè mi desse il mio biglietto d’entrata. Giammai potrò perdonarmi questa brutalità, questo atto d’uomo disperato.
E sapete voi che cosa mi rispose la vostra zia? — Si fece seria in volto, si turbò assai, ebbe gran difficoltà a poter pigliar fiato e potermi rispondere; ma poi timidamente non seppe dirmi altro se non queste parole: Domandatene a miss Emma. Essa ha il giudizio d’una vecchia signora, ella è il solo giudice di queste quistioni, i suoi desideri sono i miei... E parlando e salutandomi, mi parve che mi guardasse con compassione, con tenerissima compassione.
Ed io son qui ai vostri piedi, come un condannato che dopo un lungo carcere ingiustamente patito, coll’animo rotto e colle vertigini dello scoraggiamento, aspetta una parola che lo ritorni ad esser uomo...
Ed io son qui, miss Emma, avvilito di aver chiesto la vostra mano ad una zia, di aver scritto cose che gli occhi nostri soltanto avrebbero dovuto dire, di avervi fatto una domanda brutale, sconveniente, indegna di voi e di me. Mi son trovato col mio palazzo in rovine, col mio tempio scomparso: mi son visto lacero, affamato, avvilito, in mezzo ad un deserto, e pochi momenti dopo essermi creduto il Re dei Re ho domandato il pane dell’elemosina al primo viandante... E questo pane l’ho chiesto a voi; mia regina, a voi Dio del mio cielo.
emma a william.
Londra 12 Gennaio 18...
M.r William, io provo un’immenso dolore nel dover rispondere alla vostra lettera; e voi vorrete credere sicuramente ad una povera creatura molto infelice, molto debole, ma che non ha mai mentito.
Prima di scrivervi io ho pianto assai, ma M.r William io non posso essere la vostra sposa; io non posso essere la moglie di alcun uomo. Non me ne domandate la ragione; non accrescete colla vostra curiosità il mio dolore. Dimenticatemi; voi siete giovane, siete ricco di ingegno e di forza; dedicate le splendide ricchezze dell’animo vostro a far felice una creatura che può accettare il vostro amore. Dio è generoso; il mondo è popolato di bellissime e carissime creature degne di voi. Fate felice e superba una di esse.
Sopra tutto dimenticatemi, ve ne scongiuro in nome di mio padre.
william a emma.
Londra 13 Gennaio 18...
No, miss Emma, io non vi dimenticherò; no, io non andrò a gettare il mio fazzoletto tra le figlie di Eva; per me non c’è che una donna sola nel mondo e siete voi; per me non c’è che un modo solo di vivere, ed è di vivere con voi.
Perchè non avete avuto il coraggio di scrivermi che non mi amate? Avrei avuto il coraggio di morire: ma voi mi amate; me lo dite cento volte nella vostra lettera. Io leggo il vostro amore in ogni parola, in ogni seguo che la penna ha lasciato sul vostro foglio crudele. Voi non sarete mai d’altri, ma non sarete neppur mia. Non capite voi che questa è più crudele tortura di quante seppero immaginare i crudeli inquisitori di Spagna? Non capite voi che a questa tortura non vi ha calma che basti? Non capite voi che la pazzia e il delirio sono i frutti di questi tormenti?
Qual mistero vi circonda? qual è il genio del male che si è messo fra me e voi? Chi è più forte di noi? Chi osa nel silenzio stritolare ad una ad una le articolazioni di un bambino innocente: rompere le membra del nostro amore? Chi mai osa dirsi più forte del nostro amore? Perchè non mi avete detto che mi odiate? Non vi avrei creduto; forse avrei potuto pensare che mi avete amato, ma che ora un amore più potente, più grande aveva cancellato il mio. No, non avrei creduto neppur questo. Ma perchè almeno non avete tentato di farmi disperato e moribondo, e morto in una volta sola? Chi vi dà diritto di tenermi sospeso fra cielo e terra, con un piede nell’inferno e la chioma in paradiso? Chi vi ha dato ad un tratto il genio dell’assassino e del carnefice?
Miss Emma, miss Emma, abbiate compassione di me che vi amo tanto, che piango come un fanciullo... ma anche voi mi amate.
william a emma.
Londra 15 Gennaio 18...
Perchè tacete miss Emma? Perchè siete tanto crudele? siete forse nata in Ispagna? Avete nelle vostre vene il sangue di San Domenico? Uccidetemi per carità in una volta sola; ogni fibra del mio cuore spasima, ogni sentimento piange; tutte le facoltà dell’anima mia non sono che dolore; tutto quel che sono, tutto quel che penso, non è che dolore. Non avrei mai creduto ohe l’uomo potesse soffrire tanto e non stancarsi nel dolore. Aveva ragione Byron di dire che il dolore è mezza della sua immortalità.
La fama si sazia, la gioia si sazia, il lavoro si stanca, il pensiero riposa; dorme l’ambizione, dorme l’avarizia, dorme il genio; ma il dolore non dorme, non posa, non si sazia di se stesso, ma come la fenice della favola antica si rinnovella dalle proprie ceneri e quando i nervi non bastano più a tanto tormento, il dolore cambia di forma e rimane più crudele e sempre nuova la tortura. Dopo l’ira elle morde sento lo strazio che mi adunghia, dopo lo strazio la disperazione, dopo la disperazione l’amarezza, dopo l’amarezza lo sconforto, e poi di nuovo lo strazio e la tortura, il vampiro che mi sugge il sangue dal cuore, lo sgomento d un sogno spaventoso; e sempre un abisso di dolore senza fondo, senza confini, nero, eterno, gelato, inesorabile.
Ah! miss Emma, chi ha osato ridere della religione non ha mai sofferto.
E voi siete il carnefice di tanta tortura; e voi sola in questo mondo che mi intendete, potete capire quanto sia il mio dolore. Voi non fate patire in me un uomo solo, ma due generazioni di uomini... voi lo sapete. In me l’amore ha saldato insieme due razze, due destini, due mondi. Mia madre era italiana, il padre mio inglese; erano due nature che più lontano, più diverse la natura non fece mai; e l’amore il più potente degli alchimisti, fu chiamato a fare il miracolo di riunirli in un solo; ed io sento in me due nature, due mondi di pensieri, di sensazioni, di gioie e di dolori. Sento in me ad ogni tratto il Vesuvio e la nebbia di Londra; e voi sorridendo mi avete più d’una volta chiamato vulcano o nebbia, secondo che in me parlava l’italiano o l’inglese. Giammai io ho sentito come in questi giorni che cosa voglia dire essere un uomo doppio. I sensi caldi, la fantasia ardente, m’accendono colla celerità del lampo; sento che in me Moncibello e Vesuvio divampano in una volta sola e mi guardo e mi tocco, credendo che tanta fiamma consumi il mio corpo gracile e sottile, e soffro e godo e sento come i figli di quella terra che diede Dante e Leopardi, Machiavello e i Borgia; mai sensi non mi divorano, ma la fantasia non mi consuma: nel mio cratere non ho mai veduto la cenere, ma sempre il fuoco ardente. Io mi sento un uomo d’amianto che è sempre fra le fiamme e mai si consuma. — In mezzo al delirio l’uomo inglese non muore; ed io mi osservo, ed io numero i palpiti del mio cuore, ed io sforzo la volontà perchè spenga il fuoco; e l’uomo d’azione e l’uomo del senso insieme respirano, insieme combattono e soffrono insieme.
E dopo il delirio, quando l’uomo del mezzogiorno consumato dalle fiamme dorme e riposa, l’inglese sorge più fresco, più attivo, più eccentrico che mai, e rinnovella la passione e fa risorgere il dolore. Sento come un italiano, agisco come un inglese; e se il moto perpetuo esiste, e se il dolore eterno non è un sogno; in me io trovo il moto perpetuo e l’eterno dolore.
La natura che ha dato i vulcani all’Italia, le ha dato la brezza profumata dei boschi d’aranci; la natura che ha dato al tropico la gelosia dell’Arabo e le voluttà del serraglio, gli ha dato ancora i lunghi sonni e i beati sbadigli; ma io ho il vulcano e la nebbia; ho l’intensità e l’estensione del dolore. Perchè mai l’amore si permette questi scherzi crudeli? Saldare insieme l’orso bianco ed il tigre, il pino e la rosa, il ghiaccio e il fuoco?
Mentr’io soffro di un dolore senza nome, che dovrebbe spegnersi nel pianto che non ha parole, nel delirio che non ha pensieri; la volontà dell’inglese vuol dominare il dolore, vuol dargli forme di pensiero elevato, vuol cambiare la tortura in un’arte, vuole nelle visceri palpitanti e straziate cercare il bello. Emma, Emma, voi capivate tutto questo, voi avreste potuto educarmi, voi avreste saputo trovare il segreto di ordinare tutte queste forze, sicchè io non fossi un paradosso vivente, ma un uomo utile e buono.
Emma, perchè vuoi uccider te stessa, perchè vuoi farti suicida?
Voi lo sentite: non è superbia la mia. Le nostre anime son saldate insieme, i nostri cuori battono in uno stesso tempo, il fiato dell’anima vostra cerca il mio; uccidendo William, voi, date morte a voi stessa. Perchè volete morire, voi, così giovane, così bella, così cara? — Perchè volete far morire due creature che messe vicine sarebbero tanto felici, che benedirebbero l’ora in cui s on nate, e il padre e la madre, e il Creatore che li aveva fatti l’un per l’altro? Qual’è la parola, qual’è il segreto che spiega questo orrendo misfatto? — Io divento superstizioso; mi par di sentirmi nella grotta fredda e umida di una sibilla che non vedo, mi par di sentirmi i brividi e di attendere da una parola magica la sentenza del mio destino. Esiste dunque il fato; esiste dunque l’incubo e la strega e la magìa e l’arcano, l’inesorabile silenzio del tempio e la parola che uccide senza giudizio? esiste dunque la spada invisibile del destino che piomba sul capo senza diritto e senza ragione, che fa sogghignare il cinico, che fa bestemmiare contro la vita, contro la provvidenza, contro Dio?
Perchè non divento io pazzo? Perchè non posso io morire? Ma fossi l’ultimo, il più povero, il più infelice, il più spregevole degli uomini, sono un uomo anch’io e voi, donna, dovete porgere la mano a chi soffre tanto. — Accarezzate un’ultima volta la vostra vittima prima di consegnarla al laccio del boja; siatele cortese d’una parola, d’una parola sola.
Io non vi domando l’amore, non vi domando la pietà, vi domando l’elemosina di una parola. Rispondete alla mia ultima lettera. Son tre giorni che io vi ho scritto; capite voi, Emma, che cosa voglia dire tre giorni? Tre giorni e tre notti; settantadue ore, dopo aver letto un pezzo di carta firmata da voi e che mi diceva che non potevate essere mia! Le leggi moderne permettono ancora la pena di morte, ma il condannato si sente leggere la propria sentenza; egli conosce perchè lo si ammazza. Dovrei io esser trattato peggio di un assassino, peggio di un parricida?
Son tre giorni che avete ricevuto la mia lettera, e avete voi saputo tacere tre giorni? Non siete voi dunque una donna... non siete voi neppure un uomo? Voi siete morta di certo, non potete esser viva, sapendo che a pochi passi da voi, che dinanzi alla vostra casa, intorno alle mura del vostro giardino si agita uno spirito che è vostro, che è parte di voi stessa, che muore di gelo, che batte i denti di freddo, e a cui nessuno apre la porta per riscaldarlo. Voi siete morta di certo, miss Emma. — Io sono vile, io sono vile: io vi domando per pietà, in nome di vostro padre che nominate sempre e che io odio come odio voi, come tutti gli uomini, come tutto l’universo... in nome di vostro padre una parola...
emma a william.
Londra 16 Gennaio 18...
In nome di mio padre che voi odiate, in nome del vostro amore per me, dimenticatemi, William.
Non sapete voi che soffro anch’io, che anch’io maledico quel destino di cui avete raccapriccio, quel destino che non è un sogno fantastico della nostra mente, ma che esiste, ma che è al di sopra di noi e più forte di noi? Povere goccie di un mare senza confini, noi dobbiamo al mare la nostra gioia, i nostri dolori. Il dovere esiste prima di noi, l’umana famiglia esiste prima di noi, e ad essa dobbiamo il nostro sacrifizio di lagrime e di sangue. La creatura d’un giorno non ha diritto di spegnere il sole per riscaldare se sola o il nido dei proprii amori.
Dimenticandomi, William, voi adempite un dovere, fate un atto generoso, nobile, grande, ed io lo adempio con voi. Nel vincolo di un santo dovere noi saremo stretti insieme per tutta la vita. Ricordate pure la vostra Emma, ma amate un’altra donna; sopratutto dimenticatemi. L’amore non è tutto l’uomo, al di sopra di esso vi è il dovere, al di sopra di esso vi è la virtù, vi è la grandezza del sagrifizio, vi è la felicità della famiglia umana. Tutte le creature amano, tutte le creature ardono il loro fuoco d’amore; ma l’uomo soltanto può spegnere l’amore per diventare nobile e grande.
Spegnete il Vesuvio, William, e ridiventate inglese. Io non soffro meno di voi, ma so tenermi calma, ma so asciugare le lagrime, perchè non cadano su questo foglio e vi lascino un fuoco che vi consumi, mio buon amico. Io son tutta inglese, sapete, e poi e poi, mio William, io ho sofferto sempre, io sono maestra nel dolore, e voi vi ribellate contro la sventura, perchè questo è il primo dolore che voi soffrite. È grande, e infinito, mio William; io lo so, mio William, quanto sia infinito; ma prima d’ora io ho pianto e mille volte e per anni ed anni ho sofferto, sicché la mia vita mi par già assai lunga.
Ma questo dolore è il primo, è il più grande dei miei dolori; mi schiaccia, mi toglie tutte le mie forze, mi uccide. Non vi basta, mio William, ch’io vi dica questo? Non vi basta ancora? Volete sapere altro?
Io sola non mi son sentita il coraggio di combattere: e in quei tre giorni di silenzio nei quali la fantasia vostra mi figurava tutta intenta a tormentarvi, cercavo, imploravo ad altissima voce degli alleati. La mia buona zia piangeva con me, ma aveva anch’essa bisogno di quella forza, ch’io le chiedeva — Dopo due giorni di pianto, mio William, ho raccolto tanta forza che bastasse per recarmi dal vecchio medico di mio padre, colui ch’egli mi consigliò di consultare nei più gravi momenti della vita. Ebbene, quel buon vecchio, dopo aver passato con me un’intiera giornata, mi ha imposto di partire dall’Inghilterra. E quando voi leggerete questa mia lettera io sarò già sul continente. Non domandate dove porterò i miei passi e i miei dolori. Lasciate solo una riga a casa mia che mi dica che voi mi ubbidite, che voi vivrete, che voi farete ogni sforzo per dimenticarmi, per trasformarvi in mio fratello. E poi, William, giuratelo, non mi cercate; fate di non scrivermi più mai.
Addio, mio William: non spegnete la vostra giovinezza, la vostra forza, il vostro genio in una sterile via che non può condurvi che alla disperazione. Siam creature troppo deboli per combattere contro tutti. Che la vostra vita non sia una maledizione! Guardatevi intorno, vedete quante cose difficili potete fare: quante grandi verità potete conquistare: lavorate, consolate, rialzate i caduti, confortate gli avviliti, animate la gioia e la verità intorno a voi.
Fate tutto questo per amor mio, per amore della vostra
Sorella Emma.
william a emma.
Sì Emma vivrò perchè mi amate: vivrò perchè dovete amarmi eternamente; non vi dimenticherò mai, ve lo giuro; amo voi sola, mio tesoro, mio Dio, mio tutto.
william a emma.
San Terenzo, 20 aprile 18...
Mia sorella, maleditemi, ma ascoltatemi. Io non so resistere a dirvi subito che son qui presso a voi: è una gioia troppo grande questa, perchè la possa nascondere, perchè la possa tacere. Qui dove mi trovo vedo la casa dove abitate, vedo le finestre chiuse dietro a cui state questo momento sognando o sospirando. Era me e voi non vi sono che due palmi di giardino: e le canne del mio orto, mosse dalla brezza marina, accarezzano amorose le pareti della vostra casa.
Io non ho chiuso occhio tutta la notte. Da ieri sera non sentite voi che l’aria di San Terenzo è diversa di prima? Io mi sento così pieno di felicità, così inebbriato d’una beata inquietudine che mi pare da ieri sera che tutti debbano accorgersi ch’io sono l’uomo più felice del mondo; e (non ridete) mi son già guardato più di dieci volte nello specchio per vedere se quest’uomo che godeva tanto, che sentiva tutto un mondo nuovo esultare nelle sue viscere, era proprio io.
Dopo aver osato rompere la mia promessa di non cercarvi non v’è più peccato che mi sembra grave; e oso ancora violare un altro giuramento, quello di non iscrivervi più; ma scrivendovi avrei tante e tante cose a dirvi che non so per quale incominciare e in me balza e si agita uno spirito che non lascia posa al pensiero; e levo gli occhi ogni minuto dal foglio per guardare la vostra finestra; e sento che tutta l’anima mia circonda la vostra casa di un’atmosfera di amore e l’accarezza come la cosa sua più cara, più santa.
Non posso più contenere i miei pensieri nelle dighe di questo foglio e voglio sùbito che voi sappiate che son qui a San Terenzo con voi; voglio sùbito che mi scacciate lungi da voi le mille miglia o che posando la vostra mano sul mio capo mi diciate con un vostro sorriso. William, fratello, io ti perdono.
Addio, Emma, vado a cercare chi vi porti questa mia lettera.
william a emma.
San Terenzo, 20 aprile 18...
Sono escito colla mia lettera; il cuore mi batteva forte ed io mi sentiva così turbato, che se un carabiniere mi avesse incontrato per la via mi avrebbe sùbito arrestato, vedendo in me il volto di chi sta per commettere un grande delitto. E infatti non ho io violato la parola data?
Son passato dinanzi alla vostra casa: era chiusa; chiuse tutte le finestre; tutto dormiva. Ho fatto il giro della casa, e là dove la parete s’innalza sopra un sentiero campestre, mi son guardato intorno; e non vedendo alcuno, mi sono avvicinato e ho baciato quella parete. Non avete voi sentito quel bacio? — Fuggii come se avessi ucciso un uomo, e per più di mezz’ora turbato, confuso, col corpo tutto in sudore mi sono gettato per viottoli solitarii, fra i boschi di olivi, ora guardando alla vostra casa, ora al mare, ora al cielo, finchè la stanchezza dei muscoli m’ebbe dato un poco di calma. Oh, come mai il fragile corpo dell’uomo può tener chiuso in sè tanto fuoco, tanto delirio, tanta vita; tutto un mondo di gioia che combatte con un altro mondo di dolore?
Sono ritornato al villaggio per la via del mare; camminava lesto lesto sull’orlo dell’acqua, e mi divertiva a veder cancellare le mie orme lasciate sulla finissima arena del molle e bianco merletto delle onde che parevano volermi baciare i piedi. Qual fascino riunisce tutti gli uomini su quell’orlo sottile che separa la terra dal mare, il finito dall’infinito; la vita di un giorno dai sogni eterni della speranza e del desiderio!
Domandai se in San Terenzo vi fosse una posta; mi dissero di no, che conveniva portar la lettera a Lerici;. non v’era altro mezzo che cercarmi un messagero. Lo trovai, e messomi a sedere sopra un muricciuolo attesi coll’orologio in mano il ritorno del piccolo pescatore dai piedi nudi che aveva mandato colla mia lettera. Due volte credetti che la lancetta dell’orologio non camminasse e ravvicinai al mio orecchio; poi impaziente chiusi gli occhi, tormentai colle mani le pianticelle di menta sulle quali mi era seduto e che profumavano l’aria all’intorno.
Oh! mia Emma, se un uomo senza amore guardasse un innamorato, come dovrebbe trovarlo ridicolo!
Il mio pescatore ritornava pochi minuti dopo, saltellando di sasso in sasso, ma aveva ancora la mia lettera fra le mani. Chiusi gli occhi di nuovo, come fanno i bambini, quando credono che così facendo non saranno veduti. Seppi dal mio messaggero che la porta era ancor chiusa, nè vi era un campanello o altro per risvegliare i dormenti. Il mio vispo messaggero non si era però dato vinto dinanzi alla porta chiusa, e si era arrampicato sull’inferriata del pianterreno, ma tutto era chiuso o fin nella cucina, mi diceva egli, non si vedeva neppure il gatto. Era venuto di corsa a domandarmi, se potrebbe picchiare nella porta con una pietra per svegliare quei signorini, che dormono alla pisana... diceva ridendo e facendo smorfie vivacissime con quel suo volto bruno, intelligente, sporco.
Gli dissi di no, lo ringraziai e riportando la mia lettera, son qui di nuovo a scrivervi. Oh! l’amore trasforma davvero l’uomo in un ragazzo: ma il fanciullo è anche la creatura più calda, più innocente, più irrequieta del mondo.
E sono qui col capo che mi vuol scoppiare, ma colla calma necessaria per farvi le mie scuse, per giustificarmi, per difendermi, sicchè mi abbiate a perdonare il mio peccato.
Voi siete partita da Londra ed io vi son rimasto. Ecco tutta la storia di quel dolore che in tre mesi non ho potuto vincere e che per la prima volta in mia vita, e spero per l’ultima, mi ha fatto spergiuro alla mia parola.
Dopo alcuni giorni, quando la stanchezza della disperazione mi diede tempo e modo di pensare e di ritornare un uomo, io immaginai un modo di poter vivere. Appena alzato io vi scriveva, e per due o tre ore io era con voi. Piegava la lettera, come se avessi potuto impostarla, faceva insellare il mio cavallo, e a caso entrando nel primo parco che incontrava, mi dava a tutto lo sfrenato galoppo del mio Blitz, su e giù per i lunghi viali, e immaginandomi di raggiungervi e di consegnarvi io stesso la mia lettera che portava sempre meco. A quell’ora io era il solo cavaliere che pestasse l’arena dei parchi di Londra; e la fantasia riscaldata dal pensare sempre ad una cosa sola mi dava tale illusione che io, isolato olfatto dal mondo esterno, sulle ali del mio cavallo, correva e correva, sbarcava sulla costa del Mediterraneo, trovava la vostra casa, vi vedeva alla finestra, vi vedeva sorridere, vi salutava. E poi, e poi, io mi rizzava sulle staffe; voi allungavate il braccio ed io vi consegnava la mia lettera. Ed io andava così smarrito in questo sogno, che finchè la stanchezza del mio cavallo, non mi obbligava a rientrare, io era ancora con voi.
Rientrato, io era così stanco che poteva sdraiarmi e passare una o due ore in un sopore inebbriante che mi lasciava vivere senza far nulla.
Alzato da quel letargo che avrei voluto durasse tutta la vita, rientrava nel mio studio, rileggeva la mia lettera, e immaginandomi di essere voi stessa, rispondeva una lunga lettera a William, e la piegava e vi scriveva il mio indirizzo. A voi devo dir tutto, perchè sappiate quanto io vi ami. Più d’una volta io ho impostato quella vostra risposta fatta da me e ho giubilato, quando il mio servo me la portava col bollo della posta.
Questa non era sicuramente la vita che voi mi avevate imposto di vivere, ma io non poteva condurne un’altra; e fuori di essa non poteva intendere e immaginare che il suicidio. Voi mi avevate scritto di studiare, di rialzare i caduti, di confortare gli avviliti, di seminare la gioia e la verità intorno a me; ma il vostro povero William invece non sapeva fare che una cosa sola: amarvi, amarvi con tutta la forza che dà la disperazione.
Poco a poco però quell’esaltamento continuo in cui mi trovava, quell’immaginarmi vivo e attivo in un mondo che non esisteva mi trassero in una specie di demenza, in una vera follia che mi metteva paura più che la morte; e fin da giovinetto ho sempre avuto più orrore di quella morte della ragione che si dice la pazzia, che della morte intiera che non è poi che la negazione della vita, la negazione d’una ben povera cosa.
