Paesi tuoi
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Paesi tuoi
Cominciò a lavorarmi sulla porta. Io gli avevo detto che non era la prima volta che uscivo di là e che un uomo come lui doveva provare anche quello, ma ecco che si mette a ridere facendo il malizioso come fossimo uomo e donna in un prato, e si butta sotto braccio il fagotto e mi dice: — Bisognerebbe non avere mio padre — . Che gli scappasse da ridere me l’aspettavo, perché un goffo come quello non esce di là dentro senza fare matterie, ma era un ridere con malizia, di quelli che si fanno per aprire un discorso. — Stasera mangerai la gallina con tuo padre, — gli dico guardando la strada. — La prima volta che si esce dal giudiziario, a casa ti fanno la festa di nozze — . Lui mi veniva dietro e mi stava attaccato come se il carrettino dei gelati che passava a tutta corsa minacciasse noi due pedoni. Non aveva mai traversato un corso, si vede, o mi stava già lavorando. Mi ricordo che né io né lui ci voltammo a guardare le Carceri. Faceva effetto vedere le piante spesse del viale e faceva anche un gran caldo, tanto che sudavo tutto, per via della cravatta stretta. Faceva caldo come là dentro, e a un certo punto avevamo scantonato in mezzo al sole.
— Non c’è nessuno in queste strade, — sento che dice tutto calmo, come se fosse a casa sua. Pareva già tranquillo e neanche s’accorgeva che andavamo come i buoi senza sapere dove, lui col suo fazzoletto rosso al collo, il suo fagotto, e le sue brache di fustagno. Questi goffi di campagna non capiscono un uomo che, per quanto navigato, messo fuori un bel mattino si trova scentrato e non sa cosa fare. Perché uno poteva anche aspettarselo ma, quando lo rilasciano, lí per lí non si sente ancora di questo mondo e batte le strade come uno scappato da casa.
— Andiamo almeno all’ombra; non ci costa un centesimo, — gli dico tirandolo sul marciapiede.
Lui viene e ripiglia a lamentarsi. Faceva il discorso che mi aveva già fatto disteso sulla branda uno di quei giorni. Che suo padre in quella stagione aveva bisogno di braccia e aveva gridato ai carabinieri che aspettassero a prendergli il figlio dopo il raccolto, e al carcere mandamentale s’era fermato sotto la grata a minacciarlo e voleva intentare causa per danni ai padroni della casa bruciata.
— Quanti anni ha tuo padre? — gli dico.
— Piú di sessanta.
— E con piú di sessanta è ancora cosí dritto?
Qui Talino tornò a ridere come se fossimo soli. Si lamentava e rideva, e teneva tutto il marciapiede. Cominciava a passar gente e si scontravano, perché Talino camminava come se fosse in piazza solo. Andavamo decisi verso il centro e non so chi guidasse: lui veniva con me, io lo guardavo, lo lasciavo camminare, e venivo con lui. Cercavo un bar che non mi conoscessero, per prendere un caffè e pensarci sopra.
Era già mezzogiorno passato e l’avevo solamente seduto nel giardino della stazione. Aveva in mano il suo foglio di via e tornò a chiedermi fino a quando era valido.
— Io non torno al paese, — dice, — Mio padre mi ammazza — . Cosí grand’e grosso, parlava come se fosse ancora davanti alla guardia, e si asciugò il sudore del collo. — Mio padre non si è ancora sfogato e per fare il raccolto ha dovuto pagare la giornata a un altro. Mio padre è peggio della giustizia.
— Se ti hanno messo fuori. Non è ancora contento?
— Non vuol dire. L’avessero preso lui, si sfogava lo stesso con qualcuno.
Visto che non se ne andava, tirai fuori una sigaretta. Tanto lui non fumava. Piegò il foglio e se lo mise nel taschino della camicia, e guardò la fontana.
Io avevo fame. — Torna a casa. Talino, — gli dico. — Vorrei potermene andar io da questi marciapiedi. Cosa vuoi fare qui, che non conosci nessuno?
Allora mi guardò con un occhio solo, come aveva fatto uscendo di là dentro, e a me veniva la rabbia. Cosa credi di fare, goffo, con la gente civile? volevo dirgli; ritorna alla tua stalla. Non è abbastanza stare un mese nella cella insieme con te, che non sai neanche parlare?
Invece non dissi niente del tutto, e guardai anch’io la fontana.
Faceva caldo anche sotto le piante e il giardino era vuoto. A quell’ora le balie correvano a casa col carrettino, e tutti mangiavano.
— Visto che ci sono, — diceva lui, — voglio vedere Torino...
— Lo sai che sono disoccupato e stasera non so dove dormo? gli gridai allora in faccia. Lui non s’accorse che avevo perduto la testa, o almeno, fece finta, perché ci doveva essere abituato con suo padre. Si vede di qui che non era goffo come sembrava. Adesso che mi aveva fatto dire la verità, cambiò registro.
— Il foglio mi dà quattro giorni di tempo. Tanto il grano è già tagliato. Basta che torniamo per batterlo. Voglio fermarmi. Chi sa quando scapperò un’altra volta da Monticello.
Aveva già il suo piano in mente. Diceva «torniamo». Lo guardai di traverso.
— Tuo padre non ti vuole ammazzare? — dissi adagio.
— Se ritorno con te, le cose cambiano. Potresti lavorare alla macchina da battere, e aiutarci. Sei uno dritto e parli poco. Andresti d’accordo con mio padre. L’hai detto tu che qui stai male.
Per non sbagliare stavo zitto: avevo già parlato troppo. In cella gli avevo detto, per tirarlo su, che i marciapiedi di Torino mi bruciavano le suole e che se scampavo dal Tribunale c’era qualcuno in libertà che me l’aveva giurata. Erano i giorni che si sfregava contro l’uscio come un gatto e si svegliava con la faccia di chi ha preso dei pugni. A sentirlo allora, pareva che l’incendio fosse successo in casa sua.
E adesso mi guardava con quell’occhio storto, e per un momento non si sentirono piú né i salti dei tram né la strada; era quasi la mezza; si sentí solo la fontana, che schizzava come una pompa.
Senza rispondergli né sí né no, lo condussi in trattoria. Toccava a me pagargli il boccone, perché mi aveva visto ritirare dalla guardia le ultime lire: e lui invece si era fatto prendere senza un soldo in tasca per non avere tentazioni.
Finito di mangiare la sapevo già piú lunga. M’incantava di parole per farmi dire se avevo ancora degli arretrati con la giustizia e capire se mi conveniva andare con lui. Io volevo sapere perché ci tenesse a portarsi al paese proprio uno già scottato e di città. Ci lavorammo tutti e due, e alla fine l’amico sapeva soltanto ch’ero un meccanico in gamba andato in malora per avere schiacciato un ciclista: ma io sapevo che lui non cercava soltanto un meccanico. Ma poteva anche darsi che fosse davvero per fare un piacere a quel padre piú goffo di lui.
Allora gli domando se non ne aveva abbastanza di aver rischiato un processo per incendio doloso. — Cosa vuoi mescolare le razze, — gli faccio. — Chi va dentro perché un altro ha dato fuoco a un fienile, deve stare attento a chi gli dà del tu.
— Ma non ti hanno messo fuori perché non avevi fatto niente? — mi chiede, coi suoi occhi da bue.
Allora gli dissi che avevo da vedere qualcuno che non stava in trattoria, e lui vuotò il bicchiere e prese il fagotto. Non valeva la pena di dirgli di aspettarmi, perché non mi avrebbe creduto. Ma portarmelo dietro non me la sentivo. — Talino, — gli faccio, — non sono ancora deciso. Va’ alla stazione e prendi il treno. Io vedrò come stanno le cose e niente di piú facile che uno di questi giorni càpiti a Monticello —. Non aveva un soldo e doveva accettare.
— Non mi fido, — dice lui convinto. — Bisogna che arriviamo insieme. Se ti fermi a Torino piú nessuno ti toglie. Piuttosto, guarda, partiamo subito. Stasera dormi già alla cascina.
Uno di campagna è come un ubriaco. È troppo stupido per lasciarsela fare. Avevo voglia di piantarlo sulla porta e dire addio ai quattro soldi di quel pranzo.
Lui mi fa: — Non mancherà l’occasione di vedere le ragazze un’altra volta.
Eravamo fermi sotto il sole che picchiava, lui col suo cappellone e una barba di sei giorni. Con quella faccia voleva vedere le ragazze?
— Senti, — gli dico, — se sono le ragazze che ti fanno gola, ti porto al buon indirizzo e ti lascio i soldi per divertirti. Voglio soltanto pensarci sopra. Cosí mi costi già nove e cinquanta e sei sicuro che ritorno.
— E questa sera andiamo via?
— Si vedrà.
Lo lasciai sotto il portone di Madama Angela, dandogli appuntamento alla stazione per le sette di sera. Mi ascoltava guardandosi attorno, e prese i soldi come un negoziante, tirando su per il naso, rosso sotto la barba, come uno già minchionato. Non dissi niente della barba, per non dovergliela pagare. Ma la faccia che faceva valeva piú di cinque lire.
— Lo sai come si fa?
— Sono stato soldato.
Entrò con degli altri. Adesso ch’ero solo, camminavo piú calmo. Feci il corso pensandoci sopra e fumando: era la prima sigaretta che mi godevo nella giornata. Gente come Talino stava bene in una vigna a tirarsi su i calzoni, ma non per le mie strade. Non sapeva neanche vivere in una cella. Pazienza quei soldi, ma non l’avrei veduto piú.
Al caffè non mi aspettavano, e mi vedono arrivare che rido, perché mi figuravo Talino davanti a Madama Angela. Accendo un’altra sigaretta e vado al biliardo dove trovo Nicola, Damiano e suo fratello, che segnava i punti. Non posano neanche le stecche e mi dicono: — Guardalo qua — . Non so perché, mi scappava da ridere, e Damiano che perdeva mi dice: — Vòltati, se vuoi ridere — . Dietro avevo lo specchio, ma non mi voltai. Gli dico invece: — Tu non hai bisogno di voltarti. Sei stupido davanti e di dietro — ; e Nicola mi dice: — Ma non eri in prigione?
— Venivo a cercare Pieretto, — dico allora tranquillo; — quello alto con la camicia bleu e la cravatta bianca. Non si è piú visto?
Non se lo ricordavano neanche. Solo il fratello di Damiano, ch’è il piú giovane, mi domandò se aveva insieme una bionda. — Sicuro — . Allora non l’aveva piú visto.
Nicola dice: — Vi hanno presi sul lavoro? — Che lavoro? — Nicola resta lí, e Damiano ch’è un bonuomo, mi fa e diventa rosso: — Lavoro notturno... Dicono che ti sei messo in società con uno sveglio...
— Ho fatto un collaudo a Milano, e forse mi sistemo, — tagliai corto. — La gente dice anche che tua sorella non è sposata. E con questo?
Poi corro a casa, perché c’era poco da pensarci sopra. Madama B. venne alla porta in vestaglia e diede un passo indietro e cominciò subito a gridare. Per calmarla sto zitto e poi le dico: — Sono venuto per pagare — . Una volta dentro, ecco che si mette a piangere. Diceva: ma che terribile notte! Diceva che Pieretto non l’aveva piú visto. Diceva ch’io ero una brava persona e che lei a suo tempo aveva fatto un figliolo ma che adesso l’avevamo stancata.
Eppure qualcosa sapeva, perché ammetteva ch’era venuta quella bionda, che aveva storto la bocca e portato via le camicie di Pieretto e le mie. — Allora, è già pagato? — Qui si fermò e corse nella sua stanza e tornò con un pacchetto. Gridava di nuovo. C’era la mia roba, l’ultimo mese non era pagato: le mie camicie le aveva prese la bionda per sbaglio.
Intanto si lascia scappare che Pieretto l’aveva veduto. L’avevano preso per strada prima ancora di me. Madama B. tornò a scaldarsi e mi raccontò che l’aveva visto il giorno dopo, perché erano venuti con lui a perquisire un’altra volta, e non avevano trovato refurtiva neanche in fondo ai letti, villanzoni. Pieretto stava appoggiato come me, vicino all’uscio, col cappello sugli occhi e non si poteva parlargli. Le aveva fatto piú paura lui che i questurini. Tutta la casa le avevano disfatto.
— Che refurtiva? — dico io.
Non lo sapeva, non lo sapeva, non voleva piú vedere nessuno. La stanza l’aveva già data a un sergente, borghesi non ne voleva piú, neanche me.
Le lasciai dieci lire e me ne andai col pacchetto. Michela lavorava all’Eliseo, ma era già uscita. Veniva sera e faceva sempre piú caldo. L’asfalto mi mangiava i piedi: si stava meglio in prigione. Mi siedo sopra una panca e mi torna in mente Talino. Ora avevo il fagotto come lui: chi sa dov’era in quel momento?
Verso le sette Michela te la trovo in latteria: caso strano era sola, e non era piú bionda. A vedermi dal vetro fece un salto che mi tolse le illusioni: Pieretto era ancora in prigione. Glielo chiedo col mento e Michela fa di sí.
Tanto valeva sedermi e cenare. Sulle prime Michela fece un muso da vedova e s’informava se avevo veduto Pieretto. Poi mi lasciò capire che il muso l’aveva con lui, che senza dir niente con nessuno s’era messo nei pasticci. Credeva che io lo avessi aiutato quella notte a fare il colpo, e quando per convincerla dico: — Tant’è vero che mi hanno messo fuori, — strizza l’occhio, piega la testa e mi prende un braccio.
— Allora gli sta bene, a quello stupido, che fa andar dentro per niente gli amici — . Queste sono le donne, e lui la manteneva.
— Da te sono venuti? — le chiedo.
— Non ce n’era bisogno perché l’hanno preso sul posto — . Si piegò sul tavolino, tanto che sentii l’odore che aveva. — L’hanno preso davanti alla vetrina che non aveva neanche toccata... Sei fortunato tu, — dice guardandomi.
— Io sono soltanto un meccanico, e fuori dall’officina non so far niente.
— Sai fare molte cose, — diceva lei, senza levarmi la mano di dosso, — sai cavartela meglio d’un altro.
Si vede che in tutto quel mese non aveva trovato nessuno: si vedeva dagli occhi e da quel rosso dei capelli non piú ripassati. E adesso capivo perché aveva ritirato le camicie: cosí il primo che usciva correva da lei.
— Fa effetto uscire e vedere le donne vestite da estate, — le dico in faccia.
Lei ride sicura del colpo, e mi chiede: — Dove dormi stanotte?
— Stanotte non dormo, — dico guardandola.
Mi lasciò il braccio e allargò gli occhi. Credeva di fare la furba. Talino, ci vuole per loro.
— Va bene, — le dico poi, mentre ci alziamo. — Allora vengo a prendere le camicie.
Per strada — era già sera — le raccontai come avevo imbarcato Talino. Lei mi teneva a braccetto e rideva e non si vergognava della barba che avevo.
Su per le scale mi chiede se era lei la prima donna che venivo a trovare. E mi fa: — Cosa direbbe Pieretto se lo sapesse! — Direbbe che sei sempre la stessa, penso io.
Di sopra, mi feci la barba in cucina, parlando con Michela che andava e veniva nella stanza da letto. Si soffocava anche lassú. La cucina era un buco da gatti, c’era una giacca di Pieretto al muro, e io pensavo che quando lo avevo conosciuto credevo che la sua ragazza l’avesse sposata.
Nella stanza lei era distesa sul letto e fumava, in libertà. L’avevo appena vista, che spense la luce. Ebbe ancora il coraggio di dirmi: — Se Pieretto sapesse!...
Se Pieretto sapesse gli rincrescerebbe piú per me che per te, perché tutta la colpa era della prigione; e soltanto le donne non hanno bisogno di andare in prigione per tradire un amico.
Per non far storie aspettai che dormisse, poi raccolsi le camicie e me ne andai. Non so perché non rimasi fino all’indomani mattina, ma mi rivoltava anche l’odore e poi faceva troppo caldo. Esco e, senza accorgermene, stanco come una bestia vado verso la stazione, per trovare una panca. Avevo in tasca un quaranta lire, e piú niente da fare. Ci pensai sopra nel giardino e capivo che senza Pieretto ero proprio disoccupato. Gente ne passava poca, era già mezzanotte e non avevo piú sonno perché da Michela mi ero assopito un poco.
Chi sa Talino. Era partito alle sette? Una voce mi dice di no e mi fa saltar su. Vado o non vado. Costa poco.
Talino era seduto per terra, fra le ringhiere dei biglietti, col fagotto e tutto. A vederlo, mi pareva di tornar dentro. Si asciugava il sudore, con una faccia da richiamato, e mordeva in un pezzo di pane e formaggio. Dunque aveva dei soldi cuciti da qualche parte; e ci aveva presi in mezzo tutti quanti, me, la questura e le carceri.
Quando mi vide, si alzò senza fretta, poggiando la mano per terra, e cominciò a traballare come faceva lui camminando.
— Si parte? — mi dice con la bocca piena.
— Momento. Tu hai dei soldi. Che paga mi date se vi guardo le macchine?
— Da mangiare e da dormire. Puoi lavorare per tuo conto nella fabbrica della luce, e guadagni quello che vuoi. C’è uno che si è comprato una casa...
Ma per partire aspettammo il mattino perché Monticello è un paese di scarto che di notte non passano i treni. Aspettando pensavo che, se avessi attaccata la giacca sopra quella di Pieretto, sarebbe subito finito il discorso che a guardarci nello specchio sembravamo fatti uno per l’altro e che lei mi aveva sempre voluto; e invece avrebbe detto che non valevamo, né lei né io, l’amico che prendevamo in giro, e mi avrebbe tormentato e messo su contro Pieretto. Meglio che si svegliasse sola e facesse un po’ di magro, come faceva Pieretto.
Una volta sul treno, venne subito giorno e partimmo proprio nel momento, scommetto, che Michela si girava sotto il lenzuolo. Talino si era messo a dormire, con la testa sul fagotto e il fazzoletto per traverso, e mi strizzava l’occhio come se ridesse ancora per avermela fatta. Mancavano solo le mosche e poi c’era la stalla, l’odore di stalla e il vitello. Lui sembrava il vitello, ma dei momenti pensavo che ce ne fossero due.
Una bella cosa era il fresco e che viaggiavamo soli, e mi sfogavo a fumare. A Bandito saliva gente, ma erano di campagna e andavano al mercato di Bra. Talino se li guardava con tutti due gli occhi, e quando fanno per attaccare discorso con me, dico: — Parlate con lui.
A Bra scendiamo per cambiare e c’era da aspettare quasi un’ora.
— Non vorrai mica sederti nel giardino, — gli faccio; — sono stufo di giardini. Ma Talino tira fuori tre lire e mi dice che erano le mie cinque, che a Torino non aveva trovato il fatto suo e che sapeva un posto a Bra dove bastava due e cinquanta. — Possibile? — dico. Sarà robetta di campagna.
— Macché! — dice Talino. — Sono bianche ch’è un piacere.
Ma io mi fermai nel caffè sulla piazza. — Ringrazia che non mi faccio dare indietro questi soldi. E fa’ presto — . In un caffè pare di essere ancora a Torino: per questo mi piace. Adesso capivo perché Talino aveva fatto finta di dormire, prima nella sala e poi sul treno: per non dovermi raccontare com’era andata con Madama Angela. A meno che, con la storia ch’era di campagna, non l’avesse fatta anche a loro. Michela, che rideva sotto i baffi quando gliel’avevo raccontata, era una donna e la sapeva piú lunga.
— Ecco, — dico a una bionda al banco. — C’è un posto tranquillo per aspettare un amico ch’è andato a far l’amore?
Dietro il banco c’era una porta, e di là un giovanotto che sembrava un ragioniere le guardava le gambe. — Si può andare a mettersi lí? — le faccio.
Intanto si senti una botta rinterzata. Non avevo pensato di chiedere a Talino se a Monticello c’era il biliardo.
— Devo prendere il treno o giocare al biliardo o discorrere con una bella ragazza? — le dico.
