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volendo pregarlo elle mi risparmiasse un’inutile tortura perchè i miei polmoni erano già stati sottilmente esaminati da una commissione di medici, tentai balbettare una preghiera, una scusa; mormorai:

«Perdoni... ma...»

Crollò il capo con un’aria di scetticismo e di sprezzo, e con un gesto più imperioso dell’indice destro mi accennò per una seconda volta l’ottomana, su cui doveva gettarmi.

Era un letto di pelle lucida, senza una macchia, ma freddo freddo, come l’aria di quella sala, come il colore di quell’atmosfera, come le parole di quel medico.

E allora, lasciamelo dire colle parole di un nostro poeta:


               «The grave physician
     By the trembling patient stands,
     Like some deftly sìcilled musician;
     Strange! the trampet in his hands,
     whilst the sufferer’s eyeball glistens,
          Full of hobe and full of fear.
     Quietly he bends and listens
     With his quick accostomed ear.
          . . . . . . . . . . . .
Then thou whisperest in lus ear
     Word which only he can ear;
     words of woc and whords of cheaf.
     Jubilates thou hast soundend,
          Wild exulting songs of gladnsa,
     Misereres have abounded
               Of unutterable sandnesc.


Ah, carissimo William come è tenera, com’è calda la poesia, anche quando parla dello stetoscopio e della morte! Essa illumina ogni cosa coi raggi dorati della fantasia, essa getta i suoi petali di rose, i suoi torrenti di gigli e di viole sulle arene di un deserto e sulle zolle di un cimitero. Grazie, mille grazie, mio Dio, di averci dato la poesia e la musica, questi sublimi fuggitivi del tuo paradiso!