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cuore senza lamento o in strazio di nervi. Ebbene, dissi io, oggi è venuto l’esattore per esigere la mia quota e la pagherò... Non v’ha sorriso di cielo, non lampo di genio, non forza di volontà che possa piegare alla gioia un malumore che nasce nelle nostre viscere senza ragione.

Mi avvicinai al mio caminetto e faceva fumo; mi alzai indispettito, passeggiai in su e in giù della camera, e come un automa mi piantai dinanzi ad una delle mie librerie: proprio dinanzi agli occhi miei stavano Giovenale e Marziale. Mi parve di aver toccato un rospo con la mano che cercava una viola. Feci un brusco giro sulle mie calcagna e mi piantai dinanzi alla libreria opposta. Vidi dinanzi a me il libro sulle prigioni di Howard. Chiusi gli occhi perchè non voleva più vedere libro alcuno e corsi alla finestra, Il cielo era invisibile: una nebbia fitta copriva ogni cosa, e appena mi lasciava vedere qualche tinta del muro in faccia. In quella palude di nebbia si sentivano voci confuse dei viandanti, ma spiccava assai vivo il pianto d’un fanciullo che forse aveva fame e freddo...

Non mi scoraggiai per tutto questo, tu lo sai, mia Emma, che le cose difficili mi son sempre piaciute. Voleva rompere le catene che mi legavano a un mondo di tristezza: voleva, se mi permetti di parlarti con un’immagine orientale, voleva intorbidare le acque del mare col succo dell’euforbia, per potervi poi pescare nel fondo la gioja.

Chiamami pazzarello; ma in un quarto d’ora feci queste tre cose: Lessi dieci delle tue lettere più liete e più rosee, suonai sul gravicembalo quattro waltzer di Strauss e corsi un volume delle caricature di Cham e poi mi buttai sul mio tavolo da studio, afferrai la penna, come se fosse stata la spada della vittoria e mi misi a scrivere liete cose, per persuadermi che io aveva vinto. Eccoti ciò che ho scritto:


Come è ridente il cielo, come è bella la terra! Tutto ciò che è a me d’intorno mi rallegra e mi stende la mano amica; gli uomini son tutti fratelli miei, io li