— Si può fare l’uno e l’altro, — mi risponde la bionda, e mi guarda ridendo.
— Se prendo il treno, perdo il resto.
— Di biliardi ce n’è dappertutto.
— Ma non di bionde. Vado in un paese dove le donne zappano l’orto...
L’amico che guardava là sotto, comincia a ridere per suo conto. Allora dico alla ragazza: — Qui le gambe fanno ridere? — Lei non l’aveva ancora capita, che già con l’altro ci guardavamo.
Combinammo una sfida al biliardo e ci giocai tutto quello che avevo. La ragazza guardò un momento dalla porta, poi la chiamarono a servire, e finimmo la partita che lei neanche assisteva. Sempre ridendo sotto i baffi, quel giovanotto che sembrava un ragioniere mi suonò le due prime, poi mi diede la buona e mi fece anche quella. Poi chiedo l’ora e sento che il treno è già partito.
Talino aspettava pacifico nella stazione. — E adesso? — Dovevi venire con me, ti divertivi.
Il treno dopo partiva alle quattro. C’era da fare il mezzogiorno in quella piazza, come i buoi sul mercato, e faceva un caldo che ammazza va anche le mosche. L’unico posto che sapevo non potevo piú tornarci, e Talino mi dice: — Andiamo a fare un giro.
Talino mi portò sul mercato, che era disteso davanti ai portici; e lui camminava al sole per vedere la merce; io senza fagotto, perché l’avevo lasciato alla stazione, mi tenevo al riparo, e fatti i conti di nascosto, trovai che avevo ancora da fumare per due giorni. Ma che bei peperoni rossi vendevano le donne! Poi arriviamo davanti alle angurie e mi viene sete. Gridavano, specialmente le donne, che pareva un mercato rionale. Guardali bene, Berto, dico senza fermarmi, è in mano a questa gente che ormai ti sei messo.
Dai portici guardare il mercato sembrava di vedere una spiaggia. C’erano i banchi delle camicie, delle maglie e dei berretti, che facevano sudare solo a passargli davanti, perché in campagna è tutto spesso, dalla pelle dei piedi al fustagno dei calzoni. E Talino andava deciso, scontrandosi nella gente, allargando le gambe perché ci passassero i cani, senza neanche asciugarsi il collo con quel fazzoletto rosso che gli faceva triangolo sulla spalla.
Si fermò davanti a uno dalla fascia rossa alla vita come un carrettiere, che vendeva ferri da vanghe e picconi. Questo salta in piedi e si mette a picchiare con un martello sulla pala di un badile e chiama qualcuno e arriva un ragazzo e lui allora dà un pugno in un fianco a Talino. Sembrava sveglio il carrettiere, e si capisce: con la vita che fanno, anche se girano soltanto la campagna, mangiano tutte le minestre e vedono la gente di giorno e di notte. Se invece di Talino mi fosse rimasto Pieretto, quello era un mestiere da fare noialtri.
Ci portò, me e Talino, all’osteria là dietro, di dove comandava con l’occhio i suoi ferri e il ragazzotto che glieli guardava. Sulla porta si fermano, e Talino gli dice che andavamo a casa. — Lascia fare, — dice l’altro, — per la Madonna d’agosto arrivate sicuro. Bevi una volta — . Entriamo dentro e comanda del vino. Prima cosa gli chiede se l’avevano prosciolto. Gli dà una mano sulla spalla e gli dice che stesse tranquillo perché quelli del Prato pensavano a tagliare il fieno e quando c’era andato il maresciallo per concludere e fissare i testimoni, gli avevano risposto che non era piú la stagione. Qui il carrettiere mi guardò di traversa. Io guardo lui, gli rido in faccia e tiro fuori il pacchetto. — Sono le ultime. Andate avanti. Sto con Talino — . Talino dice: — Viene a casa nostra per lavorare — . L’altro si mette a ridere, piglia la sigaretta, e ci versa da bere. Poi continuano un pezzo a parlare del loro incendio, e io li guardo bilanciandomi sulla sedia. Mi chiedevo che razza di lavoro andassi a fare a casa sua, e l’incendio ce l’avevo io nella testa.
Di tanto in tanto, all’occasione, dicevo la mia, perché l’avevo già spiegato a Talino, che se uno l’hanno visto lavorare dentro un pozzo a fondo valle, è un po’ difficile accusarlo di un incendio su in collina. Ma quel Berto (si chiamava come me) che quei paesi li aveva girati e si maneggiava Talino da buon maniscalco, tirava a ficcargli in testa che adesso stesse tranquillo, visto ch’era prosciolto, perché in un pozzo di notte non si vede neanche la luna, nonché la faccia di Talino. — Perché, è stato di notte? — dico io. — Sicuro, questo goffo, per farsi vedere di notte, va a nascondersi nel pozzo — . Allora mi accorsi che neanche un momento Talino aveva smesso di lavorarmi. Poi quell’altro lo chiamano, ma ci dice di aspettarlo al tavolo.
— Senti, — faccio a Talino, — perché non mi hai mai detto che quella casa è bruciata di notte? Sono figure da far fare?
— Perché, ho detto di giorno? — chiede lui.
— Lasciamo perdere. Adesso come si fa, con tre lire, a mangiare?
— Mangiamo con Berto, che quando passa a Monticello dorme sempre in casa nostra.
Torna Berto asciugandosi il collo col braccio e gridando sulla porta, e comandiamo il minestrone.
— Roba di campagna, — mi dice, — ma un po’ di minestra ci vuole.
— Girate tutto l’anno? — gli faccio.
— Andiamo, — dice, rompendosi il pane, — il cavallo ha bisogno di greppia. Queste strade non sono Torino, e ci regna la neve. Faccio l’ultimo giro a novembre quando Talino vende l’uva. Domandategli che faccia fa suo padre quando passo a incassare.
— Quest’anno avanzerete anche due piatti di minestra. Andiamo a Monticello pelati come la mano.
E lui, masticando: — Si va piú leggeri. Che mestiere fate?
— Meccanico senza macchine.
Berto guardò Talino e poi mi dice: — E andate a cercarle a Monticello?... Viaggiate col foglio anche voi?
Gli faccio vedere il biglietto.
— Lavoro interessante, — dice Berto, — ma farete fatica a ritrovarvi. Biciclette e motori. D’inverno non mangiano come il cavallo e noialtri. Si lavorerebbe il doppio, ma qui non le capiscono.
Il bello di quell’uomo era che non sembrava di campagna. Parlava dritto e capiva al volo. Portava un camiciotto a quadretti che sarebbe stato bene anche sotto una giacca, e aveva il magro di chi cammina svelto.
Finito, mi prese un’altra sigaretta, perché lui se le faceva a mano. Chiese ridendo a Talino se si stava cosí comodi in prigione. E Talino gli dice che c’ero stato con lui e che fumavo anche di notte. Allora mi toccò contare a Berto che avevo messo sotto il ciclista, e Talino, sempre piú intero, s’accorge che mi chiamavo come lui e glielo fa sapere. — Il nome non ce lo diamo noi, — dice Berto ridendo.
Poi prima d’andarsene gli parla ancora dell’incendio e gli dice: — Sta’ attento, la seconda volta non è mica cosí facile uscire. Voglio trovarti a piede libero, ai Santi, se no tuo padre non mi compra piú zappe.
Poi s’accompagnano fuori e vanno a discorrere dietro al carretto, intanto che mi fermo sulla porta e chiudo gli occhi, tanto il mercato veduto di dietro sembrava ammazzato dal sole, e piú nessuno si muoveva sotto quelle tende e negli angoli d’ombra, e non c’era un filo di vento e dormivo là in piedi.
Torna Talino e gli borbotto: — Andiamo a stenderci — . Traversare la piazza davanti alla stazione c’era da restar secchi. Volevo chiedere se quel sole era lo stesso di Monticello, volevo parlare, volevo entrare in quel caffè del biliardo e dormire, ma camminavo e la stazione, da piccola ch’era in principio, ci viene incontro, si fa come un portico, e usciamo sotto la tettoia, mi butto sulla panca e sto zitto.
Mi svegliai sudato come all’ospedale, ma adesso stavo bene e sulla panca c’era Talino che aspettava guardando i binari. Mi metto a guardarli anch’io e la tettoia comincia a riempirsi.
— È lontano ancora? — gli dico.
— Se partivamo a piedi dopo mangiato, c’eravamo stasera.
Intanto arriva il treno, un diretto che non era il nostro, e la stazione si vuota.
— Di che paese è quel Berto?
— Della Langa di Calamandrana, di là dalla valle del Belbo.
— Lontano?
— Da Monticello saranno due giorni, camminando di vetta sulla collina.
— E quando cominciano queste colline?
— Subito.
Ero stufo di vedere binari, stufo. Talino aveva le scarpe rotte, ma lui magari andava scalzo. Guardavo le mie che tenevano ancora, e mi viene in mente che potevo prenderne un paio a Pieretto, tanto per un pezzo non ne avrebbe piú avuto bisogno. Chi sa Michela, se l’aveva capita che non ero il suo stupido? magari credeva che fossi scappato per paura, e rideva. Poteva ridere sí, perché sarebbe stato meglio girare al fresco per Torino, adesso che veniva sera, e mangiare un boccone tranquillo, coi miei soldi in tasca.
— Noi andiamo sulla collina? — dico a Talino.
— Se vogliamo. C’è la vigna.
— Ma la cascina è in piano?
— Sicuro.
— E la barba te la fai a casa?
Talino rideva.
— E il paese dov’è? A fondo valle?
Finalmente arriva il treno, adagio, che sembrava Talino quando traversa una strada. Forza! Una volta montati e partiti, comincia a far fresco per il movimento, e corriamo a randa di un fianco boscoso. Talino non si sedeva e tira fuori il suo foglio. Poi viene un milite e si conoscevano e si mettono a discorrere, e quello mi guarda. Io fumavo e prendevo dell’aria.
Talino si sporge e mi chiama a vedere dalla sua parte. C’era una collinaccia che sembrava una mammella, tutta annebbiata dal sole, e le gaggie della ferrata la nascondono, poi la fanno vedere un momento, poi entriamo in una galleria e fa fresco come in cantina ma si dimenticano di accendere la luce.
Grido allo scuro: — Cosa c’è da vedere?
— Non sono io, — mi risponde il milite. — Restate al vostro posto — . Mi era venuto lui sotto le mani.
Quando tornammo al chiaro, mi volto a Talino e lo vedo di nuovo ficcato a sporgersi, che sventolava le mani come una donna e si voltava e rivoltava col fazzoletto per traverso. — Senti l’odore della stalla? — volevo chiedergli, ma lui si godeva fin il fresco della corsa tant’era contento.
— Adesso la collina gira e si vedono le piante giuste, — dice mostrandomi la cima col dito. — Noi stiamo su quella in faccia.
A parte l’aria del finestrino, c’era di bello che, infilate le colline, viaggiavamo all’ombra. Le foglie sventolavano a due dita dal treno. Poi sento che rallenta rallenta e si ferma sotto un picco. — Cosa è successo? C’è qualcuno sulla linea? — Siamo arrivati, — mi grida Talino.
Lo diceva lui, ma invece ci toccò metterci a piedi per una strada dove si pigliavano storte tant’era la polvere, e Talino si ferma su un paracarro e si leva le scarpe e rimbocca i calzoni, dicendo: — La polvere te le mangia — . Le calze non le aveva. Lega le scarpe per le stringhe e se le butta a tracolla. — E dov’è Monticello? — gli chiedo. — Di qui non si vede — . Avevamo dietro la testa una collina, bassa come una casa. La nostra strada un po’ saliva e un po’ scendeva, e mi volto a guardare la collinetta e gli dico: — Dov’è il mammellone? — Questa, — dice Talino. — Ma se prima sembrava una montagna! — Noi andiamo sulla collina in faccia. Di là vedrai che è una montagna.
Mi guardavo bene intorno, per sapere all’occasione ritornare e saltare sul treno. Ma treno, ferrata e stazione, era tutto sparito. — Sono proprio in campagna, — mi dico, — qui piú nessuno mi trova.
Cammina e cammina per quella bassa, cominciamo a vedere dietro le piante una collina che cresce. — È ancora lunga? — Meno male che il sole calava e pigliava di fianco le gambe di Talino e i paracarri e la polvere, e le indorava, come i fari di un’auto di notte. Poi usciamo dalle piante e si vede un collinone tutto vigne e cascine e boscoso, e pelato sulla punta.
— Dov’è Monticello?
— Da casa lo vediamo. È sul fianco della mammella, — e, dicendo, gli scappa da ridere. Mi volto e rivedo la collina del treno. Era cresciuta e sembrava proprio una poppa, tutta rotonda sulle coste e col ciuffo di piante che la chiazzava in punta. E Talino rideva dentro la barba, da goffo, come se fosse proprio davanti a una donna che gli mostrasse la mammella. Scommetto che non ci aveva mai pensato.
Poi prendiamo una strada piú stretta, senza paracarri, che traversava un prato in salita, e arriviamo alla cascina. Era grossa, e prima cosa vedo un’ala di portici sotto il fienile, e i buoi fermi davanti a un carro, e delle donne intorno. Talino leva il fagotto e si mette a gridare. Allora grido anch’io.
Una donna comincia a correre e un can barbone ci salta addosso, ma non sembra neanche che arriviamo da Torino. Una giovane pianta il tridente nel fieno, un ragazzotto corre in casa; da dietro il carro esce un vecchio storto, in maniche di camicia, e ci guarda, la mano sugli occhi. Io mi fermo; Talino saluta: — In gamba, Pa’! — e niente succede. Il vecchio grida verso la casa: — Donne, è arrivato, — e si volta a guardarmi. Poi dà una voce alle donne del carro, e ci viene incontro.
Mentre parlano insieme, ci guardiamo. Il vecchio aveva in testa una cappellinaccia sfondata e parlando con Talino sembrava che ascoltasse me. — Ti ho capito, — dico io, — questo è piú furbo del figlio — . Sembrava che perdesse i calzoni, per via che stava storto, con la mano sul fianco piú basso; e si erano appena incontrati che cominciano a gridare per quel pozzo, e il figlio dice che non si era nascosto ma aveva cercato di farsi vedere stando seduto con le gambe spenzoloni e nessuno passava e tutti correvano su alla Grangia, e allora... — E allora? — fa il vecchio, sempre tenendomi d’occhio. — Allora mi sono calato dentro, perché avevo paura... — Paura di cosa, zucca? Non sai che prima cosa prendono chi si nasconde?
Sembrava un discorso già fatto e rifatto, perché nessuno dei due stava a sentire l’altro. Le donne ferme intorno al carro mi guardavano, e sulla porta di casa uscì una vecchia. Intanto il cane mi fiutava. Fiuto anch’io l’odore del fieno e vengo avanti e dico ridendo che a buon conto era inutile pigliarsela adesso, visto ch’era tornato. Talino dice allora chi ero, e il vecchio mi guarda le scarpe e si gratta dentro i calzoni, e si volta a quelle del carro gridando di finire prima di notte. Poi dice a Talino: — Va’ dalla vecchia; poi da’ una mano a scaricare, — e Talino s’incammina, col suo fagotto. Dalla porta si volta e ci grida: — Fategli vedere la macchina. Pa’!
Dietro alla casa c’era una stoppia che teneva mezza la collina, e il vecchio dice: — Andiamo fuori dal riverbero, — e mi porta sull’aia fra la casa e la stoppia. Mi piazza contro il muro; là faceva un po’ di fresco e non ci sentiva nessuno. — Bella campagna, gli dico. Lontano lontano la collina finiva in quella punta pelata e mi metto a respirare il letame e si sentivano già i grilli.
— Ci voleva una notte d’acqua, per il fieno, — dice il vecchio, guardando in aria. — Era tanto sangue nelle vene...
Gli faccio: — Ce n’è del lavoro in campagna, eh?
— Ognuno il suo. Ma la terra mangia piú di noi.
— Sarebbe?
— Sarebbe che non basta la fatica. Bisogna spenderci quel poco guadagno, per averla pronta l’anno dopo.
— Allora del guadagno ce n’è.
— Ci sarebbe, non fosse che quando il lavoro spinge vi portano via i figli per delle storie. Soldi, ci vogliono.
— Mi sembra che esageriate. Talino non ha avuto bisogno neanche dell’avvocato...
— Sono io il suo avvocato. Glielo do io l’avvocato.
— E dov’è questa macchina?
Allora il vecchio si fa anche piú storto e mi chiede, con un occhio solo:
— Gli avete imprestato dei soldi?
Se gli dicevo di no, ero servito. Mi mandava a dormire nei fossi.
— Qualchecosa, — gli faccio, — per levargli la fame. Alle Nuove dormiva con me.
Tanto bastò per dargli fiato e drizzarlo. La notte poi mi viene in mente che Pieretto al mio posto gli avrebbe raccontato che quel goffo non era prosciolto e lo mandavano a casa soltanto per fargliela e prenderlo con le mani sul fatto, e che lui lo sapeva, perché una notte Talino gli aveva parlato nel sogno, e dunque lo mantenessero se no parlava anche lui. Pieretto era il suo genere spaventare la gente. Ma Pieretto a quell’ora sarebbe stato all’Eliseo con Michela, e non dietro una stalla a combinare per un piatto di minestra e ringraziarli ancora che gli facessero vedere la macchina.
Difatti il vecchio apre il portone della stalla e camminiamo sul cemento e arriviamo sotto una tettoia dove faceva già notte, e s’intravede un gabbione di legno, grosso come il baraccone della fiera. Mi fermo a guardare, e intanto il vecchio prende un bastone e spalanca uno sportello che dava sulla collina. Oltre tutto, la macchina aveva le ruote.
— Roba vostra? — dico, piegando la testa.
— Ve ne intendete? — fa il vecchio.
— Conosciuta una macchina, si conoscono tutte. Va a benzina?
Fortuna che il vecchio gettava il bastone e non mi sente.
— Qui c’è quella di ferro, — dice, e gira intorno alla baracca.
Allora giro anch’io e vedo, dietro, una motrice a vapore. Era un affare a trasmissione. Dico subito: — Avete le cinghie?
C’erano le cinghie e c’era tutto. Intanto arriva Talino, e si fermano sulla porta due o tre bambini. Qualcuno diceva all’altro: — Esce la macchina, esce la macchina — . Dalla stalla si sente un fracasso di catene e le musate di un bue nella greppia, e viene la voce di una donna giovane perché là, quando il fratello è in prigione, sono le donne che governano le bestie.
— Sembra buona, — dico al vecchio, che mi guarda.
— Bisogna pulirla, — fa lui.
— E perché la tenete nella stalla? La mantenete a fieno?
Intanto dietro a Talino escono due donne, col fazzoletto rosso in testa.
Allora batto la mano sulla motrice e faccio: — Lasciate fare a me. Di queste more me ne intendo. C’è il manometro? Sí. Domani con la luce verifico. E vedrete che andrà come una sposa.
— Per san Pietro comincio a piazzare, — fa il vecchio, convinto.
Non sapevo quand’era san Pietro né cos’era piazzare, ma faccio l’occhio a Talino e m’incammino nella stalla. Il vecchio chiude lo sportello in alto e le donne corrono via. Usciamo sull’aia con quei ragazzi nei piedi, e meno male che veniva sera e anche dalle colline il sole se ne andava.
Fuori accendo, e troviamo le donne che portavano l’acqua alle bestie con un mastello. Una sembrava giovane e andava scalza, ma era piú nera e piú spessa di Talino. Tenevano il mastello, una mano per una, e correvano piegate per non sentire il peso e ridevano come fanno le donne. La piú grande si ferma e fa fermare L’altra e dice a Talino: — Da’ una mano a tua sorella.
Allora vengo avanti e faccio per prendere io il manico che aveva lasciato. Talino fa un salto e dice: — Tu sei il macchinista, e mi scarta abbrancando il mastello. Se ne vanno Talino e la piú giovane, ridendomi dietro, e noi restiamo davanti alla stalla.
— Se la bevono tutta? — dico all’altra sorella. — Salute! Non ne avete un bicchiere per me?