Allora risorsi ad un tratto come una molla compressa da lunghi anni e che, levato il peso, solleva e schianta ogni ostacolo. In pochi minuti vidi chiaro il mio posto nel mondo, sentii che tre mesi di separazione mi avevano fatto sempre più innamorato di voi, sentii che senza di voi la vita era per me un peso insopportabile, una tortura senza nome. Vi aveva promesso di vivere, ma, continuando così come faceva da tre mesi, sarei divenuto un povero demente, e voi di certo, voi così buona non avreste voluto fare del vostro William un pazzo. Allora pensai di cercarvi, di cercarvi in capo al mondo, se fosse stato necessario di domandarvi il vostro amore o la restituzione della mia parola. Era un dilemma crudele, ma inesorabile: io non ne sapeva veder altro, non ne poteva immaginare uno migliore.
Nei labirinti del cervello, fra i vulcani del cuore mille e mille pensieri sorgono, si accavallano, si intrecciano; mille passioni si fondono, si equilibrano, si elidono; ma venuto il dì della battaglia, ogni nebbia sparisce, ogni delirio s’accheta, ogni convulsione si calma e sul campo trasparente dell’azione rimane con matematica crudeltà dinanzi a voi un dilemma; la lotta di due principii, di due passioni, di due individui, di due epoche, di due armate; due cose insomma, delle quali una deve vincere e l’altra deve perdere; due cose vive, una delle quali deve morire.
E per me il dilemma era uno solo; o vivere col vostro amore, o morire.
Rientrato dal mondo dei sogni sul terreno dell’azione, consumata tutta la poesia italiana che mi faceva così caldamente innamorato, ritornai a sentirmi tutto inglese, non dubitai un momento che io non vi. avrei potuto trovare. Voi odiate il freddo e i pini e i tetti grigi del nord; non potevate essere che in Italia; e dal vostro viaggio in quel paese voi avevate riportato due care memorie, che insieme le tante volte avevamo accarezzato nelle nostre lunghe conversazioni dei crepuscoli della sera. Voi non potevate essere che a Sorrento o nel Golfo della Spezia; io ne ero sicuro. Non è menzogna, non è poesia che il cuore abbia le sue divinazioni. Non si può amare senza avere gran parte, senza aver forse tutta l’anima di un altro fuso colla nostra, senza avere una parte del pensiero d’un altro fuso col nostro pensiero, senza sentirsi incarnate nelle proprie viscere le viscere di un altro. Ecco perchè il cuore legge e indovina: perchè non fa che leggere in sè stesso ciò che ha trascritto da un altro libro; non fa che sentire in sè stesso insieme alla sua una coscienza che ha strappato da un’altra anima sorella.
Son venuto alla Spezia, ho frugato in ogni albergo, in ogni casa; seppi jeri sera da un barcaiuolo, che or soli tre mesi egli aveva condotto due signore a San Terenzo; una, diceva egli, molto bella e giovine e sofferente; l’altra una vecchia grassa che pareva una molto buona signora. Eravate voi certamente, voi colla vostra zia. Dissi subito a quel barcaiuolo di condurmi a San Terenzo; mi rispose che il vento era gagliardo e che conveniva ch’egli si prendesse un compagno; non volli; egli solo vi aveva condotta, egli solo doveva condurre anche William.
Mi misi al timone, la vela era gonfia fino a voler strapparsi, si volava sulle onde; ma io pativa troppo spesso di distrazione e più d’una volta arrischiai di gettare il guscio sugli scogli o di rovesciarlo sulle onde. Gaetano non mi permise più di reggere il timone. Fu meglio anche per me. Mi buttai sulla prora, e là chiuso fra due vele, a un palmo dalle onde, col vento fresco che mi penetrava fino nelle ossa, potei divorarmi cogli occhi tutto questo paradiso di colli ridenti, di scogli infernali o di azzurre pianure che si chiama il Golfo della Spezia. Amava ogni foglia d’ulivo, ogni ombrello di pino; seguiva cogli occhi amorosi ogni perla che si distaccava dall’oltremare delle onde per correre sotto la sponda del nostro schifo e sparire; assaporava colla bocca aperta l’aroma del mare, godeva con ogni senso di quel paradiso, perchè era il nido in cui si era nascosta la mia Emma.
Giunsi a San Terenzo all’ora del crepuscolo; andai subito al caffè dell’Unione, e senza prudenza alcuna, anzi con selvaggio ardimento, domandai il vostro nome: seppi ciò ch’io già sapeva; presi in affitto una camera in faccia alla vostra; mi sentii per un momento il più felice degli uomini; ma la mia felicità non mi portò al delirio, perchè ho saputo attendere, perchè dopo aver veduto alla sera il vostro volto pallido e divino alla finestra, ho saputo resistere e son rimasto in casa; perchè a pochi palmi da voi ho saputo strozzar nella gola un grido che mi prorompeva violento: Emma, Emma; e fuggito dalla finestra, mi son gettato sul letto, soffocando il grido e il volto, e tentando di smarrirmi in me stesso, onde scordare per pochi momenti la coscienza di una sensazione così violenta che pareva dovesse uccidermi.
Il mio amore mi gridava forte forte nel petto: la tua Emma è là, è là presso di te; essa potrebbe sentire la tua voce; essa è là ed è tua, perchè nessuno può amarla quanto William, nessuno può farla felice quanto lui.
E il tuo orgoglio gridava forte anch’esso quanto l’amore: la tua Emma era in Europa, questo solo sapevi, e il tuo cuore ti portò là dov’ella era; come colomba che cogli occhi chiusi spiccata da lontane regioni, ritorna al suo nido; come freccia di abile cacciatore che cerca infallibile il suo bersaglio; come occhio di creatura viva e foglia di pianta sepolta che ritrova il suo raggio di sole; come l’Arabo del deserto che fiuta l’acqua dell’oasi remota; come William che cerca Emma: come Emma troverebbe William.
Credi tu, mia Emma, dopo tutto questo, che Dio non mi abbia creato per te, non credi tu forse che siam due rami spiccati da un tronco solo e che la mano pietosa del tuo amore deve saldare e fasciare insieme, sicchè vivano dello stesso succhio, aspirano l’aria stessa, e eternamente avvinti e saldati non vivano che d’una vita sola?
Fuori di questo, tu puoi dirmi una cosa sola, ed è che tu ami un altr’uomo. Se questo è vero, dimmelo fra un’ora, anzi in questo momento, sicchè io muoia di dolore dinanzi alla tua casa, dinanzi a quella parete, su cui ho stampato pochi momenti sono un bacio ardente come la vita, fedele come la morte.
emma a william.
San Terenzo, 20 aprile 18...
Mio William, mio caro William, perchè sei tu venuto qui? Mio William, perchè mi ami tu tanto? — Sì, io ti dirò tutto, sì, dammi poche ore di calma, perchè possa avere il coraggio di dirti la verità; ma finchè non avrai ricevuta una mia lettera, giurami di non venire da me. Se ti vedessi, o mio fratello, non avrei più la forza di dirti tutto.
William, abbi pazienza: ora mi sei vicino; la tua sorella ti dice che non ha amato, nè ama alcun uomo di un altro amore; dunque puoi aspettare ancora poche ore. Sì, te lo prometto; entro oggi ti scriverò tutto, mio William. Concedi un momento di pace alla tua Emma: se è vero che tu l’ami, abbile riguardo: essa è debole, è infelice; è appena convalescente da lunga malattia; lasciala che raccolga le forze, tutte le sue forze per dirti perchè sia fuggita da Londra.
Addio, mio amico, mio fedele amico.
emma a william.
San Terenzo, 20 aprile 18...
Mio William, mio caro William; hai tu bisogno che io ti dica per chi batte il mio cuore, dopo tanti mesi di comuni angoscie, dopo tanti dolori comuni; hai tu bisogno delle parole per sapere chi ama la tua povera Emma? Non lo sai tu meglio di me? Ma Emma non può esser tua, nè d’altri; essa è legata da un santo giuramento a viver sola, a morir sola. Il mio sangue è maledetto, è sacrato fatalmente a spegnersi in sè stesso; e il tuo amore e il mio, e tutte le forze umane unite insieme non potrebbero scongiurare questa sentenza inesorabile, dinanzi a cui la tua Emma ha piegato il capo già da parecchi anni; anche prima che ella ti avesse conosciuto.
Giurai a mio padre di non esser mai la sposa di un uomo, quando io ignorava che cosa fosse l’amore, e quando l’affetto per mio padre mi riempiva tutto il cuore. Giurai di non portar mai sulle mie ginocchia un bambino che mi guardasse teneramente e sorridendo mi dicesse: mamma! quando io stessa era poco più di una bambina. Ora io so che cosa voglia dire amare: so che è qualche cosa più che il vivere; indovino ora che cosa debba essere una madre: ma io non sarò mai nè sposa, nè madre, nè potrò mai violare il mio giuramento.
Oh! perchè, mio William, un destino crudele ti ha spinto sul mio sentiero, perchè mi hai tu amato, perchè mi hai tanto amato? Io sola avrei portato tutto il peso del mio dolore, io sola mi sarei perduta nel vuoto infinito della mia solitudine, sola colla memoria di mio padre, fiera di adempiere un dovere, di serbarmi fedele alle sue ceneri, alla santità della mia parola! Perchè mai ti ho tratto nel vortice della mia fatalità inesorabile, immutabile?
Stammi a sentire, mio William, e vedi quale dolore eguagli il mio. Non so se nascessi come tutti gli uomini piangendo, ma questo ricordo che la mia fanciullezza fu un solo pianto, che divenni grandicella piangendo e che le lagrime più amare ho versato poi, quando divenni una donna. Ho vissuto in mezzo ad un dolore che variando sempre non si stancava mai.
Giuocava colle mie sorelle maggiori; aveva carissimo sopra tutto un fratello, John, di dodici anni; e quando io non poteva vivere senza di lui, cadeva malato, e dopo pochi mesi di letto moriva; e mi ricordo di Jenny, un angelo di sorella, sempre vestita di bianco, con una lagrima negli occhi che non si asciugava mai, e che moriva anch’essa, assottigliandosi adagio adagio, come un pezzo di zucchero che si vada sciogliendo nell’acqua. Nel crepuscolo delle mie più antiche memorie mi ricordo di aver detto un giorno a Jenny: «Perchè diventi tu ogni giorno più pallida e più sottile?» E Jenny, con uno scoppio di pianto corse nella sua camera, gridando: «Perchè io muoio.»
Nella mia casa non si rideva mai. Quando i fratelli piccini facevano chiasso, veniva nostro padre con un cipiglio così serio da far spavento a un eroe e ci faceva tacere. C’era sempre qualche malato a letto, che non si doveva disturbare. Il medico e le medicine andavano e venivano sempre da casa nostra con eterna monotonia. Anche a tavola si taceva sempre e ci eravamo abituati a mangiare senza far stridere la forchetta e il coltello sul nostro piatto, a bevere senza battere i bicchieri contro le bottiglie.
Per molti anni mi ricordo che in casa nostra si era sempre vestiti a lutto.
Eravamo dodici figli; e tu vedi, sono rimasta sola; io l’ultima; e nascendo uccisi mia madre, che non ho mai conosciuta. La zia Anna mi allevò; e l’amo tanto perchè mi dicono che molto rassomigli alla mia povera mamma.
Anche mio padre era sempre malato, tossiva sempre, e mi ricordo che per molti inverni si andava con lui a Nizza o a Pisa. Una volta si andò fino ad Algeri e si rimase per alcuni mesi a bordo d’una nave. Potrei contare le parole che mi ha detto mio padre in tutta la mia vita; ma spesso mi teneva sulle ginocchia e mi baciava cento e cento volte, e passava la sua mano fra i miei capelli. Egli stesso mi pettinava e mi vestiva, ed io lo amava e lo temeva in una sola volta; provava per lui una venerazione come quella che si sente quando si prega Dio in una chiesa grande e deserta. Mio padre era così infelice, portava sul volto le traccie di un dolore così profondo, così infinito, che non lo si poteva guardare senza una compassione piena d’amore e di rispetto.
Venuta ai quindici anni, io era rimasta sola di tutti i figli nati a mio padre. Eran morti tutti tisici, e mio padre era tutti gli anni minacciato di morire nella stessa maniera. Ricordo, che abbracciandolo, io doveva badar sempre a non stringergli il braccio sinistro, perchè vi portava una piaga che i medici gli avevano aperta nelle carni. Molte volte i servitori di casa mi guardavano con aria di compassione e mi dicevano con una pietà crudele: «Questa povera Emma tien duro essa non vuol morire, ma chi sa poi che ne sarà di lei.» Una cameriera di mia zia, che era pure una buona donna, mi fece piangere una volta un giorno intiero. Mio padre mi aveva proibito di recarmi alla sera nel parco di casa, dicendo che il fresco della notte mi avrebbe fatto molto male; ma una sera la luna splendeva bellissima dietro i pini del ruscelletto ed io pregai miss Mary di accompagnarmi nel parco. Sapeva di disubbidire a mio padre, ma voleva che Mary si facesse mia alleata e mi aiutasse a commettere quel peccato. Mary esitò alquanto, e poi, coprendomi con un caldo mantello, mi disse: «Andiamo, andiamo, Emma, alla fine godi della vita che ti resta; anche le tue sorelle e i tuoi fratelli hanno usato di tutte queste precauzioni, eppure sono morti; vieni, andiamo, andiam nel parco.»
Io mi diedi a piangere e non volli andare a vedere la luna sotto i pini del ruscello, e, singhiozzando forte, dissi a Mary ch’io voleva ubbidire a mio padre, e che io non voleva morire. Piansi tutta quella notte e tutto il giorno appresso.
Così, mio William, passò l’infanzia della tua Emma; così vissi l’adolescenza, e quando mi sentii donna, nell’età in cui alle altre giovinette si apre un mondo di paradiso; tutto poesia e tutto speranza, io era già abituata a non vivere che nel pianto, e vedendo la mia famiglia così infelice e senza colpa d’alcuno, più di una volta mi domandava perchè Dio fosse stato così ingiusto verso di noi; perchè mai noi soli dovessimo essere consacrati a vivere in un cimitero che aveva sempre aperta una fossa per noi.
La povera, zia Anna era una buona donna, e tu la conosci mio William, una buonissima donna che aveva fatto da infermiere a mia madre e agli undici miei fratelli; ma essa non mi confortava mai con lunghi e cari discorsi. Ella non piangeva mai, perchè aveva gli occhi sempre umidi e rossi, quasi fossero stanchi ormai ed esauriti per aver tanto lacrimato; e quando io la interrogava per scoprire qual terribile mistero pesasse sulla nostra casa, rispondeva qualche monosillabo e subito si occupava del mio giubettino di flanella e delle mie calze umide; ed io non poteva respirare una volta di più del solito senza che tutti se ne sgomentassero, senza che mi mettessero a letto e chiamassero il medico.
Quando fui giovinetta mio padre chiamò un nuovo medico, il dottor Thom, che d’allora in poi divenne il suo amico più caro, e che fu l’unica persona ch’io vedessi sorridere, l’unica che portasse un raggio di luce e di letizia nelle tenebre eterne della nostra famiglia. A lui devo le sole consolazioni della mia prima giovinezza.
Mio padre, quando ebbe perduti tutti i suoi figliuoli, ed io sola gli rimasi, mi faceva visitare ogni giorno dal dottor Thom, anche quando io mi sentiva benissimo; ma quel buon dottore trovava modo di non seccarmi mai, e concludeva sempre colle stesse parole: «Miss Emma è delicata ma è sana, non c’è alcun timore.»
Un autunno mio padre era più inalato del solito e il dott. Them lo consigliò a recarsi presto presto a Mentone. Si partì: ma il mio povero babbo era tanto debole che convenne fermarsi ad ogni tratto del cammino e si impiegarono quindici giorni per andare da Londra al Mediterraneo. A Mentone passò l’inverno quasi sempre a letto, ed io doveva passeggiare pei prati e pei monti sola, colla governante, perchè mio padre diceva sempre, contro il parere dei medici, che il suo male era contagioso; e non voleva che io rimanessi più di pochi momenti nella sua camera: e anche quando al mattino e alla sera si andava a dargli il primo e l’ultimo saluto della giornata, egli non voleva mai baciarmi sulle labbra, ma solo sulla fronte.
Sul finire del febbraio parve migliorasse alquanto. Lo zio Thom era venuto da Londra e aveva suggerito un cambiamento nel metodo di cura che lo aveva rinvigorito in pochi giorni. Si alzava, e appoggiato ad un bastone andava a passare alcune ore nel giardino. La zia Anna ed io eravamo liete assai di questo miglioramento, ma quando si cercava di far sorridere il nostro malato, crollava il capo e mostrava sul suo volto una disperazione che ci faceva paura.
Un giorno si alza per tempo e dà gli ordini di prepararci per ritornare a Londra. La zia Anna ed io, sgomentate per questa imprudente sua risoluzione, corriamo da lui, tentando di smuoverlo dal suo proposito. Il dott. Thom gli aveva imposto di rimanere a Mentone, finchè egli stesso non gli avesse dato licenza di partire, ma per la prima volta mio padre disubbidiva al suo medico. La zia Anna gridò, minacciò, io mi gettai alle ginocchia di mio padre, e, abbracciandolo stretto stretto, lo scongiurai per amor mio a voler aspettare che l’aria si fosse un poco intiepidita per intraprendere quel viaggio temerario. Tutto fu inutile, ed egli era tanto esasperato che si alzò gridando: Voglio andare a morire in Inghilterra; io voglio morire in casa mia. Non aveva mai udito quell’accento a mio padre, e ritirandomi per preparare i nostri bauli, lungamente piansi, perchè in quelle parole aveva creduto di leggere la sentenza di morte del mio povero babbo.
In otto giorni si andò a Londra: ma mio padre vi arrivò in uno stato deplorabile. Il dottor Thom, appena lo ebbe veduto, crollò il capo e disse: «questo uomo ha voluto ammazzarsi.»
Erano dieci giorni che mio padre era a letto divorato da una febbre gagliarda, quando una sera mi manda a chiamare. Era tarda l’ora ed io era già presso a coricarmi. Lo trovai solo; la lucerna era velata e nascosta. Mio padre era seduto sul letto, e appena mi appressai a lui, mi prese per mano e sentii che la sua era ardente e piena di sudore. Senza lasciare la mia di fece sedere sul letto e mi disse: «Emma, sai tu perchè sono morti tutti i tuoi fratelli, tutte le tue sorelle? Sai tu perchè la nostra casa e stata per tanti anni un cimitero?... Perchè io ho uccisi tutti i miei figliuoli; e mio padre si asciugò il sudore dalla fronte così pallida che pareva di cera, e si passò la mano nei capelli. — Sì, mia Emma, ho ucciso i tuoi fratelli; ho ucciso le tue sorelle ed ho condannato te ad una vita infelice.
— Babbo, mio caro babbo, tu deliri, gli mormorai.
— No, io non deliro; io era ammalato, aveva nel sangue il germe della malattia che ora mi uccide, e l’ho trasmessa ai miei figliuoli e li ho uccisi. Io non aveva il diritto di diventar padre, e ho voluto aver una famiglia; io doveva subire solo la condanna della natura, e invece ho voluto avere dei figliuoli e li ho avvelenati col mio sangue, li ho uccisi, intendi...
E mio padre, preso da un accesso di tosse fortissima, dovette riposare e bevere a più riprese per ripigliare il suo discorso.
— E tu, mia Emma, porti nel sangue lo stesso veleno; e gli sforzi dell’arte soltanto e una postuma pietà della Provvidenza ti hanno conservata, perchè avessi a chiudere gli occhi al tuo povero padre, che senza di te sarebbe morto solo, solo coi suoi rimorsi e il peso di un pentimento che non ha a finire che nella fossa; ma tu, mia Emma, non puoi diventar sposa di altri; tu non hai a diventare madre. Me l’hai a giurare, mia Emma, qui su questa carta che ho scritto per te, e che leggerai quando io sarò morto. Tu hai a vivere colla zia Anna. Fa quel che vuoi: dedica la tua vita alle arti, ai viaggi, alla beneficenza, alla religione; tutto ti concedo, ma non esser moglie di alcun uomo, mai, mai. Me lo giuri, Emma?... solo con questo tuo giuramento morrò tranquillo.
Io piangeva e soffocava il pianto per non disperare mio padre, io non capiva nulla di tutto questo; capiva solo che una mia parola avrebbe consolato mio padre moribondo; ma i singhiozzi e le lagrime non mi lasciavano parlare.
— Ma giuralo, dunque, mia Emma, giuralo; io muoio; non posso aspettare.
Mio padre ansava orribilmente.
— Sì lo giuro, mio babbo lo giuro.
— Giuralo per tua madre, per tuo padre.
— Sì, babbo, giuro per te, per mia madre. Vivrò e morrò sola.
Mio William, gli occhi di mio padre lampeggiarono allora di una gioia divina. Mi gettò le braccia al collo, mi coperse di baci; ed io accanto a lui piangeva e piangeva, e sentiva che le braccia e le mani sue si andavano raffreddando. Non ricordo più quel che avvenisse più tardi; questo solo ricordo che pochi momenti dopo mio padre era morto.
William, intendi ora perchè Emma non può essere tua? Intendi tu ora il mio dolore? Hai tu ancora il coraggio di maledirmi?
William, leggi che cosa stava scritto sulle pagine lasciatemi da mio padre; leggi e vedi se alcuno in questo mondo possa dirsi più sventurato di me.
Addio, William, vieni a vedermi, dopo aver giurato a te stesso che non puoi essere, che non vuoi essere altro che mio amico, che mio fratello.
RICORDI A MIA FIGLIA EMMA.
Nessuno ha il diritto di dar la vita ad altri, quando la ragione, l’esperienza, il consenso universale gridano ad alta voce che questa vita sarà breve, malaticcia, infelice.
Mente per la gola, bestemmia contro Dio e contro la nostra dignità chi nega all’uomo il libero arbitrio.
Tutte le convinzioni, tutte le speranze d’un avvenire immortale sono sante dinanzi alla ragione, quando tendono ad elevare l’uomo in una sfera di sentimenti che lo fanno grande anche nella vita terrena; ma è eretico contro Dio e contro la ragione chi nega all’uomo la libertà del pensiero e dell’azione, chi gli rifiuta il santo battesimo del libero arbitrio.
Non v’ha forza di passione, non fascino d’amore, non turbine di delirio che possa far piegare al male chi deve e vuol fare il proprio dovere.
Al disopra dell’uomo sta il dovere: al disopra del dovere non c’è forse altri che Dio.
In tutte le età, in tutte le condizioni della vita, presso tutti i popoli e in tutti i tempi; al di sopra di ogni legge e di ogni religione sta primissimo il dovere di non far male ad anima viva.
Generare figliuoli malati è fare un grandissimo male, uno dei maggiori forse, e alle creature che più caldamente amiamo, alla carne della nostra carne, al sangue del nostro sangue.
Il generare figliuoli malati per propria colpa è peggio che uccidere un uomo nell’impeto della passione: è versare il veleno impunemente, proditoriamente nella coppa d’una persona amata.
Essere malati e voler avere figliuoli è egoismo brutale, è delitto; è seminare rimorsi per tutta la vita.
Il male fatto da chi genera figliuoli malati non finisce quasi mai nella prima vittima: la malattia, il veleno si diffondono spesso in due, in tre, in più generazioni, seminando la debolezza, il dolore, la maledizione contro la vita e chi ce l’ha data.
Chi è malato e vuole aver figliuoli è pessimo padre, perchè dà a bere ad essi il veleno; è pessimo cittadino, perchè dà alla nazione cattivi cittadini: è pessimo uomo, perchè rovina il primo patrimonio dell’umana famiglia: la salute e la forza.
Mettersi all’ombra di leggi ignoranti e brutali per giustificare il proprio errore è rinunciare per sempre ad essere qualcosa più del volgo che mangia, rumina e dorme.
Mettersi all’ombra di un fatalismo musulmano è giuocare tutta la propria fortuna sopra un tiro di dadi, è giuocare ad una lotteria la propria casa, la propria terra, tutto quanto si possiede.
