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do fermamente che un’ultima pagina rimanga a scriversi di quella storia, ed è quella della medicina. Parevami nei miei due giorni di malinconia e di stanchezza che l’arte del curare fosse magia antica vestita in giubba e in cravatta bianca. E non e forse magia la ricetta latina con numeri geroglifici e non e forse magia il toccar del polso e lo sporger della lingua, e la fede nel rimedio, e la profezia sempre ripetuta e sempre smentita; e non è gergo di magia tutto quel linguaggio greco e latino che nasconde nel fumo e nelle bolle di sapone il vuoto della scienza?
Dalla Sibilla di Cuma alla Zingara, all’omeopatico, dall’oracolo di Delfo alla chiromanzia e alla medicina non vi è forse una gerarchia naturale di pregiudizio, di mistificazione, di magia?
La paura della morte ha creato molti pregiudizii; non potrebbe essa aver fatto conoscere anche la medicina? La sentenza più mite che si possa darne è quella di Lamartine, che essa è una intenzione di guarire. Era il dott. B... che voleva uccidermi per dimostrarmi la profonda convinzione della sua fede, e il dott. T... che prima di curarmi, mi faceva morire sotto le montagne gelate della sua sterile erudizione io non vedeva posto alcuno per una medicina che fosse scienza e conforto; che non fosse nè fanatismo nè negazione di tutto.
Mio caro William, io m’ingannava. Era i due poli del fuoco e del gelo esiste un largo campo per la medicina; vi sono uomini che curano le malattie e non rassomigliano punto nè al dott. T... nè al dott. B..
Questa cara scoperta doveva farla nell’ultima parte del mio viaggio medico, nella mia visita al dott. Haug.
Sono andata quest’oggi da lui e me ne sono ritornata a casa tutta rinfrancata e serena, come se avessi fatto una gita nel campo e ne avessi riportato un fascio di erbe e di fiori, di ramoscelli sempre verdi e di muschio vellutato. O che caro amico è mai il dott. Haug...
Prima di arrivare al suo studio, io aveva già simpatia per lui, perchè, ascendendo le scale e attraversando la sua anticamera, le sue sale, aveva già scoperto a pri-