Allora il vecchio fece segno alla donna, che se ne andò di mala grazia per la stalla e ritornò con la bottiglia del vino dentro un secchio. Mentre aspettavo, i ragazzi mi guardavano la sigaretta, e uno mi faceva il verso con la mano.
Il vecchio dice: — Mi chiamo Vinverra, — e riempi tre bicchieri. Prima di riempirli li tuffava nel secchio e buttava via l’acqua sull’aia. I ragazzi guardavano.
— Talino, vieni a bere, — grida il vecchio.
Talino correva dietro a quella diavola nella stalla. Sento che si abbrancano e ridono. La sorella va sulla porta e li chiama. Quando ci siamo tutti e tre, il vecchio mi dice: — Al piacere, e tracanna e poi butta la goccia per terra. Io e Talino beviamo piú adagio, Talino rideva; era fresco e un po’ brusco, un’acquetta, e mi fece ballare negli occhi tutta la collina e mi viene in mente che l’incendio di Talino era stato lassú.
— Vi siete messi d’accordo? — dice Talino col bicchiere in mano.
— Non c’era bisogno di tante parole, — fa il vecchio, — tu sei sempre il piú intero.
Poi mi portano a cena, e mi dànno il minestrone in una stanza che sembrava in cantina. Mangiavamo ch’era quasi scuro, e tra donne e bambini si masticava anche le mosche. I bambini facevano mucchio per terra con la scodella sulle ginocchia. La pietanza di noialtri era il vino.
Le ragazze bevevano meglio di me. Ce n’era quattro. Sento che chiamano Miliota quella che aveva portato da bere alle bestie. Con vent’anni aveva la pelle di un uomo a quaranta, e faceva venire in mente il piatto spesso dove mangiavo. Erano quasi tutte scalze, e sotto la tavola pestavo dei piedi, ma loro non sentivano il male. Da mangiare ce ne dava una nonna ch’era la madre di tutte e di Talino e girava a riempire le scodelle dei nipoti, e le dicevano: — Sedetevi, Ma’, — perché chinandosi gemeva e aveva sempre qualcuno nelle gambe. Pareva impossibile, a vedere le figlie, che le fosse uscita di dosso tanta roba. Faceva spavento pensare che schiena e che gambe doveva aver avuto da sposa, e adesso com’era ammuffita. Il vecchio Vinverra, cappellina in testa, ci guardava tutti sopra il cucchiaio, e sorbiva.
Si alza un’altra ragazza dal fondo e dice: — Accendiamo il petrolio — . La vecchia borbotta di no perché tira le mosche. — Tanto ci sono, — gridano le altre, e portano la lampada e io metto il cerino. Alla luce quelle facce diventano come ai bagni di mare, piú cotte e piú larghe. Quella che aveva acceso si toglie il fazzoletto e si tocca i capelli; non l’avevo guardata prima, somigliava a Talino ma solo un’idea: era la meno manza e la meno nera, e si aggiustava i capelli di nascosto.
Tutti parlavano di quel Berto di Bra, e che anch’io mi chiamavo Berto e del mestiere che faceva, e dice il vecchio: — Tua sorella ha spaccato la vanga che mi aveva venduto per ferro.
Un bel momento Talino si drizza e viene dietro alla ragazza che mi guardava, e le ficca una mano nel collo e lei fa un salto e tutti ridevano. Talino le aveva cacciato qualcosa sulla faccia e fregava, e la ragazza sputava, e Talino diceva: — Col peperone sul bocchino... come si fa a Torino — ; finché la ragazza non si fu liberata e scappò per la scala.
— Ben fatto, — dice il vecchio Vinverra. Le altre ridevano: — Gisella, Gisella, — e la vecchia malediva dal buio.
Stiamo attenti, non siamo piú a Torino, dico tra me in quel caldo. Questo qui con la scusa che è stupido, mi fa incornare da un bue alla prima occasione, se non gli lascio le sorelle per lui. Ma a buon conto si chiama Gisella.
Le altre due si chiamavano Pina e l’Adele, ma l’Adele era quella che ci aveva portato da bere col secchio, e aveva già fatto i suoi bambini e sembrava la madre di tutta la casa. Dava l’aria a Talino anche come guardava; e io, che avevo visto Talino là dentro fare il bagno, mi figuravo che pelle e che sudore dovevano averci tutte sotto la camicia.
Poi l’Adele, mangiato e bevuto, va per la strada di Gisella, e ritorna con uno appena nato attaccato alla poppa e si siede sullo scalino della porta. Dopo un po’, vedo che anche Gisella era seduta sullo scalino.
La vecchia porta sulla tavola un catino d’insalata, e Talino la mescola in piedi, prende degli altri peperoni, la vecchia taglia le cipolle, e ci buttano tutto e ci versano dentro l’aceto. Poi mi dicono di pulire il piatto col pane, e me lo riempiono. Faceva ridere la vecchia che, sdentata com’era, si succhiava i pomodori come fossero uova.
— Gisella li ha già mangiati i peperoni, — dice Talino, a bocca piena.
Vinverra, che aveva finito, si alza borbottando. Talino si mette a ridere. Allora Gisella dalla porta dice senza voltarsi:
— Vatti a sotterrare.
Talino dice: — Erano buoni i peperoni?
— Vatti a sotterrare.
— Te lo sei fatto il bocchino?
— Vatti a sotterrare!
— Tu piantala lí, — dice il vecchio sulla porta. Le altre ridevano.
— Vatti a sotterrare! — grida Gisella voltandosi come una matta. — Torna in prigione dov’eri! Sei soltanto in vigliacco. Ti sei fatto accompagnare perché avevi paura...
— Erano buoni i peperoni?
— ... Hai paura di tutti, perché c’è Rico che ti cerca. Hai paura di quelli del Prato. Sei soltanto capace a scappare di notte e ti sei fatto accompagnare perché avevi paura. Vigliacco e bastardo, sei soltanto capace a scappare di notte...
Qui si misero tutti a gridare perché il vecchio s’era tolta la cinghia e picchiava Gisella come fosse una scarpa. Ma Gisella non scappava; ficcava la testa contro il fianco d’Adele e mugolava e sembrava un serpente e l’Adele riparava il suo bambino col braccio. Il vecchio non diceva niente: s’era tolta la cappellina e batteva. Io, a vent’anni, al posto di Gisella, l’avrei fatta vedere a quel vecchio.
Poi Vinverra, finita la donna, fa un mezzo giro e salta addosso all’uomo, che stava già tra il lusco e il brusco, e gliene molla una cinghiata che si senti in tutta la stanza. Ma Talino scappò subito.
Fecero tutti silenzio, anche la vecchia: solo si sentiva Gisella sbavare sullo scalino e l’Adele coccolare il piccolo che non si era neanche staccato.
Fermo in mezzo alla stanza, il vecchio dice: — Fuori tutti! — Usciamo nel cortile scavalcando le due donne e ci sediamo sul trave, e Vinverra si porta la sedia. Una volta passati tutti, Gisella salta in piedi e va a nascondersi in casa.
— Non sembra neanche suo fratello, — dice Vinverra accendendo il toscano.
Un’occasione cosí doverla perdere, e una ragazza che si sta rivoltando non poterla portare in un prato. Perché il bello in campagna è che tutto ha il suo odore, e quello del fieno mi dava alla testa: un profumo che le donne, solo che abbiano in sangue un po’ sveglio, dovrebbero stendersi.
Guardo in su i pipistrelli che volano e mi vedo davanti, bella rosa, la collina del treno, col suo capezzolo sulla punta, e dei lumi sul fianco, e mi volto, ma la casa nasconde quell’altra che si vedeva dall’aia. Siamo in mezzo a due mammelle, dico; qui nessuno ci pensa, ma siamo in mezzo a due mammelle.
— Laggiú è Monticello, — dice il vecchio, mostrandomi i lumi.
— Talino, — fa Miliota, — ci va domani.
— C’è tempo, — dice il vecchio, brusco.
Ne avevo abbastanza. — Quasi quasi faccio un giro intorno alla casa. Ho le cipolle sullo stomaco.
— Ci vuole del vino. Ma’, porta la secchia, — fa il vecchio subito. — Bevete una volta. È il calore.
Arriva il vino e col bicchiere in mano torno a guardare i pipistrelli. Adesso era scuro e, tra grilli e cani, dalla collina non si sentiva piú altro.
Nella luce della porta l’Adele leva la faccia dal bambino addormentato e dice piano: — Senti il cane del Prato. Sa che c’è il macchinista e Talino. Gli hanno detto che è tornato Talino, e lui morde già la catena.
— Chi sa come la morde Rico, — dice un’altra, — adesso che è tornato Talino.
— Diavolo, — fa il vecchio, saltando su, — l’avete legato il cane? Corri subito. Pina, Miliota, voi sapete soltanto mangiare. Ho bisogno che faccia la guardia. Voi pensate soltanto alla veste, ma se bruciamo restate in camicia.
Pina andò correndo coi ragazzi e dopo un poco sentiamo abbaiare e gridare, dalla parte dell’aia.
— Pinota dice, — ricomincia l’Adele a voce bassa, — ch’è stato Rico a minacciare quelli del Prato, se parlavano. Dice che ha fermato Ernesto verso sera, all’Orto, e gli ha detto che Talino doveva uscire, perché lui vuole pagarsi di sua mano e in prigione si stava troppo bene. Dice che vuole andarci lui in prigione, dopo averlo ammazzato.
— Vagabondi, — fa il vecchio sulla cicca, — vagabondi che non hanno casa e la cercano dal governo.
Miliota, che masticava qualcosa, dice: — Talino, allora, non doveva tornare. Perché è tornato?
— Perché non ha fatto niente, — dice il vecchio, guardandoci tutti. — Perché la giustizia c’è, e i carabinieri lo sanno che se qualcosa si muove basta che vadano alla Grangia...
L’Adele pareva che ridesse allo scuro, come fanno le donne quando mettono su un uomo. Io la guardo staccando la sigaretta a mano riversa e mi viene in mente quando Talino rideva perché l’avevano prosciolto; e allora penso che, goffo com’era, era riuscito proprio a farmela. Mi viene la rabbia perché adesso capivo cosa aveva gridato Gisella, e che non era per il padre che mi aveva portato, ma per farsi guardare la pelle da me. Ma stai fresco, pensavo, te la facciano pure se sei cosí stupido da nasconderti in un pozzo per in pagliaio che non hai bruciato. Anch’io lo brucio il paglione, e vedrai.
L’Adele si alza col bambino e va dentro. Erano tutti nella stanza che giravano; doveva esser tornato anche Talino. Sento la vecchia che grida a una figlia, e poi la luce dalla porta s’allontana e traballa. Le donne andavano di sopra. Restiamo soli nel cortile col vecchio e coi grilli.
— Senza la luce fa piú fresco, — dico tanto per dire.
— È per questo che il sole scalda, — fa il vecchio.
— Dov’è la casa che è bruciata?
Il vecchio sputa e fa in segno verso i tetti. — Su di là, — dice brusco.
— Sentite, Vinverra, — gli dico alla fine, — vostro figlio ha preso in giro la giustizia, ma me non mi prende. Qui si tratta di botte. Chi è quel Rico e cos’è questa Grangia?
Il vecchio si muove appena, poi si toglie la cicca e borbotta: — Eh?
— Dico, chi sono questa gente che l’hanno con lui? Se anche i cani lo vogliono mordere. L’ha detto Miliota.
— Storie, — fa il vecchio.
— Le storie le conta Talino. A me ha contato che il fuoco era stato di giorno. Cos’è questa storia del pozzo?
Allora il vecchio sospira e si toglie la cappellina e si ficca la mano nei calzoni. Sta’ a vedere che prende la cinghia e mi suona anche me! Gli dico: — La Grangia è la casa bruciata?
— Un casotto, — fa il vecchio, — che non valeva la paglia che c’era. Lo dicevano tutti che doveva bruciare. È sulla punta e si vedono i muri da qui. Rico avrà rovesciato il petrolio, perché è sempre stato un ignorante, tanto che mangia i grilli. Suo padre lo diceva a tutti ch’era nato insensato...
— E Talino cosa c’entra?
Talino, racconta il vecchio, era stato visto da uno del Prato correre giú per la stoppia e nascondersi nel pozzo, invece di far gente con tutta la collina e correre a spegnere il fuoco. E questo proprio sotto il taglio del grano, e cosí l’avevano preso per pigliare qualcuno e rovinare un raccolto...
— E questo Rico mangia i grilli?
Vinverra alza la mano come un prete, guarda in aria e poi dice: — L’hanno visto le donne. Cosí dicono.
Mangerà i grilli come dicono le donne, ma se voleva suonare Talino non era poi cosí stupido, e a buon conto, pensavo, domani vado a Monticello.
— Domani dovete pulire quelle macchine. Andate a dormire.
— Dove? — gli faccio.
— Nello stanzone con Talino. Dormite pesante?
— Un quintale.
— Se vi svegliate, state attento. Fate un po’ di guardia anche voi.
Mi portò, per una scala di legno, in un portico sopra la stalla. Era il fienile, in sostanza. Ma dava sull’aia, verso l’altra mammella, quella pelata sulla punta, dove c’era la Grangia. Fortuna che il cane dormiva, perché mi ricordo che l’avevano legato nell’aia. Poi arriva Talino su per la scala, sempre allo scuro, e il vecchio dice: — Domani finiamo il fieno — . Parlano un poco tra loro, mentre io mi facevo l’occhio e cercavo il letto: non c’era letto ma un gran materasso buttato per terra.
— Qui non si cade dal letto, — dico a Talino.
— Attenti col fuoco, — fa il vecchio Vinverra. — C’è il fieno, e se ne va per la scala, deciso a rompersi il collo.
Non so perché, ci sediamo tutti due con le gambe che pendono sull’aia, davanti alla collina nera. Meno male che, in una stanza cosí, faceva fresco. Accendo la sigaretta per provare se Talino era come suo padre, ma Talino non se ne accorge neanche. C’era un cane, lontano lassú, che abbaiava. O una cagna: piú facile. La collina era tutta scura; dormivano tutti. Dico: Michela riderebbe se mi vedesse in questo stato. Pensavo a Corso Bramante sotto la collina: anche a essere solo, uno almeno è a Torino, e a mezzanotte trova ancora tutto aperto.
— E uno che volesse chinarsi una volta, dove va? — chiedo a Talino.
— Nella stoppia.
Magari ci andavano anche le ragazze. Chi sa dove dormivano.
— E se arriva il tuo Rico e ti prende i calzoni? — gli faccio, per ridere.
— Glieli lascio, — dice Talino. — Cosí siamo in pace.
— Mi piacerebbe sapere chi è che ha bruciato la Grangia.
Talino si alza e si sbottona i calzoni, come faceva là dentro, e comincia a innaffiare di lassú, che pareva un cavallo.
— Io, sono stato, — dice nei denti, — io. Non ho mai riso tanto. Si vedeva di qui come se fosse giorno.
Ci svegliarono i buoi dalla stalla, e prima cosa vedo la collina della Grangia che riempiva tutto il portico. Sembrava Torino quando si esce prima di giorno, che non ci sono neanche i tranvai. Ma qualcuno nella stalla sgridava già le bestie.
— Dov’è quel pozzo? — dico a Talino.
Lui mi mostra in fondo alla stoppia, dove passava la strada, un muretto rotondo che pareva una cisterna.
— È là che ti sei nascosto? — e intanto rido. — Non ci credo che sei tu che hai dato fuoco.
— Non sono io, — dice Talino, e distacca una giacca dal muro. — Chi l’ha detto che sono io?
Allora lo fisso, e lui mi guarda con la faccia di quand’era in prigione, tanto piú che la barba gli era ancora cresciuta. Lo guardo di nuovo, e vedo che ride come se fossi il suo stupido.
— Bestia, — gli faccio. — Hai mangiato dei grilli?
— Avanti, facciamo la lotta, — dice lui mettendosi in posizione.
— Sei matto, — gli dico, — sbrigatela tu, sei hai voglia.
Sulla porta troviamo l’Adele col secchio, che veniva dal pozzo,
e ci sediamo a colazione. L’Adele girava scalza intorno al fuoco e ci arrostiva i peperoni. Non si sentiva nessuno muoversi.
— Fate tutto voi, — le dico, — in campagna e in cucina.
— Adesso c’è Talino, — dice parandosi dal fuoco col braccio. Manca ancora mio marito ch’è richiamato. Era lui che serviva la macchina.
— Vi conviene tenerne una apposta, per quel poco grano che fate?
Talino masticando del pane diceva: — C’è tutta la collina da battere.
— Ma non è mica tutta terra vostra?
L’Adele continua: — Ma la macchina viaggia. È il suo profitto. C’è anche il grano degli altri. Fate conto di battere solo il nostro?
Fortuna che non c’era Vinverra. Fortuna che capisco a volo le cose. Mentre l’Adele ci dà i peperoni, faccio in fretta i conti. Non c’era soltanto da ripassare i comandi, ma da servire la battitrice, attaccarci i buoi e girare le campagne. Adesso capivo cos’era una piazza. Ma dunque avevamo lavoro per una stagione e ci usciva una paga. Vecchio Vinverra, non te la cavi col vino.
Vado a cercarlo nella stalla, ma prima passo dal fienile a infilarmi la tuta. Nella stalla Vinverra voltava lo strame, con la sua cappellina sulle orecchie. Vedo, sotto le greppie, pieno di conigli che ascoltano e vanno e vengono a saltelloni.
Ci diciamo ben levato e gli chiedo se oggi farà caldo. Poi veniamo sul discorso e gli dico che dormivano ancora tutti, ma io ero in piedi per sbrigare la macchina e andare di quel giorno a Monticello — c’era bene una fabbrica della luce?
Vinverra si pianta sul tridente e mi dice: — Parliamo chiaro: siete elettricista o macchinista, voi?
— Sono uno che lavora per vivere, — rispondo accendendo, — e mi piace essere fisso in un posto — . Lui mi dice che grano da battere ce n’è per un mese. — E va bene, — rispondo, — quanto mi date al giorno?
Allora comincia un discorso arrabbiato, lui parlava di piazze e di vettovaglia, io parlavo di un tanto per ora; poi mi dice che lui lo pagavano a sacchi; e va bene, gli dico, ma non sono un facchino, io lavoro al motore, contatevi i sacchi e pagatemi la giornata.
— E il mangiare e il dormire? — Togliete il mangiare e il dormire, gli dico, ma fumare bisogna, e vestirsi anche; e domani che giocassi al biliardo mi piace rischiare. Allora parlò di suo genero Pietro che l’aveva incantato con quella macchina che gli mangiava soltanto dei soldi e ammazzava le bestie che la tiravano sui bricchi e gli teneva lontano dai beni due uomini. Meno male, diceva, quando c’era Pietro, che accompagnava la macchina fra un lavoro e l’altro; ma adesso era soldato che non faceva niente, e a lui toccava pagarsi un macchinista.
— E dunque pagatelo, — dico. Ci mettiamo d’accordo per quindici lire nei giorni di piazza, ma io non sapevo che da mangiare e da bere ce ne davano le cascine, se no lo portavo a venti.
Passai la mattina sotto la tettoia delle macchine: la motrice a caldaia la capivo, bastava un Talino qualunque a pulirla, e prendo il piú sveglio dei figli dell’Adele, che non aveva dieci anni, e lo metto a lustrare gli ottoni col petrolio. Il difficile stava nella baracca di legno, ch’era la vera trebbiatrice, tutta fatta a trabocchetti che si muovevano per trasmissione; ma siccome erano fermi prendo un pezzo di carta, lecco il lapis e comincio a disegnare. Viene Vinverra e mi chiede se tutto va bene. — Bisogna provarla, — gli dico. Intanto lo faccio parlare, e mi noto di dove usciva la paglia, di dove usciva il grano e dove si attaccano i sacchi. Poi salgo sopra, dove s’infila il covone intiero, e guardo nell’imboccatore e accendo un fiammifero, con Vinverra che bestemmiava di fare attenzione, e alla fine ho il mio grafico con tutta la sezione segnata.
— E adesso bisogna provarla, — gli dico.