La felicità è dei forti, la vittoria è per chi ragiona; e nessuna ragione al mondo può giustificare l’epilettico, il tisico, il demente, che vogliono col matrimonio perpetuare in una razza l’epilessia, la tubercolosi, la demenza.
L’amore è la più santa gioia della vita; ma volete voi farne un crogiuolo in cui si fonde un veleno?
L’amore è la prima benedizione dell’uomo, ma volete voi che generi una bestemmia?
L’amore è la fiaccola che riaccenda la favilla della vita: volete voi farne una teda funebre che guidi alla fossa?
Volete voi tossicoloso e morente accompagnare al cimitero figliuoli morti nel primo sorriso della fanciullezza?
Volete voi leggere sulle rughe precoci del vostro figliuolo giovinetto una maledizione contro il padre, contro la madre che lo ha generato?
Nulla può sostituirsi alla salute perduta; non la ricchezza, non l’educazione, non la scienza, non la religione.
Vestite di seta, coprite d’oro un malato; mettetelo in un cocchio dorato, portatelo nel tumulto d’una pazza festa e ditegli che sorrida.
Vestite un cadavere d’oro e di gemme, mettetegli in mano lo scettro del potere e ditegli che goda.
La vita malata, debole zoppicante, medicata sempre e sempre fasciata, è un assenzio che non v’ha miele che possa raddolcire; è dolore per cui non v’ha conforto; è fatica per cui non v’ha altro riposo che quello della fossa.
Mia Emma, mia cara Emma tu m’hai sempre amato, tu hai ardentemente amato tuo padre: ma io, dopo aver perduto tanti figliuoli e dopo averti veduta morente più d’una volta, ho maledetto me stesso e il mio peccato e la mia ignoranza e l’ignoranza dei medici che avevano fatto versare nella mia famiglia quel veleno di cui io dovrò morire.
Nato malato, avrei patito io solo; solo avrei potuto render utili agli amici e al paese quegli anni di vita sofferente che pur la natura m’aveva concesso.
E invece ho maledetto l’ora in cui son nato; ho raddoppiato, ho moltiplicato cento volte il mio dolore col dolore de’ miei figliuoli; ho cambiato la mia casa in un cimitero.
E ho pianto e ho vegliato le lunghe notti senza aver la forza di morire, ne la facoltà di perdonarmi il mio peccato.
La mia ignoranza ora non può giustificare più alcuno; la scienza moderna lo ha detto, lo ha proclamato ad altissima voce, che per fondare una famiglia conviene esser forti; ha dimostrato che i tisici generano tisici, gli epilettici epilettici, che una delle leggi più inesorabili è quella della eredità morbosa.
Se per rara fortuna, se con lunghi stenti riuscite ad avere alcuni figli sani, di certo, fra essi, alcuno sarà maledetto; e il padre malato e la madre tubercolosa leggeranno in quel volto consacrato al dolore una condanna vivente del proprio peccato.
Emma, mia buona Emma, tu sei stata malata tutta la vita, tu, mia ultima figliuola; ho fatto prodigi di igiene per salvarti e credo che tu vivrai. Dio non volle ch’io fossi l’assassino di tutti i miei figli.
Ma la tua vita è fragile come canna nata sola e sottile in mezzo al deserto: chi volesse appoggiarsi sovr’essa la schianterebbe.
Non prender marito mai, mia figliuola: divenendo madre tu ne morresti o avresti figli condannati a morire nel primo giubilo della fanciullezza o nella primavera della giovinezza. Il veleno della tisi è troppo incarnato nel nostro sangue, perchè s’abbia a disperdere in una nuova generazione.
In noi due, ultimi superstiti di tanti cari scomparsi, deve spegnersi il veleno e cancellarsi il peccato.
Giurami, mia Emma, che vivrai e morrai sola. Che tu sia l’espiatrice di tuo padre, l’angelo redentore del suo peccato.
Il testamento, l’eredità di tuo padre è un giuramento di dolore; l’ultima parola che il padre deve dire alla creatura sua, a colei che ha amato sopra ogni altra cosa in questo mondo è una sentenza di dolore; è un grido che dice: soffri, soffri finchè vivi!
È questa la più crudele punizione del mio peccato. Dopo aver veduto morire tutti i miei figliuoli; io devo dire all’ultimo che mi è rimasto: Soffri: e soffri per colpa di tuo padre.
Non maledire tuo padre. Quand’egli era giovine, quando diede la mano di sposo a tua madre, i medici erano manipolatori brutali di lancette e di calomelano; essi non sapevano farsi sacerdoti della forza umana, custodi della salute dei sani. Essi non sapevano dire al tisico, all’epilettico all’uomo debole: questa tua vita tu non l’hai a dare ad anima viva; meglio sarebbe piantare un pugnale nel cuore del tuo più fido amico.
Tuo padre ti lasciò in eredità un dovere, un terribile dovere da compiere: vivere senza amare: esser donna senz’esser madre: ma io muoio tranquillo, perchè il giuramento di mia figlia non sarà violato ed essa farà tutto il bene che il padre non ha potuto compiere.
Non fare il male quando le passioni più irresistibili ci trascinano, quando le leggi umane ce lo consentono, quando il suffragio universale non ci condanna, è opera grande; è eroismo maggiore di ogni eroismo che si spieghi sui campi insanguinati delle battaglie.
Ma finchè ogni uomo non sarà capace di adempiere a questo dovere, l’umanità non avrà raggiunto il tipo della sua perfezione ideale.
Il tuo sentiero, mia Emma, corre sull’orlo di un abisso, ma tu puoi cogliere qualche fiore su quella via a cui ti condanna tuo padre. Tu hai una missione in questo mondo, tu hai a raggiungere un’erta a cui pochi arrivano; tu hai a farti vestale d’un fuoco santo che finora per propria fortuna gli uomini non lasciarono spegnere ancora, il fuoco sacro del dovere.
Chi si sacrifica al proprio dovere, vive in un’atmosfera dove forse non brilla il sole, ma dove il cielo è sempre sereno.
Chi compie il proprio dovere vive in un cielo eternamente sereno, in una calma che può essere malinconica, ma che impronta ogni atto della vita di una sublime dignità.
L’uomo servo del proprio dovere è più che un uomo, è un principio: è un Dio ideale, eppur vivente, di quanto ha di più bello, di più grande la natura umana.
I mediocri, i deboli, tutti passano riverenti e chinano il capo dinanzi alla statua del dovere; tutti ne risentono un’influenza salutare che ci innalza e ci fa davvero immortali; provano i brividi che sente chi cammina solitario in un tempio smisurato e muto.
La creatura che si sacrifica al proprio dovere è il vero santo dell’umanità e chi ne risente il contatto o ne aspira l’alito, rimane santificato.
Tu, mia Emma, sarai una di queste sante; lo sarai di certo, lo giuro io per te. Questa sicurezza beata mi farà sorridere sul letto di morte.
william a emma.
Londra, 3 luglio 18...
Con quanta gioia, gettando uno sguardo sulle nostre lettere vedo che un lungo abisso di giorni separa l’ultima che scrivevi nel paradiso di San Terenzo da questa che a pochi minuti di distanza dalla tua casa ti scrivo sotto il cielo bigio di Londra. Tu, mio tiranno, mi hai imposto otto giorni d’esilio, e il tuo schiavo, baciando umilmente la mano del suo padrone ha accettato l’esilio. M’hai detto, sorridendo e dandomi una ceffatina, ch’io ti vedeva troppo spesso, che passava le frontiere che devono separarci, che il fratello diventava troppo simile ad un amante; ed io subisco la pena del mio contrabbando. Non mi lamento, Emma; farò di diventar proprio un fratello, null’altro che un fratello per te. È un mestiere molto difficile e che non ho mai imparato, perchè io fui sempre solo nella mia famiglia, ma con una maestra così paziente e così calma come miss Emma, farò dei progressi e diventerò maestro anch’io nell’arte di fare il fratello colla donna che si ama sopra ogni cosa in questo mondo.
Ma no, ma no: non ho il diritto di lamentarmi nè di nascondere il mio dolore sotto una vernice di ironia maligna. Non mi hai tu concesso di sperare, non ti sei tu decisa per amor mio a consultare tre dei medici più famosi di Londra per sapere se, facendoti robusta, tu non avresti potuto divenir madre senza paura e senza offendere la memoria del tuo padre? E avrei io il diritto di accusarti, perchè più forte e più buona di me tu mi riconduci con un tuo sguardo dolce e imperioso sulla via del dovere? Emma, Emma, io mi sento così picciola cosa, quando ti son vicino, che tu potresti far di me quel che tu vuoi. Ho il dovere di obbedirti per tutta la vita, perchè una volta sola tu mi hai permesso di comandarti: e piangendo sulla tomba di tuo padre, hai domandato alla sua ombra di scioglierti dalla tirannia d’un giuramento che ti incatenava per tutta la vita.
Quando penso, mia Emma, alle lunghe lotte sofferte da te a San Terenzo e qui a Londra, io mi sento superbo di amarti. L’amore e il dovere si facevano così aspra guerra ch’io non saprei dirti se più ti amassi, quando piangendo mi dicevi: mio padre ci perdonerà, non è vero? o quando, rizzandoti improvvisamente seria e pallida, esclamavi: William, il nostro amore sarebbe troppo bassa cosa, se il dovere non lo avesse a vincere.
E tu sei venuta qui a Londra a consultare l’ombra di tuo padre e per la bocca del vecchio dott. Thom ti ha risposto che se la Emma fragile e tossicolosa d’una volta avesse a divenire una donna forte e robusta, questa potrebbe senza recar dolore ad anima viva dar la mano di sposa a William. Tuo padre, ti ha detto il dott. Thom, ti benedirebbe due volte se potesse saperti felice e fedele allo spirito della sua parola.
Guai se l’uomo non avesse le dighe del dovere, se non avesse ad appoggiare la sua fede, la sua convinzione, la sua vita sopra la pietra angolare di principii che non si discutono! Guai a noi se l’uomo dovesse a volta a volta portare sulle bilancie le passioni, la ragione, i giuramenti eterni e le transazioni di coscienza per decidersi sul da farsi! Sarebbe lo stesso che perdere la propria dignità e vivere tutta la vita nell’altalena nauseosa del mal di mare. Tu me l’hai detto cento volte, Emma, e tu mi hai convinto. L’uomo deve piegare il capo dinanzi al dovere; ma quando la nostra fragile natura sta per infrangersi contro quella colonna che non crolla, gettatavi dall’onda burrascosa della vita, allora è permesso domandare soccorso; e mai alcuno ebbe il coraggio di chiamare vile il naufrago che domanda un ajuto. E noi abbiamo chiesto una tavola di salvamento al dott. Thom, e ce la porse e ci ha fatto felici; perchè in un cielo, dove da lungo tempo non si vedeva che il nero dell’uragano, ci ha squarciato le nubi e ci ha mostrato un lembo azzurro di cielo. A noi due, poveri naufraghi nel mar della vita, il dott. Thom ha gettato la corda della speranza, e vi stiamo avvinti colla feroce tenacità del moribondo, che vede la spiaggia ridente a poche braccia di distanza, eppure non la tocca ancora.
Emma, mia Emma, il mio amore per te è grande come il mondo; in esso vedo un’immagine dell’infinito; ma io non vorrei esser tuo col sacrificio del tuo dovere, colla violazione d’un giuramento. Se io avessi amato un’altra donna, il mio egoismo avrebbe infranto ogni cosa, avrebbe violato le porte del santuario, ma dinanzi a te, Emma, io chino il capo e attendo. Tu mi hai portato in una sfera troppo elevata, perchè io possa separare l’amore dal dovere; e se tu dovessi, dandomi il tuo amore, togliermi la tua stima, io ti direi: Emma, senza il tuo amore io morirò, ma io voglio morire colla tua stima. Quando il mio sguardo ti cerca cogli occhi della mente e mi appari dinanzi serena e bella come un cielo stellato, io senza volerlo mi figuro sempre prostrato ai tuoi piedi, e ti vedo in alto, in alto, sicchè io ti abbraccio tutta col mio amore, ma accarezzo soltanto i tuoi piedi, perchè mi stai tanto lontano e tanto in alto. Se gli angeli vi sono e se gli angeli si amano, devono amarsi com’io ti amo, mia Emma.
Tu puoi star sicura che, consultando i primi medici dell’Inghilterra, e fin d’ora dichiarandoti disposta a piegare il capo alla loro sentenza, tu interpreti il pensiero di tuo padre. Egli di certo non poteva volerti infelice, no: soltanto voleva che tu non avessi a fare altri infelici. Dinanzi alla parola del dott. Thom la coscienza più timorata può tenersi calma e sicura. Egli è stato il primo amico, il primo confidente di tuo padre; egli ha conosciuto ogni suo pensiero, egli ha letto profondamente in quell’anima nobilissima e così crudelmente straziata. Egli ha accettato la missione di illuminarti colla sua scienza, di correggerti colla sua larga e sicura esperienza. Quand’egli ti parla è la voce di tuo padre che ti accarezza l’orecchio; quando egli ti comanda, me l’hai detto tu stessa, è l’accento autorevole del padre che ti convince e ti piega. S’egli ti ha detto: Emma, guarisci e spera: questo raggio di speranza ti vien da tuo padre e noi lo abbiamo ad accogliere colla più santa riverenza, colla gioia più tranquilla.
Emma, consola il mio esilio di questi giorni con lunghe lettere; dà al prigioniero una mezz’ora di luce e d’aria; fa ch’egli possa attendere la sua sentenza senza morire.
emma a william.
Londra, 5 luglio 18...
Ieri mattina mi alzai piena di coraggio. Io aveva dormito poco: durante il sonno io non vedeva che medici e viscicanti; ed eran tutti dottori accigliati con grandi parrucche e col muso ingrugnito. Sognava di avermeli tutti d’attorno, mentre io era seduta e quasi coricata sopra un letticciuolo. Io mi rannicchiava sotto le coltri tutta impaurita, ma essi me le strappavano con impazienza e con furore e si mettevano a picchiare e a picchiare forte, sul mio povero seno. Io voleva far violenza a quei mostri, ma essi mi afferravano per le braccia e me le tenevano inchiodate sul letto. Voleva gridare, voleva chiamare in soccorso la mia mamma, il mio babbo, ma non trovava voce per gridare, nè muscoli per muovermi; ed io sentiva il picchio crudele di tanti martelli coi quali quei dottori accigliati facevano rimbombare le mie costole. Io credeva di morire: raccoglieva tutte le mie forze e gettava un grido così forte da far svegliare la cameriera che dormiva nella camera vicina. Il mio grido aveva svegliato anche la tua Emma, ed io sentiva battere forte forte il mio cuore, quasi volesse escire dal petto e mi trovava tutta coperta di sudore.
Durava fatica a riprendere il sonno, e appena chiudeva le palpebre, quei dottori e quei martelli mi ritornavano dinanzi sempre più terribili, sicchè io non riuscii a calmarmi che dopo averti promesso che alla mattina avrei appagato il tuo desiderio e mi sarei recata a visitare i tre medici più illustri di Londra.
E con questo fermo proposito mi alzai, e colla mia cameriera presi una vettura, dicendo al cocchiere di condurci dal dott. B... Egli abitava all’altro estremo della città e il cammino mi pareva eterno. Mi impazientava coi cavalli e con me stessa; avrei voluto non averti data la mia parola e giungeva quasi all’ipocrisia di persuadermi che una promessa fatta fra i terrori d’un sogno non poteva obbligarmi a mantenerla e non aveva alcun valore morale. Allora mi pareva che il vecchio medico di mio padre mi avrebbe messo il broncio, perchè avessi consultato altri dottori fuori di lui, e credeva vedere il volto accigliato di mio padre che mi ripeteva col piglio della sua collera più furiosa quelle parole che tante volte aveva udito dal suo labbro: «Cambiate pure i servi e le cameriere e il vestito e i cavalli e la casa, ma non cambiate mai il vostro medico».
Ma tu, mio William, puoi esser superbo, perchè il solo ricordarti faceva mettere in fuga il vecchio dottore e fin l’ombra incollerita di mio padre; ed io non pensava che alla mia promessa. Che cosa è mai un uomo, che non ha sacra la sua parola? «È un vile e un briccone, perchè non ha neppure il tristo coraggio di tanti altri che per commettere una colpa hanno bisogno di sfidare codici e tribunali.» Anche queste parole erano di mio padre, e questa volta tu andavi d’accordo con lui ed io abbracciava in una volta sola con un solo amplesso due ombre carissime, forse egualmente care. Tu che indovini sempre il mio pensiero, prima eh io 1 abbia pensato; tu che hai sentito sempre le mie stesse sensazioni, i miei stessi sentimenti, le mie stesse collere, devi di certo aver provato quella santa delizia che si gode, quando nell’anima vengono ad incontrarsi da parti lontane due affetti forti entrambi, ma di natura diversa, e fondendosi insieme formano una sola delizia, una soddisfazione completa, calda come il sole, grande come il cielo.
Ebbene, perdona alla tua Emma, che ti scrive con parole orientali sotto la nebbia inglese; io, in quel momento, vedendo d’accordo il mio William e mio padre, provava una di quelle armonie voluttuose.
Intanto s’arrivava alla porta del dottore: egli non era in casa, e il suo servo, che aveva un piglio che misurava esattamente la fama e la ricchezza del suo padrone, mi diceva che il dott. B... non riceveva che il martedì e il sabato dal tocco alle quattro. Per mia vergogna ti devo confessare che fui felicissima di quella risposta, e, scendendo in fretta in fretta dalla scala, me ne ritornava a casa ben più lieta di quando ne era partita. Io aveva ancora ventiquattro ore dinanzi a me e la colpa, non era mia...
Son dunque ritornata quest’oggi dal dottor B.... e appena riavuta dalla profonda emozione della mia visita, ti scrivo perchè tu abbia a volere un po’ di bene alla tua Emma, che per amor tuo va a consultare questi ruvidi e superbi sacerdoti della Dea Igea, che probabilmente avrà avuto viscere più tenere di essi...
Il dott. B... è un vero gigante: ed io non so come i suoi muscoli trementi e il suo ventre gigantesco possano rimanere chiusi in quei suoi abiti neri e in quella sua cravatta bianca. Guardandolo con terrore, quando gesticolava e si dimenava nel suo seggiolone, mi pareva di veder rotte ad ogni momento quelle fragili dighe che frenavano e chiudevano tanta vita in movimento, e la mia esaltazione mi faceva vedere un’alluvione di carne o di adipe che si sarebbe rovesciata da un minuto all’altro sullo splendido tappeto di quel gabinetto.
Il dott. B.... parlava con una voce così forte che mi pareva un grido selvaggio e appassionato; e affermava tutto con tal convinzione profonda e un tal dispotismo di parole che mi sembrava impossibile interromperlo; più impossibile ancora il contraddirlo. In alcuni momenti mi pareva che tutto quanto diceva non potesse essere che la pura verità e che quell’uomo non dovesse conoscere il dubbio neppur di nome. Se il Cristo disse ad un paralitico: prenditi il tuo letto e portalo a casa tua, deve averlo guardato cogli stessi occhi coi quali il dott. B... mi guardava; deve avergli parlato collo stesso accento con cui egli mi dirigeva le sue parole simile alla folgore e al tuono.
Per risparmiarmi l’inutile tortura dell’esame del mio povero torace, gli esposi brevemente come io fossi la figlia di un padre morto di tisi, come avessi perduti i miei fratelli della stessa malattia, e io stessa andassi soggetta a bronchiti ostinate e a sputo sanguigno. Per quanto io mi studiassi di non dire che le parole necessarie per esser capita, egli pareva conoscerle prima che io le avessi pronunciate, e mi interrompeva ad ogni momento con dei hum, hum, hum e coi segni di di una viva impazienza.
Dicendogli di non voler essere esaminata, perchè già esplorata e torturata da molte esplorazioni mediche, gli porsi quella sentenza che fu sottoscritta da parecchi medici chiamati una volta in consulto da mio padre; sentenza che io ormai ho imparato a memoria, senza capirla...
Tubercolosi ereditaria, mutezza della regione sottoclavicolare destra, mormorio vescicolare molto debole in tutto il torace; ma più a destra e in alto, aspirazione prolungata, aspra ed interrotta. Aderenze pleuritiche dai due lati del torace; organi dirigenti in ottime condizioni.
Porgendogli quello scritto misterioso e crudele, come una sentenza di morte scritta in una lingua straniera, esprimeva al dott. B... il desiderio di sapere, se col cambiamento di clima io avrei potuto migliorare la mia salute in modo da scongiurare affatto ogni pericolo per l’avvenire... e qui incominciava a farmi rossa rossa, perchè doveva pronunciare le parole più difficili, quelle appunto per le quali tu mi avevi imposto di consultare i medici più illustri di Londra; e ti assicuro che vi sarei riuscita, se il corpulento dottore, senza capire nè il mio rossore, nè la mia esitazione, non mi avesse interrotta bruscamente, dandomi così un urto doloroso all’anima, che tu capirai certamente mio buon William.
Dopo quell’urto, dopo quell’interruzione io mi sentii completamente isolata dal medico che mi guardava e mi parlava; e le mie orecchie ricevevano meccanicamente il suono delle sue parole, senza che mi facessero dolore o gioia, senza che mi ispirassero continenza o paura.
Ridi pure della tua Emma, che si atteggia a giudice, di uno degli oracoli della medicina britannica ma a me pare che quando un medico non intende il suo ammalato, non possa curarlo e non possa guarirlo. Il dott. B... non sapeva indovinare nulla di quanto taceva, non sapeva risparmiarmi cella sua previdenza nessuna parola difficile a dirsi, dunque non capiva la mia costituzione sensitiva e malaticcia; dunque i suoi consigli per me erano lettera morta.
Da quel momento io lo ascoltai soltanto per dovere di cortesia e per andare mio alla fine di quanto mi aveva proposto di fare.
«... Ah, voi volete cambiar clima; voi volete passeggiare a Nizza o a Pisa, a Pau o a Mentone; volete visitare i Pirenei o le coste di Hyères; fors’anche osate pensare a Madera e all’Egitto, all’altipiano dell’Asia o al Cerro di Pazco nel Perù? — Ma queste sono follie di moda, son credute dai malati e insegnate dai medici... Oh! è molto comodo davvero il mandare lontano lontano il proprio paziente, perchè se ne muoia senza nostra colpa e lungi dagli occhi dei nostri clienti. È comodo davvero! — Ma, mia signora, ci sono tubercolosi a Pisa e nell’Egitto, e ve ne son molti a Madera e a Nizza. Questi medici ignoranti che consigliano ai tossicolosi la emigrazione non hanno fede nella loro arte; e chi non ha fede in se stesso, nella scienza che ha studiato, nell’arte che professa è un imbecille o un impostore. Noi abbiamo nel nostro portafogli e nelle nostre farmacie mezzi cento volte più potenti della tiepida brezza del Mediterraneo o dell’Oceano. Bella sapienza davvero! E voi, suppongo, non sapete una sillaba di medicina, ma potete ridere alla barba di questi medici atmosferici, climaterici (chiamateli come volete), senza sapere di medicina; perchè fra questi climi che consigliano ai tisici, ve n’ha di secchi e ve n’ha di umidi; vi sono paesi altissimi ed altri sulla costa del mare; vi sono climi caldi e freddi! Dio buono quanta ignoranza, quanto ciarlatanismo!...
«Io vedete, con una stufa e un termometro vi faccio nella vostra camera tutti i climi del mondo, e con un po’ di carbon fossile e dell’acqua vi fabbrico Nizza e Madera in Oxford-Street o in Piccadilly senza che abbiate bisogno di escire da casa vostra, senza bisogno di lasciare i vostri tappeti, i vostri fiori, il vostro canerino; ma dovete avere poi un pochino di pazienza: insieme ai tappeti e ai fiori e al canto del vostro uccellino metto anche le mignatte e i vescicanti e i cauterii e la pomata dell’Autenrieth e l’olio di merluzzo; oh, sì, io vi tratto crudelmente ma con una crudeltà pietosa; tormenti alla pelle, medicine ripugnanti al ventricolo; io vi curo colla fame e col dolore... colla prigionia e colla paura...»
