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mi aveva parlato; mi aveva solo salutato col capo, e noi mi aveva sorriso e mi sorrideva ancora. Era un sorriso continuo, ma che variava di minuto in minuto; era un sorriso che era una domanda, un incoraggiamento, una speranza. Il dott. Haug... mi diceva un mondo di cose e senza parole...

Come mi sentii subito espansiva! — Eppure parlai poco perchè egli capiva subito tutto e col suo eterno sorriso, che era così eloquente, mi faceva ìnterrompere il discorso e saltar cose noiose e lunghe, ed io, facendo la triste e ormai nauseosa storia dei miei dolori mi sentiva talmente sorretta da quell’uomo che mi attraeva tutta quanta colla sua benevolenza e la sua attenzione, che io, parlando di tristissime cose, non sentiva nè dolore nè gioia...

Ti dirò una cosa sola del dottor Haug... Mentre stava parlando, ad un tratto mi sorprendo nel trovarlo molto giovane, troppo giovane per un medico tanto celebre; e questo pensiero importuno mi interrompe il filo del discorso e poi... obbedendo al solito alla mia prima emozione, gli dico.

— Mi perdoni, è il dott. Haug...

— Per servirla, mia signora; e poi cambiando il suo sorriso in una vera risata a mezza voce, mi dice:

— E perchè ne dubitate?

— Ma, mi perdoni: vedendola tanto giovane aveva creduto ch’ella potesse essere un supplente del dottor Haug...

Qui il dottore si mise a ridere con una compiacenza grandissima: e poi distaccò una fogliolina di mirto che andò schiacciando fra le sue dita e odorando con una voluttà singolare, quasi allettata.

Quest’uomo non è anglosassone certo, ne britanno, è una goccia di sangue romano smarrita fra le nebbie dell’Inghilterra. Ha i capelli neri e folti, la fronte alta, il naso aquilino, la pelle bruna, la fisonomia affaticata dallo studio, la faccia nobilissima, qualche volta presa da leggera convulsione.

Lesse con molta attenzione la diagnosi del mio male e fatta dai medici che prima di lui mi avevano veduta, mi fece alcune domande, appoggiò il suo capo per po-