Per provarla bisognava accendere la caldaia, e Vinverra masticava e i ragazzi correvano, ma io dico che basta Talino che mi faccia da cinghia e dia qualche giro al volante di comando. Talino arriva insieme alle donne, il vecchio dice di far presto che c’è il fieno che aspetta. E io allora: — O lui o un bue, fate voi — . Poi lo attacco alla ruota in alto e gli dico di farcela vedere. Talino si sputa sulle mani e prende un raggio, io mi metto a distanza, vedo che Gisella ci guarda e dico: — Via!
Sono sicuro che Miliota o l’Adele avevano la schiena da fare altrettanto. O saltava la ruota o la macchina andava. Difatti si muove. Si muove tutta quanta, scricchiolando: si spalanca il cassone di sotto, i setacci si mettono a ballare, i rastrelli mi mostrano i denti come fossero cani arrabbiati. Andava a strappi; e Talino faceva una faccia che sembrava gli pestassero le dita.
— Basta, — dico alla fine. — Ho capito. Ci vuole un po’ d’olio — . Gisella andò a prendere l’olio, e Talino rimettendosi la camicia nei calzoni mi guardava come un insensato.
A mezzogiorno vengono a chiamarmi e si mangiò un’altra volta il minestrone di verdura, e le acciughe e il formaggio. Era cosí che quelle donne crescevano spesse, ma Gisella, che adesso mi guardava ridendo, sembrava invece fatta di frutta. Perché, una volta finito, chiedo a Talino se non aveva delle mele, e lui mi porta in una stanza dove ce n’era un pavimento, tutte rosse e arrugginite che parevano lei. Me ne prendo una sana e la mordo: sapeva di brusco, come piacciono a me.
— Sono le mele di Gisella, — fa Talino mentre torniamo a tavola.
— Perché? — chiedo a Gisella. — Covate le mele?
Non capivano mica. Invece il vecchio mi spiega che quando nasce una figlia si pianta un albero perché cresca con lei. — Quand’è nato Talino, chi sa cos’avete piantato, — dico. — O legna da bruciare o una zucca.
Salta su il gorba che mi aveva lustrato la macchina e dice: — Perché non si pianta una vigna per figlio? Cosí si farebbe piú vino.
— Saremmo i padroni di tutta la collina a quest’ora, — dice l’Adele.
Io guardavo Gisella e Miliota. Talino dice: — E per te, macchinista, cos’hanno piantato?
— Grane, — gli faccio, — grane e tabacco, questo sí: ma sui marciapiedi di Torino il tabacco non cresce e allora mi tocca comprarlo. Le grane le trovo per niente.
Ma era inutile, nessuno capiva, nemmeno Gisella che rideva come prima.
Poi si va sotto il portico del cortile, dove non arrivava ancora il sole, vicino al pozzo, ma se non c’erano le mosche c’erano quei bambini che volevano vedere il disegno della macchina. Allora accendo, mi distendo sopra un sacco e li lascio gridare, loro e le donne. Di là si vedeva la prima collina, bruciata e pelata — erano tutte vigne — e il capezzolo in punta che faceva piacere guardarlo. La vecchia manda Gisella a prender l’acqua dal pozzo — un buco dentro il muro, l’unico posto fresco — e volevo aiutarla a girare il mulinello ma Gisella non vuole e si attacca ai bastoni e si tira su il secchio che cantava come una donna, mentre lei sporgendosi faceva vedere le gambe. Poi quando arriva il secchio lo prendiamo e le sono addosso; e beviamo, specchiandoci, un’acqua meglio delle ciliege. Se non c’erano quei gorbetti e Talino, qualcosa facevo.
Ma la pelle gliel’avevo toccata e avevo visto che, per quanto bruciata dal sole, non era la pelle di Miliota e delle altre che sembravano bestie, ma una cosa piú fresca, che faceva piacere. E poi sembrava la piú giovane, e ci stava. Se Talino diceva qualcosa, davo la colpa a quel vinello che si beveva col vecchio.
Poi volevo dormire, ma la vecchia chiamava i bambini come volesse scannarli. Quello della mattina, Nando, le manda gli altri e a me chiede se non tornavamo a provare la macchina. Sembrava un vagabondo tant’era strappato, con una braca a mezzagamba e l’altra corta, e comandava i piú giovani come se fosse lui Vinverra.
— Quest’anno vengo anch’io con la macchina, perché mio padre è soldato, — mi dice.
— Le donne non vengono a battere il grano?
— Non è un lavoro da donne, — fa lui, — non se ne intendono.
Doveva esser nato quando l’Adele aveva l’età di Gisella, e guardava giú storto come suo nonno.
— A me sembra che sono piú forti di te.
— Sí, ma sono stupide.
— Anche Talino è stupido, — gli dico. — Neanche in prigione l’hanno voluto tant’era stupido. Non è stupido Talino?
Nando rideva che sembrava un negro, ma diceva di no. Diceva di no, poi si frega una mano di dietro, alzando la gamba, come fanno i carrettieri per accendere il fiammifero. E mi guarda e fa il gesto di buttarmelo addosso. Poi schiaccia un occhio e si mette a ridere. — Capito? Talino è furbo.
Ma in quel momento compare Vinverra, che lo cercava per conto della vecchia, e si china a raccogliere una pietra, e Nando salta e corre via.
Le ore piú calde erano già passate per loro, che andavano a prendere il fieno, io invece dormivo. Quando mi sveglio la collina davanti era in ombra, perché il sole le calava sul fianco. Arriva il carro nel cortile, con Gisella e Miliota sul fieno, e gettava un’ombra lunga. Poi mi viene davanti Talino, rosso e con la barba fatta, la giacca sul braccio e le scarpe nei piedi. — Si va a Monticello. Vado a consegnare il foglio.
— Vengo anch’io, per le cicche.
Sulla porta Vinverra mi dice, perché non fumavo un toscano? Lui ne aveva da darmi. — Macché, ho lavorato e mi fate il piacere — . Alla fine mi dà dieci lire, e partiamo col cane che ci salta davanti.
— State attenti! — grida il vecchio.
Talino era allegro che sembrava il cane. Dava calci alle pietre e fischiava. Mi faceva rabbia pensare che anche Gisella aveva un po’ di quel faccione.
Quando pigliamo sotto le piante, Talino diventa piú tranquillo e attacca discorso. Allora gli chiedo con chi faceva l’amore. Talino mi dice che non aveva nessuna e che stava meglio quando andava in pastura perché a quei tempi c’era una ragazza, Ginia, che veniva con le vacche.
— E dov’è adesso?
— Mah, per queste colline.
— Hai delle belle sorelle, — gli dico. — Sono tutte belle cosí a Monticello?
Ma lui risponde ch’era meglio a Bra.
— Qui come fate a conoscervi? — gli chiedo. — Lavorate sempre.
Mi rispose che si andava in festa alla Madonna d’agosto; quando venivano i suonatori; e che a battere il grano, a sfogliare, e a raccogliere l’uva, c’era da bere e da parlare a volontà, in tutte le cascine.
— Allora quest’estate ci divertiamo.
Talino dice di sí, poi guarda storto.
— Se credi che ti tenga compagnia giorno e notte, — gli dico. Tre non fanno la coppia.
— Non c’è mica bisogna di uscire dai beni, — mi fa Talino, — per parlare con qualcuna. Non ti piace la Pina?
— Che Pina?
— La mia.
Lo guardo e mi sembra tutt’altro che stupido. Lo guardo di nuovo, e vedo, che aspetta.
— È lei chi ti manda?
— Me l’ha detto Miliota.
Allora accendo l’ultima, perché fumando si capisce meglio. Ma Talino mi lascia fumare e non dice piú niente.
— Pina è quella che guarda storto? — gli faccio.
— Sí.
— Mica per altro, ma io non voglio sposarmi.
Talino dice: — Ebbene? Intanto le parli, non c’è mica bisogno.
Intanto vedo tra le piante il picco della collina pelata e cominciamo a salire.
— È ancora lontano?
— È un momento.
— C’è chi gli parla, alle tue sorelle? — chiedo a Talino, ch’era davanti.
Talino si ferma e mi aspetta. — C’è Gisella che parlava con Ernesto del Prato.
— Ma non siete in lite con quelli del Prato?
— Gli parlava una volta, — dice adagio Talino. Poi mi conta che Ernesto del Prato voleva prendere lui la macchina da battere il grano, ma Pietro e Adele avevano convinto Vinverra che conveniva a loro. E adesso a quelli del Prato toccava battere il grano con la nostra macchina e ce l’avevano a morte.
— Dov’è la cascina del Prato?
Era in fondo alla piana, dietro a quelle albere.
— E se Ernesto del Prato ti trova, ce l’ha con te?
— Sí, ma non mi tocca perché vuole sposare Gisella.
Mi fermo e gli dico: — Sei un vigliacco bastardo. Perché non mi hai detto a Torino che sei tu che hai bruciato la Grangia?
— Se lo dicevo non venivi piú.
Mi fermo un’altra volta. — Non vi ho mica sposati. Me ne vado domani.
— Dove?
Volevo rispondergli: — Alla fabbrica della luce, — poi ci penso e capisco che anche quella era stata una storia e mi ricordo di quel Berto che l’aveva guardato male, solo a parlarne.
— Sta’ bravo, Berto, — mi dice Talino, come fossi il suo socio, — non hai lavoro neanche a Torino, e Torino è lontano. Qui stai bene e guadagni dei soldi e vedrai che ti piace.
Arrivando in paese, c’era il sole negli occhi che non lasciava vedere le case, e dalla rabbia dico a Talino: — Tu va’ in caserma col tuo foglio, e fammi vedere dove sono i tabacchi — . Talino ride e si mette a salutare questo e quello sulle porte, e io dietro. Vedo un’osteria, un calzolaio, delle stradette sporche che davano su un muretto fresco, dove vado a sedermi, e gli dico: — Fa’ presto, ti aspetto qui — . Ero di costa alla collina, che non si vedeva, e si vedeva invece tutta una piana sotto il sole, che sembrava addormentata. Eravamo saliti bene, perché di là si vedeva, scommetto, fino a Torino. Lontano, c’erano le montagne.
Avevo ai piedi le cime delle magnolie di un giardino. Tra le foglie sentivo parlare e intravedevo del bianco, e ancora adesso mi chiedo se è possibile che qualcuno avesse una villa in quei posti. Si vedeva anche un pezzo di tetto rosso e pulito, e quasi quasi avevo voglia di saltare sulle piante e scender giú e capitare davanti a chi ci fosse. La voce che saliva era di donna.
Invece guardavo la piana e pensavo: — Non è mica Torino. Torino è chi sa dove.
— No, che non è Torino, — mi dice un ragazzo che arriva di corsa e si appoggia al muretto. — È la collina di Bra.
Allora prendo tutto in un’occhiata, la campagna, le macchie degli alberi e dei paesi, le nuvole, i mattoni del muro, e mi dico e ridico: — Bella strada che hai fatto. Valeva la pena!
Quando torna Talino, lo guardo. — Credevo ti avessero rimesso al fresco.
Ma lui ride perché non la intendeva in quel modo. Mi chiede se ho sete. — Sicuro, che ho sete. — E allora andiamo a bere una gazzosa. Le hanno buone. — Prima le sigarette — . Non me l’avrebbe piú fatta. Cinque pacchetti, dieci lire; non mi avanzava piú un soldo.
— E adesso, andiamo pure. Paghi tu.
Talino invece si ferma a scherzare sotto la lea del paese, dove un carradore aveva portato la forgia e piantato i picchetti per cerchiare una ruota. Il carradore era biondo ma piú quadro di lui, col grembiale di cuoio, come quelli che portano il ghiaccio. Aveva anche lui un garzone che gli ventilava la forgia, e mi fermo contro un platano a guardare in aria. Vedo che tra i platani ci sono i lampioni.
— Chi sa se li accendono, — dico.
— Sicuro, ce l’abbiamo la luce, — dice il biondo. — Non sentite la dinamo?
— Mi pareva un mulino. E lavoro, ce n’è?
— Ce n’è, ma non pagano. Fin che Talino non mette la luce nei suoi beni, la luce non rende.
— C’è la luna, d’estate; si vede lo stesso, — dice Talino.
Allora sghignazzano tutti due, e il ragazzo lascia andare la forgia. Io accendo la sigaretta sui carboni, e li guardo fare gli scemi. Intanto veniva notte.
Quando scendemmo la strada, almeno faceva fresco, e pensavo ancora dov’era la luna in quella campagna, che non l’avevo ancor vista. Tra le piante si vedeva la nostra collina, e faceva fresco come l’acqua.
— Talino, — gli chiedo, — non c’era la luna quando hai bruciato la Grangia?
In quel momento sentiamo un galoppo come avessimo il diavolo dietro, e Talino fa un salto, e poi ride, e vediamo che è il cane.
— L’hai condotto per guardia? — gli chiedo. — Ti credi che anch’io ti faccia la guardia come fossi il tuo cane?
Talino mi fissa, camminando, come un bue, con gli occhi grossi che aveva sempre. Non si capiva se rideva o non capiva. Poi mi dice: — Io non te la faccio la guardia.
Andiamo avanti e siamo sotto gli alberi. La strada era larga, ma non passava nessuno, e veniva notte.
— Quando esce la luna?
— Ce ne vuole, — dice Talino. Poi dice: — Quella bastarda. È uscita che non l’aspettavo, e mi hanno visto correre per andare nel pozzo. Bastarda lei e sua sorella che ha parlato.
— Chi, ha parlato?
— È Gisella, che ha visto da casa uno che correva nella stoppia, e ha subito detto ch’ero io.
— Ma eri tu, o no?
— E lei, cosa faceva di notte nel fieno?
Talino parlava forte perch’era ancor chiaro, ma finí le parole guardandosi intorno come fosse già notte. — Se Gisella ha parlato, saprà lei perché, — gli dico allora, secco, — ma tu, si può sapere perché hai dato fuoco alla Grangia?
— La Grangia? — Si mise a ridere. — Perché Rico è un mangiagrilli che tutti gli ridono dietro.
— E cosa c’entrano quelli del Prato?
— Niente, — mi dice, — non c’entrano niente.
Poi arriviamo sulla stradetta in salita e sentiamo ridere. Talino si ferma, raccoglie una pietra, e la tira nei rovi. Sbucano invece da sotto le piante Gisella e Miliota, e lontano ne sento un’altra che chiama disperata come fosse già notte.
— Che cosa volete? — fa Talino.
Che cosa volevano si capiva, e Gisella dà il rastrello per terra, dalla rabbia per quella voce in cima al prato.
— Dov’è il Pa’? — fa Talino.
La nera e la bianca gli ridono in faccia, e Gisella alza le spalle. Poi va giú sull’erba come un sacco, ma si copre le gambe e Miliota resta dietro, in piedi, e ci aspetta. — C’è venuto Ernesto, — dice Miliota, — chiedeva quando battiamo il grano.
— E dov’è?
— Sono andati sull’aia col Pa’...
Talino mi guarda, con l’occhio del merlo; poi vede Gisella e le fa: — Cosa c’è?
Gisella non si muove e Miliota dice: — Acchiappami, — e fa per correre, e Gisella dice: — Se la prendi, ti dice una cosa.
Talino che bestemmiava già, salta addosso a Miliota e si buttano a terra. Rotolando, Miliota lo porta nel fosso: se facevano la lotta non so chi vinceva. Ma Miliota si mette a gridare, e gli dà dei calci, perché erano finiti sulle spine, e si alzò con la veste stracciata.
— Si fa cosí con le donne? — dico a Gisella che mi guardava.
— Si fa cosí con lui... Questa sera ho da dirvi una cosa, trovatevi al pozzo.
— Che pozzo?
— Là dietro... La cisterna.
Poi restammo seduti sull’erba a scherzare finché il Pa’ non chiamava; e Talino voleva sapere chi era venuto con Ernesto e se gli avevano parlato. Le ragazze lo prendevano in giro, perfino Miliota con la voce da toro che ha lei, che a parlare sottovoce si sente di piú.
Ogni tanto la Pina chiamava dal carro come un’anima persa.
— Le siete scappate? — dice Talino.
— Non è venuta perché aveva vergogna, — fa Gisella con la bocca ch’era tutta una voglia e i capelli negli occhi, e le gambe coperte. — Si vergogna di qualcuno.
— Sarà per questo, — dico io, — che guarda sempre dall’altra parte.
— Tutta me l’hai strappata, — diceva Miliota con la mano nella sottana, — sembra che ho fatto la lotta. Mostro le gambe.
— Cosí state fresca, — dico, ridendo con Gisella. — Se qui faceste i bagni, ne mostrereste di piú.
— Noialtre il bagno lo facciamo nel fieno, — diceva Miliota.
— Perché non lo caricate di notte? si starebbe piú freschi.
— Di notte la Pina non avrebbe vergogna, — sghignazza Talino.
— Ieri notte però c’era il soffoco, non si vedeva neanche la luna.
— Si vedrà questa notte e chi sa che bel fresco, — grida Gisella. — Chi sa che bel fresco!
Poi ridiamo e sentiamo la Pina che chiama «Oh Gisella!» e lei dice: — Quella goffa, tanto grida che il Pa’ sente — ; e ci alziamo e loro due se ne vanno sul prato e noi saliamo verso casa.
Quella sera non veniva piú notte, e la vecchia mi trova nella stanza delle mele e mi chiede chi ero perché al chiuso non ci vedeva piú bene. Io le dico che mangio una mela di sua figlia, se è permesso, per lavarmi la bocca. Lei che sembrava davvero una mela secca, corre alla finestra, guarda in cortile, poi cerca di vedermi meglio e borbotta, borbotta. — Manca Pietro, — diceva, — ci siete voi, manca Pietro. Per l’amore di Dio. Siete come fratelli. Me l’ha detto Talino che vi siete aiutati. Che disgrazia che è stata.
— Quale disgrazia?
La vecchia leva il mento e mi prende una mano. — Per l’amore di Dio, — diceva, — per l’amore di Dio.
Poi vedo che sgocciola, e non so cosa fare.
— State su, non è niente, — le dico.
— Non avete incontrato nessuno? State attenti di non incontrare nessuno. Fate compagnia a Talino...
— È già grande, — le dico.
— Ma è ben questo. Lui scherza come fosse figliolo e non pensa mica che ci sono gli altri e che la gente parla...
Insomma, era tonto: cosa che sapevo. Non diceva però, la vecchia, ch’era anche carogna e pigliava in mezzo la gente. A cena li lascio parlare di Ernesto e mi studio la Pina; con Gisella facevo finta di niente. La Pina sembrava una serva e meno male che guardava nel piatto e non storceva piú gli occhi. Era tracagnotta: un torello, se non fosse stata una donna. Mi piaceva quella pretesa di far l’amore con me; almeno fosse stata Miliota, che di qualcosa sapeva; ma anche Miliota a pigliarle la vita c’era da rompersi il braccio. Pensavo alla schiena di quel Pietro che aveva sposato l’Adele: o se l’era già rotta o portava il quintale.
Gisella sí, che andava bene: c’era la differenza da un sacco a un cuscino, e poteva star bene anche in costume da bagno. Mi era venuta incontro lei la prima, pensavo: si vede che anche il fisico ha le sue simpatie e capisce senza parlare.
L’idea di vederla girare per quella cascina in costume da bagno, mi faceva ridere, e mangiavo ridendo, e Gisella anche lei mi guardava. Poi sul trave sudavo, perché la veglia non finiva piú e me ne stavo allo scuro a sentirli discorrere, e il vecchio Vinverra aveva già sbadigliato due volte e l’Adele non la smetteva di farlo parlare. Dicevano la loro anche i piú piccoli, e i grilli di tutti quei prati.
Quella notte era nuvolo e tiravano lampi di caldo che sembravano finestre. L’Adele diceva sempre ancora qualcosa e Talino le faceva il contrabbasso.
— Ernesto ha voluto vedere se c’è il macchinista, — dicevano.
— Ognuno il suo mestiere, — rispondeva il vecchio.
— Ma lo sa il suo mestiere?