E il dott. B... pareva esaltarsi nella sua feroce eloquenza, ma il suo accento era così pieno di fede che io mi sentiva costretta ad ascoltarlo. Egli godeva assai nel passare in rassegna le armi tremende delle quali egli disponeva, e si agitava nel suo seggiolone, e sogghignava, e faceva tremare e muovere ogni cosa intorno a lui; e mi pareva in una volta sola un mastodonte e un carnefice...
«Ma cara mia signora, la cura di una malattia è una battaglia fra il malato e il medico: è una lotta della natura colla scienza, e la vittoria è del più forte e del più coraggioso; e vedete (e qui senza volerlo, si rimboccava le maniche dell’abito, quasi volesse disporsi ad una partita di boxing), a me non mancano nè il coraggio, nè la forza. I miei colleghi dicono di me che sono un arrabbiato vitalista, che son divenuto cogli anni una caricatura di me stesso; ma io trovo di aver ogni giorno una convinzione più ferma nella mia dottrina e l’esprimo forse con un accento troppo forte, con parole troppo ardenti... Ridete pure, mi hanno chiamato l’Ulisse della medicina inglese, perchè sostengo che anche nelle Indie convien salassare e fieramente i malati di febbri tropicali; perchè invece di occuparmi di una pulce che pizzica la nostra pelle invece di perdermi a misurare la grandezza di un tubercolo o di segnare le frontiere esatte del fegato, vado diritto alla vita e la palpo e le domando ragione del suo disordine e dei suoi turbamenti...»
Il dott B... di certo non ha usato sopra di se tutta quella batteria di mignatte, di cauteri e di vescicanti che voleva infliggermi, perchè egli sembrava volere scoppiare ad ogni momento nei suoi abiti troppo stretti, e parlandomi sudava assai e spesso doveva asciugarsi il sudore della fronte; ed io era così turbata che mi pareva che quel sudore fosse come un olio tinto in rossigno dal sangue.
«My lady quando vorrete guarire radicalmente, fatemi chiamare in Londra a casa vostra, ed io vi guarirò. Se volete morire fuori dell’Inghilterra, andate pure a Madera o a Nizza...»
La perorazione con cui il dottor B... chiuse il suo consulto fu così brutale, ch’io non trovai parole a rispondergli e, mormorando qualche confuso monosillabo, mi affrettai a pagarlo e me ne andai.
La terza parte del mio martirio è consumata, e poi ti dirò: Caro William, ho fatto anche questo per te...
Vedrò ancora due altri colleghi del dott. B... e poi mi crederò degna non solo di essere la tua amica, ma anche l’eroina del tuo cuore.
Oggi sento il bisogno violento di prendere un contravveleno alla visita del dott. B... Voglio pigliarmi il mio Burns e le tue lettere e andare nel luogo più solitario del nostro parco e perdermi per lunghe ore fra gli alberi e la tua memoria; fra la poesia della natura e quella del cuore.
emma a william.
Londra, 6 luglio 18...
Dopo la mia visita di jeri al dott. B... io mi sentiva alleggerita da un gran peso e mi pareva davvero che nel regno britannico non fosse possibile trovare un altro medico che più di lui ripugnasse a’ miei istinti e ai miei nervi. Mi sembrava dunque che la Provvidenza mi avesse dato per il primo il boccone più amaro e che negli altri due oracoli che mi restavano a consultare io troverei due cortesissimi e dolcissimi amici. Anche questa volta mi sono ingannata; anche questa volta mi sono persuasa che in natura le varietà del male sono assai più numerose che quelle del bene. Mio caro William, stammi a sentire. Scegli la più vecchia, la più comoda delle tue poltrone, sprofondati in essa e, chiudendo gli occhi della luce, segui cogli occhi dell’anima la tua Emma che per amor tuo si reca in Regent Street dal dottor T...
Appena fui introdotta da un cameriere nella sala provai un senso di freddo al primo sguardo che gettai intorno a me. Non era un brivido di malessere, non era il freddo dell’ambiente; ma era un freddo dell’anima che mi obbligò a rannicchiarmi in me e a raccogliere il mio scialle, le mie vesti, le mie braccia, quasi volessi accartocciarmi in me stessa per non disperdere il mio tepore interno, a quella camera tutta silenzio e tutta simmetria, non vi era un solo oggetto che non fosse necessario, non il più piccolo quadro, non il più microscopico trastullo di chincaglieria; non un fiore, non una cosa sola che ti dicesse che il padrone di casa amasse il bello, o avesse un gusto, una simpatia. Perfino i colori coi loro contrasti vivaci e colle loro armonie sembravano banditi da quel luogo, in cui regnava sovrana la matematica.
Chiusi gli occhi ed aspettai il dottor T... che non tardò molto a comparire. Anch’egli era freddo e incoloro come la sua sala: egli era davvero il bruco di quella crisalide. S’inchinò leggermente senza parlare, prese una sedia, e senza parlare mi guardò, aspettando ch’io incominciassi la mia storia dolorosa.
Alzai gli occhi due o tre volte sopra di lui e due o tre volte gli abbassai, cambiando, senza volerlo, lo sguardo, l’espressione del mio volto, quasi volessi trasformare quegli occhi spenti e freddi che non dicevan nulla, ma mi facevan paura. Io non ho mai potuto parlare ad anima viva senza sentirmi legata ad essa per un nervo invisibile che mi faccia vibrare insieme alla persona che mi parla; non ho mai potuto immaginarmi che due uomini possano dirigersi quel fiato dell’anima che si chiama la parola, senza che un’atmosfera di odio o d’amore, di ammirazione o di disprezzo non li riunisca e li confonda. Ed io, studiando con tutte le mio forze di farmi vicino a quell’uomo di ghiaccio, procurava di farmi fredda alla mia volta, di atteggiarmi al suo portamento, di modificare il mio gesto, il mio sguardo; le mie parole, sicchè trovassi con lui un qualche punto di contatto. Inutili sforzi! Io e il dott. T... eravamo due creature umane, ma separate da un abisso maggiore di quel che allontana la vespa dal fiore, il lupo dal canarino.
In furia e in fretta esposi lo scopo della mia visita, dissi delle opinioni già espresse da altri medici sul conto mio, esposi per la centesima volta la diagnosi stetoscopica del mio male; cercai col dir tutto in un fiato di risparmiarmi anche un minuto solo di quella conversazione odiosissima.
Egli taceva sempre; mi lasciava dire, e non una piega del volto, un moto dell’occhio mi diceva ch’egli fosse vivo. Eravamo due corpi vivi che eran vicini e l’azione morale dell’uno sull’altro incominciava a farsi chiarissima: io odiava già cordialmente il dott. T...
Finalmente, quando ebbi detto il possibile e l’impossibile, quel che sapeva e non sapeva sulla mia malattia, dopo aver parlato per un quarto d’ora di seguito con una volubilità convulsiva, tacqui e aspettai che quell’anfibio vivente parlasse. Sperava che almeno la sua voce dovesse esser calda. Esiste forse nel mondo una creatura che sia tutta quanta bruttezza e gelo?...
Il dott. T... freddissimamente soggiunse:
«Tutto quanto avete detto, sta bene; ma è inutile. Dobbiamo esaminare gli organi; e quasi fosse già stanco di aver tanto parlato, si alzò e col dito mi accennò una ottomana che stava in un angolo della sala disposta appunto per l’esame dei malati.
Quasi ubbidissi al cenno di un tiranno mi alzai; ma volendo pregarlo elle mi risparmiasse un’inutile tortura perchè i miei polmoni erano già stati sottilmente esaminati da una commissione di medici, tentai balbettare una preghiera, una scusa; mormorai:
«Perdoni... ma...»
Crollò il capo con un’aria di scetticismo e di sprezzo, e con un gesto più imperioso dell’indice destro mi accennò per una seconda volta l’ottomana, su cui doveva gettarmi.
Era un letto di pelle lucida, senza una macchia, ma freddo freddo, come l’aria di quella sala, come il colore di quell’atmosfera, come le parole di quel medico.
E allora, lasciamelo dire colle parole di un nostro poeta:
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Ah, carissimo William come è tenera, com’è calda la poesia, anche quando parla dello stetoscopio e della morte! Essa illumina ogni cosa coi raggi dorati della fantasia, essa getta i suoi petali di rose, i suoi torrenti di gigli e di viole sulle arene di un deserto e sulle zolle di un cimitero. Grazie, mille grazie, mio Dio, di averci dato la poesia e la musica, questi sublimi fuggitivi del tuo paradiso!
L’esame durò mezz’ora; credo che se avesse durato qualche minuto ancora, io ne sarei morta.
Mi alzai turbata e stanca e mi rimisi a sedere.
Quel mio carnefice mi si pianta in faccia, poi per qualche minuto continuò una mimica crudele interrotta solo da monosillabi.
Hum..., bum, eh. Egli crollava il capo; poi stringeva le labbra e inarcava le sopracciglia, portandole il più vicino possibile ai capelli, e poi col pollice e l’indice della mano sinistra si soffregava il mento nettissimo di barba, e percorrendo dieci o venti volte di seguito il breve spazio che lo separava dalle foltissime basette che giungevano fino a due terzi precisi della faccia riuniva con molta compunzione le due dita sotto il mento.
«Ah, voi volete andar dunque a Madera per difendervi dal male che vi minaccia?... Ma non sapete voi che fra gli abitanti di quell’isola vi sono gobbi, scrofolosi e tisici? — A Madera potete confortarvi col contemplare un ospizio per i malati di petto e che fu fondato dall’Imperatrice vedova di Don Pedro I. Quell’ospedale porta un nome che non è di lieto augurio.
«È il nome della Principessa Donna Maria Amelia, figlia dell’Imperatrice del Brasile. Vi era andata per guarire e vi è morta.
«Se volete recarvi in un paese dove non vi siano tisici non dovete andare al sud, ma al nord. Perchè non andate voi in Islanda?
«In nessun luogo del mondo vi sono meno tisici che nei paesi inclusi nelle linee isotermiche di 50° a 20 F. A Pietroburgo e a Mosca con una temperatura media di 38° F.; nel Canadà, nei distretti nordici degli Stati Uniti; in Islanda e nelle Isole Faroe; nelle parti più settentrionali di Norvegia, della Svezia e della Lapponia la tisi è molto rara.
«Anche nel sud-ovest della Scozia e nelle isole Ebridi la tisi è rarissima; ma per questi paesi il problema si complica. Morgan vi dice che questa preziosa immunità si deve al fumo di torba di cui son sempre piene le capanne degli abitanti di quei paesi: e sapete che là non si usano camini. Dove invece si abbrucia carbon fossile, la tisi appare subito più frequente. In medicina, mia signora, non si sa nulla di positivo. Tutti vi dicono che l’ozono irrita i polmoni, ebbene nelle Isole Ebridi l’ozono abbonda assai e non vi è tisi. Tutti vi dicono che dove vi è scrofola vi è molta tisi; ebbene alle Ebridi, e nel sud-ovest della Scozia vi è molta scrofola e pochissima tisi.
«Non è vero che il clima mite difenda dalla tisi. Benoiston de Châteauneuf ha trovato che dei tisici militari 85 si trovano nel nord della Francia, 73 nel centro e 82 al sud. Dicono che in Marsiglia il quarto degli abitanti muoja di tisi, e che in Genova ne muoja il sesto.
«Nelle Antille, a Madera, a Rio de Janeiro questa malattia è frequente; ed è pur comune a Nizza, a Livorno, a Firenze, a Napoli, a Malta, nella Spagna, nel Portogallo, a Calcutta, a Madras... Alla Martinica è frequente come a Parigi.
«Anche tutto questo però è incerto; altro è parlare di tisici nati nel paese, altro di tisici che vi si mandano da altre regioni. I tubercolosi dei paesi caldi peggiorano quando si mandano in paesi freddi.
«Vi diranno alcuni medici d’andare a vivere in paesi paludosi. Baje! Boudin ha voluto sostenere che le malattie miasmatiche e la tubercolosi si escludono. Baje! Ferget, Gintrac, Genesi, Gonzie, Shedel, non credono a questa teoria. Io per conto mio so che a Lipsia i Tedeschi hanno il vantaggio di avere l’una o l’altra, la tisi e la terzana.
«Vi diranno altri medici: andate in alto; sull’altipiano delle Ande, sulle altissime Alpi, non c’è tisi: ma anche questo non è provato.
«Nulla vi è di certo in medicina. Il dott. Irwin, mio amico, ha esercitato la medicina per moltissimi anni nelle vicinanze di Rannoh e di Athole nel Pertshire, e la tisi vi è più frequente nelle alte regioni.
«Più che il clima, mia signora, influiscono il movimento e il regime di vita sullo sviluppo della tisi.
«Andrai, dopo aver avvertito alla frequenza della tisi negli animali, fa un’eccezione in favore del cane, suggerendo che questo fatto si debba forse all’abituale attività di questi animali. Invece nascono non di raro tubercoli nei cani legati alla catena o chiusi in luoghi oscuri e mal ventilati.
«Fourcault cita il caso del cane di un medico ohe era abituato a seguirlo nelle suo lunghe corse quotidiane. Entrato il padrone al servizio militare, il cane fu incatenato e morì di tisi.
«Anche le passioni deprimenti hanno una grande influenza sullo sviluppo della tisi, impoverendo il sangue, diminuendo l’energia nervosa, guastando la digestione, ecc.
«Laennec diede tanta importanza alle causè morali nella genesi della tisi che giunse a dire che quasi tutti quelli che diventano tisici senza esservi predisposti per costituzione, lo divengono per dolori morali; e se è vero ciò che dice il dottor Elie, che quattro quinti degli uomini muoiono di dolore, il dolore e la tisi dovrebbero essere la stessa cosa.
«Avrebbe dunque ragione il dott. Rufz di chiudere in queste poche parole tutto il codice dei tisici:
Enjoy life, go out or come in, on horseback or on foot, as you please; but go.
«Ma anche questo non è certo; in medicina non si sa nulla di certo.
«Non volete voi andare in paesi freddi, non volete voi muovervi molto, non potete voi star allegra? Ebbene viaggiate in mare.
«Galeno, l’antichissimo Galeno, mandava i suoi tisici a navigare sui Nilo, e diceva non perchè questo faccia bene per sè ma propter longinquitatem navigandi. Ed ora avete Lee, avete Gilchrist e molti medici che vi dimostrano utilissima la navigazione per curare o prevenire la tisi: Knox attribuisce i vantaggi all’uniformità della temperatura marina; Spiess invece li spiega colla minor copia d’ossigeno dell’aria marina.
«Ma anche tutto questo non è provato: in medicina non sappiamo nulla di positivo.
«Rochard ha dimostrato che i viaggi di mare accelerano il corso della tisi molto più spesso di quel che la ritardano; che la tisi è più frequente fra i marinaj che fra i soldati, che progredisce con maggior rapidità a bordo che a terra, che la marina deve essere interdetta ai giovani minacciati da tisi.
«In medicina tutto si può difendere, tutto si può condannare. Io potrei curarvi col seppellirvi sotto terra, lasciando fuori dal suolo la testa e cambiandovi la fossa ogni giorno dal maggio all’ottobre. Sarebbe un metodo strano, ma non sarebbe nuovo. È quel che faceva Solano da Luque coi suoi hanos de tierra.
«Alcuni credono vere in medicina le cose nuove: è un sistema comodo, il tempo è più facile a misurarsi che la scienza; gli anni si contano più facilmente dei criterii logici. Vedete un poco; pochi armi seno si rideva del pregiudizio volgare che la tisi fosse contagiosa; ed ora si ritorna a dar ragione agli antichi. È il giro della moda, è la parabola della verità, Plinio il giovane lo aveva detto, molti secoli or sono, che era questa una malattia contagiosa.»
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Ti giuro, mio William, che io non ho maledetto mai la mia memoria (che tu chiami prodigiosa) come in quel giorno, in cui seduta in faccia a quella macchina parlante che si chiama il dott. T... io era condannata dalla mia natura a ritenere tutte quelle litanie di erudizione senza poter dimenticare un nome, una cifra, una parola sola.
A che serve l’imparar tante cose, quando dopo tanta tortura del cervello non si raccoglie una sola verità utile all’uomo? A che serve una scienza sterile e gelata che non ci dà un conforto, una speranza, che finisce col dire: non sappiam nulla, nulla v’ha di certo?
Perdonami, mio buon William, se oso giudicare la scienza col cuore di una donna; ma io ho sempre creduto false le vie che non conducono alla felicità; ci si vada diritti o per labirinti. L’uomo vuole la speranza o la gioia; ma tutto ciò che non dà un piacere è opera vana. Anche le più sante religioni hanno sempre promesso all’uomo un’eternità di gaudii in cambio del sagrifizio e in premio della virtù: anche nel codice della morale, anche nel codice della pubblica opinione è di tutti il più potente, la virtù, la gloria sono forme sublimi di felicità; e l’uomo più perfetto è quegli che facendo felice un numero infinito di uomini, fa felice sè stesso...
Ma ritorno al mio dottore. — Vuotato il sacco di geografia medica che aveva in corpo, soggiunse:
«Vedete, mia signora, che c’è poco a sperare, poco da confidare nell’azione dei climi. È più questione di gusto che di scienza; amate il freddo, andate in Islanda o alle Ebridi; preferite il caldo, ebbene andate a Madera. Amate le montagne, andate sugli altipiani del Perù; siete amica del mare, andate a Xeres. Se poi preferite rimanere a Londra, io vi curerò; io mi studierò di guarirvi. Conoscete certamente il proverbio: Chi s’ajuta il ciel l’ajuta. L’uomo malato ha bisogno del medico; se voi volete che io sia il vostro medico, senza farvi inutili promesse, posso dirvi che non sono nè peggiore nè migliore degli altri. Non ho che una pretensione al mondo, quella di dir sempre la verità di non ingannare alcuno... Ecco tutto.
«Dicono, signora, ch’io sono scettico. E forse per questo che son chiamato dopo tutti gli altri medici, per segnare l’ultima condanna e l’ultima assoluzione. Faccio la figura del carnefice che vien dopo il consigliere di cassazione... Non me ne duole. Ognuno deve avere nella società una missione e una figura; questa è la mia. Non posso cambiarla.»
Ne sapeva più del bisogno... Ringraziai, pagai e me ne venni a casa, stanca, tristissima, ma colla beata sicurezza che la terza parte del mio Calvario che mi rimaneva a salire, non poteva sicuramente esser peggiore di questa...
emma a william.
Londra, 8 luglio 18...
Mio buon William, la mia visita al dott. T... mi aveva talmente stancato, che ho dovuto riposarmi due giorni prima di intraprendere il mio ultimo viaggio nel mondo della medicina. In questi due lunghissimi giorni non ho potuto far altro elio meditare tristi cose sull’arte che si usurpa la superba parola di medicatrice degli uomini, che osa chiamarsi una scienza. Dio mio quanta superbia in questa parola! Con qual diritto può arrogarsi la medicina il supremo battesimo di scienza, quando i suoi sacerdoti si contraddicono l’un l’altro, quando noi per scegliere il nostro medico dobbiamo consultare i nostri presentimenti, le simpatie del nostro cuore? Qual vana scienza è questa mai che non cambia d’una cifra le statistiche dei morti di un paese, che guarisce lo stesso male coll’acqua fredda e l’acqua calda, coll’acquavite e il latte, che ci manda a Madera o in Islanda colla stessa indifferenza e per una identica malattia?
Per quanto io mi sforzassi di raddolcire il mio giudizio, di calmare i miei risentimenti contro i due medici che aveva consultati, io non riusciva a trovare una sola parola d’indulgenza per i medici e la medicina. Senza volerlo io aveva toccati colle mie due visite i poli dell’arte medica; io aveva veduto forse le due più sfacciate caricature del fanatismo e del dubbio; io giudicava di tutti i medici per averne veduti due soli; ma è pur vero che con infinite gradazioni tutti quanti dovevano oscillare fra quei poli: cieca fede di apostolo o scetticismo ghiacciato.
Quando a furia di pensar sempre alle stesse cose la mia fantasia mobilissima si esaltava, parevami vedere da una parte la fucina di Vulcano popolata di gnomi, di carnefici, di demonii che facevano stridere rumoreggiare tutti gli strumenti della tortura; dall’altra vedeva un cimitero immenso popolato di croci nere nere che campeggiavano in un mar di neve; vi era la nebbia e vi era il silenzio, e fra quei due poli estremi io vedeva tumultuare e muoversi una moltitudine accalcata di uomini togati colla cravatta bianca e grandi parrucche; avevano il ghigno beffardo e l’occhio collerico, e a guisa di una folla che si agita senza cambiar di posto, si dibatteva e oscillava fra quei due poli di fuoco e di ghiaccio.
Fu scritta già la storia della magia e si credette averla sepolta sotto la pietra del medio evo, ma io credo fermamente che un’ultima pagina rimanga a scriversi di quella storia, ed è quella della medicina. Parevami nei miei due giorni di malinconia e di stanchezza che l’arte del curare fosse magia antica vestita in giubba e in cravatta bianca. E non e forse magia la ricetta latina con numeri geroglifici e non e forse magia il toccar del polso e lo sporger della lingua, e la fede nel rimedio, e la profezia sempre ripetuta e sempre smentita; e non è gergo di magia tutto quel linguaggio greco e latino che nasconde nel fumo e nelle bolle di sapone il vuoto della scienza?
Dalla Sibilla di Cuma alla Zingara, all’omeopatico, dall’oracolo di Delfo alla chiromanzia e alla medicina non vi è forse una gerarchia naturale di pregiudizio, di mistificazione, di magia?
La paura della morte ha creato molti pregiudizii; non potrebbe essa aver fatto conoscere anche la medicina? La sentenza più mite che si possa darne è quella di Lamartine, che essa è una intenzione di guarire. Era il dott. B... che voleva uccidermi per dimostrarmi la profonda convinzione della sua fede, e il dott. T... che prima di curarmi, mi faceva morire sotto le montagne gelate della sua sterile erudizione io non vedeva posto alcuno per una medicina che fosse scienza e conforto; che non fosse nè fanatismo nè negazione di tutto.
Mio caro William, io m’ingannava. Era i due poli del fuoco e del gelo esiste un largo campo per la medicina; vi sono uomini che curano le malattie e non rassomigliano punto nè al dott. T... nè al dott. B..
Questa cara scoperta doveva farla nell’ultima parte del mio viaggio medico, nella mia visita al dott. Haug.
Sono andata quest’oggi da lui e me ne sono ritornata a casa tutta rinfrancata e serena, come se avessi fatto una gita nel campo e ne avessi riportato un fascio di erbe e di fiori, di ramoscelli sempre verdi e di muschio vellutato. O che caro amico è mai il dott. Haug...
Prima di arrivare al suo studio, io aveva già simpatia per lui, perchè, ascendendo le scale e attraversando la sua anticamera, le sue sale, aveva già scoperto a primo colpo d’occhio ch’egli ama le cose belle, e sopratutto ama la natura, di cui aveva fatta prigioniera in casa sua quanta parte aveva potuto.
Sulla scala c’erano dei pini grandissimi imprigionati in grossi vasi di terra, e mi pareva impossibile che vi potessero viver sani e robusti, e la terra in cui erano piantati non era nuda, ma coperta di erbe e di muschi come se ne trovano nella Scozia. Ogni pianta aveva il suo tappeto verde, aveva la sua famigliuola di pianticelle minori che pareano tenerle compagnia. Nell’anticamera, nelle sale, dappertutto vi erari fiori e fra essi sentiva a bisbigliare alcuni uccelletti ch’io non vedeva. Quel che vedeva erano statue; copie delle più belle opere di scoltura della Grecia antica e dell’Italia moderna. Le divine forme dell’uomo, della donna, del bambino, erano ritratte per ogni parte in marmo, in alabastro e sulla tela. Nello studio, sullo scrittojo, vi era una Venere dei Medici in alabastro, messa fra due pianticelle d’alloro e di mirto, e parevano tutte quelle belle cose sepolte in un mondo di libri d’ogni grandezza e d’ogni colore.
