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e sempre fasciata, è un assenzio che non v’ha miele che possa raddolcire; è dolore per cui non v’ha conforto; è fatica per cui non v’ha altro riposo che quello della fossa.


Mia Emma, mia cara Emma tu m’hai sempre amato to, tu hai ardentemente amato tuo padre: ma io, dopo aver perduto tanti figliuoli e dopo averti veduta morente più d’una volta, ho maledetto me stesso e il mio peccato e la mia ignoranza e l’ignoranza dei medici che avevano fatto versare nella mia famiglia quel veleno di cui io dovrò morire.


Nato malato, avrei patito io solo; solo avrei potuto render utili agli amici e al paese quegli anni di vita sofferente che pur la natura m’aveva concesso.


E invece ho maledetto l’ora in cui son nato; ho raddoppiato, ho moltiplicato cento volte il mio dolore col dolore de’ miei figliuoli; ho cambiato la mia casa in un cimitero.


E ho pianto e ho vegliato le lunghe notti senza aver la forza di morire, ne la facoltà di perdonarmi il mio peccato.


La mia ignoranza ora non può giustificare più alcuno; la scienza moderna lo ha detto, lo ha proclamato ad altissima voce, che per fondare una famiglia conviene esser forti; ha dimostrato che i tisici generano tisici, gli epilettici epilettici, che una delle leggi più inesorabili è quella della eredità morbosa.


Se per rara fortuna, se con lunghi stenti riuscite ad avere alcuni figli sani, di certo, fra essi, alcuno sarà maledetto; e il padre malato e la madre tubercolosa leggeranno in quel volto consacrato al dolore una condanna vivente del proprio peccato.


Emma, mia buona Emma, tu sei stata malata tutta la vita, tu, mia ultima figliuola; ho fatto prodigi di