— Chi sa come si morde le dita per aver lasciato tornare Talino con un altro macchinista.
Allora mi alzo e dico: — Se l’ha lasciato tornare, può anche rimandarlo indietro.
— Lui, ma non voi, — dice l’Adele.
— Meglio ancora.
Poi cominciano i cani a gridare. — Sulla Grangia è spuntata la luna, — dice Gisella; e se Dio vuole andiamo a letto.
Dico a Talino: — Va’ di sopra, vado fin lí e ritorno — . C’era proprio la luna, una luna pesante, colore del caldo. Mentre andavo alla cisterna pensavo che quella notte dell’incendio tutta la stoppia era stata un grano, alto e maturo, e se avevano visto Talino in mezzo al grano, figurarsi me. Non poteva invitarmi sotto quelle piante dove avevamo parlato?
Quel pozzo era un muretto rotondo, proprio sull’orlo della strada, e piú in là c’era un ciuffo di canne che nascondeva la collina. — Verrà dalla strada, — dicevo, — e andremo nelle canne, — e mi butto dietro al muretto per non essere esposto e sento le pietre sotto. — Pur che venga, saprà lei dov’è l’erba; lo sanno sempre, — e mi metto a fumare per fare qualcosa.
Faceva piacere star bassi perché c’era piú grilli che stelle e ogni tanto le cagne su per la collina si davano una voce, e metti che qualcuno mi girasse intorno, in quello scuro non lo sentivo arrivare. Le canne di là dalla strada scricchiolavano. Avevo sempre creduto che di notte la paura nascesse dal fresco, ma là faceva caldo e la schiena non mi stava ferma lo stesso. Fossi almeno sicuro che Talino non viene a cercarmi, pensavo; poi faccio: — Sei stupido. Se ha paura anche a uscire di giorno!
Oh Berto, mi dice una voce, e se cercano te, non Talino?
— Chi? — dico io, — case non ne ho bruciate; e, se è per Ernesto, non me l’avevano detto ch’era lui il macchinista.
Poi mi viene la rabbia di essere cosí stupido, e ascolto i grilli e non dico piú niente. Meriteresti, — pensavo, — che non venisse Gisella: è una donna e lei si non dovrebbe uscire di notte. C’era un po’ di vento sulla stoppia, ma cosí pigro che non si portava via il fumo; e solo come un fiato rinfrescava e schiariva la voce dei cani. Un bel momento sento dall’aia anche il nostro che scatta rabbioso.
— Se fosse Gisella, le farebbe le feste, — dico, — maledetta la luna.
Allora mi metto a pensare che cosa voleva dirmi Gisella e che cosa mi avrebbe lasciato fare. — Qui, sotto la luna, non vorrà, — dicevo; — e se volesse soltanto parlare? — Ma ridevo perché, raccontandole della collina che sembrava una mammella, sarei venuto sul discorso.
Aspetto sempre, e la luna saliva. Non levavo la testa da terra e sentivo anche le scosse che le voci dei cani davano alle pietre. La canzone dei grilli era cosí forte che non si sentiva piú. Non mi muovevo e mi cascò la sigaretta. Chiunque venisse saresti contento, pensavo.
— Che mi faccia aspettare per vedere se sono di fegato? — dico; e allora salto su per sedermi sul pozzo, perché tutto d’un colpo mi era venuto in mente che, se dall’aia non vedeva nessuno, Gisella non veniva. Mi alzo in piedi e mi metto a ridere, per farmi una faccia.
Rido rido, e mi fermo perché diventavo matto. Qualcuno dalla stoppia mi aveva risposto ridendo, ma non era Gisella: era un verso da bestia, che sembrava una vecchia, una voce da battere i denti. Vado tutto in sudore. Poi la vedo fermarsi a metà della stoppia, una cosa nera che si muoveva adagio e che ride di nuovo, da sola.
Era una capra. Mi siedo contro il muretto e la guardo, la guardo, perché veniva proprio da me. Fortuna che non c’era Gisella e che non mi vedeva. La capra si ferma a tre metri, mi guarda; poi piglia la corsa di fianco e si butta nelle canne come un camoscio. Fece un po’ di fracasso, e poi silenzio.
— Berto, vatti a nascondere, — dico voltandomi da tutte le parti. — Se ti avesse veduto Talino!
Ero tranquillo adesso, come se mi fossi cavato del sangue. Ma Gisella non veniva, e accendevo e fumavo e la stoppia era un po’ bianca e un po’ nera, secondo che andava la luna, e si levò il vento e le canne scricchiolavano forte coi grilli, e tutti i cani dormivano. Veniva sonno anche a me. Poi le nuvole se ne vanno e tutto resta come un mare di luna, che faceva vedere dietro la cascina il capezzolo scuro di Monticello. Stavolta rido dalla rabbia, e concludo che l’avevo saputo fin dal principio che anche Gisella mi prendeva in giro. — Questo è il paese di Talino, Berto. Magari era d’accordo con Talino, e tu stai qui a farli ridere — . Butto la cicca e m’incammino.
«Che fosse per prima di cena? — pensavo. — Eppure ha detto stanotte». Se uno comincia non si ferma piú. «Te l’ha detto Talino, — pensavo, — che faceva l’amore con l’altro. Tu davi noia, e ti ha mandato via per ricevere l’altro. Meglio cosí, — dicevo, — perché cosí almeno non parla».
Per non svegliare il cane facevo il giro della casa e volevo passare dal cortile. Qui c’era l’ombra della luna e qualcuno che fosse nascosto nei portici dietro la stalla, poteva scannarmi in pace. Attraverso dal cortile per guardarmi le spalle, e salgo lo scalino della stalla. Sento che la corda resiste di dentro, poi la porta si apre, e mi viene addosso Gisella che quasi gridavo. Mi spinge indietro, chiude la porta con la schiena, e restiamo nel sottoscala del portico.
— Zitto, — e mi chiude la bocca. — Talino è tre ore che aspetta.
— E io no? — dico, tenendole la vita.
Sento che ha i piedi scalzi e sento l’odore del fieno. Lei voleva parlare, ma io non la lasciavo. Allora fa un poco di lotta e diceva: — Se viene il Pà, se viene il Pà!
— Son tutti svegli in questa casa? Volevi o non volevi parlarmi?
Allora Gisella si lasciò portare sul fieno, dicendo di far piano, ma restò in piedi. Era cosí scuro che sentivo soltanto il suo sudore. — Perché non sei venuta alla cisterna, — le dico, — avevi paura, eh?
— C’è Talino che guarda la stoppia, — mi dice. — Non potevo uscire sull’aia. Ma tu perché mi dài del tu?
— Di notte si dà del tu...
— No, no, — diceva lei, — lasciami andare. Volevo soltanto vederti. È troppo tardi.
— Che cosa volevi dirmi?
— Niente. Talino è di sopra che ascolta. Parleremo domani, domani...
Mi spinge sul fieno e scappa via. La lascio andare e le bestemmio dietro, ma senza rabbia, perché tanto era scuro e avevo piú voglia di vederla svestita che di stenderla, e mi sarei ben divertito un’altra volta. Tanto, venuta era venuta.
Di sopra, trovo Talino che fa finta di dormire, disteso sul materasso, con solo i calzoni indosso. Mi fermo a guardargli il torace e pensavo: «Sarebbe meglio se tu fossi Gisella». Lassú arrivava un po’ di luna, e gli vedevo la pellaccia bianca, che pareva impossibile fosse la stessa di Gisella.
— Salame, — gli dico, — se tieni la pancia alla luna, ti viene il catarro — . Allora si drizza. — Se hai caldo, — gli dico, — va’ a fare un giretto.
— Da dove vieni? — mi dice. — Lo sai che è scappata una capra?
— L’ho veduta nelle canne. Valla a prendere, va’.
Quando non rideva. Talino faceva degli occhi che sembrava lui un caprone.
— Sei andato alle canne? A far cosa?
— A spasso. A vedere se Rico era là col coltello per tagliarti la testa. L’ho visto e mi ha detto che ti aspetta, e si è preso la capra.
— Davvero? — mi chiede.
Ci svegliò Vinverra per quella maledetta capra, e mi toccò vedere il sole che non ne avevo proprio voglia. Li lascio correre gridando, e andarci Talino, e sento che discutono nella stalla, ma lui non dice mica che l’aveva veduta, dice solo che dev’essere andata lassú. Mentre fumavo dal portico in quel primo sole fresco, pensavo: adesso mi lavo nel secchio, poi mangio, poi parlo a Gisella, poi faccio il mio giro in campagna; senza Talino è una villeggiatura.
Trovo l’Adele e Gisella che giravano in cucina, e la vecchia che scendeva la scala delle stanze, con dei salti sull’unghia nera dei piedi, che le mancava solamente di fare quel verso.
— L’ho veduta stanotte alla cisterna, — dico, perché senta Gisella. — Credevo l’aveste mandata in pastura.
La vecchia gridava che, se la capra si faceva del male, perdeva il latte, ma: — State tranquilla. Ma’, — le diceva l’Adele, — sono andati a cercarla — . In quel momento salta fuori Nando e uno piú piccolo, e la vecchia comincia a maltrattarli: — Vagabondi che siete, la robinia vi piace mangiarla, cercate anche voi.
Io, l’Adele e Gisella ci guardiamo ridendo, e l’Adele diceva: — Se gridate cosí mi spaventate e perdo il latte anch’io, — e rideva accendendo il fuoco e guardandoci, e cosí chinata sul riflesso sembrava quasi una Gisella piú vecchia. — Sono proprio sorelle, — dicevo, — ma al primo figlio non sono piú loro.
Poi vedo che Gisella prende il secchio di legno per andare alla stalla, e mi alzo e dico: — Vado anch’io a cercare quella bestia — . Ma i due gorbetti ci vengono dietro e si fermano con noi sulla porta della stalla. Gisella mette il secchio sotto una vacca e comincia a mungere. Maneggiava la poppa come fosse la sua. Faceva gola vederla chinata cosí.
— Senti, — dico a Nando, — come grida tuo padre! Va’ a cercare la capra.
— Poi mi lasci pulire la macchina?
— Poi ti do da fumare.
Partito Nando col socio, aspetto che Gisella mi guardi.
— Troviamoci qui stanotte, — le dico.
— A far cosa? — mi chiede.
— A parlare.
— Domani è domenica, — dice Gisella.
— Ebbene?
— Andate a messa a Monticello?
— Se gli altri vanno, resto qui.
Gisella comincia a ridere maliziosa e a far segno con la testa.
Io la fisso, piú malizioso di lei. — Ci vado stasera, — le dico. Poi ti aspetto in fondo al prato, sola.
— Non avete paura del Prato? — dice lei con l’aria tonta.
— Non ho avuto paura della cisterna, — rispondo, e Gisella mi guarda, mi guarda.
Poi la Pina tornò con la capra, e facevano il paio, nere e sporche tutte due, con quegli occhi spaventati. Nando correva avanti dicendo che l’avevano trovata nei nocciòli, e Vinverra se la prese con le ragazze, perché non l’avevano trovata prima. Restammo sull’aia con Vinverra, che voleva che dessi ancora un’occhiata alla macchina; e mentre Vinverra studiava la cavezza della capra per capire come s’era slegata, Nando mi raccontava che una volta ch’era andato in pastura una capra non tornava e l’aveva cercata e chiamata, e lei non rispondeva ma si sentiva come piangere, e il giorno dopo era tornata, ma mungendola non dava piú latte, perché l’aveva succhiata la biscia.
— Fuma e sta’ zitto, — gli faccio, e gli passo la mia sigaretta, e lui comincia a tirare e s’incammina verso la tettoia della macchina.
Una volta soli io e il ragazzo, ripasso tutta la battitrice, stavolta sul serio, perché se quell’Ernesto del Prato se ne intendeva, non poteva mancare di farmi l’esame, quando avremmo battuto il suo grano. Qualcosa sul trattamento che ci avrebbero fatto le cascine lo seppi da Nando, e mi disse che ogni piazza era come una fiera dove chi andava e chi veniva, si faceva la festa, c’era tavola aperta, e alla sera si cantava e beveva come alla sfogliatura. Dalla porta della tettoia si vedeva la collina della Grangia con quella punta pelata, e cominciavo a pensare che accudire una motrice sotto il sole di mezzogiorno in quei cortili lassú era peggio che cuocere al forno.
Proprio allora arrivava Talino, con la solita fiacca, e si mette a voltare per finta lo strame dei buoi. Poi ci grida attraverso la porta: — È lí Nando? — Glielo mando nella stalla e Talino gli fa la lezione sulla pastura di quel giorno, che guai a lui se tornava troppo tardi o se legava molle un’altra capra.
— Ma se ieri le ha legate Gisella, — dice il ragazzo.
Allora grido io: — Perché non sei sceso tu. Talino, quando l’hai vista scappare?
Talino borbotta, e poi dice: — Bastarda Gisella — . Sento aprire la porta della stalla sul cortile, e l’Adele che dice: — Il piú furbo è arrivato — . Poi si muovono i buoi, sento una botta e Nando che grida «Vigliacco!» e Talino bestemmia.
Era come al teatro, e dando una voce arriva Vinverra. Dalla tettoia li sentivo gridare tutti insieme. La piú arrabbiata era l’Adele che ce l’aveva con Talino, perché, diceva, quand’erano soli si viveva d’incanto e adesso tanto rumore per una capra. Poi il discorso cambia, e Talino se la piglia con me che l’avevo veduta nelle canne e non l’avevo acchiappata. Che cosa facevo a quell’ora nelle canne?
Allora butto lo straccio e vengo avanti, sulla porta. Guardo Talino, li guardo tutti, Vinverra dà mano al tridente per voltare lo strame, ma prima mi sentono. Dico soltanto: — Parliamoci chiaro. Di là c’è una macchina. Sono qui per la macchina e non per fare la guardia né a te né alle bestie piú furbe di te. Non capisci che secchi? Va’ a bruciare le case. Qui nessuno è una capra che ti deva dar conto dove va e cosa fa.
Quando non erano in campagna, le ragazze stavano dietro la cucina nella stanza del torchio, ch’era lunga, senza mattonato e senza finestre, e piena di cipolle, di patate, di zappe e di roba. Là dentro, voltando le spalle alla porta, faceva buio come in un sotterraneo.
— Dove dormite voialtre? — chiedo alla Pina, sullo scalino.
— Dormiamo di sopra, nelle stanze del grano.
— E i lenzuoli? — dico guardandole i piedi che sembravano blocchi di terra.
Pina credeva che le guardassi le gambe, e storceva gli occhi e stringeva le ginocchia.
Sta’ tranquilla che non te le tocco, pensavo. — Andare scalzi, si perde l’odore, — le faccio, — ma i piedi s’ingrossano e la pelle diventa una scarpa. Talino ha la schiena bianca. Voi no?
Ma quella goffa non capiva neanche che le facevo il discorso che aveva voluto.
— Non lo so mica, — dice. — Non possiamo vederci la schiena.
— Ma le cosce sí. Non ve le siete mai viste?
La Pina si mette a ridere dalla vergogna, ma il rosso non si vedeva. Tracagnotta com’era, faceva rabbia. L’unica che sapeva diventar rossa, in quella casa, era Gisella.
— Voialtre somigliate a Talino, — dico per dire. — L’unica che non somiglia a Talino è Gisella.
— Gisella è piú bianca di tutte, — dice la Pina, come un toro. Ma poi si ferma perché capisce che solo questo m’interessava. Allora le chiedo se lei e Miliota ch’erano piú vecchie, non si sposavano ancora. Ma lei testarda diceva di no.
Gisella che tornava allora dalle galline, ci vide parlare e si fermò a distanza.
Io dicevo: — La pelle bianca nelle donne non è mica bella. Ci vuole un colore bronzato, un’idea.
La Pina dà mano a una patata che c’era in un sacco, e borbotta: — Cosí?
— Un’idea piú molle, — le dico, e sotto guardavo Gisella che rideva.
Me l’aveva promesso, Gisella, che prima di notte ci saremmo veduti nel prato. Aveva un modo di rispondere con gli occhi, Gisella, che metteva anche lei l’incendio alla Grangia, come Talino. Non l’ho detto ma prima, nella stalla, quando mungeva, avevo preso anch’io la poppa e le sue dita, e tirando insieme s’era versato un po’ di latte. — Sta’ bravo, — mi aveva detto lei nell’orecchio ridendo.
La porta era aperta e potevano tornare gli altri. Allora mi ero alzato e avevo acceso, e le guardavo i piedi, ch’erano spessi a forza di andar scalzi.
— Quando vai a messa, metti le calze? — le avevo chiesto.
Allora Gisella aveva steso la gamba come una ballerina, stando seduta e guardandomi sempre.
— Non è bella cosí?
La gamba era scura ma forte. — Tira su, — le dicevo senza muovermi, — è dalle ginocchia che si conosce — . Lei si era messa a ridere, fissandomi negli occhi fino al midollo.
E adesso un’altra, sorprendendomi a discorrere con la Pina, mi avrebbe fatto una scenata, ma non lei, che mi capiva.
— Ho già sete al mattino, — dico alla Pina. — Come picchia il sole!
Quell’acqua che sapeva di ciliegia, era nel secchio in cucina e tutti quanti la bevevano al mestolo, compresa Gisella. Mentre mi empivo la gola, l’Adele che pestava l’aglio, mi chiede se quella sera andavo a Monticello.
— Solo? — mi fa.
— Spero bene.
— E non avete paura delle strade la sera?
— Non sono mica Talino.
L’Adele non la vedevo bene, perché tra il fumo e il sole di prima, tutta la cucina era un pozzo; ma sento che ha una voce divertita e mi fa: — Se volete che vi vengano incontro, mettetevi per strada appena mangiato. Perché poi fino a sera c’è da mettere su il fieno e lavoriamo tutti.
Quando le donne parlano ridendo è come un uomo che vi prende da parte per darvi un consiglio.
Poso il mestolo e dico: — Andrò sí, e torno in tempo per dare una mano alle ragazze.
— Siete mica obbligato, — fa quella.
— Non lavoro per obbligo.
A pranzo andò bene che uno dei piú piccoli si ficcò nelle gambe della vecchia e la fece cadere con un piatto di minestra in mano. Il bambino gridava, ma la vecchia s’era scottata e fece confusione, e cosí con Gisella ci mettiamo d’accordo. Vinverra, che quando voleva non era uno stupido, invece di battere il ragazzo gli disse soltanto: — La nonna la deve ammazzare Talino, non tu.
Mezz’ora dopo avevo già fatto segno a Gisella, e camminavo sotto le piante in fondo alla collina, sulla strada di Monticello. Faceva caldo come una stanza chiusa, e pensavo seccato: — Avercela in casa e doverla andare aspettare nei boschi!
Avrei voluto che Talino mi venisse dietro, era la volta che mi levavo la voglia. Pazienza di notte, dicevo, ma di giorno dovrei sentirmi le spalle tranquille. Di dove ero fermo non vedevo piú la cascina ma solo gli ultimi mucchi di fieno che aspettavano il carro. Gisella doveva uscire di lí.
Arrivò quasi subito, senza correre, e saltò dalla strada.
— Ti hanno vista? — le chiedo.
— Fanno il sonno.
La prendo e le dico: — E noi non lo facciamo?
Cercammo un posto sull’erba e ci sedemmo. Gisella si lasciò baciare e intanto diceva: — Parliamo, è meglio. — Di che cosa? — le dico sui denti, e intanto la cerco.
Gisella non voleva, e diceva: — Perché, perché? — Ma perché siamo soli, — le faccio, e ci alziamo insieme.
Ero appoggiato a un albero e vedevo la strada. Non si muoveva neanche un’ombra di foglia. — Lo sai che si suda? — le dico. — Ci vorrebbe un bagno.
Gisella mi guarda, diventa rossa, guarda intorno, poi dice: — Se facciamo presto, so l’acqua — ; e si butta sotto le piante, e io dietro. Andava svelta e qualche volta le vedevo soltanto una gamba e la sentivo ansimare. Adesso sí, siamo soli, pensavo, e siamo in mezzo alle mammelle. Ogni tanto c’era un sentiero aperto ma si vedeva solo piante e cielo caldo: le due colline non salivano abbastanza.