Quanto era poetica quella concisione sublime di cose! La Venere dei Medici, due alberetti sempre verdi e le opere dell’ingegno umano! La natura, l’arte, la scienza si trovavano in quello spazio ristretto vicinissime l’un all’altra, sembravano confondersi e quel medico doveva sentirsi profondamente commosso quando sedeva al lavoro in quel posto.
Fermai la mia attenzione sul mirto e sull’alloro. Quelle pianticelle eleganti non erano trovate a caso: esse erano state scelte da un gusto squisito. Non son esse le piante sacre all’amore e alla gloria? — Stava appunto fabbricandomi un idillio su quelle due belle prigioniere del dott. Haug... quando sentii i suoi passi che si andavano avvicinando nel corridoio. Sentii pure la voce e lo schiamazzo di un bambino, sentii il fruscio di una veste di seta, alcune parole che non capii ma che non potevano essere che d’uomo a donna, parole d’amore... Quanto amava quel medico, prima ancora di averlo veduto...
Un momento dopo io era seduta accanto a lui... non mi aveva parlato; mi aveva solo salutato col capo, e noi mi aveva sorriso e mi sorrideva ancora. Era un sorriso continuo, ma che variava di minuto in minuto; era un sorriso che era una domanda, un incoraggiamento, una speranza. Il dott. Haug... mi diceva un mondo di cose e senza parole...
Come mi sentii subito espansiva! — Eppure parlai poco perchè egli capiva subito tutto e col suo eterno sorriso, che era così eloquente, mi faceva ìnterrompere il discorso e saltar cose noiose e lunghe, ed io, facendo la triste e ormai nauseosa storia dei miei dolori mi sentiva talmente sorretta da quell’uomo che mi attraeva tutta quanta colla sua benevolenza e la sua attenzione, che io, parlando di tristissime cose, non sentiva nè dolore nè gioia...
Ti dirò una cosa sola del dottor Haug... Mentre stava parlando, ad un tratto mi sorprendo nel trovarlo molto giovane, troppo giovane per un medico tanto celebre; e questo pensiero importuno mi interrompe il filo del discorso e poi... obbedendo al solito alla mia prima emozione, gli dico.
- — Mi perdoni, è il dott. Haug...
— Per servirla, mia signora; e poi cambiando il suo sorriso in una vera risata a mezza voce, mi dice:
— E perchè ne dubitate?
— Ma, mi perdoni: vedendola tanto giovane aveva creduto ch’ella potesse essere un supplente del dottor Haug...
Qui il dottore si mise a ridere con una compiacenza grandissima: e poi distaccò una fogliolina di mirto che andò schiacciando fra le sue dita e odorando con una voluttà singolare, quasi allettata.
Quest’uomo non è anglosassone certo, ne britanno, è una goccia di sangue romano smarrita fra le nebbie dell’Inghilterra. Ha i capelli neri e folti, la fronte alta, il naso aquilino, la pelle bruna, la fisonomia affaticata dallo studio, la faccia nobilissima, qualche volta presa da leggera convulsione.
Lesse con molta attenzione la diagnosi del mio male e fatta dai medici che prima di lui mi avevano veduta, mi fece alcune domande, appoggiò il suo capo per po chi momenti al mio petto e poi sùbito sùbito quasi per non lasciarmi un minuto solo d’angoscia prima ancora di sedersi, prima ancora di racconciarsi la sua folta capigliatura scomposta dall’ascoltazione mi disse in furia:
— Oh la cosa non è grave, non è punto grave; ella guarirà, ella guarirà di certo.
E quasi avesse compito la parte più importante e più difficile del suo compito, si sedette comodamente nella sua seggiola, ripigliando fiato, mentre spogliava l’alberetto d’alloro d’una fogliolina e la sottoponeva alla stessa opera di distruzione e allo stesso lento o voluttuoso fiutare, come aveva fatto un momento prima col mirto.
— Sì, mia buona signora, voi guarirete e presto. Questa è la parte più importante di quanto ho a dirvi; perchè appoggiandovi nella fede sicura della vostra guarigione, voi dovete tranquillamente e allegramente attendere a conquistarla. Voi mi avete l’aria di avere in voi stessa molta forza di volontà, di possedere molti di quei tesori morali che non si comperano col denaro, che pur troppo non si imparano nei libri, ma che fanno risparmiare a noi stessi e agli altri molti dolori. Incominciate a togliere sùbito dalla vostra malattia tutta quella parte di male che viene dalla paura, dalla trepidazione, dall’angoscia del domani. E poi, e poi, anzi sùbito, andate a Madera; a Madera, e in nessun altro luogo....
Ho ricevuto anche questa mattina una lettera di una mia cliente che è a Funchal da cinque mesi, e che mi ha consolato assai.
Sputava sangue ogni giorno; ogni sera aveva la sua febbricella; dimagrava a vista d’occhio; ed ora non ha più febbre, non sputa sanguigno, mi dice di aver ingrassato. Essa è felice di essersi recata a Madera.
Conosco già molti esempi eloquentissimi di guarigioni di malattie di petto ben più gravi della vostra ottenute con un soggiorno più o meno prolungato in quel paradiso di fiori che si chiama l’Isola di Madera.
Quando voi vi decidiate di andarvi, vi darò per i scritto i miei consigli, perchè da voi sola abbiate a curarvi a Funchal... vi aggiungerò una lettera di raccomandazione per un distinto medico inglese, mio amico.
Oh! a proposito, non andate sola a Madera. Voi non vi potreste guarire.... Noi uomini siamo abbastanza egoisti per bastare a noi stessi; l’acre amore della vita basta a tenerci compagnia, a tenerci luogo di tutto; ma voi altre, figlie d’Eva, quando siete sole morite di spleen anche sotto il cielo incantato di Funchal Dio vi ha fatte per tener compagnia all’uomo voi non potete mai godere della felicità se non accompagnate....
Il dott. Haug... col sorriso, col gesto diceva, ancor più che colla parola, e quando potremo vederci, io a voce mi studierò di ripeterti tutto il nostro dialogo carissimo e soavissimo. Egli mi aveva ispirato col suo discorso tanta confidenza, che osai per ultimo consultarlo sulla parte più delicata del problema...
Arrossendo più d’una volta, gli domandai se dopochè fossi guarita io avrei potuto senza scrupoli, senza paure, dar la mano di sposa e divenir madre, senza il pericolo di aver figli malati di petto...
Il sorriso sparve improvvisamente ma per un solo minuto secondo dal volto del dott. Haug... e vi ritornò sùbito dopo, ma più severo, nè più mai potè riprendere quella cordiale giovialità che mi aveva tanto confortato fino a quel momento.
Io che seguiva colla curiosità più tenace, colla simpatia più affettuosa ogni movimento di quell’uomo, vidi la nuvoletta che aveva coperto per un istante il sole della sua letizia: mi accorsi sùbito che la mia domanda aveva risvegliato in lui tristi ricordi.
Sospirò leggermente, poi disse con accento commosso:
— Oh, perchè no? Quando la guarigione fosse ben assicurata, quando voi aveste riacquistata la vostra robustezza, certo potreste divenir madre.
Dovete avere un cuore ben caldo di sentimenti generosi per avermi fatta questa domanda... Tutti quelli che hanno il vostro male, che son celibi, che son gio vani ancora, dovrebbero dirigerla al loro medico; ma la dimenticano sempre... E sospirò ancora una volta, ma più profondamente di prima e colla mano si coprì l’ampia fronte....
L’uomo è molto egoista, non si occupa quasi mai dei nascituri. Conosco molti che prima di morire, vogliono avere una famiglia, vogliono con uno stolto orgoglio, dimostrare a sè stessi e al mondo che possono esser padri, che possono diventar madri.... E muojono vittime dello stolto esperimento, lasciando ai figliuoli la triste eredità del dolore o della malattia.
Il dott. Haug.... pareva parlare a sè stesso e non mi guardava più in volto; ma appena ebbe abbassati gli occhi sopra di me, si accorse che quelle sue parole erano colpi di pugnale contro di me; se ne pentì, ruppe bruscamente il filo delle sue parole, e continuò con diverso accento:
— In ogni modo, ora non è il caso di parlar di questo. Di certo non pensate nè oggi nè domani a prender marito... Sarebbe una follia. Occupatevi di guarire; vogliate guarire e guarirete.
Mi alzai commossa e decisi di andarmene a Madera, e vi andrò:
Non ti scrivo più una parola. Ci siam imposti otto giorni di esilio l’un all’altro; e presto l’esilio sarà finito. Ed io allora ti comparirò dinanzi superba di aver fatto per amor tuo un grande sacrifizio e ti dirò ad alta voce: La tua Emma è disposta a partire per Madera; la tua Emma è disposta a non vederti più per mesi ed anni, perchè ti vuole obbedire in tutto e sempre, perchè la tua Emma non vive che per te e fuori dell’amor tuo non sa vedere che la disperazione e la morte.
Addio, mio William: il mio calvario è conquistato. I tre oracoli della scienza brittannica son consultati. La tua volontà è stata adempiuta.
emma a william.
Londra, mercoledì 11 ant.
Questa mattina ho fatto una scoverta e voglio comunicartela sùbito, che non potrei aspettare fino a domani, quando tu verrai da me. Io era tutta occupata a godermi quella voluttà del cuore che ho imparato da te, famosissimo libertino del sentimento. Stava copiando quella mia lettera che ti ho scritto ieri, e la stava collocando fra due delle tue lettere; così come sempre ho fatto, dacché ho saputo che tu facevi lo stesso. E sdrajata sul mio safà, io andava scorrendo quel libro che mi è più caro di ogni cosa al mondo, e mi compiaceva vivamente nel vedere intrecciati amorosamente i miei pensieri coi tuoi. Qualche volta la fantasia e la gioia, dandosi la mano, mi facevano credere che le mie parole fossero liete di adagiarsi sulle tue, e mi pareva di vedermele danzar dinanzi agli occhi per tanta loro fortuna.
Quel volume è tutto profumato dall’odore delle viole l’odore che a te è più caro d’ogni altro.
Or bene, mio William, leggendo molte e molte pagine delle mie lettere e delle tue, ho scoperto che noi abbiamo lo stesso stile, che adoperiamo perfino le stesse parole per esprimere le stesse cose, che infine ci sarebbe a scommettere che un profano ad occhi chiusi non saprebbe molte volte indovinare di chi sia la lettera che si leggesse.
Appena mi passò per la mente questo pensiero, volli mettere alla prova la mia scoperta, e saltando come una pazzarella dal mio letto, corsi nella camera vicina, dove stava la zia Anna e le feci la scommessa che non saprebbe indovinare chi fosse l’autore d’uno scritto che gli andrei leggendo, ma di cui ella non avesse potuto vedere i caratteri. La buona mia zia si mise a ridere e si sottopose volontieri all’esperimento.
— Io non ti leggerò che scritti di William e scritti miei; mi hai a dire di quale di noi due siano essi.
— Sta bene, incomincia. Le lessi mezza pagina.
— E chi ha scritto questo, zia Anna?
— Emma.
— Ed io ridendo come una pazza: No; lo ha scritto William.
— E quest’altra frase, di chi è?
— Oh, questa poi è di William, senza fallo è sua.
— No, no, zia Anna, questa frase è mia.
Quattro volte ancora rifeci la prova, scegliendo con arte maliziosa alcuni pensieri che abbiamo comuni: e la zia Anna si ingannò sempre.
Ora, mio caro William, la scoperta è fatta non solo, ma è appoggiata, come tu suoli dire, al criterio dell’esperimento. Ma chi di noi due è il ladro dello stile e delle parole; chi di noi è l’autore originale e chi il modesto imitatore?
Rispondi alla mia domanda, sùbito sùbito. Lo sai, che fino a domani ci siam data la parola di non vederci; ed io ti mando John. Egli aspetterà nella tua anticamera finchè tu gli abbi consegnata la soluzione del problema.
Addio, William: fra noi due c’è un ladro, fa di scoprirlo.
Addio. Rispondimi subito.
william a emma.
Londra mercoledì 1 pom.
Il furto c’è, mia Emma, ma il ladro non si trova. Io e tu ci rubiamo a vicenda pensieri, affetti, parole: ma il ladro non c’è perchè non prendiamo che cose già nostre. Mi duole di toglierti la compiacenza della scoperta, ma reclamo per la priorità. Già da molti mesi, anzi dacchè ci scriviamo, io ho trovato che il nostro stile sembra uno solo, e che le nostre mani si ritrovano anche quando vanno a frugare nel dizionario.
Ma dimmi, mia cara, quand’io ti stringo la mano e ti guardo; e ti guardo profondamente, ardentemente, e chi di noi è il ladro dell’anima; ch’io non mi sento più la mia, e panni sentir trepidare il tuo cuore nel mio petto?
E quando parliamo a lungo, e chi di noi interroga, e chi risponde?
E quando guardiamo le stelle insieme, e là nel cielo infinito si smarrisce il nostro pensiero, e chi di noi due dà la mano all’altro per scendere in terra, e chi è che dà, e chi è che riceve in quell’estasi senza nome?
E quando ci separiamo, e il dolore dell’ultimo saluto ci ravvicina cento volte e cento volte ci rinnovella il saluto, chi è che si distacca dall’altro? chi è che lascia maggior parte di sè stesso nel cuore dell’altro?
E quando ci inebbriamo della santa gioia di vederci, d’intenderci, di sentirci portati in una sfera elevatissima, di sentirci nell’adempimento dei nostri doveri degni uno dell’altro, e chi è di noi che dà, chi di noi colui che riceve quell’ebbrezza divina?
I fisiologi hanno osservato più volte che due sposi che si amano, dopo aver vissuto lunghi anni insieme, vengono a rassomigliarsi; sicchè talvolta sembrano più fratelli che consorti. Non avviene lo stesso anche di noi due? Non siamo noi due foglie gemelle pendenti da un solo picciolo, non siamo noi due petali d’una stessa corolla?
C’è dunque il furto, ma il ladro non si trova. Emma non ha pensieri suoi, perchè William pensa le idee di Emma; perchè non esiste in noi due che una gioja sola, che un sol dolore; un’idea sola, un’anima sola.
Ecco la soluzione del tuo problema. A domani.
william a emma.
Londra, domenica.
Tu mi hai detto più d’una volta, mia Emma, mia dolcissima Emma, che noi pensavamo sempre insieme le stesse cose; e che quando io ti esponeva le mie idee, fossero pur nuove e strane, tu subito le intendevi e ti pareva di averle già pensate; e più che ca pirle ti pareva ricordarle. Ebbene, se ciò è vero, se le fantasie del tuo core non ti trasportano nel mondo degli spiriti, tu jeri devi con me aver navigato un grosso mare, devi aver lottato contro una orrenda procella, devi infine esserti ritirata stanca, ma confortata pel porto della consolazione.
Stammi a sentire, dolcissima Emma, siediti in quella tua seggiolina azzurra, bassa bassa, dove suoli rannicchiarti quando mi guardi in alto, sicchè io, stando in piedi, bevo la luce dei tuoi occhi in quell’abisso profondissimo delle tue pupille. Intreccia le tue dite; sicchè una mano sappia quel che l’altra sente, e piegata sopra te stessa, come se tu fosti in un nido, fa silenzio e stammi a sentire.
Ieri mattina io m’era alzato di mal’umore; nè sapeva il perchè. Per quanto adoperassi e stancassi quell’organo del cervello umano che ha l’incarico di cercare la ragione delle cose (anche quando queste non hanno ragione alcuna fuorchè di essere quel che sono) io non sapeva spiegarmi perchè tutto vedessi attraverso un velo di morte... Il cuor mi suggeriva la pietosa menzogna che io era triste, perchè da tre, giorni non ti aveva veduto; ma l’amore della verità di cui tu hai saputo fare in me una religione, mi diceva che quella cagione del mio dolore non era vera; perchè molte volte aveva passata una settimana e più lungo tempo ancora senza vederti e non aveva sentito quel tormento dell’anima che mi faceva toccare un’ortica dappertutto dove muovessi un dito, mi faceva vedere una luce odiosa dappertutto dove avessi rivolto il mio sguardo.
Infine, trascinandomi al mio studiolo, dissi fra me: sarà il mio debito di dolore che devo pagare come uomo nato sotto la luna. Quando si nasce ci scrivono sulla schiena con un gesso, come fa il doganiere sui bauli e sui sacchi da notte, un cifra. È il tanto di dolore che dobbiam pagare innanzi morire. Sarà fame, o sprezzo degli uomini, sarà mal di denti o amore straziato; ciò importa poco alla natura. Purchè ognuno paghi il proprio tributo di dolore, sia poi in lagrime o in convulsioni, in piombo muto che riga il cuore senza lamento o in strazio di nervi. Ebbene, dissi io, oggi è venuto l’esattore per esigere la mia quota e la pagherò... Non v’ha sorriso di cielo, non lampo di genio, non forza di volontà che possa piegare alla gioia un malumore che nasce nelle nostre viscere senza ragione.
Mi avvicinai al mio caminetto e faceva fumo; mi alzai indispettito, passeggiai in su e in giù della camera, e come un automa mi piantai dinanzi ad una delle mie librerie: proprio dinanzi agli occhi miei stavano Giovenale e Marziale. Mi parve di aver toccato un rospo con la mano che cercava una viola. Feci un brusco giro sulle mie calcagna e mi piantai dinanzi alla libreria opposta. Vidi dinanzi a me il libro sulle prigioni di Howard. Chiusi gli occhi perchè non voleva più vedere libro alcuno e corsi alla finestra, Il cielo era invisibile: una nebbia fitta copriva ogni cosa, e appena mi lasciava vedere qualche tinta del muro in faccia. In quella palude di nebbia si sentivano voci confuse dei viandanti, ma spiccava assai vivo il pianto d’un fanciullo che forse aveva fame e freddo...
Non mi scoraggiai per tutto questo, tu lo sai, mia Emma, che le cose difficili mi son sempre piaciute. Voleva rompere le catene che mi legavano a un mondo di tristezza: voleva, se mi permetti di parlarti con un’immagine orientale, voleva intorbidare le acque del mare col succo dell’euforbia, per potervi poi pescare nel fondo la gioja.
Chiamami pazzarello; ma in un quarto d’ora feci queste tre cose: Lessi dieci delle tue lettere più liete e più rosee, suonai sul gravicembalo quattro waltzer di Strauss e corsi un volume delle caricature di Cham e poi mi buttai sul mio tavolo da studio, afferrai la penna, come se fosse stata la spada della vittoria e mi misi a scrivere liete cose, per persuadermi che io aveva vinto. Eccoti ciò che ho scritto:
Come è ridente il cielo, come è bella la terra! Tutto ciò che è a me d’intorno mi rallegra e mi stende la mano amica; gli uomini son tutti fratelli miei, io li amo tutti è tutti aman me; come è gioconda la vita, come è perfetto l’uomo!
Sì, l’uomo è perfetto e felice, sebbene talvolta io vedo il suo volto bagnato di lagrime; quel pianto è una procella fugace che lascia poi il cielo più ridente e sereno.
Sì, la gioja abbattuta dell’uomo risorge dopo il pianto, ma sul volto che pianse la lagrima ardente lasciò un solco che più non scompare; ma la lagrima che non è raccolta dalla mano o dal labro di un’anima amica filtra lenta lenta nel cuore, e vi lascia un segno come la goccia di piombo che cade sul legno.
Ma a che parlo io di lagrime, quando l’uomo è fatto per il riso, e quando i piaceri infiniti di questa vita fanno sparire nel mare della gioja le lagrime solitarie? E che può mai una stilla di fiele caduta in un oceano di latte?
Sì, ma a quella goccia di fiele se n’aggiunge un’altra ancora e sempre più amara; e al palato squisito dell’uomo che sente, si fa sentire nel fondo del vaso l’amaro che vi era celato.
E quell’amaro discende anch’esso filtrando nel cuore e vi lascia il suo solco, e quell’amaro serpeggia col sangue in ogni fibra, in ogni midolla e l’uomo non si sente felice.
Sì, l’uomo non è felice: i lamenti di tante generazioni, i desideri più ardenti e più santi che si spezzano contro un destino senza viscere, tante giovani vite spente innanzi tempo lo dicono ad altissima voce: l’uomo non è felice.
Sì, l’uomo è infelice; è nato al pianto; è incatenato da una legge fatale ad una grama esistenza, che abborre e desidera nel tempo stesso.
Incapace di togliersi il tormento che lo cruccia, non ha il coraggio di morire, nè la scienza di vivere; non ha il sentimento che per raddoppiare il dolore, non ha la mente che per intendere tutta l’immensità dei suoi patimenti. L’uomo è un eterno desiderio saldato a fuoco con un eterno pianto.
La mente lo trasporta in orizzonti che i suoi piedi non possono toccare; il suo cuore vuol espandersi, quando una mano di ferro lo stringe.
L’uomo è la più imperfetta, la più miserabile, la più ammalata creatura dell’universo.
E qui, mia buona Emma, lasciai cadere la penna che pochi momenti prima aveva afferrato col piglio di un generale vittorioso, e mi confessai vinto.
In questa confessione però vi era più malinconia che amarezza; perchè il lottare eleva l’uomo anche quando la battaglia è senza vittoria, e solo è spregevole chi rifiuta la lotta e si dà vinto prima di battersi.
Mi sembrava di aver trasformato il dolore in qualche cosa di utile e di bello, solo perchè l’aveva piegato sotto il giogo del mio pensiero, solo perchè lo aveva distillato su questo foglio attraverso la cannuccia della mia penna. Forse, diceva io, questi poveri pensieri saranno trovati belli dalla mia Emma: il mio malumore non sarà stato un male assoluto.
L’uomo più si eleva e più si sente degno di esser uomo, quanto più abbraccia del mondo che lo circonda; si sente più grande quando ad ogni cosa che vien dal di fuori, amica o nemica, dà l’impronta potente del suo individuo. Il mio malumore era venuto in me a dispetto di me e contro di me; io aveva combattuto; io gli aveva dato una forma umana, io lo aveva trasformato in un pensiero.
Perdonami questi pensieri da egoista. Più innanzi nel corso della giornata, con una ginnastica insistente e ferocissima, riuscii a trasformare il malumore in malinconia. Mi pareva di aver distillato il fumo e di averne fatto dell’aceto... perdonami questo scherzo.
La malinconia è sempre più benevola e meno cattiva del malumore; ed ecco cosa scrissi sotto la sua ispirazione.
Dammi la mano, o cara, fa ch’io ti possa sentire a me vicino; il turbine della vita mi spaventa, ho bisogno di non esser solo.
I miei occhi son corsi arditi a ricercare il vero nei luoghi più reconditi, studiando le maraviglie delle piccole cose; credetti, superbo, di scoprire i misteri della natura creatrice, ma gli occhi miei si son coperti di un velo e non ho più visto nulla. — Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo.
Gli occhi miei si son levati dalla terra, dove pazienti ed acuti si erano indarno affaticati, e li portai nei cieli. Stolto ricercai i confini dell’universo infinito ma lo splendore di tanti soli accecò la mia vista e non vidi più nulla. — Dammi la mano, o cara, ho bisogno di non esser solo.
La mia mano temeraria penetrò là dove la natura, coprendosi d’un pudico velo cela i più sublimi misteri; là dove la vita, nascendo dalle rovine della morte, ci fa sentire il suo primo palpito; ma la mia mano di ferro soffocò, distrusse il germe delicato, e non più un palpito vi rispose. — Metti la tua mano, o cara, sulla mia fronte, e spegni il fuoco che la divora.
Per ogni lato dove la mia mente si volge cercando il vero; per ogni luogo dove andò ricercando i misteri della vita, si trovò sbarrata la via; e mal sapendosi accontentare dei vuoti suoni di cui l’andavano vezzeggiando i sapienti fortunati, dopo una lotta inutile e forsennata per spezzare i confini segnati all’umana ragione, giacque spossata ed affranta. — Dammi la mano e stringi la mia, sicchè io possa sentire d’averti vicino; ho bisogno di non sentirmi solo.
Il mio vergine cuore si è fatto sentire e mi si è schiuso un nuovo orizzonte, ristretto da ridenti colline e da prati fioriti; ed io apersi le braccia per stringere al mio seno quel paradiso... Ma dammi la mano, o cara, e stringi la mia ancor più forte, che il solo ricordarlo mi spaventa, ed io ho bisogno di non sentirmi solo.
Ma a che lacerare una piaga che è chiusa da pochi giorni? Le lotte sfortunate della mente, le sconfitte della ragione umana hanno ancora un’eco remota che soddisfa la nostra superbia; ma gli sconforti del cuore hanno un eco lontano che non si cancella col tempo, che si ricorda sempre con immenso dolore.
O cara appoggia la tua mano sul mio cuore, e calmane i moti concitati. Fammi sentire che io non son solo.
Per tutto il giorno di ieri mi tormentò un solo pensiero, quello di trasformare il malumore in qualcosa di utile o di bello.
La natura ha fatto nascere l’ortica, e l’uomo ne ha cavato un tessuto sottile e soave con cui la bella indiana asciuga il sudor della fronte.
La natura ha dato un potente veleno ad una liana del tropico, e l’uomo ne ha cavato un rimedio per guarire il paralitico.
Anche la collera, anche l’odio, anche il malumore devono essere trasformati in una forza che innalzi gli uomini sopra gli altri. L’assenzio della tristezza deve essere, colla chimica potente della volontà umana, convertito in un rimedio che guarisca le noje del volgo profano e gli esterismi del genio solitario.
Un sonno tranquillo ha sepolto il mio malumore e i miei sogni alchimisti di trasformazione delle forze, e questa mattina ti scrivo col labbro ridente, guardando con infinita compiacenza il cielo azzurro attraverso i vetri della mia finestra.
Addio, addio mille volte!
Fra le reliquie di William troviamo una pagina senza data e che porta la sola nota di
Un dì d’aprile.
Ho socchiuso la bocca per aspirare l’aria profumata della primavera e mi parve ch’essa avesse lambito le labbra vellutate della mia Emma.
Ho colto una viola e mi è parso che quell’aroma delicato mi scendesse fino al cuore, e me ne vellicasse le fibre più sensibili, come quando l’anima mia si sente vicina alla sua Emma.
Ho sprofondato gli occhi nei campi azzurri del cielo infinito; e i fiocchi vaganti delle nubi mi pareva segnassero coi loro scherzi il nome di Emma, con caratteri d’argento in campo d’oltremare.
In me stesso nelle mie memorie, nelle mie speranze, non poteva trovare altra cosa che te sola, e tutto, tutto mi richiamava l’immagine di Emma.
Perfino le boccette del mio laboratorio, le immagini dei miei quadri, i libri della mia biblioteca mi sembrano tutti specchi, nei quali Emma, mirandosi un istante, avesse lasciata la sua immagine divina.
In me e fuori di me, nel mondo degli spiriti e della materia, nella veglia e nel sonno, nella gioia e nel dolore, nella pace e nell’ira io non vedo, io non sento che una cosa sola, la mia Emma.
Io non sono cosa alcuna senza di lei, e senza di lei non sento di pensare e di vivere. Le nostre esistenze non formano altro che un’esistenza sola...
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emma a william.
Londra, 17 luglio 18...
Dunque, mio buon William, per amor tuo conviene lasciarci. Io parto per Madera; lo vuole anche il vecchio medico di mio padre. Egli vive ritirato da molti anni nella sua villa di Brompton, e ieri ho fatto una gita a casa sua insieme alla zia Anna. Era molto tempo ch’io non lo vedeva, ma dalla zia aveva già saputo tutto, che tu lo sai, egli è il consigliere nostro in ogni cosa importante. In lui vive ancora un raggio della vita e della mente di mio padre.
Non posso vederlo senza sentirmi gli occhi gonfii, e quando mi dirige la parola con una calma lentezza e con una dolcezza penetrante e affettuosa, mi sento tutta commossa. Egli ha più di ottant’anni, ma nessuna delle infermità della vecchiaia lo rende ributtante o molesto agli altri. Gli anni non gli hanno dato che un’indulgenza senza fine per le miserie e le colpe degli uomini, e gli hanno scolpito sul volto un eterno sorriso. La zia Anna mi ha detto che sorride sempre, anche quando dorme. Ha tutti i capelli bianchi e li tien lunghi e ben pettinati; il volto grasso, rotondo, ben rasato; ei mi ricorda Franklin.
Quando si giunse a Brompton, egli era in giardino, tutto occupato a rimondare un cespuglio di rose. Appena mi vide, mi venne incontro e mi abbracciò, come se fossi una sua figliuola, e mi fece entrare colla zia nel suo studio, e là seduto accanto a me, mi tenne per un pezzo una mano stretta nella sua e, guardandomi amorosamente, non sapeva dir altro che: la nostra Emma, la nostra brava Emma.
Gli raccontai per filo e per segno la mia visita ai tre oracoli della medicina inglese; ed egli sorrise più d’una volta.
— Sì; sì, mia cara Emma, voi dovete andar a Madera; dovete rimanercene là un pajo d’anni almeno, finchè siate completamente ristabilita. E poi, e poi sì ritorna in Inghilterra per mettere alla prova la salute conquistata, e se in altri due inverni inglesi non abbiamo tosse nè catarro, e se intorno a questi ossicini riusciamo a mettere un pochino di carne e di lardelli, allora Emma fa un’ultima confessione al vecchio dottor Thom, e questi le dà l’assoluzione completa di tutti i peccati e le permette di sposare il suo William. Non va bene così?
— Caro dottore, possano le vostre parole essere sante, possa ascoltarle il mio povero padre.
— Sì, vostro padre ci ascolta: e quando io in nome suo vi dirò sposate William, voi lo potrete fare con piena coscienza di non mancare alla vostra parola, ai vostri giuramenti.
— Ma mio buon dottore, io ho pur giurato a mio padre di non prendere mai marito?
— Cara creatura, questo è verissimo, ma noi dobbiamo esser servi delle idee e non delle parole. Quando la vostra salute fosse completamente ristabilita, e la vostra costituzione rifatta, mancherebbero le ragioni per le quali vostro padre esigeva da voi una solenne promessa. Non vi ha egli detto che in ogni caso aveste a consultarmi e a seguir ciecamente ciò che vi avrei detto di fare?
— Sì, mio dottore, e per questo vi ubbidirò ora e sempre, senza esitare, senza domandar spiegazioni, senza guardarmi indietro.
Non aveva mai veduto quel mio dottore più bello, più sereno. Io lo avrei baciato e ribaciato cento volte. Mi accorgeva chiaramente che egli, consolandomi non mi ingannava, ma ch’egli stesso credeva che potrei guarire, e che potrei esser tua un giorno. E quelle parole così piene di felicità pronunciate da una bocca che mi pareva santa, mi trasportavano in un mondo di paradiso.
E il buon vecchio se n’accorgeva, e i suoi occhi fermandosi a lungo sovra di me, nuotavano in un sorriso che era lagrimoso, tanto era tenero.
Si rivolse a mia zia:
— Ma, e il signor William saprà aspettare tanto tempo, saprà vivere in tanta incertezza per quattro o cinque anni?
Risposi io alla domanda fatta alla zia, e sentendomi diventar rossa rossa, dissi con accento molto lesto:
— Oh sì, certamente, William mi aspetterà.
Ho fatto male, caro William, a prometter tanto, a farmi mallevadrice di tanta pazienza? Smentiscimi subito, se lo vuoi.
— Oh! a proposito, m’interruppe ridendo forte il dottor Thom, il signor William deve darvi la sua parola che non andrà mai a trovarvi a Madera, vi lascerà sola col vostro egoismo (ne avete dell’egoismo?) tutta intenta a guarire. Alla fine, se volete guarire è per lui, è per lui solamente.
Io ti rifaccio a modo mio questo dialogo, ma sono sicura che aggiungo molte parole che noi non abbiam detto. S’era in tre; ma ci intendevamo a mezze parole, e i sorrisi e i segni entravano nei nostri discorsi più eh e le parole.
— Io vi manderò a Londra un libriccino manoscritto che porterete con voi a Madera: sarà il vostro medico. Vi darò anche una lettera per il mio amico, il dottor Sonthey, ma non la si presenta che quando aveste la disgrazia di essere obbligata a letto; e spero che ciò non avverrà mai in quell’aria di latte tiepido. E con chi andate a Madera?
— Con me, rispose la zia Anna.
Avrei voluto che tu fossi presente a quella scena, mio William; avrei voluto che tu sentissi quanta bontà era nascosta nell’accento semplice, naturale, tenero con cui la zia Anna pronunciò quelle parole: con me. La bontà di mia zia è così profonda, così uniforme nella sua tenerezza, e così intimamente fusa colla sua natura, che i giorni e i mesi passano, senza che io abbia tempo o luogo a pensare ch’ella è buona; ma quando in un’occasione come è questa si getta lo scandaglio in quel suo carattere così infinitamente buono, si rimane sorpreso dinanzi a tanta serenità limpidissima. La sua bontà è un cielo eternamente sereno, e non lo sa apprezzare che chi ha conosciuto in altre terre la nebbia, la pioggia e gli uragani.
Anche il dottor Thom rimase commosso dall’accento dolcissimo, dalla sublime naturalezza con cui la zia Anna aveva pronunciato quelle due parole, e dando al suo sorriso un’espressione calda e riconoscente, le disse:
— Voi già siete sempre la stessa Anna di ora è mezzo secolo: neppur gli anni v’hanno potuto dare un pochino d’egoismo; morrete impenitente.
Il dottor Thom era buono, era dolce; ma non amava molto arrestarsi sulla tenerezza.
— È affar finito, dunque; verrò io stesso a Londra a salutarvi prima della vostra partenza. Venite a vedere il mio giardino, e voi Emma venite a visitare la mia nuova serra; vi farò conoscere molte piante che io qui tengo prigioniere, e che a Madera vedrete fiorire lussureggianti a cielo sereno. Oh, venite, venite; ho ricevuto da quindici giorni un solanum del Brasile che è di una rara bellezza. In Inghilterra non siamo che io e il duca di Bevonshire celi abbiamo questo solanum.
Si rimase ancora un’ora a Brompton, ma ti confesso che lungo le ajuole linde linde del giardino e nell’aria calda della serra del dottor Tlioni io pensava sempre a te e a Madera; e la nuova fase in cui stava per entrare la mia vita mi pareva un sogno. La speranza, la paura, il terrore dell’ignoto, l’affetto per te si facevano così aspra guerra nel mio cuoricino, ch’io di quando in quando udiva le parole del dottore e di mia zia senza intenderle e non sapeva in qual mondo io mi fossi.
Vieni a trovarmi, mio William; ora dobbiam vederei tutti i giorni, finchè io rimanga ancora in Inghilterra. Verrà pur troppo presto l’oceano a separarci per mesi ed anni.
Mio William, mio solo William, la tua Emma ti aspetta.
william a emma.
Londra, 9 agosto 18...
Tu mi hai promesso, Emma, che porterai con te questa mia lettera e che non la leggerai che a Madera. Qualche cosa di mio ti sarà compagno nel tuo viaggio e appena sbarcata in un paese straniero, una mia parola ti darà il primo saluto. Oh perchè non posso io chiudere in questo foglio fortunato tutto me stesso? Perchè mai la fantasia umana che ha creato gli spiriti, le ombre, i fantasmi, non ha tanta potenza da trasformare i corpi viventi in questi spiriti invisibili? Perchè mai i medici non possono conservare un uomo vivo addormentato per anni ed anni? Perchè mai il pensiero corre sempre più in là della mano? Perchè tanta sproporzione fra il pensiero e l’azione?
In questa mia lettera il mio spirito ti saluta, o Emma, e alleggiandoti intorno, vuole che l’isola su cui hai posto il piede sia per te un giardino, un paradiso; vuole che il suolo di Madera sia per te una terra benedetta che ti dia la salute, la pace, la gioia. Io avrà il coraggio di amare quell’isola che mi ha tolto la mia Emma per tanto tempo, io avrò il coraggio di benedire Madera. E tu mi hai scacciato dalla tua isola, coma Dio scacciava i nostri padri dal primo paradiso, nè mi hai concesso di venirti a trovare una sola volta, un’ora sola. Hai voluto far segnare la mia condanna colla penna d’un medico per te venerando, ma tu fosti il giudice crudele e maliziosamente ti sei nascosta dietro la tega d’un magistrato inappellabile. E colla tua so lita grazia, col tuo pennello d’artista, e nelle tue lettere e nelle nostre conversazioni interminabili degli ultimi giorni, mi hai voluto fare un quadro molto lusinghiero del tuo dottor Thom; me ne hai fatto un tipo del medico filosofo, dell’uomo di cuore saldato insieme all’uomo di scienza; me l’hai fatto un tipo di sublime bontà; ma non sei però riuscita a farmelo amare. Per me il dottor Thom è pur sempre il giudice che ti ha esiliata dall’Inghlterra e ha scacciato il tuo William dalla terra promessa, dove egli possiede tutti i suoi tesori. Io non l’amo punto punto il tuo Franklin divenuto medico, il tuo dottor Thom.
In mezzo al mio dolore ho un’immensa consolazione. Io so di sicuro che a Madera qualcosa ti mancherà; ti mancherà tutto quello che manca a me. Nè l’aria imbalsamata, nè i fiori, nè le valli potranno riempire quel vuoto. Guai a me se a Madera ti sapessi completamente felice.
Vedi Emma, io ti amo troppo, e tanta superbia ho del mio amore, che non ho mai concepito l’idea che io potessi divenir geloso di un altr’uomo. E chi sarebbe tanto temerario d’amarti come io; qual luce oserebbe brillare dinanzi al sole del nostro amore? Chi mai avrebbe il diritto in questo mondo di alzare il capo e di dire: io amo Emma più di William? Io dunque non sono geloso di alcun uomo su questa terra; e se Dio scendesse sotto la forma d’un uomo, io non sarei geloso di Dio. Il tuo William invece è geloso della natura e d’ogni cosa bella che ti sta intorno. Io temo sempre che nel contemplare il mare azzurro e il cielo stellato, che nel folleggiare fra i prati fioriti e profumati, tu abbi a rivolgere un pensiero d’amore a quelle belle cose, e senza che io abbia la mia parte in quel pensiero. Tu ami tanto le belle cose!
T’ho udito più volte parlare lungamente, con vera passione, d’una farfalla o d’uno scoglio coperto di muschio; t’ho udito discorrere con entusiasmo d’una quercia su cui si arrampicava un’edera e che avevamo veduta insieme nei giardini di Kew. Ecco, tu dicevi, una creatura che possiamo amare senza rimorsi e senza dolori la possiamo amare con passione, anche senza che sia cosa nostra. L’amore per la natura è una passione sempre vergine; e nessuno ha potuto chiudere tutta quanta la natura dietro le pareti di un serraglio o le inferriate d’un carcere: ve n’ha per tutti, anche per l’uomo più povero del mondo. Ora, mia Emma, tu sei in un paese cento volte più bello dell’Inghilterra; dicono più bello dell’Italia, ed io son geloso di Madera.
Quanti volumi non ho io letto in questa ultima settimana su quella tua isola! E per mia fortuna non ho potuto trovare a Londra tutte le opere che parlano di Madera: per cui posso tormentare ancora il mio libraio; posso ancora aspettare nuovi libri dagli Stati Uniti, dalla Germania, dal Portogallo. Ho fatto scolpire dietro un mio disegno una piccola biblioteca, dove non collocherò che opere che parlano della tua isola.
Ho già saputo però che è l’isola dei fiori, che gli eliotropii si mietono come l’avena, perchè invaderebbero i campi; ho saputo che si passeggia all’ombra delle passiflore, e che i boschi son pieni di lauri, di alberetti sempre verdi, di eriche alte come un uomo. Tu che ami tanto le eriche e le hai vedute nelle nostre serre alte un palmo, potrai passeggiare e perderti in un bosco di erica arborea. Ti ricordi quando mi dicevi che le mimose e le eriche erano i merletti d’Inghilterra nel mondo delle piante; ed io, ridendo, ti diceva una secentista, un poeta barocco? Ebbene, tu vedrai ora i merletti giganteschi di Madera.
Il primo pensiero di William che tu trovi nell’isola è dunque un pensiero di gelosia, d’immensa gelosia per quella bella natura che ti possederà tutta quanta per chi sa quanti mesi; è un’invidia infinita per quei fiori che andrai cogliendo a piene mani, che ti inebrieranno coi loro profumi. Come troverai fredde e nuvolose le mie lettere che ti giungeranno ancora imbevute della nostra nebbia inglese! Con quanta compassione penserai a noi poveretti che viviamo per cinque mesi dell’anno senza foglie sugli alberi, senza fiori nei prati!
Vedi, mia Emma, prima di gettarti in braccio della bella natura che ti circonda e di cui non hai sentito fino ad ora che il profumo lontano, tu mi devi fare una promessa. Tu mi hai a promettere di lasciarmi un posticino, fosse pur piccolissimo, in ogni tuo fiore, in ogni tua ammirazione per Madera. Soltanto in questo modo potrò amare anch’io la tua isola.
Quando, portata sul dorso del tuo cavallo, dall’alto di una rupe nera nera guarderai giù nella valle e vedrai fra le canne ondeggianti dello zucchero i cespugli fioriti delle rose, e il vento te ne porterà gli odori inebbrianti; quando tutt’all’intorno ti vedrai un mare sereno e tranquillo e non saprai dove fermare il tuo occhio innamorato in mezzo a tutto quel mare di bellezze, tu hai a dire: Che cosa penserebbe William, se mi fosse qui a canto?
E quando ti porterai trionfante a casa nel tuo canestro tutto un bottino di fiori, tutto un diluvio di rose, di gelsomini, di eriche, di ramoscelli di mirto, e quando nella tua cameretta sospirerai profondamente respirando tutta quell’aria profumata, m’hai a dire: Non senti, William, questa voluttà che rassomiglia tanto alle gioie dell’anima?
E quando alla sera porterai alla spiaggia il tuo scialle e là sdraiata, coi tuoi piccoli piedi presso all’onda del mare, ti perderai nel profondo di un cielo trasparente come lo zaffiro accompagnando i tuoi sogni e i tuoi pensieri coll’alterna carezza dell’onda, anche allora, Emma, pensa subito: Come sarebbe felice William, se fosse qui con me, coricato anch’egli sulla fresca arena!
Vedi, mia Emma, non mi chiamare esigente: no, chiamami soltanto innamorato. L’amore è la vita intiera divenuta un desiderio; è la vita tutta quanta con tutta la sua forza, con tutto il suo caldo, con tutti i suoi misteri trasformati in una cosa sola; in un desiderio senza confini, in un desiderio insaziabile, onnipotente, infinito.
Intendi, Emma, che cosa voglia dire un uomo tutto trasformato in un desiderio? Intendi che cosa voglia dire avere in un pugno solo la bellezza, la gioventù, l’ingegno, l’ardore dei sensi, l’ambizione, l’odio, il pensiero, la poesia, tutte le forze umane; e sentirle tutte quante consumarsi in una sola scintilla, bruciare dello stesso fuoco? E sentirsi pronto da un minuto all’altro a gettar tutta quella forza, tutta la vita ai piedi di una creatura per averne un sorriso, e amar la vita soltanto per poter dire ad una donna: io posso morir per te? E dopo tanto ardore e dopo tanto vulcano sentir sempre nelle viscere, eterno, insaziabile, infinito quel desiderio, che è poi la vita intiera, che è tutto l’amore?
Il fiato di Dio nella creta dell’uomo è l’amore; l’infinito del futuro legato alla creatura d’un giorno è l’amore; la scintilla strappata al cielo da Prometeo è l’amore; o almeno tutto questo è l’amore ch’io sento per te.
E la parola è ancora ben povera cosa per dirti quel che sento, per circondarti di un’atmosfera che per tutto il tempo che vivrai a Madera ti dica sempre in ogni ora del giorno e della notte: William è qui, William è sempre qui con me. La parola è il segno che nel deserto mostra al pellegrino la via; ma la via si conquista sulle ali della fantasia e sul dorso d’un cavallo ardente.
Se è vero che con venti lettere noi possiamo esprimere tutti i nostri pensieri; se è vero che il genio con sette note ci trasporta nei mondi sconfinati dell’armonia; se è vero che la natura colla tavolozza di sette colori basta all’impresa di dipingerci l’universo; è pur sempre vero che al di là del pensiero scritto, al di là dell’armonia del maestro, al di là della tela del quadro vi ha un mondo misterioso che la nostra mente chiama suo e che non fu ancora acquistato dal poeta, dal maestro, dal pittore. È questa la nostra grandezza, che vi sia un mondo dove lo spirito non trova frontiere, dove non lo arresta alcun doganiere; dove la fantasia e il sentimento spaziano senza battere il capo impaziente contro le pareti della forma, contro le inferriate della scienza.
L’uomo sente assai più di quel che possa dire, e tutte le lingue parlate e tutti i pennelli e tutte le armonie degli artisti e tutte le forme strappate dalla mano temeraria del poeta al mondo dell’infinito, non bastano ad esprimere quel che l’uomo può sentire in un istante solo d’odio o di amore, di voluttà o di dolore.
O mia Emma, dove mi sono io smarrito! — Voleva darti il benvenuto al tuo arrivo a Madera; e ti ho parlato di gelosia e fors’anche t’ho fatto della metafisica. Tu che mi intendi, anche quando non parlo, m’avrai inteso anche questa volta. Tu avrai inteso e perdonato la mia gelosia, in cui non sento ombra d amarezza; in cui credo non si nasconda la più piccola vanità, il più innocente egoismo.
Tu sei una cosa mia, come sono miei i miei pensieri, i miei occhi; tu sei mia come son mie le mie mani; tu sei più che la metà di me stesso, e ora che sei lontana, mi ti sento avvinto più ancora di quando mi sei vicina; e pensando a te con munito odore, mi pare che una parte di me stesso sia in me malata, sicchè io di essa sola mi occupo: per essa sola mi tormento e mi cruccio.
La gelosia di un’anima onesta è il bisogno di volere che il nostro calore riscaldi tutte le nostre membra, che nelle nostre viscere non entri che il nostro sangue. La gelosia, così com’io l’intendo, è la coscienza piena di sè stesso, è l’amore di sè stesso, è l’istinto della propria conservazione, è il più santo dei diritti naturali.
La massima parte di me stesso è a Madera; ed io l’accompagno con immenso amore, ed io la circondo d’un fiato che me la conservi, che me l’accarezzi, sicchè quel ch’è mio rimanga mio soltanto e mio sempre e innanzi a morire non m’abbia a veder dilaniate le membra e sanguinanti escirmi le viscere da un’ampia ferita. L’uomo solo non esiste, te l’ho pur detto le cento volte; non esiste la donna sola; ma solo io conosco un uomo-donna vivente, vivente di quella ch’io soltanto chiamo vita.
Fa dunque, mia Emma, di serbarmi il mio posticino sui basalti muschiosi dell’isola e alla spiaggia del mare e nel tuo canestro di fiori. E che l’aria imbalsamata di Madera ti accarezzi soavemente le chiome, e ti entri mollemente nel petto e ti risani e ti ritorni a me presto. Che sotto i tuoi piedi fioriscano i prati e sul tuo capo facciano cadere una pioggia di fiori anche gli alberi della foresta; che intorno a te Madera divenga un paradiso di armonia, di profumi e di dolcezza e che in quel paradiso tu abbi a serbare un posticino per il tuo William innamorato.
emma a william.
Madera, 3 ottobre 18...