— Gliel’hai detto all’Adele che venivi con me? — le chiedo saltando.
Gisella si ferma e mi aspetta. Sento il rumore dell’acqua e gliela vedo luccicare sotto i piedi. Dietro a lei s’apriva il cielo perché le piante diventavano salici bassi. Allora mi fermo e la sento che ride e si rovescia sull’erba. Le cado addosso e facciamo la lotta.
Sembrava ancora che corresse anche distesa, e parlava come una matta e, non appena la lasciavo, si copriva con la gamba, di traverso. Era tutta sudata, come una lingua. Le dicevo; — Da Monticello non vado piú via... da Monticello non vado piú via, — mentre lei mi tirava i capelli.
Poi colla testa sulle mammelle ci riposiamo, e le sentivo il cuore battere. Batteva anche il mio ma lei non poteva sentirlo. Eravamo in una conca che le foglie toccavano l’erba, e faceva quasi buio, tanto era il sole sulle piante. Ascoltando si sentiva il rumore dell’acqua sotto il sole.
— Qui nessuno ci vede, — dicevo, — svestiamoci, andiamo nell’acqua.
Lei senza levare la testa, mi teneva le mani e diceva: — Ci sono le cicale che ci vedono, non senti?
— Hai vergogna delle cicale o di me?
Allora si lasciava carezzare, fiacchi com’eravamo, e diceva delle cose piano, e chiudeva gli occhi, e poco alla volta il sole correndo sull’erba le venne a cadere sulle gambe fino alla vita. Io le dicevo: — Tanto è scuro — ; e lei si lasciava guardare. Aveva la pelle bianca e ferma, era un piacere. La guardavo di sbieco come si guarda l’erba, e lei non sapeva che aveva le ginocchia nel sole.
— Oh Gisella, hai già fatto un bambino?
Lei fece un salto e si coprí.
— Cos’è quel segno? hai avuto una piaga?
— Che cosa? che cosa hai visto?
Si confondeva, povera diavola. — Non fa niente, Gisella, — le dico. — Mettiti giú, fammi vedere.
Lei si copriva e mi guardava, incerta.
— Hai fatto un bambino, di’?
— Sono caduta su un rastrello, — mi risponde dopo un momento. — Sono caduta davvero, mi sono tagliata.
— Non era mica il rastrello di Ernesto?
Allora cambiò gli occhi. — Sono proprio caduta. Avevo quattordici anni.
Mi prendeva la rabbia. Salto in piedi e la guardo. Gisella si copriva e non era piú lei.
— Se ti dico che con Ernesto ci parlavamo, mi credi? Ma la cicatrice è del rastrello, te lo giuro. Se avessi fatto un bambino, ce l’avrei.
Non fidarti delle donne quando ammettono il male, dice sempre Pieretto. Ma Gisella mi fece vedere, non aveva piú vergogna: la cicatrice non era uno spacco come fanno i bambini, erano unghiate alle radici.
— Hai giocato col gatto, — le faccio.
— Ho perso tanto sangue. Credevo di morire, — dice tenendomi la mano.
— E non ti fa piú male adesso?
— Se fai forte, sí — . Rideva già.
Allora mi alzo e accendo. — E cosa dice Ernesto?
Gisella mi guarda.
— Sí, non ha visto Ernesto? L’hai detto tu che ti parlava.
Gisella era già in piedi. — Parlavamo soltanto, — mi dice. — Non mi ha mica mai toccata, cosa credi?
— Gisella, — le faccio, — Gisella...
La guardo e vedo ch’era rossa, povera diavola, e non mi toglieva gli occhi di dosso. Rastrello o manico, con me c’era venuta, e ci sarebbe stata ancora.
— Gisella, sarò uno stupido ma non me ne importa. Làsciati vedere, perché mi piace vederti.
Ma ci sbrigammo, perché era tardi e voleva tornare. Adesso aveva un’altra vergogna: mi teneva la bocca contro l’orecchio e voleva sapere se la cicatrice non sfigurava. — Chi vuoi che la veda? — le dico, — tu a me piaci sempre.
— Io non vengo nell’acqua, vai tu, — mi dice dopo, — è meglio che torniamo separati.
Una volta cessato il rumore di lei che se ne andava, resto là fiacco sotto il sole e pensavo che a qualcuno l’avevo fatta. È un momento quello, che uno non ne ha piú voglia di donne; ma di andarmene come avevo fatto con Michela non mi veniva neanche in mente. Sarà perché Gisella era piú naturale, e appena in piedi guardava e si muoveva come un uomo, e cosí doveva aver fatto a suo tempo quando perdeva quel sangue. Chi sa che lagna, se fosse toccato a Michela! «Se fai forte, mi fai male», lei aveva detto, e basta.
— A buon conto, — pensavo, — l’ho fatta a Talino che ci tien d’occhio tutti due; l’ho fatta a quell’Ernesto che le tira ancora il rocco; ma lei a me non me l’ha fatta, perché lo sa che non ci credo che sia vergine — . Mi pareva ancora di vederla, su quell’erba.
L’acqua là sotto era una specie di Sangone, ma piú largo e piú basso, con dei pezzi di sabbia scoperta e piantine di salice, che non erano l’altra riva e non finivano mai. Traghetto con le scarpe in mano, e giro sulla sabbia e vado vado e traghetto ancora, ma non trovo nessun’acqua piú profonda e allora mi svesto e faccio il bagno che fanno ai cavalli. Poi per tornare non sapevo piú la strada. Vedo dietro un ciuffo d’albere la punta di Monticello e allora vado dall’altra parte, vado vado, la sabbia diventa erba, comincio a salire ma mi ero perduto. A buon conto, uscire da quella bassa era già un sollievo, perché ero stufo di pigliarmi delle storte sulle pietre bagnate e di correre sulla sabbia che scottava. Qui sí, che si può ammazzare uno in libertà, pensavo: chi sa Gisella se è tornata. Ma Gisella era l’unica che non aveva paura. Volevo chiederle quel pomeriggio che cosa sapeva della Grangia e di quel Rico, e me ne ero dimenticato.
Ero stanco che non stavo piú in piedi, e al primo prato mi butto sull’orlo, all’ombra delle gaggie, e lo vedevo tutto quanto e degli alberi in fondo e il cielo pulito. In mezzo a quegli alberi c’era una casa. Mentre fumavo, sentivo abbaiare dei cani e parlare nel vento.
— Che sia la cascina del Prato?
Quella campagna era verde, non come la stoppia di Talino e della costa. Qui dev’essere gente piú tranquilla, pensavo, qui non si pigliano i colpi di sole che regnano sotto la Grangia. Sentivo il cigolio di una secchia che veniva su dal pozzo, e pensavo a Gisella e avevo fame e bevevo l’aria fresca. A casa c’è quell’acqua che sa di ciliegia, pensavo, se mi tengo la sete bevo poi tutto in una volta.
Tra Gisella e che a casa mi aspettava quell’acqua, ero felice, e dicevo: — Vigliacco Talino! Non sei poi cosí stupido.
Ero fisso che la cascina fosse quella di Ernesto, e mi ricordavo il discorso di quel Berto di Bra quando diceva che quelli del Prato avevano risposto ai carabinieri che non era la stagione per andare testimoni. Sicché, se Talino non mi aveva preso in mezzo un’altra volta, l’unica che aveva denunciato Talino era proprio Gisella. Doveva essere dritto quest’Ernesto se faceva il macchinista e gli piaceva Gisella.
— Non andarci, stai bene cosí, — mi diceva una voce. — Questo è un nido di vespe. Per quadro che sia quest’Ernesto del Prato, a quest’ora lo sa che sei tu il macchinista e, se è in gamba, sa già che ti piace Gisella.
Ma, una volta che entro in quel cortile, trovo solo una donna, una specie di Adele piú piccola, che mi dice che non era il Prato, tutt’altro, che il Prato era di là dall’acqua: di dove venivo?
— Siete voi il macchinista di Torino?
Le chiedo da bere e lei mi porta in cucina, gridando al cane. Saltano fuori ragazzi.
— Battiamo lunedí, sicuro, — le dicevo, e lei mi guardava con quegli occhi piccini e mi chiede perché volevo andare al Prato. Le dico allora che avevo sentito che prima quel lavoro era di Ernesto, e se c’erano state parole tra lui e Vinverra.
L’altra ride come per forza. — Le parole ci sono sempre.
— Dico bene, volevo sapere per regolarmi.
Mentre bevevo, la guardavo sopra il mestolo e lei mi guardava.
— Non li conosco questi Vinverra, — le dico, — ma ho sentito molte storie. Chi comanda in quella casa?
— Cosa vi dànno?
— Da mangiare e da dormire... Perché? È poco? — le faccio. — Quanto davano a Ernesto?
— Ernesto ha della roba, — dice lei guardandomi come si guarda un disgraziato.
— L’avranno pagato le figlie, — faccio allora.
— Niente di piú facile.
Io rido cosí alla buona. — Credevo volesse sposare...
— Chi? Ernesto? Quando marita una figlia, Vinverra vuole il genero in casa per risparmiare il lavorante.
— E le figlie vorranno andarsene...
Ma l’altra sprangava, perché s’era accorta che avevo il mio scopo. Le chiesi allora la strada per tornare, e me la spiegò senza uscire dal cortile. Lei, i ragazzi e il cane mi stavano a guardare da dietro una pianta, e io andavo, sotto delle belle prune gialle che mi facevano gola, ma non potevo prenderne, per via di quegli occhi. Bisogna che chieda a Gisella dove sono le pesche e le prune, pensavo, o che vada con lei nella vigna.
Mentre camminavo sotto le piante e saltavo dei fossi, sentivo lontano qualcuno cantare, voci di collina che sembrano sperse e ramenghe fra il cielo e la terra, come una banda che suona nelle sere di vento. Non sapevo che in quel paese cantavano; non si vedeva mai nessuno, e se non era Gisella chi poteva essere? Quando finalmente sbuco davanti alla collina della Grangia, mi fece l’effetto di essere proprio grande e grossa. Quante vigne, quanta stoppia, quanti mucchi di piante, sotto il cocuzzolo pelato! Ce n’era sí della gente. Sembrava una carta geografica.
Se il vecchio credeva di prendermi fisso per lavorante, si sbagliava. Non c’era bisogno di sposarle, le sue figlie. Gisella, lavata e vestita, poteva fare la sua figura anche a Torino, ma anche lei era troppo ignorante. In un paese dove non c’era neanche un biliardo non mi pigliavano. «Bisogna che dica al vecchio di mettermi a dormire con lei invece che con Talino, — pensavo. — Allora si comincerebbe a ragionare».
Il tempo s’era tutto coperto, e andava a fare un bel soffoco quella notte.
Quella sera, sul trave, le ragazze non finivano piú di cimentarmi, e veniva tutto da Gisella.
Diceva che a quella sposa della Piana non piacevano i macchinisti, perché i macchinisti sono gente che gira e non hanno voglia di lavorare. E a quelli di Torino che parlano fino, non gli davano credito a Monticello. Mi faceva rabbia che Gisella fosse d’accordo con Talino, che ogni tanto diceva anche lui la sua e cimentava la Pina.
Un bel momento rispondo: — Non sono qui per sposarmi, ma se volessi, qualcuno potrebbe leccarsi le dita.
— Non si sa, — mi risponde Gisella, e mi guardava che pareva l’Adele quando piglia in giro Talino, — non si sa chi si leccherebbe le dita.
— Non dite novità, — fa Vinverra che dalla sua sedia si metteva e levava la cappellina, grattandosi in testa. — Domani, Ma’, impastate, e tu Talino e voialtre, ripassate i sacchi. Berto ti aiuterà.
— Qui si lavora anche alla domenica?
— Si lavora quando è necessario. La macchina è pronta?
— Anche subito.
Intanto si sente tuonare. — Vedrete Pa’ che stanotte piove, dice Miliota. — Le mosche mordono.
— Ti hanno preso per la vacca, — dice l’Adele.
— Adesso che il fieno è tagliato, si capisce che piove, — borbotta il vecchio.
— Guarda il macchinista che è andato a fare il bagno, non lo mordono, — diceva l’Adele. — Bisognerà che, dopo battuto, ci lasciate andare tutti alla Piana, Pa’, a fare il bagno anche noi.
— Ma cos’hanno stasera, — dico a Talino. — Sono peggio delle mosche, stasera.
— Donne, — risponde lui, — donne.
Era seduto per terra in modo che guardava nel cortile, e a un lampo di caldo gli vedo una faccia come quand’era in prigione. Nel cortile i bambini acchiappavano le lucciole, e i piú piccoli gridavano. Un bel momento Talino diventa feroce e grida lui. Tutti si fermano. Anche Gisella che parlava con la vecchia.
— Ebbene adesso?
— Lasciate ascoltare, — dice Talino nei denti, — vagabondi che siete, lasciate ascoltare.
Si sente il buio e il respiro del vecchio. Si sente dall’aia che il cane fa un salto. Poi si sentono i grilli. Una bambina fa un passo, e Talino bestemmia.
— Carolina, ti ammazzo.
— Sta’ ferma, — dice Vinverra, — cosa c’è, Talino?
Parlavano basso, e senza rumore i bambini sgombravano il cortile, venivano verso la porta. Per un po’ sto a sentire, poi dico a mezza voce a Nando: — Gli è di nuovo scappata una capra?
Scappa da ridere alle ragazze, e Talino si volta imbestialito e ci fa gli occhi, ma allo scuro non si vedevano bene.
— Avrà sentito tossire alla Grangia, — dice Gisella.
Parlavano tutti, anche la vecchia. — Ridete, — diceva Talino in piedi con la schiena al muro, — ridete, ma tu Gisella se non ci pensa Rico ci penso io.
— Allora pensaci prima di notte, — ribatte Gisella, — perché Rico ti cerca e lo sa che sei tu. Non è mica un carabiniere Rico. Con me ha già fin parlato e non ce l’ha con noi. Ce l’ha con te perché ti ha visto.
— Cosa ha visto?
— Ti ha visto.
— Chi ha visto? Sei tu che hai parlato, bastarda di una bastarda, che se ti prendo ti ammazzo.
Allora si mette a gridare Vinverra, e tanto gridava che si alza l’Adele come una vipera e li maledice perché le avevano svegliato il bambino. Tendiamo l’orecchio per sentire se piange, e per un po’ è solo notte, coi lampi e coi grilli, poi di colpo si leva una voce di là dal cortile, una voce di testa, da matto o da donna, che fa un urlo lungo e finisce, e il cane si sveglia e diventa matto.
Noi restiamo basiti, e appena il cane riprende fiato, quel grido si leva di nuovo e stavolta la voce era chiara e diceva:
— Talino le prende! Talino le prende!
— Da chi? — grida allora Talino alla strada, come un toro.
— Da Rico della Grangia, da Rico della Grangia! — Erano in diversi a gridare e non sembravano ubriachi; ma il vecchio Vinverra s’era alzato e diceva a Talino: — Siediti, goffo, hanno bevuto, siediti, adesso vanno a dormire — ; e l’Adele: — Lasciate che gridi, tanto non esce dal cortile — ; e i bambini erano corsi intorno alla vecchia sulla porta.
Chi piú nessuno lo teneva era il cane, che dall’aia faceva tremare la casa e, neanche allontanandosi gli altri, non si calmava. Quelli fecero il verso anche al cane, poi si capi che andavano a Monticello. — Stanotte ritornano sbronzi, — dico a Vinverra. Ma lui e Talino si erano già attaccati con Gisella e volevano sapere se era vero che aveva parlato con Rico e quando aveva fatto una cosa cosí. — Sei folle, — dicevano. — Sei la lingua del diavolo. Lo fai apposta.
E Gisella a ribattere che se Rico voleva, a quest’ora li aveva bruciati vivi tutti. Perché non aveva fatto niente, quando Talino era via? Invece, una volta era passato dalle canne e avevano proprio parlato e gliel’aveva detto che voleva pagare soltanto Talino, perché loro non gli avevano fatto niente e lui non era come Talino che faceva il male perché era una bestia.
— Mangiagrilli, — borbotta Talino.
Nando o un altro gli scappò da ridere.
— Hai capito. Talino, — gli dico, — sta’ attento, l’hanno proprio con te.
Quella sera Talino passò in cucina a bere un sorso, e piú beveva meno stava fermo e sudava sul collo come avesse preso la pioggia. Lascio che bevano lui e suo padre, e mi trovo sui passi di Gisella che andava a posare i tridenti nel portico. Quando mi passa vicino sto un momento a sentire l’odore che aveva, e lei mi poggia la faccia sulla spalla e le dico: — Va bene, Gisella? — Lei si sfrega come il gatto e ci diciamo che noi due stavamo bene, troppo bene, perché eravamo fatti apposta uno per l’altro.
— Vieni a messa, domani? — mi dice Gisella.
— Al mattino mi piace dormire. Se mi vieni tu a svegliare, magari.
— Io vado presto con Miliota. Ti chiamo quando torno e siamo soli. Ma tu non vai a messa?
— Non ho tempo.
Intanto tuona, sempre piú forte, e cominciano a volare le foglie. Si spargono tutti per la cascina a chiudere gli scuri e mettere le cose al coperto. Talino resta sul trave nella luce della porta e io accendo l’ultima sigaretta e me lo guardo, ridendo.
— Dunque vogliono farti la pelle? — gli dico un bel momento mentre si asciugava la faccia.
Ma il vecchio chiama anche lui dalla stalla e gli dà del bastardo, e Talino grande e grosso si alza e va. Il brutto di quella campagna era qui, che la sera finiva appena cominciata, e con quei tuoni non c’era neanche da sperare una notte tranquilla. Meno male che mi ero stancato e le ossa mi facevano male, ma un giro al caffè mi sarebbe piaciuto e anche un colpo al biliardo. Altrimenti era come alle Nuove: s’accende la lampada e si va nella branda. Ma aspetta che conosca il paese, pensavo, e allora o mi date Gisella da portarla in campagna o fino al mattino non mi vedete piú, e in un caso o nell’altro non mi vedete lo stesso. E tu Talino, se hai paura, gràttati.
Poi salgo, deciso a dormire, nel nostro portico sopra la stalla e accendo un’altra sigaretta. Quando spunta la testa di Talino su dal buco della scala, ecco che fuori viene giú che Dio la manda.
Ma durò poco. Noi stavamo allo scuro a pigliarci gli spruzzi che volavano, e Talino guardava il lenzuolo dell’acqua, e non parlava.
— Dovresti esser contento, — gli faccio. — Con quest’acqua chi vuoi che giri di notte?
Poi l’aria si rinfresca che respirarla è un piacere, e si vedeva la campagna e tirava vento e si rompevano le nuvole. L’estate è cosí. In un momento ritornò il sereno e non c’era che luna e collina, fresche e lavate come sotto i lampioni. Queste sono le notti che Gisella fa il bagno, pensavo; che si toglie il sudore e si rinfresca la pelle. E guardavo Talino e la sua zucca, e non mi andava giú che, di poco, anche solo di poco, somigliasse a Gisella. Ma era già molto che non si somigliassero in gofferia.
— Talino, — gli dico, — tu sei grand’e grosso; possibile che Rico ti faccia paura? Non sarà mica un toro.
— Sicuro, — grida lui saltando in piedi. — Andiamo subito.
— Dove?
— A pigliare un po’ d’aria.
C’era solo da sfondarsi le scarpe, ma Talino mi dice che a quell’ora era già asciutto. — Sono stracco, — gli faccio. E Talino, ch’ero giovane e avevo la sua età.
— Che età hai? — gli chiedo.
— Ventisei — . Carogna, pensavo, devo anche venirti dietro di notte. — Sei tu il primo dei tuoi?
— No, — diceva lui, cercando in un angolo. — Prima c’è l’Adele e la Pina — . Poi viene alla luce e teneva in mano una roncola larga quattro dita. Se l’attacca di dietro, alla cinghia, e scende la scala. — Andiamo.
— Dove andiamo?
— Da Ginia.