Già da parecchi giorni, mio William, io mi sentiva languida e oppressa: ogni movimento mi dava pena e l’ozio non mi riposava. — Passava le ore alla mia finestra, quasi sdraiata sul seggiolone, e leggeva e rileggeva le tue lettere; mia primissima gioia quando sono lieta, mio unico conforto quando sono triste. Fra l’una e l’altra lettera guardava fisso il mare, questo eterno compagno della meditazione, e il mio occhio per lente oscillazioni, passava senza saperlo dalla scena della vita presente e vicina all’ultima linea sfumata e incerta dell’avvenire. Prima il pianto solcato dalle bianche vele, rotto dai remi rumorosi, increspato dalle mille onde che io poteva distinguere e numerare: la vita in azione col suo chiasso, coi suoi mille movimenti, coi suoi contorni netti e recisi. Più in là il mare era azzurro e senza rumori: una vela lontana si perdeva in quell’orizzonte più sereno, e pareva un’ala di uccello marino. Là era la vita del pensiero, che attinge ancora la lena dell’azione, ma che già si solleva nei campi dell’infinito; non più confini precisi, non più chiasso; ma il fluido eterno che mai non posa e sempre si muove. E poi e poi giù nel fondo l’occhio faceva ancora un passo e si trovava di nuovo in un mare grigio che si perdeva fra le nebbie dell’orizzonte: là nè chiasso che distrae, nè il sereno che riposa od eleva, ma un quadro incerto e sconfinato, ma l’infinito deserto del mistero, entro cui l’uomo si smarrisce e si confonde. Era in quella parte del quadro che il mio pensiero triste e vagabondo amava meglio perdersi e divagare. Ora la linea bigia rimaneva immota, ed ora, sollevandosi lenta lenta in fiocchi di fumo, pa reva plasmare una terra lontana, la terra delle eterne speranze, e dei sogni senza fine, quella terra di nubi che tante volte strappò un grido di gioia ai compagni disperati di Colombo. Là in quell’abisso di deserti nebbiosi, nessun colore, nessuna forma; ma il caos infinito da cui Dio trasse l’ordine e l’uomo la poesia; là un’eternità di movimento, là un onda che eternamente eguale a se stessa alimenta il crostaceo microscopico e la balena gigante; che eternamente impassibile copre e lambe le ossa di un pescecane morto decrepito e le reliquie di due sposi che naufraghi e moribondi si strinsero in un ultimo amplesso e lasciarono le loro ossa intrecciate sul piano dell’arena profonda. Là un bigio immenso che non rallegra, che non riposa, ma che affascina l’uomo perchè egli lo desidera sempre senza mai abbracciarlo, perchè sempre lo studia senza mai intenderlo; che affascina l’uomo perchè rimane eternamente vergine innanzi alle sue braccia innamorate.
Dopo aver passato più giorni a questo modo, senza aver fiato a far altro, ricordai le tue parole, o William, ricordai che l’ozio è una delle colpe maggiori; fattami forte, coraggiosa in un momento, chiesi a mia zia che mi accompagnasse ad una gita a Machico. Aveva udito parlare vagamente di una triste storia avvenuta in quel luogo, uno dei più pittoreschi dell’isola; e voleva farvi un triste pellegrinaggio. La mia buona zia, felicissima di vedermi escire da quel letargo mortale in cui era piombata, disse subito allegramente di sì: fece sellare una buona mula per lei e apprestare una amacca di viaggio per me. Ti ho già scritto altre volte che questo modo di viaggiare così comune in quest’isola, mi ripugna assai, perchè ad ogni movimento penso che due uomini si affaticano e sudano per me, e mi domando subito: perchè mai Dio ha fatto gli uomini di modo che una metà abbia a servire l’altra? La zia calma alquanto i miei scrupoli, mostrandomi i due bruni e robusti arrieiros, pei quali la tua Emma sottile e smilza sarebbe stata più leggera d’una canna.
Si va a Machico per una valle tutta verde e tutta riden te, e le fanno cornice basalti neri, acuti, profondamente lacerati come merli d’un antico castello che si confondono coi crepacci serpentini aperti dal tempo nelle sue pareti. I campi di Madera così piccoli e ridenti e tranquilli in mezzo a quella natura di neri giganti mi sembrano nidi d’usignuoli sospesi al cratere d’uno spento vulcano. Fra quelle masse rozze, ciclopiche di roccie alza il capo più alto il Picco Castanho.
Il moto oscillante e lento dell’amacca mi cullava per modo che di quando in quando io sonnecchiava e allora sognava di essere imbalsamata in un’amacca del Perù, fra due palme ove due neri avoltoi venivano a cantarmi l’inno funebre appoggiati semmetricamente con una gamba sola sulle due corde della mia amacca. L’acre saliva mi scendeva intanto giù per la gola, e un colpo duro e secco di tosse veniva e svegliarmi improvvisamente, ed io spaventata cercava gli avoltoi e non vedeva dinanzi a me che la caramuza ridicola del mio arrieiro che mi scacciava d’improvviso i tristi pensieri. Era Arlecchino che veniva col suo bastone a scacciare dalla scena un direttore di pompe funebri.
Saltai lesta lesta dall’amacca appena giunti a Machico, e mi sentii ben diversa da quando era partita da Funchal. Poche ore di moto e un soffio d’aria diversa da quella che soglio respirare, mi cambian d’un tratto e mi sento un’altra donna.
Machico è un povero, è un poverissimo villaggio; ma sembra venirti incontro sorridendo e vorresti subito collocarvi un romanzo e un’elegia, e l’elegia ve la trovai senza bisogno d’inventarla. Dopo aver ammirato la spiaggia larga ed estesa e la piccola fortezza che sta sul mare e che chiamano desembarcadouro andai alla chiesa, e là mi si narrò dal sagrestano questa semplice storia.
In un anno del 1300, non si sa quale, una piccola nave giunse dall’Inghilterra su quella spiaggia e sbarcò un’uomo e una donna due bellissimi giovani inglesi, condannati a vivere e a morire nell’Isola di Madera. Si chiamavano Maschim ed Anna. Si ignora qual delitto avessero commesso quei giovani, ma di certo il peccato deve essere stato ben lieve o il giudice molto pietoso, dacchè furono puniti col dover vivere e col morire insieme in un luogo di paradiso.
A pochi passi dalla spiaggia si innalzava un cedro antico quanto l’isola, una vera foresta, una cupola di nera verdura, un labirinto di rami e di foglie che filtrava il sole e rompeva l’urto delle procelle. Nel suo seno ospitale il caldo dell’estate diveniva languido tepore, l’aquilone dell’inverno una fresca brezza. Là i due amanti rejetti dall’Inghilterra si fecero una capanna, il loro nido d’amore, e là vissero felici, chi sa quanti anni e senza figliuoli.
La tradizione dice che essi non si muovessero mai da Machico. Senza figliuoli, senza amici, senza nemici non ebbero altro tempio che la volta sempre verde del loro cedro; non ebbero altro orizzonte che l’orizzonte sempre azzurro del mare; non ebbero altro amore che il loro amore.
Anna morì prima di Machim, e Machim la seppellì sotto quel cedro; ne tagliò un ramo e con esso scolpì una croce, la più bella che mai si avesse veduta. Piantata la croce, ne fece un altra perfettamente eguale, e scavò accanto alla prima fossa un’altra fossa. Appena l’ebbe finita morì. Nessuno dei vicini udì una parola escire dalle labbra di Machim dopo la morte di Anna. Un mattino lo trovarono morto steso al suolo colle braccia avvinghiate intorno alla croce che la copriva. Convenne distaccarlo a forza, e lo si seppellì accanto alla compagna.
Per molti e molti anni quel cedro fu creduto sacro all’amore: gli amanti traditi andavano a piangervi la loro sventura; gli amanti sventurati andavano ad implorarvi la gioia di essere amati; forse ancora gli amanti felici vi andavano a mormorare parole di amore al chiaro di luna. Quelle due croci non davano la immagine di un cimitero; erano l’altare di un amore felice. I venti susurravano sempre dolcemente fra i rami del cedro, e le onde del mare mormoravano soavemente ai piedi di quelle croci.
Un giorno il governatore Tristâo Vaz Teixeira, quel lo stesso che insieme a Zarco colonizzò Madera, con una scure crudele stramazzò quel cedro, e vi trovò tanto legno da farne una chiesa; e fu edificata appunto sulla tomba dei due amanti inglesi. Il tempio del Signore si innalzò sopra un tempio d’amore, e una santa poesia si appoggiò sopra un’altra poesia tutta tenerezza.
Di Machim e di Anna, dopo cinque secoli, rimangono due reliquie. Dimane il nome di Machico dato ad un povero villaggio; rimane un frammento della croce che Machim aveva scolpito per la tomba di Anna, e che il sagrestano mostra al viaggiatore pellegrino.
Caro William, ho baciato quel pezzo di cedro e ho domandato a me stessa, se anche noi, quando sarem morti, non saremo messi l’uno accanto all’altro.
Il moto dell’amacca mi avea stancato e il mare era tranquillo come lo specchio d’un lago. A Machico si prese un guscio, si giunse a Canical: poche capanne e una chiesa più brutta e più triste delle capanne; si visitò la cappella di Nossa Senhora da piedade, e si ritornò per mare a Funchal.
Il mio letargo s’era cambiato in una soave e tranquilla malinconia; il mio respiro era più libero ed io era contenta di aver scoperto una gemma di poesia, perchè la poteva mandare al mio William.
emma a william.
Madera 19 ottobre 18...
Ho vissuto per quindici giorni nella poesia raccolta a Machico: avrei voluto essere un poeta per potere deporre anch’io sulla tomba di Machim e di Anna la mia corona di fiori; avrei voluto avere il genio per rendere immortali quei due fortunati esuli che riposano da cinque secoli fra le radici di quel cedro che fu il nido d’un amore senza nubi e senza procelle. Sopra tutto poi avrei voluto esser Anna e avrei voluto che tu fossi Machim.
Perchè tanta poesia doveva sfumare a un tratto di nanzi a un quadro desolante e d’ima dura realtà? perchè l’azzurra poesia del passato doveva esser coperta brutalmente dal drappo nero d’un funerale. Ti ho promesso di non esserti avara della più piccola delle mie gioie di non risparmiarti nessuno dei miei dolori: or vedi con quanto scrupolo io mantenga la parola data.
E poi mio William, il dolore che ho sentito quest’oggi mi ucciderebbe, se non l’avessi a divider teco, e poi è un dolore che ci ammaestra e ci eleva: io devo essergliene grata. Quando il dolore bruscamente ci piglia per il braccio e ci guida sulla via del dovere noi dobbiamo ringraziarlo. È un medico che taglia e brucia, ma guarisce. Ah, dovere, dovere, tu sei un Dio di ferro, ma ci tempri l’anima ad alte cose; tu sei crudele, ma tu solo ci dai il santo orgoglio di esser qualcosa più d’una creatura che nasce, mangia e muore; qualcosa più d’un verme che dopo aver divorato tante creature vive dà alla sua volta le proprie carni in pasto di altri vermi minori. Se qualcosa d’immortale è in noi, è l’esempio che i nati lasciano ai nascituri e il nostro dovere è il palladio della dignità umana che le generazioni si trasmettono l’una all’altra, e tutti dobbiamo esserne gelosi custodi, sacerdoti incorrotti. Se tutti prestassero a questo Dio il culto ardente che io gli presto fin dalla prima fanciullezza, qual paradiso non sarebbe il mondo!
Or sta a sentire, mio William.
Ieri io mi era svegliata piena d’energia e per tutta la notte io non aveva tossito che una volta sola. Son così avida della mia salute, son così ardente di conquistar nuove forze per far piacere a te, che volli subito mettermi alla prova; e sola sola, col mio ombrelletto che voleva adoperare non contro il sole, ma per farne un alleato pietoso dei miei piedini ancora deboli, escii di casa presto presto e prima ancora che la mia buona zia Anna si fosse svegliata; e mi mossi arditamente verso la strada più ripida che da Funchal si dirige verso il nord e conduce al piccolo Curral. Quei di Madera chiamano questa strada con parola molto felice e poetica caminho do foguete o strada dei razzi.
Or bene la tua Emma voleva far arrampicare i suoi polmoni su per il caminho do foguete; ed ogni passo affaticato dedicava al suo William.
Come si diviene egoisti, quando si ama; quanto si diviene egoisti, quando il nostro amore ha bisogno della nostra salute! — Io guardai all’erta del cammino e mi spaventai; ma poi subito dopo chinai gli occhi misurai i passi coll’alternar del respiro e lentamente, ma sicuramente, riuscii ad ascendere forse cento passi senza stancarmi e senza tossire. Come era felice di quella mia bravura, quanto era superba della mia conquista del caminho do foguete! E tutta la mia bravura, le mie conquiste erano per te, mio William.
Dopo quei cento passi la strada si faceva piana; due muriccioli la stringevano, quasi un torrento pieno di sassi e chiuso da dighe; ma giù per quei muriccioli cadevano cespugli di eliotropii profumati d’un violetto oscuro, così belli che la mia mano correva impaziente a volerne far bottino. Tu conosci però le mie abitudini: non so scegliere il fiore di un prato, il ramoscello di una foresta senza chiederne licenza al padrone del prato, al padrone della foresta. Non è anche questo un nostro dovere?
Qui il proprietario non poteva esser lontano; feci ancora pochi passi, vidi che il muricciolo si apriva per un cancello verde, basso e socchiuso, si entrava in un campo di ignami e di maiz. Un viale tutto fiancheggiato da alte banane conduceva ad una modesta e linda casetta colle persiane d’un verde vivissimo e le pareti d’un bianco bigio.
Dinanzi alla casa vidi un cortiletto, dove alcune galline beccavano avidamente la loro colazione, e ad un lato un alto fico che faceva ombra densa e fresca a quel luogo modestamente pulito. Appoggiata al muricciuolo del cancello mi alzai sulla punta dei piedi per spiare se vi fosse in tutto quel verde un’anima viva, e la scopersi subito.
Sotto al fico stava seduto sopra una sedia di paglia un uomo robusto; in manica di camicia, e che mi dava le spalle. Pareva guardar fisso a qualcosa che avesse in grembo e ch’io non poteva distinguere.
Se l’avessi veduto di faccia, avrei subito letto nel suo volto s’io poteva chiedergli un fiore, ma nè sulle sue spalle, nè sul colore de’ suoi calzoni, nè nella forma delle sue ciabatte poteva trovare elementi per giudicare della sua cortesia, e segnando colla punta del mio ombrelletto sull’arena del viale molti W, or grandi, or piccini, io esitava sperando che quella creatura viva mi avrebbe presto mostrato il colto, che mi avrebbe veduta.
Ma quegli eliotropii eran troppo belli: ed io era lieta e petulante come una fanciulletta, tanto mi avevano rallegrato l’aria mattutina e la salita dell’erta. In cattivo portoghese e colla voce tremante osai indirizzar la parola a quelle spalle ostinate nel loro silenzio:
— Signore, mi perdoni...
— Chi è là?
E dicendo questo, l’uomo dalle spalle ostinate, si rivolse e mi guardò. Aveva sulle ginocchia una fanciullina sui dieci anni che pareva dormisse.
— Signore, voi avete sul muricciuolo del vostro orto eliotropii così odorosi e così belli che mi hanno tentata, e son venuta a chiedervi licenza di coglierne alcuni.
— Signora mia, son tutti vostri, non sapeva che fossero fioriti: coglietene quanti ne volete.
Intanto io guardava quell’uomo e quella fanciullina, e la mia allegrezza petulante andava rapidamente passando nella tristezza più cupa. Io aveva di certo dinanzi a me il quadro di una grande sventura.
Il padrone degli eliotropii era un campagnuolo di Madera, dalle spalle tarchiate, e il volto bruno faceva contrasto con un collo ancor più bruno. Non aveva cravatta, e la camicia ampiamente aperta mostrava che quel collo non aveva mai avuto paura del sole. Il volto allungato, con barba nera, naso aquilino; faccia franca, rozza, più rughe in volto, e sopratutto sulla fronte, che capelli bianchi in capo. Sul fondo d’una giovialità ingenua e d’un cuore espansivo si leggevano le traccie d’un profondo dolore. Neppure per parlare quell’uomo poteva riposare le rughe che dalle due sopracciglia si arrampicavano lungo un solco profondo scavato in mezzo alla fronte, là dove se ne spicca il naso. Nè quel solco, nè quelle rughe procellose però gli impedivano di esser cortese.
— Accomodatevi su questa sedia, signora, voi siete stanca, avete il respiro affannoso; non avete voi il petto gracile?
E pareva che, mano mano egli s’andava accorgendo ch’io era malata, il suo accento si raddolcisse, e le sue sollecitudini per me andassero crescendo. Mi porse egli stesso una sedia vuota che stava accanto alla sua, senza posar per questo la bambina che le sue braccia robuste e vellose portavano come una pagliuzza.
Dove vedo un uomo che soffre, dove sospetto un dolore, io senza volerlo, senza saperlo mi arresto, affascinata da una irresistibile attrazione.
Mi sedetti e dimenticai gli eliotropii che, pur senza ch’io li vedessi, mi andavano imbalsamando l’aria all’intorno.
— Sì, mio buon signore, son malata di petto; son venuta a Madera per guarire: vi sono da un anno e sto assai meglio.
Quell’uomo non aveva ascoltato di certo le mie ultime parole. Colla palma della mano sinistra, ampiamente aperta, si picchiò sulla fronte, sicchè tutta la coperse, e più che parlare, gridò:
— Ah maledetta, maledettissima malattia! Sempre e dappertutto dei tisici. Perchè mai Domeneddio, onnipotente, e onniscente, ha mai fatto dei polmoni più fragili della carta asciugante? Voi, mia signora, guarirete, guarirete senza dubbio; ma io... ma io...
E sospirava e guardava la fanciullina che allora osservai anch’io. — Era in camicia; era pallida, magra: aveva una mano bianca bianca appoggiata sul petto che si alzava e si abbassava nei moti alterni di un respiro affannoso. Il volto era quello d’un angelo e aveva in sè la bellezza della razza latina e dell’inglese; un ovale perfetto, un mento piccino e rotondetto, come una nocciuola ancor verde; due labbra rosee, ma secche e socchiuse; un nasino affilato, grazioso, sopracciglio nere nere e stranamente folte; ciglia lunghe e nere e palpebre grandi che coprivano e scoprivano due occhi neri che vagavano fra i crepuscoli d’un sonno febbrile. Dalla fronte reclinata all’indietro cadeva un torrente di capelli biondi con vene castane dorate, rosse; tutta una tavolozza di tinte che con un disordine di rara bellezza fermavano l’occhio lungamente.
— Vedete questa mia Dolores, è l’ultima che mi resta e l’ho chiamata Dolores, perchè è nata pochi giorni prima della morte di sua madre. Sì, mia signora, ho perduto la moglie, ho perduto tre maschi e due bambine, tutti tisici.
— Ed io, soggiunse ridendo in un modo crudele, non posso mandare i miei figli a Madera, perchè guariscano; in casa mia si nasce a Madera, ma si muore anche a Madera.
Allora Dolores, svegliandosi improvvisamente, si mise a sedere sulle ginocchia del padre e a tossire; e tossiva così forte che le guancie le divennero porporine e sudanti, e gli occhi lagrimosi.
— Vedete, vedete, anche questa farà come gli altri. Maledizione, maledizione!
Quel dolore però era troppo grande, perchè potesse a lungo mescersi coll’ira: a quel pover’uomo, chinando il capo su quel volto d’angelo, lo baciò, lo ribaciò cento volte, e quando lo rialzò, i suoi occhi eran rossi, gonfii di lagrime.
— Sono un uomo rozzo io, sono un villano tirato su a piantar viti e patate, ma son vent’anni che ho malati e morti in casa; e il cuore per Dio (e qui col grosso pugno peloso stretto stretto batteva sul cuore fino a far rimbombare il petto) non mi si è fatto ancora di pietra, piango ancora io.
— Caro signore, voi siete infelice, ma Dolores guarirà. In una famiglia di tubercolosi non muoiono mai tutti. Anch’io, sapete, ebbi undici fra fratelli e sorelle e tutti son morti tisici, ma io ho già venticinque anni e vivo e penso di guarire. Dolores sarà delicata, avrà spesso la tosse, ma guarirà, guarirà sicuramente.
— Lo spero anch’io: sarebbe troppo crudeltà lasciarmi solo. Se avessi a seppellire anche questa, da rei fuoco alla mia casa e me n’andrei a imbarcarmi come marinaio sulla prima nave che partisse per l’America, per il Portogallo, per la casa del diavolo.... scusatemi, signora.
— Ma come mai, voi nato qui in un paese dove la tisi è rara, specialmente fra gli agiati, avete tanta sventura?
— L’è una storia ben triste, mia buona signora; e, vedete, la racconto a tutti, perchè almeno abbia a giovare a chi può ancora aprofittare di una lezione. Avete voi marito?
— No.
— Ebbene, allora anche a voi la mia storia può esser utile. — E poi, vedete, voi avete il petto gracile voi avete un’aria tanto gentile che subito subito mi avete aperto le cataratta del cuore, che in me stanno chiuse per giorni e settimane e mesi. Più volte mi chiudo in casa tutto solo, coi miei dolori; passeggio per le camere deserte, colla mia Dolores per mano, e più spesso colla mia Dolores fra le braccia. Ho venti camere, capite, in questa mia casa, e son tutte vuote meno una dove dormo e vivo e mangio colla mia figliuola. Capite voi in qual deserto io viva? E mi fa molto bene quando posso trovare ima persona come voi a cui raccontare i miei dolori.
Io ho quarantanni soli, sapete quarant’anni con tanti capelli bianchi e tante rughe, e tutti me ne danno almeno cinquanta e anche più. Non me ne maraviglio; piuttosto stupisco di esser ancor vivo, ma già è la mia Dolores che non mi lascia morire.
Anch’io ebbi i miei vent’anni; anch’io cavalcava sul più ardente dei cavalli di Madera, e senza sella amava gettarmi al galoppo nei sentieri che rasentavano gli abissi più profondi e precipitarmi giù per le chine, con una mano robusta nella criniera e un’altra nella coda, e giù giù sicuro di non distaccarmi mai dal mio cavallo; amava sentirmi intorno l’aria vertiginosa che mi sollevava i capelli e mi fischiava nelle orecchie. Aveva braccia così robuste che più d’una volta andava a strappar la zappa dalle mani dei contadini di mio padre, e mi metteva a zappar profondamente, fortemente, finchè non mi sentissi correre il sudore a ruscelletti lungo le spalle e giù per il petto infuocato. Aveva ereditato da mio padre la passione della terra: odiava la città e i villaggi: voleva sempre essere fra i campi di maiz o all’ombra dei lauri. Non guardava mai in faccia alle donne; non so perchè, ma mi pareva una smorfia da cittadini il fare all’amore. Aveva una febbre nei muscoli che volevano sempre muoversi; aveva una smania nel petto di respirare l’aria più pura, e respirarla a onde; e tutti i picchi più alti dell’isola hanno veduto i miei piedi: c’è qualche roccia che io solo e l’aquila abbiamo toccato.
L’amore mi prese come un fulmine, come una palla da cannone che vi colpisca in mezzo al petto.
Un giorno me n’era andato a Funchal e stava passeggiando sud molo del porto, aspettando un amico con cui doveva imbarcarmi per Porto Santo. Voleva andare in caccia di conigli. Zufolava impazientito che il mio amico mi facesse aspettare, quando dinanzi a me vedo una carrozzina in cui stava una pallidissima creatura che, se non avesse avuto gli occhi aperti, io avrei giudicata morta. Dietro al carrozzino stava una altra creatura giovine e bellissima che lo spingeva innanzi e che ad ogni tratto amorosamente si chinava a domandare alla povera signora moribonda che cosa volesse.
Quella giovane doveva essere una cameriera, ma questo a me non importava nulla: quel ch’io ricordo è che mi sentii portato in cielo al solo guardarla, che i suoi occhi azzurri, i suoi folti capelli biondi, la sua carnagione di rosa mi innamorarono talmente che quando l’amico mi venne incontro col suo fucile ad armacollo gli dissi che non partiva più per Porto Santo.
Era la prima donna ch’io aveva guardato in volto, ma mi parve subito ch’io non avrei potuto vivere senza di lei; e il mio amore dovette essere così violento, così contagioso, che dopo otto giorni anche Jessy era innamorata di me.
Ella era una cameriera, ma una cameriera inglese che parlava tre lingue, che leggeva molto, che scriveva; era un cuore di zucchero innamorato della sua padrona, con cui viveva tutto il giorno, con cui dormiva di notte, di cui era innamorata. Qui si dice che la tisi non è contagiosa, ma io so che la mia Jessy, che era bella e fresca come una rosa, pigliò il male dalla sua padrona, e io so che quando questa fu morta ed io doveva sposare la Jessy, questa fu presa da un male che i medici di Funchal chiamarono bronchite, ma che infine era una tisi bella e buona. Fu malata due mesi, ma la convalescenza non finiva mai. Mangiava, camminava, ma era debole, e la tosse non se n’andava mai; ed era magra magra.
Ad onta di tutto questo Jessy era allegra come un pesce, e mi diceva di esser magra, perchè era innamorata di me, e che quando ci fossimo sposati, saremmo guariti. Mio padre mi diceva sempre: Sebastiano, Sebastiano, quella donna non è per te; è troppo delicata, tu la perderai presto e tu avrai figli malati. Sebastiano, va a Lisbona a trovare tuo zio, dimentica Jessy: io mi sono innamorato dieci volte prima di sposar la tua madre e vorrai tu sposar proprio la prima donna che t’è venuta fra i piedi?
Mio padre aveva ragione, ma nessun medico mi sconsigliò da quel matrimonio: ma a che servono i medici? Servono a tormentare i malati, ma non a tener sani i sani.
Eravamo tanto innamorati! Ci sposammo: Jessy rimase subito incinta e durante la prima gravidanza cessò la tosse, ingrassò un pochino; io mi credeva il più felice degli uomini; ma venne il parto e d’allora in poi la vita di Jessy fu una lenta agonia; ed io, ignorante come una bestia, la vedevo migliorare ad ogni gravidanza, e aveva sempre nuovi figli. Nessun medico mi diceva che ad ogni parto mia moglie era più debole di prima, che ogni figliuolo le dava una spinta verso la tomba.
Il buon clima di Madera la tenne viva otto anni, che tanti ne durò il nostro matrimonio; in Inghilterra sarebbe morta in pochi mesi. Il cielo della nostra isola le concesse una lunga, una dolorosa agonia.
E non solo mi era morta la mia Jessy, ma mi sono morti tutti i miei figliuoli. Tutti rassomigliavano alla mamma; nessuno seppe prendersi le mie spalle, i miei polmoni di ferro. Se li aveste veduti! Com’eran belli! Eran tutti come Dolores, alcuni più belli ancora: biondi, rosei, intelligenti, amorosi.
Son vent’anni che ho preso moglie e per vent’anni la mia casa è stata un ospedale e un cimitero. Io ho fatto da infermiere a Jessy, a Michele, a Sebastiano, ad Antonio, a Lisa, a Robinia; io li ho seppelliti tutti, mia signora.
E capite voi che cosa voglia dire avere un figliuolo moribondo nel letto, e un altro che sputa sangue e sta coricato sotto gli alberi del giardino, perchè non ha fiato di muoversi? Capite voi che cosa vuol dire andare a tavola e leggere coll’occhio ansioso nel volto dei vostri figliuoli i primi segni della fatai malattia? E capite voi che cosa voglia dire svegliarsi di notte e d’improvviso sentir tossire il più robusto dei vostri figli, quello che pareva voler sfuggire alla sorte comune? Capite voi che cosa voglia dire andare errando il mattino di letto in letto e vedere le macchie rosee che la saliva insanguinata d’una vostra bambina ha lasciato sul guanciale nel respiro affannoso della notte? E capite voi cosa voglia dire vivere fra l’agonia dei vivi e l’agonia dei moribondi; e dover sorridere per tranquillare i figli sgomenti e dover mentire oggi, mentire domani, mentir sempre, inventando ai malati sempre nuove e più crudeli menzogne, inventando menzogne ai sani che già temono di esser malati? — Capite voi tutto questo, avete voi letto nei vecchi libri che vi sia tortura più crudele di questa?
Una volta, me lo ricordo ancora, era un dì di dicembre e pioveva e pioveva, e un freddo umido penetrava fin nelle ossa. Si ritornava coi miei figlioli dal cimitero dove avevamo accompagnato la mia bellissima Lisa, fanciulla di 15 anni. Eravamo allora quattro ancora; io, Robinia, Dolores e Michele. Avevamo tutti i vestiti inzuppati d’acqua fredda e nessuno parlava. Mentre si saliva sull’erta che avete salito voi, pochi momenti or sono, Michele si mette a tossire; una tosse secca, crudele, feroce; e poi s’appressa il moccichino alla bocca, lo guarda, quindi facendosi pallido e pur sorridendo, lo mostra a Robinia: era tutto insanguinato.
Io veniva dietro ai miei figliuoli e vedeva tutto. Robinia si voltò a me improvvisamente, e piangendo e singhiozzando mi gridava: «papà papà, dobbiamo noi morir tutti, proprio tutti?»
Caddi seduto sul muricciuolo della strada; Robinia, Michele e la piccola Dolores mi si strinsero tutti intorno alle ginocchia. Dolores piangeva senza sapere il perchè, e Michele mi accarezzava e diceva: «papà, papà non sarà nulla; ho una gengiva ferita; è sangue venuto dalle gengive;» ma un anno dopo, mia buona signora, si seppelliva anche Michele, e ritornando a casa noi eravamo tre soli.
Ch’io sia maledetto, ch’io sia maledetto! Ora non ho più che Dolores, e seppellirò anche questa accanto a Jessy, ed io mi farò seppellir vivo accanto a tutti i miei figliuoli. Ch’io sia maledetto: non si ha il diritto di dare una vita moribonda ai proprii figliuoli; no, no, non si ha il diritto di mettere al mondo uomini condannati a morir fanciulli, a morir giovanetti nell’età delle gioie e delle speranze.
No, no, ch’io sia maledetto, la vita è un peso: convien dare insieme ad essa forza e salute per sopportarla. La vita non è un dono, è un peso, è una croce.
Non siete voi, anche voi forse, mia buona signora, figlia di un padre o di una madre tisica?
Mio William, io mi alzai a queste parole come una pazza, gridando:
— Basta, basta, signore, voi mi uccidete insieme ai vostri figliuoli.
E fuggii da quell’orto e fuggii a casa e mi gettai piangendo e singhiozzando fra le braccia della mia zia che mi veniva incontro.
William, tutto questo l’ho voluto scrivere; mi è sembrato che fosse mio dovere il farlo.
miss anna a william.
Londra, 3 agosto.
William, la nostra Emma è morta; ed io non trovo altra parola, ed io non so immaginare ipocrisia pietosa che valga a farmi tacere. Ah William, tu che l’hai tanto amata, tu che vivrai eternamente colla memoria di quell’angelo che abbiam perduto, capirai la mia brutalità. Perchè tenterei nasconderti l’orrenda novella fra le pieghe di lunghi periodi, perchè tenterei nasconderla nell’ultima pagina della mia lettera? Son sicura che all’aprir questo foglio, tu sentiresti nell’aria l’odore della fossa, ed io non potrei ingannarti.
Potrei tacerti ancora per qualche mese l’orribile parola, ma il mio silenzio sarebbe ancor più crudele. Ella ti aveva giurato di scriverti ad ogni corriere, e tu non avresti più ricevuto notizie di Emma. Vi ha qualche cosa peggiore della morte, ed è l’agonia.
Son quindici giorni che la nostra Emma riposa nel bosco dei pini, nel parco, vicino al ponticello; e solo perchè oggi parte il corriere, dopo una lunga tortura ho potuto prender la penna e scriverti. William, come possono tollerare la vita coloro che non credono in Dio come possiamo sentirci strappar vivente il cuore a brani a brani, mentre siamo ancor vivi, senza credere che rivedremo un giorno i nostri cari? Ho letto che gli abitanti dell’Abissinia strappano dai bovi brandelli palpitanti di carne che poi fanno cuocere per loro alimento: e così di giorno in giorno macellano e straziano quei poveri animali, finchè non rimangono che ossa e viscere, mal vive o mal morte. Ma non siamo noi nel corso della nostra vita in tutto eguali ai bovi dell’abissinia? Non perdiam noi lembo a lembo i nostri più santi affetti; e chi vive a lungo non si trova all’ultimo ridotto ad uno scheletro senza carni e senza gioia, ma che pur cammina spolpato ed esangue per la lunga abitudine di aver vissuto?
William, pensa che la tua Emma è morta sicura di rivederti in un mondo migliore, ha chiuso gli occhi tranquilla e serena, confidando che tu saprai resistere al tuo dolore, che tu non affretterai d’un minuto l’orologio della tua vita.
Io piangerò finchè vivo la mia Emma, che ho amato come una figliuola, ma nel mio pianto avrò sempre la cara speranza di rivederla. E anche tu, William, devi piangerla a questo mondo. Ritorna in Inghilterra a baciare la sua tomba, ritorna fra noi. Io sono rimasta sola sola, ultimo avanzo d’una famiglia numerosa, spenta in pochi anni. Tu che sei mio figlio d’adozione, vieni ad abitare con me. Vieni a dare qualche conforto ad una povera vecchia che cammina silenziosa in un vasto palazzo, e sente paura nell’udire i suoi passi, solo avanzo di tanta vita, di tanto rumore. Già da molti anni non si udiva il lieto schiamazzo dei bambini, le grida di pianti innocenti, le esclamazioni alla vecchia zia Anna; ma da un anno Emma aveva riempito la casa di una vita nuova. Dove si moveva quell’angelo, dove respirava, vi era un giardino sempre fiorito. Non diceva una parola che non fosse una poesia vivente; non aveva un sorriso che non fosse una carezza malinconica, malata, sofferente, essa non aveva che gioie e benedizioni per le creature che la avvicinavano.
Quanto vuoto lascia in questo mondo una creatura che si ama! Vieni, William, a raccogliere tutta questa eredità di profumi e di passioni. È tua, soltanto tua, nessuno prima di te verrà a profanarla. Ho chiuso la casa ai curiosi ai parenti lontani, agli amici. La casa dove ha vissuto gli ultimi giorni la tua Emma, è tutta tua, soltanto tua. Permetti a me sola di esserti guardiana del tuo cimitero.
Troverai ancora il cembalo aperto, e sul leggio l’ultima musica che ha suonato. Troverai nel suo bicchiere accanto al letto dove è morta, i suoi fiori inariditi e pur profumati ancora; vedrai il suo orologio che camminò ancora sette ore dopochè ella era morta; troverai ancor vivo il suo canerino. Vedrai sul suo cavalletto un disegno non finito; troverai i suoi vestiti, i suoi libri prediletti, tutto il mondo di belle cose di cui amava circondarsi; tutto troverai fuorchè la no stra Emma che dorme in pace nel parco accanto al padre.
Vieni, William, non morire su terre lontane, fra stranieri che non ti intendono, fra gente che non la hanno conosciuta; vieni a raccogliere l’ultimo fiato di quell’anima che non ha vissuto che per te e per te solo. Vieni a baciare su questo nido il suo spirito che aleggia intorno intorno, come una farfalla che batte le sue ali tenerelle contro i vetri delle finestre per cercare i raggi di un sole che più non tramonta.
La nostra Emma sentiva la morte vicina e, ad onta della sua fermezza, ne aveva paura. Già da più giorni non voleva più rimaner sola, e quando aveva presso di lei una cameriera o un’amica, si indispettiva per un nulla, e contraddiceva ogni cosa e montava in collera. Ella sempre pazientissima sgridava aspramente le sue cameriere, e poi se ne pentiva e chiedeva loro perdono.
Diceva di sentirsi bene, ma tossiva più del solito e non aveva appetito; e dopo aver detto poche parole, si stancava; e pochi gradini della scala la facevano ansare orribilmente.
Le proposi di far chiamare il medico; ma montò sulle furie a questa mia proposta, e divenne così rossa in volto da farmi credere che una febbre gagliarda l’avesse assalita colla rapidità del fulmine. — Irascibile, irrequieta, malcontenta di tutto, si sdraiava sul letto; e poi si metteva a sedere, e poi di nuovo accasciata si gettava col capo fra i cuscini. In un’ora sola faceva cento cose; in un’ora sola leggeva, scriveva, suonava il cembalo, tentava di dipingere, domandava i giornali, frugava la libreria e tutto la scontentava.
Nelle ore più calde della giornata la prostrazione delle forze era tale che non esciva dalla camera. Io la vedeva soffrire e non poteva consolarla. Tentai ogni via per farlo, ma era un dolore profondo, insanabile, che le rodeva le viscere; ed io non insistetti a importunarla colle mie domande e i miei consigli. Ella che ha sempre saputo leggere nel cuore di chi la circondava, senza bisogno delle parole, mi era grata del mio silenzio rispettoso.
Una mattina, e fu l’ultima della sua vita, mi alzai tardi perchè mi sentiva malata, e avendo chiesto di Emma, mi fu risposto che si era alzata per tempissimo e che ravvolta nel suo scialle era uscita di casa, dicendo alla cameriera: Direte a mia zia che sono andata col primo treno a Bath, per fare una visita alla tomba di mio padre, ma che sarò di ritorno all’ora di pranzo. Fui tutto il giorno inquieta, e i miei occhi cercavano impazienti l’orologio e più d’una volta mi avvenne di metterlo all’orecchio, perchè mi sembrava che dovesse essersi fermato, tanto il tempo mi sembrava lungo.
Finalmente alle quattro essa venne: le corsi incontro; era pallida come la morte, non poteva parlare, tanto le era cresciuto l’affanno del respiro per aver montate le scale. Volle sorridermi, quasi col labbro muto volesse rispondere alle cento domande che mi si affollavano alla mente e che esprimeva colla faccia angosciata e il gesto straziante. Si precipitò nella camera da letto e si lasciò cadere quasi stramazzone sul suo sofà, senza aver tempo nè forza di levarsi lo scialle, il cappello, i guanti. Aveva le mani gelate e non mostrava di esser viva che con brividi ripetuti e sospiri profondi e affannosi.
Tirai il campanello con tanta forza che ne strappai il cordone: gridai che subito si chiamasse il medico di casa; e poi, fuori di me, appoggiandomi alle sedie e alle pareti, credendo di dover cadere svenuta ad ogni passo, e ad ogni passo ripigliando tutta la mia forza di volontà, escii dalla camera per cercare non so che cosa.
Voleva fare un mondo di cose in una volta sola: avrei voluto avere senape, fuoco, acqua di Colonia; avrei voluto avere con me tutti i medici, tutti i farmacisti di Londra; ma sopratutto io cercava William. Mi pareva che tu fossi in quel momento la cosa più necessaria alla mia Emma.
Rientrai pochi momenti dopo, udii un grido forsennato di Jessy che gridava: la mia padrona è morta, miss Emma muore; e si strappava i capelli. — Mi avvicinai al letto e vidi la mia figliuola divenuta del co lore della cera: le sue labbra livide e insanguinate nuotavano sul cuscino in un lago di sangue che innondava anche il letto ed era caduto sul tappeto. E quelle labbra si aprivano e si chiudevano, e l’ultimo fiato gorgogliava nel sangue. Mi gettai sulla mia figliuola, la abbracciai stretto stretto, le gridai: Emma, Emma con una forza tale che il mio grido mi spaventò.
Ella aperse gli occhi, volle parlare, sollevo una mano e mi fece cenno allo scrittoio e poi, agitandosi e raccogliendosi in uno sforzo supremo, appoggiò le sue labbra al mio orecchio e chiaramente pronunciò il tuo nome, o William; e poi mi cadde a rovescio ed io perdetti i sensi.
Mio William, io rimasi fuori di me due giorni e due notti e non riapersi gli occhi che per piangere, tutto quel che mi resta di anni o di mesi in questo mondo; non riapersi gli occhi che per sentirmi infelice e sola.
Parecchi giorni dopo la morte della nostra Emma, ricordai quel gesto supremo con cui mi aveva fatto cenno allo scrittojo, e con religiosa paura andai là e apersi il cassetto. Sùbito mi cadde sotto gli occhi una lettera suggellata e diretta a te. Te la mando, o William, dopo averla baciata cento volte.
Io sento che in quelle pagine il nostro angelo deve aver chiuso qualche santo pensiero che sarà un balsamo per te, che l’hai tanto amata. Io sento che in quelle pagine tu troverai il coraggio per vivere, la forza per sperare; e non so distaccarmi da quell’ultimo tesoro, senza dolore e senza una orribile trepidazione che in sì lungo viaggio possa andare smarrito.
Possa un angelo accompagnare quel foglio attraverso l’Oceano; possa giungerti intatto...
William; io so di averti dato con questa mia lettera lo strazio più crudele che possa sopportare il cuore di un uomo; ma anch’io piango e soffro e vivo perchè t’aspetto: e conterò i giorni e le ore, perchè so che col primo pacchetto postale di Panama tu sarai qui con me. Fino allora io terrò lontano dalla casa dove visse la nostra Emma, ogni curioso, anche gli amici. Nessuno toccherà i suoi libri, i suoi fiori, i suo cembalo, tutto ciò che fu suo.
Nessuno porterà i suoi passi profani là sotto i pini dove ella riposa accanto al padre. Più d’una volta ella m’aveva detto che là voleva dormire l’ultimo sonno e là l’ho coricata per sempre. Vieni a piangere colla tua vecchia zia Anna su quella fossa.
Vieni William, vieni sùbito: io ti attendo.
Eccovi le ultime parole di una delle più belle e più sante creature che abbian sorriso e pianto sotto i raggi del sole.
L’ultima lettera di Emma portava la data del 14 luglio, vigilia della sua morte.
Londra, 14 luglio 18...
William, io mi sento morire. Non l’ho detto alla mia buona zia Anna, non l’ho detto al medico, perchè sento che tutto sarebbe inutile. Il dolce clima di Madera aveva messo un velo sottile sulla mia piaga, ma le nebbie di Londra me l’hanno riaperta e più crudele che mai. Io non posso più vivere e solo mi duole che morrò senza averti veduto. Guardo ad ogni ora, ad ogni minuto il tuo ritratto, e ti guardo con così intenso desiderio, che mi pare tu m’abbia a rispondere, tu abbi a venire a vedermi un’ultima volta — Ma tu non morrai. — E poi mi spaventa ancora il pensiero di dover morire improvvisamente. Io sento nel mio petto un fuoco ardente; mi par di sentirvi qualcosa che abbia a scoppiare da un momento all’altro.
Tutto questo è nulla, mio William, muoiono tutti: deve esser cosa molto facile il morire.
Io ho in me una gioia divina che mi dà coraggio, che mi fa superba d’aver vissuto, che mi fa beata di averti conosciuto, di averti amato, d’essere stata tanto amata da te!
Come siamo egoisti; sto per morire e tripudio come una fanciulla, nella beata sicurezza che tu non sarai di nessuna donna, che tu non sei stato e non sarai d’altri che della tua Emma. M’hai troppo amato! Ti lascio troppo ricco tesoro di memorie, troppo splendida eredità di affetti; perchè tu possa essere di un’al tra. Questo pensiero mi fa delirar di gioia. Ho bisogno di mettermi le due mani al mio povero seno, e stringerle forte forte, perchè il cuore mi palpita tanto che sembra volermi soffocare. La mia fede nel tuo amore è così sicura come la mia fede in Dio.
Ah, mio padre, ho fatto il mio dovere. Domani andrò a visitare la tua tomba, andrò a mormorare al tuo orecchio che la tua Emma ha tenuto la sua parola, che è degna di te, che essa muore senza avere messo al mondo altri infelici che come lei sarebbero morti, ma che forse avrebbero maledetta la vita e chi glie l’aveva data. Tu, no, mio padre, non hai avuto colpa alcuna di avermi messo al mondo; tu non sapevi di esser malato, quando mi davi la vita.
Non vedi, mio William? Io aveva ragione di resistere al tuo amore, di resistere alle tue speranze. Il clima di Madera m’aveva cicatrizzata una ferita, non mi aveva guarita. Se mi avessi dato la mano di sposa, avremmo avuto figli maledetti nel grembo della madre. Un rimorso eterno avrebbe avvelenato il nostro amore; io non avrei più potuto pensare a mio padre. Sarebbe stato un inferno.
Ma tu devi vivere, mio William, tu me l’hai a giurare, mio William; qui al fondo di questo foglio su cui per l’ultima volta si è appoggiata la mano pallida e magra della tua Emma, tu hai a scrivere il tuo giuramento; tu hai a giurare in nome di questa margheritina, di questo primo fiore che mi hai côlto nel Parco di Bath, quando tu mi hai detto, senza parole, d’amarmi. Tu me l’hai a giurare su questa ciocca di capelli, dove tu un giorno in un delirio d’amore hai deposto un bacio. Sono le reliquie della tua Emma. Quando verrà il tuo ultimo giorno, fatti seppellire con esse; fa di serbarmele, finchè ci rivedremo in cielo.
Mio William, tu non hai soltanto a vivere, ma tu hai a rendere feconda la tua vita di opere coraggiose, di opere grandi. Il tuo splendido ingegno può trovare dappertutto un campo d’attività. Nella scienza, in viaggi pericolosi e nuovi, nel terreno ardente della politica, tu puoi, tu devi essere un uomo grande, utile, potente.
Fa tutto quel bene non ho potuto fare io stessa, che non abbiam potuto fare insieme. E anch’io non avrò vissuto inutilmente, perchè la mia memoria ti accompagnerà nelle tue lotte, nelle tue fatiche nei tuoi affanni. Io muoio coll’orgoglio di averti ispirato sentimenti elevati, di averti ispirato opere utili e grandi.
Quando nel silenzio del tuo studio il tuo ingegno detterà pagine sublimi che insegnino agli uomini ad essere onesti, ricordati che l’ombra della tua Emma ti sta vicino; che essa incrocia le sue mani sottili e pallide nel suo grembo; sappi ch’essa ti contempla, e sorride al lampo del tuo ingegno.
E quando nella lotta delle passioni politiche tu combatterai per la libertà; quando nel turbine degli affari lampeggieranno i tuoi occhi battaglieri e sublimi, ricordati che nella folla si nasconde l’ombra della tua Emma; ricordati che essa applaude ai tuoi trionfi, che piange di gioia di essere stata amata da un uomo nobile, grande, generoso.
E quando ti recherai nella casa del povero, e quando asciugherai una lagrima, quando studierai i tristi problemi del pauperismo e del dolore, ricordati che io ti vedo, che io ti ascolto; che io piango e m’allegro con te.
E quando contemplerai le bellezze della natura, che abbiamo adorate insieme tante volte come due fidi sacerdoti del bello, e nell’azzurro d’un cielo sereno, e nel raggio mesto della luna, e nel mistico silenzio dei folti boschi, e fra le erbe dei prati profumati, e nell’onda querula dei laghi, e nel muggito del mare, ricordati ch’io son con te; io nascosta, ma tremebonda di amore; muta ma sospirosa, ma beata di accompagnarti in ogni luogo, di vivere ancora nelle tue speranze, nella tua memoria.
Dedica a me ogni tua opera buona, ogni santo proposito, ogni slancio generoso, e la tua Emma sarà superba di tutto il tuo ingegno, di tutto ciò che farai di grande. Ella ti aspetta, sì, t’aspetta sicura di stringerti al cuore con un amplesso eterno, senza cure, senza affanni, senza rimorsi; sitibonda di una sete che avrà durato per secoli infiniti, ma che l’infinito avrà ad appagare.
La tua Emma parte e t’attende dove tu pure verrai.
Addio. Vivi e sii grande; vivi e sii uomo utile; vivi e non far soffrire anima viva; vivi e mi ama, come io ti amerò eternamente.
Tracciato con caratteri convulsi e tremanti sotto questa pagina si leggono queste linee:
Ti giuro, o mia Emma, di vivere.
Tu giuro di essere uomo utile e laborioso, te lo giuro per amor tuo.
- Quito 27 ottobre
William.
Dacchè ho ricevuto le reliquie di Emma e di William, ho sempre atteso religiosamente e in silenzio che una lettera mi dicesse qualche cosa del mio sventurato amico e ho sempre atteso invano.
Dieci anni son passati ed io ho il diritto di pubblicare queste pagine ardenti di due fra le più nobili creature che io abbia conosciute.
Ad onta del mio diritto ho scritto in Inghilterra più volte a William, alla zia Anna, ma non ebbi risposta alcuna.
E dopo aver sperato fino all’ultima ora una parola del mio amico, io ho pensato di pubblicare i fogli che mi aveva inviato.
Ho la ferma convinzione che l’averli letti non farà male ad alcuno, potrà far bene a molti.