E allora andiamo, a cercare questa Ginia. Ci mettiamo per la strada della cisterna; e non sapevo neanch’io perché stracco com’ero gli andavo dietro. Sarà stato il sereno, sarà stato che da un pezzo non giravo piú di notte, non dico di no; ma era anche che uno scatto cosí da Talino non me l’aspettavo. — Dove sta questa Ginia? — gli dico, passando davanti alle canne. Lui tira dritto come un mulo, e non risponde. Dopo un poco la strada comincia a salire, e lí non c’ero mai stato. Da una parte era stoppia, dall’altra un muro di tufo, tagliato nel vivo. Per quanto mostrava la luna, sopra c’erano vigne. Andiamo andiamo, che si sentivano i nostri passi. A una svolta guardo in giú e vedo la cascina che sembrava schiacciata nella piana. Allora mi fermo e dico: — Ma non c’è la Grangia in cima?
Fu la volta di Talino, e mi dice: — Hai paura? Noi andiamo per la nostra strada.
— Come? — faccio, — e quel pagadebiti che hai preso? Non voglio mica passare per complice.
Talino non mi ascolta neanche e tira dritto. Dopo un bel po’ sento un cane che abbaia e vedo Talino che mi fa segno. — Non sia mai detto — . Con due salti gli sono vicino e la marcia riprende. Vuole darsi delle arie, pensavo; si vede che Ginia lo tira.
Case non se ne vedevano, ma stradette ogni tanto che sparivano sotto le piante. Bel posto lassú, ma venirci di giorno. C’era perfino degli alberi in un campo carichi di frutta color della luna, e volevo fermarmi. Dall’altra parte della valle si vedevano i lumi di Monticello; ma tutto il vuoto era come una nebbia e neanche il mammellone si vedeva bene. Cominciava a far freddo, e io a sudare.
— La tua Ginia ce ne darà da bere? — gli chiedo. Non so perché ma avevo in mente che tenesse un’osteria. Un’osteria là in punta.
Ecco che siamo a una svolta dove non si vedono piú piante e il vento si fa freddo, e non c’è piú che un gran campo pelato che saliva nel cielo come un’altra mammella.
— Non vuoi mica fermarti in questa corrente? — dicevo, e Talino si ferma e dà mano alla roncola. La strada correva in piano, girando intorno al campo. — Cosa c’è? — dico sottovoce; ma lui non mi sentiva piú, e in quel momento avrei voluto essere ancora a Torino. Non pensavo nemmeno che Talino mi aveva preso in mezzo un’altra volta; gli camminavo dietro con le unghie fuori, verso un salto della strada di dove sporgeva una casa nera, senza una pianta intorno. Attraverso una finestra, mi ricordo, si vedeva il cielo, piú chiaro.
Di qui a un momento si sente gridare, pensavo, di qui a un momento è la casa del diavolo. Talino scalzo andava adagio, a passi lunghi. Io mi fermo e lo vedo chinarsi, e lo sentivo respirare. Mi accorgo allora che quella notte non c’era un grillo che cantasse. — Talino, — dico appena, — Talino — , Poi sento il fracasso di una pietra sui tetti; e Talino ancor teso in avanti, che ascolta. Nessuno rispondeva alla sua pietra.
Alla seconda che tirò, prese una finestra, perché tendiamo l’orecchio e non la sentiamo cadere. Mi accorsi allora che quei muri erano vuoti, e neri come una cicca bruciata, e che il tetto era mezzo sfondato. Vengo adagio vicino a Talino, e Talino si volta dicendo: — Bastardo.
— Per chi mi hai preso, per Rico? — gli dico, senza perdere d’occhio la finestra.
— Non c’è nessuno, — fa lui come uno stupido. — Non c’è piú nessuno.
— L’hai ridotta in un bello stato, bestione. E adesso fai il coraggioso coi vetri?
Lui torna a chinarsi, per raccoglierne un pugno.
— Chi vuoi che stia ancora là dentro? Ci ha piovuto come in un pozzo. Vieni via.
Talino gettò ancora la sua manata, e le sentimmo tempestare sulle tegole e sui muri, e perfino su una lastra di zinco. Finito il rumore, nessuno rispose. Talino allora gridò: — Ohi della Grangia! Talino di Vinverra è qui fuori! — Faceva effetto quella voce nel vento. Lo prendo per la camicia e lo tiro indietro.
Ma Talino si ferma ancora sull’orlo e si studia quei muri, come se non li avesse mai visti. Sotto la luna sembravano ancora piú scheletro, il vero quadro del terremoto.
— Vieni via, ti ho già detto, voglio discorrere.
— Si può sapere, — gli faccio, una volta in discesa, — si può sapere che cosa ti ha preso?
— Allora Rico sta ai Mulini, — dice lui, senza farmi caso; — sta proprio ai Mulini.
— Senti, gli hai già bruciata la casa a quel diavolo. Lascialo vivere, ché lui vivere ti lascia. Non è ancora abbastanza?
Ma il coraggio di Talino era presto finito. Davanti a noi sentiamo dei passi e una voce, e Talino mi prende per il braccio e mi ferma. — Chi sarà?
— Sarà Rico. L’hai chiamato e lui viene.
Spuntano due ombre sotto la luna, due ombre che salgono svelte e non parlano piú. Talino si ficca la roncola dentro i calzoni e mi dà una ginocchiata in un fianco. Io bestemmio e conosco quei due: erano carabinieri.
Si fermano, moschetto a tracolla, e piú che Talino guardavano me.
— Che cosa facciamo a quest’ora, in campagna? — chiedono a Talino, che li guardava ghignando.
— Sera fresca, — dice lui.
— E voi, — mi fa l’appuntato, — di dove venite?
Tiro fuori le carte, mi accendo una sigaretta e poi col cerino gli faccio lume.
— È il macchinista, — dice l’altro.
Quando il cerino mi brucia le dita, faccio per prenderne un altro, ma l’appuntato chiude i fogli e me li ficca in mano, dicendo: — Perché avete lasciato Torino?
— A Torino non battono il grano, — dice quel goffo di Talino.
— Dovete passare in municipio per il permesso. L’avete il libretto di macchinista?
— Ce l’hai? — fa Talino.
— L’avete aperto un momento fa, — dico al carabiniere ridendo. — C’è poca luce, questo è vero.
Lui mi guardava con gli occhi sottili, sotto la luna. — Dovete denunciare lavoro e residenza. Al piú presto.
Poi si staccano, e a tre passi ci dice ancora: — Buona notte.
— Buona notte, — fa l’altro.
— Buona notte, — diciamo noi, e scolliniamo. Talino adesso scherzava. — Sei andato a scuola, — diceva, — per finire in prigione come un vagabondo?
— Sono loro che ti hanno impacchettato? — gli faccio. — Sta’ attento.
Lui parlava già d’altro. — Domani andiamo a cercar Ginia.
Io ero stanco da non alzare piú i piedi, e pensavo a quei disgraziati che dovevano perlustrare tutta la notte per dei dritti come Talino e come me. Li vedevo salire e scendere per quelle colline, di giorno e di notte. Anche loro, che vita; e magari un bel giorno pigliarsi una schioppettata da qualcuno piú ignorante degli altri. E tutto perché a un bue come Talino piaceva dar fuoco alla casa di un altro.
— No, che non ci vengo, — gli faccio. — Delle tue grane ne ho abbastanza.
Nel cortile troviamo Vinverra, che spunta da sotto il portico, fatto su in un mantello, e ci dice con la voce piú tranquilla del mondo: — Ha piovuto sul letame.
— Sí, ma io ho sonno, — gli faccio.
— Vieni a bere una volta, — mi dice Talino. — Scalda lo stomaco.
Beviamo in cucina, allo scuro, dalla solita bottiglia. Talino mi fece bere per primo. Di sopra sentiamo il bambino che piange e l’Adele che canta sottovoce e gli parla. — Non ce n’avete del salame? — gli dico, — qui si mangia soltanto minestra?
— Tra un’ora è giorno, — dice Vinverra, — domani c’è il coniglio. Andate su.
Ero tanto stanco che, dormendo, mi pareva di cadere in un pozzo, e sopra si sporgevano Talino Gisella Pieretto tanta gente; io cadevo, cadevo sempre, mi pareva di cadere tutta la notte. Ero diventato vigliacco come non so cosa, e mentre cadevo allungavo la mano sotto per sentire se c’erano dei rastrelli piantati sul fondo. «Tanto se ci sono t’infilzi» dicevo nel sogno, e sentivo la vertigine e pensavo. Chi sa che rumore faccio quando cado nell’acqua.
Poi mi sveglio e non ero piú io. «Anche se ti svegli, — pensavo, — devi ancora salire su dal pozzo». Invece trovo tutto quieto e la collina lavata nel sole, e non un’anima in giro. Talino aveva avuto il criterio di andarsene senza svegliarmi. Mentre sonnecchiavo, sentivo qualche movimento nella stalla; poi, il caldo del sole sulle gambe. Allora mi torna in mente Gisella, e mi siedo sul materasso, e riprendo forze.
Non credevo che anche in campagna il mattino della domenica ci fosse una differenza, ma si vede proprio che lavorare offende anche l’aria, perché quella mattina era tutto piú fresco e piú tranquillo.
«Bella carogna stanotte Talino, farmi quello scherzo». Ero ancora giú per il sogno, ma piú guardavo la collina e che Rico non s’era veduto e che Talino mi lasciava solo, e piú godevo. Vigliacca d’una Gisella, pensavo, proprio tutte ci stanno. Poi pensavo a Michela, se aveva già trovato il merlo. Nella sua stanza, a quell’ora dormiva; era domenica anche per lei. Meglio Gisella che sembrava piú ignorante ma non era, e almeno mi rispettava e capiva con chi aveva da fare. — Vedrò cosa mi dice stamattina, — faccio. — È il giorno dopo, che una donna si conosce.
Si sentiva passare gente sulla strada e cianciare. Qualcuno nel cortile davanti alla casa pompava dell’acqua. Il cortile era ancora tutto in ombra, e ci trovo Nando che riempiva un mastello. Me ne faccio versare una secchia sul collo, perché era il bere delle bestie, e poi vado in cucina. Non c’era nessuno e si stava d’incanto. Allora prendo pane e mele e mi siedo sul trave e mangiavo, mentre Nando vicino al pozzo pompava.
Dava dentro con slancio per farsi vedere, e ogni tanto si fermava e si fregava le mani sui calzoni come fanno i carrettieri. Pensare ch’ero stato anch’io della sua età e avevo fatto le stesse commedie. Ragazzi e donne siamo uguali dappertutto.
Sento la voce di Gisella alla finestra. — Ohilà! Si è già svegliato il macchinista? — Allora Nando mi fa l’occhio e le risponde: — È qui che mangia colazione.
Lascio che scenda, senza muovermi. Gisella aveva una sottana rossa e le scarpe e le calze, e la faccia piú fresca. — Cos’hai mangiato? — mi chiede. — Le tue mele — . Allora andammo nella stanza del torchio per parlare tranquilli. — Talino e il Pa’ voltano il letame, — mi dice, — poi vogliono andare a Monticello con te. Cos’è che avete fatto stanotte? — Aveva gli occhi rossi e piú attenti che mai.
— È sempre lo stesso, Talino, — le dico. — Ma tu Gisella sta’ attenta. Se gli dài sempre sulle unghie, ti metti nei danni. Lo sai che è un bestione.
Gisella mi guardava come se fossi io Talino e ce l’avesse anche con me.
Le faccio allora: — Stai bene, vestita cosí. Sei già andata a Monticello?
Lei rideva. — Lo sai che ora è? Ho già messo su l’acqua della polenta.
— Oggi c’è la polenta? — le faccio. E le prendo una mano. Allora mi viene vicino stretta, per farsi abbracciare, e mi guardava fisso come se la sua faccia non fosse la sua e volesse vedere come facevo a baciargliela.
A me le donne in quel momento fanno compassione. Non so perché ma mi fanno compassione. Gisella meno, perché capivo ch’era pronta, se le avessi detto «lascia perdere», a ridermi in faccia e a rispondermi. Ma anche lei si vedeva che aveva paura che non la volessi.
— Sei sempre d’accordo, Gisella? — le dico piano.
— Ma tu un giorno o l’altro ritorni a Torino, — diceva lei. — Qui non è il tuo paese.
— Dove c’è una bella ragazza è sempre il mio paese, sta’ tranquilla, — le dico, e vedo che è contenta.
Poi mi metto per strada, perché non volevo dare a quei due la soddisfazione di tenergli compagnia. Da Monticello scampanavano scampanavano, e sulla lea mi sorpassano correndo dei ragazzotti coi calzoni a mezza gamba, che sembravano tanti coscritti. Li lascio andare e mi metto al fresco contro il muretto della chiesa, ma sotto il portone doveva fare piú fresco ancora, a giudicare dall’eco dell’organo e dell’alleluia, e dal freddo della pietra dov’ero seduto. Ma era fumare che non si poteva.
Dopo un po’ vedo arrivare Vinverra e Talino, e Vinverra era un altro: sembrava fatto di terra, dentro la camicia pulita e la giacca e il cappello nero. Si fermano sugli scalini, ma io mostro la sigaretta cominciata e faccio segno che vadano. Talino allora entra dentro, e Vinverra scende giú e viene a chiedermi se avevo parlato col municipio. — No, che non ho parlato — . Vinverra mi guardava con un occhio solo, e mi dice che bisognava parlare. — Allora andiamo, ma è chiuso.
Era aperto, e non c’era nessuno, e io dico a Vinverra: — Guardate che perdete la messa — . Lui non alza neanche le spalle e si mette a correre per il paese. Tendevo a portarlo davanti ai tabacchi, ma lui gira intorno alla piazza e borbottava, e allora tiro fuori il libretto. — Tanto è qui, — dico, — non scappa — . Me lo prende, allora, con quella manaccia, e si ferma. — Chi sa se sa leggere? — dico. Lo volta e lo rivolta e mi chiede se era ancora buono. — E già che è buono — ; ma lui si ferma e guarda l’anno. — Dice il ’35, — mi fa. Non sapeva leggere, ma conosceva i numeri. — Non è mica una licenza, — faccio, — se uno ha dato l’esame, l’ha dato, e i motori sono sempre gli stessi.
Finalmente all’osteria troviamo una guardia dagli occhiali neri, che ci dice che il segretario è andato nei beni e torna a notte. — Cosa volete? — Vinverra lo piglia da parte e gliela fa lunga. — Date qua, — dice quell’altro. — Domani battete il grano — . Gli do il libretto e gli dico che mi denunci anche il domicilio. Allora la guardia si siede e comanda del vino. — Venite a bere stasera e gli portate il libretto, — dice Vinverra e voleva andarsene. Io tenevo d’occhio la padrona ch’era di quelle vedove ancor fresche che domani conviene conoscere. — Voi si che avete il vino buono, — lei dice a Vinverra sulla porta, — e ci avete anche le figlie per servirlo. State attento a questo giovanotto che mi ha l’aria abboccata.
Vinverra allora torna indietro, e beviamo una volta. Vinverra loda il vino e poi dice subito che vuol prendere ancora un pezzetto di messa. Allora gli dico che dia a me, pago io e intratterrò la guardia perché faccia tutto bene. Vinverra, come fosse mio padre, tira fuori due lire; poi ci ripensa e ne tira fuori cinque, e mi dice dalla porta che son quindici in tutto.
Di quella guardia non capivo la faccia.
— Cosí, venite da Torino? — mi dice.
— Ho una nipote, a Torino, — fa la padrona.
— Non la conosco.
Li faccio ridere parlando di Torino, e intanto racconto che Talino l’avevo conosciuto su un marciapiede, che chiedeva, a chi passava, dove stavano le ragazze. La vedova rideva senza aprire la bocca e facendosi vento. — Vigliacca, — le dico con gli occhi, vieni con me che ti levo il calore.
E invece lei dice: — Ma vi conviene lavorare per Vinverra?
— Mangiare si mangia.
— Lo sapete di dove usciva Talino quando l’avete incontrato?
— Ah! — dice la guardia come se sputasse, e non si capiva la faccia.
— So che dà fuoco per scherzo alle case degli altri, — le dico, — e che non l’hanno voluto neanche in prigione tant’era stupido. Non ci vuole molto a conoscerlo.
— Sono gente di campagna, — fa la guardia un bel momento, — non sanno mica cos’è vita civile, sono ignoranti.
— Perché, voi non siete di qui? — gli dico dritto negli occhiali. Lui si mette a ridere e beve.
— Quello che non capisco, — dico alla vedova, — è che, se tutti lo conoscono, non l’abbiano tenuto dentro.
E occhiali neri di nuovo: — È che non ci sono prove, caro voi. Che uno sia ignorante non basta per la giustizia. Tutte queste campagne sarebbero dentro. Sangue caldo ce n’è dappertutto. Tra uomini...
— Fosse tra uomini, — salta su la mia vedova, — ma quell’altra che ha fatto prima di andare soldato, non era piú da ignorante, era da bestia.
— Cos’ha fatto?
— Storie vecchie.
Ma la vedova mi guarda tra arrabbiata e ridendo.
— Magari a voi non sembra niente, — mi fa, — non ve lo dico perché siete un giovanotto e ci ridete — . E si volta alla guardia:
— L’ha fatta sporca però.
— Anche questo non si sa, — dice l’altro. — A sentir voi, succede solo di questo.
— Come non si sa? C’era Miliota che diceva in piazza che sua sorella ha perso sangue una settimana.
— Non avrà mica adoperato il badile, — dice la guardia, coi denti. — E poi chi sa che sangue era.
— Siete tutti villani, — gridava la vedova, — siete tutti villani.
Io mi alzo e le vado vicino e le faccio tranquillo: — Era mica Gisella? — e dagli occhi capisco che mi aveva capito. Allora pago e vengo via.
Vado al muretto di quell’altra sera, e mi metto a fumare. — Non fa niente, — pensavo, — non lo sa che lo sai. Ti han fatto fesso, questo sí — . Dico: venire in mezzo ai goffi, per trovare che sono piú furbi di te.
Poi butto via la sigaretta e giro ancora. Tutte le facce che vedevo sulle porte avevo voglia di pestarle. Mi sembravano tanti Talino. Era con lui che ce l’avevo. Gisella era niente. Quante botte, madonna, se fossi stato io Rico, quante botte.
Poi torno in piazza per calmarmi, e passo davanti all’osteria. C’era sempre la guardia, seduta sotto l’almanacco. Giro la faccia e tiro via. Mi fermo davanti ai tabacchi, perché cominciavano a uscire di chiesa.
Qui davanti erano in diversi, dei vecchi e dei giovani, tutte facce testarde, che si voltano e mi guardano e mi tengono d’occhio. Ma uno, un giovanotto con la giacca sulle spalle, si stacca e mi dice: — Voi siete il macchinista? Mi hanno detto che mi cercate. Sono Ernesto del Prato — . Questo sembrava piú civile, ma mentre lo guardo vedevo Gisella e mi dico: — Sta’ attento, sono tutti una razza.
— Battete domani, — mi fa lui, tranquillo, voltandosi verso la chiesa. Aveva una faccia piú da ciclista che da campagna, e parlando non guardava per terra come gli altri.
— Vi cercavo perché vi ho portato via il lavoro senza saperlo. Non me l’avevano detto.
Lui si mette a ridere. — Tanto è una macchina che va da sola. Vi fermate molto?
— Dipende.
Allora ci guardiamo e gli occhi gli ridevano ancora e io pensavo a Gisella.
— E con Talino andate d’accordo?
— Poco da stare allegri in quella casa, — borbotto.
— Talino è mio amico, — fa lui. — Siamo stati insieme soldati. Gli cucivano il letto e lui dormiva sopra le coperte. Basta prenderlo per il suo verso.
— Ma ce l’ha il verso? — dico.
Dalla chiesa scampanavano e la gente usciva, e vedo scendere Vinverra e le sue donne col velo nero in testa, e i bambini e Talino. In quel sole, a vederlo venire, io pensavo che perdere sangue in campagna deve fare meno effetto che all’ombra di una casa a Torino. Una volta ne avevo visto sulle rotaie di un tram dopo una disgrazia, e faceva spavento; invece, pensare uno chinato che perde sangue sulle stoppie sembra piú naturale, come all’ammazzatoio. Guardate come cammina, stavo per dire a Ernesto, ma poi mi tengo.
— Sono contento della conoscenza, — diceva Ernesto guardando me.
Dietro le spalle sento un vecchio che dice: — Non sono venuti in paese. Possibile che Rico stia tranquillo?
— Se non vengono a messa, — dice una voce piú ferma, — avrà qualcosa in mente.
— Macché. Stanno ai Mulini e vanno a messa alla Madonna.
Ernesto ride con me, senza voltarsi, e io cambio gamba e gli dico: — Cosí domani, venite col grano e battete da noi?
— Vengo stasera a scaricare.
— Buona giornata.
Entro al banco, prendo un pacchetto, ma avevo già aspettato troppo: Vinverra e Talino arrivavano. Li trovo fermi in circolo con Ernesto e quegli altri, le mani dietro la schiena, e non parlavano.
Poi Ernesto diceva: — Sei stato fortunato. Talino. Dove vi siete conosciuti col macchinista?
E Talino fa bocca da ridere e risponde che lo chiedesse a me.
— Abbiamo mangiato insieme, — rispondo, — e attaccato discorso.
Ma Talino sentiva all’odore che l’avevo con lui, e voleva fregarmi. — Mangiato e dormito per quindici giorni, — dice guardando tutti. — Ma poi, niente è stato e l’hanno messo fuori anche lui.
Persino Vinverra che lo sapeva, lo guarda per storto. — Sono tempi cattivi, — dice Ernesto, — ma adesso che sei a casa, Talino, sta’ tranquillo.
Uscendo dal paese Ernesto ci accompagnò fin sotto la lea, e mi raccontava che aveva imparato da soldato a fare il macchinista. — E perché siete tornato in campagna? — gli chiedo. — Sapete bene come sono i padri, — mi rispondeva, — abbiamo un po’ di terra, e sembra una gran cosa.
Quando Ernesto prese per la sua strada, io camminavo tra l’Adele e Talino; e Talino mi chiede per la seconda volta se quel giorno andavo con lui per i boschi.
— E i sacchi da ripassare? — dice l’Adele.
— Stasera.
— Stasera, — grida Vinverra, da dietro, — andate subito a dormire. Domani si batte.
A casa troviamo il coniglio e la peperonata, e una bella polenta vuotata da Gisella sull’asse. Me la ricordo come fosse adesso, perché poi quella sera nessuno ebbe tempo di far cuocere niente e ne ingozzai due fette fredde e mi pareva che avesse un sapore di sangue e mi tremavano i denti, perché proprio sotto gli occhi sul tavolo mi vedevo un catino di sangue e mi sentivo il cuore in bocca, piú freddo della polenta. Ma adesso, polenta, coniglio e peperoni, tutto bruciava, e i bambini ne volevano tanta, e le ragazze mangiavano. Come mangiava Gisella! Mangiava la polenta con la bocca e me con gli occhi, e anche la vecchia era contenta perché poteva masticare. Faceva tanto caldo che, per quanto ci fosse il riscontro della finestra e della porta aperta in fondo, non si sentiva corrente. Solo Talino aveva il muso come me; sembrava che sapesse qualcosa; ma Vinverra era allegro e ci scherzava tutti due.
— Ernesto è un bravo figliolo, — diceva, — ha già fatto amico col macchinista.
— Non è mica intero come Talino, — fa l’Adele.
«Lo sanno tutti, — pensavo, — lo sanno tutti e nessuno lo paga».
Chi avrei pestato era la vecchia, che doveva aver visto ogni cosa e veniva ancora a piangere perché a Talino gli facessi la guardia. E adesso mangiava come una gallina e si succhiava la polenta, e le ragazze ridevano, anche la Pina, anche Miliota, e magari con tutte Talino aveva fatto il maiale.
Poi penso: — Pazienza. Se non era per lui, forse Gisella non veniva con te — . Ma con Talino ce l’avevo lo stesso. Gli dice il padre in quel momento: — Brutto insensato, perché dire in piazza il percome e il perché?
— Ho detto quello che è vero, — fa lui masticando.
— Se tutti dicessero quello che è vero, — gli rispondo sul muso, — neanche tu saresti qui.
E me ne vado sulla porta per fumare tranquillo. C’era un cielo cosí sereno che faceva male agli occhi; e se non fosse ch’ero stanco, quella era un’altra giornata da portarmi Gisella su quell’erba di ieri per farla parlare. Perché, magari anche sola e sotto un portico, fin ch’era vestita e in piedi sapeva difendersi.
Fumavo e sentivo Vinverra attaccare di nuovo coi sacchi. — Tu e Berto e Miliota, — diceva a Talino, — dovete passarli. E voialtri portate giú le fascine, che domani sia pronto. Verso sera verranno Ernesto e Gallea.
— Prima facciamo vespro, — diceva l’Adele. — Questa gente hanno sonno. La polenta fa sonno.
— Voialtre dovete impastare. Voglio che Nando vada domani a cuocere, perché sono le pagnotte che tengono dritti — . Ma poi borbottava: — Le pagnotte e il buon vino.
Allora vado a sedermi nell’aia, dove c’era un po’ d’ombra, sulla finestra della stalla, e sentivo muoversi i conigli e le bestie; e tutto, il sole la collina e la stalla, era pieno di mosche che mettevano sonno, come i grilli di notte. Almeno star solo. Tanto adesso il coltello l’avevo dal manico e doveva venirmi a cercare Gisella.
Viene invece Nando con gli altri, e cominciano a cimentarmi. Allora chiedo: — Siete tutti figli di Adele? — La bambina piú piccola piangeva perché era rimasta indietro, e Nando le tira un torsolo e quella piange piú forte. Allora, dal portico di sopra, si sveglia Talino e bestemmia. Io mi alzo, giro intorno alla casa, e vado a stendermi sopra quei sacchi del pozzo nell’altro portico. Di lí vedevo la mammella e ci pensavo.
Pensavo a tante cose e che non erano tre giorni che ero arrivato. Perché poi mi lamentavo? Stavo sempre meglio che in prigione, e le belle ragazze si capisce che c’è già passato qualcuno; se no, non sarebbero loro.
A suo tempo venne Gisella, e camminava in punta di scarpe, come se fosse su un marciapiede. Mostrava di cercare qualcosa in un mucchio di corde e di ferri contro il pilastro, ma aspettava che io parlassi.
— Gisella, — le faccio. Lei si volta di colpo, come era il suo bello.
— ... Lo sai dove ho conosciuto tuo fratello?
Non se l’aspettava e restò ferma. Me la guardo bene. Io di quella ragazza non ne avevo ancora abbastanza: doveva venire con me.
— Vieni qui, Gisella — . E lei mi viene vicino e si lascia abbracciare le gambe.
— È vero che ce l’hai con Talino? — Volevo dirglielo in un momento che mi convenisse, ma tanto valeva. — Che cosa ti ha fatto?
Ecco che mi guardava già con gli occhi stretti, e non sentiva piú la mano.
— Se ti dico dove l’ho conosciuto, tu mi dici che cosa ti ha fatto?
Aveva già capito tutto. — Avevi detto alla stazione, — mi risponde piano. — Dove allora?
— Tu mi dici che cosa ti ha fatto.
— Niente, — dice, e si stacca.
Tante belle cose potevamo ancora fare, e per una stupidaggine perdiamo l’ultima occasione. Per una stupidaggine cosí.
M’arrabbio e dico: — Se lo sanno tutti quanti! Chi ti credi di far fesso? Te l’ho anche vista, sí o no?
Gisella mi guarda un momento e poi scappa.
Allora torno a pensare ch’era domenica e che se fossi stato a Torino non erano le commedie di una ragazza che mi guastavano la giornata. Non avevo piú letto un giornale da un mese e non sapevo neanche come andava il campionato. Chi sa quante belle partite giocavano dappertutto. Poi verso sera Pieretto prendeva Michela, e andavamo a ballare sotto la collina. Si vedeva da questo che qui era campagna: le due colline erano terra lavorata e basta, un sole d’inferno le scaldava; tutt’al contrario da quelle del Po che, anche nel forte dell’agosto, hanno qualcosa di fine, hanno l’aria piú fresca e sembrano sempre coperte d’ombra, e fa piacere vederle anche soltanto in fondo a un corso.
Avevo la rabbia. C’è soltanto una cosa che è uguale a Torino e in campagna: le commedie delle donne. Tornerà, dico, tornerà perché l’ho io il coltello dal manico. Ma dormire non riuscivo, e allora sento odor d’acqua dal pozzo, e tanto vale, salto su: avevo voglia di una bella golata. Cosí mi vedono e mi fanno lavorare, pensavo.
Invece nel cortile non c’era nessuno, e sulla porta di casa si sentiva soltanto le mosche. Mi ricordo che per godere di piú ho bevuto al secchio. L’acqua è una bella cosa, dicevo, ma questa sera non faccio piú storie: mi sbronzo, e chi mi vuole mi venga a cercare. Le mosche, lo scuro, nessuno che parlava: quel giorno il sole sembrava fermo. Sembrava di essere in cantina.
Allora salgo su per la scaletta di pietra, alle stanze dove dormivano le donne. Come fa quella vecchia, pensavo, a non rompersi il collo su di qui? Gli scalini erano consumati, e dire che andavano scalze.
La stanza sopra la cucina era grande, con gli agli e la meliga attaccati al muro. C’era la finestra aperta e un lettone di legno con la madonna e il ramulivo. Chi sa quante ne ha viste questa madonna. Ma l’odore era lo stesso del portico perché il pavimento era di mattoni. Sentivo cantare da qualche stanza, piano come se discorressero; era l’Adele che addormentava il bambino. Gisella dormiva in un altro posto, perché quello era un letto da sposi. Chi sa se Talino gliel’ha fatta in un letto o l’ha buttata in un prato.
Ma un bel momento li sento gridare, lui e loro. Veniva da dietro la casa. Allora torno sotto, accendo la sigaretta, e mi siedo sul trave a guardare le punte delle piante.
Il primo che compare era il cane. — Anche tu fai la guardia a Talino, — gli dico; e quel bestione mi viene ad annasare, e si vede ch’ero già di famiglia perché voleva leccarmi. — Tu no, — gli dico, e lui mena la coda. Poi dalla porticina della stalla si sporge Miliota e mi chiama.
Allora vado per ripassare i sacchi, perché ero stufo di far niente, ma trovo invece il vecchio che voleva un consiglio sulla legna per la macchina. — Come legna è meglio il carbone, — gli dico, ma il vecchio mi fa vedere sotto il letamaio i rosticci dell’anno prima e mi lascia capire che carbone ce n’è, ma che aveva paura di far scoppiare la macchina.
— Vediamo il carbone.
Ne aveva un mezzo sacco nel portico del grano, e gli dico ridendo: — Poco carbone fanno poche atmosfere.
— L’ha detta anche Ernesto l’altr’anno questa cosa qui.
— Vuol dire che sa il suo mestiere.
— La legna non basta?
— È come se voleste levarvi la fame masticando tabacco. Ce n’è carbone in paese?
Ce n’era sí, ma il vecchio era fisso che darne troppo alla macchina fosse come dar troppo vino ai lavoranti.
Nel bello della discussione sentiamo stridere un carro e compare il giallo del grano su dalla strada del prato. Sopra c’era uno grasso col fazzoletto al collo, e di fianco ai buoi, per suo conto, se ne veniva Ernesto con la giacchetta sotto il braccio.
— Miliota, — grida il vecchio voltato alla casa, — chiama Talino che ci aiuti a scaricare.
Vengono tutti dall’aia, meno Gisella e la vecchia, e se non fosse che i bambini si erano messi a corrergli intorno, sembrava Ernesto il fratello delle ragazze, non Talino. Quello grasso salta giú dai covoni e prende i buoi per la cavezza e bestemmia: ferma il carro di fronte al fienile. Cosí il portico restava quasi chiuso.
Ernesto parlava con Miliota e con la Pina scherzando, ma non perdeva d’occhio Vinverra. Tiro fuori il pacchetto e gli do da fumare: accendiamo e ridiamo. Vinverra visto che facciamo domenica, traversa un momento il cortile e va a vedere nella stanza del torchio se l’Adele e Gisella si sono messe a impastare.
— Non c’è pericolo d’incendio a fumare in mezzo al grano? gli chiedo.
— Ci sarebbe, — fa Ernesto.
Rispunta Talino con quattro tridenti in mano e li butta sotto il carro nelle gambe di Milota, che deve fare un salto se vuole salvarsi.
— Bastardo, — gli grida.
— Non è mica vero, — le fa Ernesto tranquillo, — è figlio anche lui di suo padre.
— Molte cose sarebbero chiare, se fosse bastardo, — gli dico; e vedo Ernesto che mi fissa, come se non avesse capito. Prima parlava ridendo e adesso mi guardava.
Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i covoni, poi s’erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro, come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il portico.
— Su e giú, su e giú, — gridava quello grasso, in mezzo alla polvere e al sole, — domani ballate per l’ultima volta.
A vedere Ernesto che s’era tolto la giacca e faceva il contadino, e la schiena piegata di quelle ragazze, e l’Adele che dalla finestra della sua stanza guardava e pareva che ridesse, mi viene vergogna e do mano a un tridente per aiutare anch’io. — Forza, — grida Talino, — si mette anche il macchinista — . Parlava sghignazzando, il sudore e le vene del collo lo eccitavano. I covoni pesavano e Talino me li gettava sulla testa come fossero dei cuscini. Ma tenevo duro; dopo cinque o sei viaggi vedevo solo come un incendio e avevo in bocca un sapore di grano, di polvere e sangue. E sudavo.
Poi mi fermo, arrivando sotto il portico. Quelle erano le gambe di Gisella. Il covone mi bruciava il collo come un disinfettante. E sento Talino che dice: — Gisella è venuta a vederti, forza! — Getto il covone sul mucchio e la vedo che passa ridendo, col secchio, fresca e arrabbiata. Mi asciugo il sudore, e Gisella era già contro il pozzo, che agganciava. Tanto io che Ernesto le lasciamo tirare su l’acqua, e poi corriamo insieme a bere. — Uno per volta, — diceva Gisella, e gli altri due si fermano lassú coi tridenti piantati.
— Quando abbiamo finito, porta qui la bottiglia, — dice Vinverra traversando il portico.
Mi ricordo che Gisella guardava dritto nel grano, mentre bevevo. Guardava tenendomi il secchio a mani giunte, con fatica, come aveva fatto per Ernesto ma lui lo guardava, e con me stava invece come se godesse facendosi baciare. Quando ci penso, mi sembra cosí. O magari era soltanto lo sforzo, e il capriccio di avercene due intorno che bevevano. Non gliel’ho piú potuto chiedere.
Ecco che saltano dal carro Talino e Gallea. Vengono avanti come due ubriachi. Talino il primo, con le paglie in testa e il tridente nel pugno.
— Là si lavora e qui si veglia, — fa con la voce di suo padre.
— C’è chi veglia di notte e chi veglia di giorno, — gli risponde Gisella. Ma lui dice: — Fa’ bere, — e si butta sul secchio e ci ficca la faccia. Gisella glielo strappa indietro e gli grida: — No, cosí sporchi l’acqua — . Dietro, vedo la faccia sudata dell’altro. — Talino, — fa Ernesto, — non attaccarti alle donne.
Forse Gisella cedeva; forse in tre potevamo ancora fermarlo; queste cose si pensano dopo. Talino aveva fatto due occhi da bestia e, dando indietro un salto, le aveva piantato il tridente nel collo. Sento un grosso respiro di tutti; Miliota dal cortile che grida «Aspettatemi»; e poi Gisella lascia andare il secchio che m’inonda le scarpe. Credevo fosse il sangue e faccio un salto e anche Talino fa un salto, e sentiamo Gisella che gorgoglia: — Madonna! — e tossisce e le cade il tridente dal collo.
Mi ricordo che tutto il sudore mi era gelato addosso e che anch’io mi tenevo la mano sul collo, e che Ernesto l’aveva già presa alla vita e Gisella pendeva, tutta sporca di sangue, e Talino era sparito. Vinverra diceva «d’un cristo, d’un cristo» e corre addosso ai due e nel trambusto la lasciano andar giú come un sacco, a testa prima nel fango. — Non è niente, — diceva Vinverra, — è una goffa, àlzati su — . Ma Gisella tossiva e vomitava sangue, e quel fango era nero. Allora la prendiamo, io per le gambe, e la portiamo contro il grano e non potevo guardarle la faccia che pendeva, e la gola saltava perdendo di continuo. Non si vedeva piú la ferita.
Poi arrivano le sorelle, arrivano i bambini e la vecchia, e cominciano a gridare, e Vinverra ci dice di stare indietro, di lasciar fare alle donne perché bisogna levarle la camicetta. — Ma qui ci vuole un medico, — dico, — non vedete che soffoca? — Anche Ernesto si mette a gridare e per poco col vecchio non si battono. Finalmente parte Nando e gli grido dietro di far presto, e Nando corre corre come un matto.
— Altro che medico, — dice Gallea che ci guardava dal pilastro, — ci vuole il prete.
— E Talino? — fa Ernesto, con gli occhi fuori.
In quel momento l’Adele tornava col catino correndo e si fa largo e s’inginocchia. Mi sporgo anch’io e sento piangere e vedo la vecchia che le tiene la testa, e Miliota che piange e l’Adele le tira uno schiaffo. Gisella era come morta, le avevano strappata la camicetta, le mammelle scoperte, dove non era insanguinata era nuda. Poi la vecchia ci grida di non guardare. Mi sento prendere il braccio. — Dov’è Talino? — chiede ancora Ernesto.
Si fa avanti Gallea. — È scappato sul fienile, — ci dice tutto scuro, — gli ho levata la scala.
Ernesto voleva salire. Gallea lo tiene e lo tengo anch’io. Batto i piedi in un manico. Era il tridente di Gisella, tutto sporco sul manico ma non sulle punte. — Teniamo questo, — gli dico, — senz’un’arma Talino è un vigliacco.
Poi sentiamo di nuovo tossire. Meno male, era viva. Il fango dov’era caduta col secchio faceva spavento, cosí nero; e la strada fino al grano era sempre piú rossa, piú fresca. Vinverra ricomincia a bestemmiare coi bambini, e si guardava intorno: cercava Talino. Si alza l’Adele e dice a Pina: — Tu va’ avanti — . Poi chiamano Ernesto che venga a aiutare. Io no, perché ero nuovo, e da quel momento mi cessò il sopraffiato e cominciarono a tremarmi i denti. La prendono Ernesto e Vinverra; e Miliota le teneva un braccio. La vecchia mandava via i bambini. Attraversano adagio il cortile, le avevano coperto le mammelle, entrano in cucina. Le vedo l’ultima volta i capelli che pendevano e una gamba scoperta. Poi la portano su.
Non ci credevo mica che fosse successo. Era Rico che doveva ammazzare Talino. Mi tremavano i denti come fosse d’inverno. Mi trovo davanti Gallea in mezzo ai bambini, e gli dico: — Ma siete sicuro che è andato là sopra? — Dove volete che andasse?
Allora cerco la scala e la drizzo contro il portico. Gallea mi guardava. Salgo su come un gatto e metto piede sui mattoni. Si sentiva gridare dalle stanze sopra la cucina. Se Talino volesse, mi butta giú nel cortile, pensavo. Poggio la schiena contro il pilastro e guardavo quel muro di fieno, fino allo spazio che c’è sotto i tetti dove uno può nascondersi.
Prima cosa gli vidi gli occhi, in mezzo al fieno, come se non avesse piú che quelli. — Sono gli occhi di un cane, — pensavo, — di un cane che ha preso dei calci. Domani lo mettono dentro, e non esce mai piú.
— Talino, — dico, che sento solo io. — Talino!
E Talino mi guarda mi guarda, poi dice: — Bastardo, va’ via, — e parlava forte come fosse ancora in casa sua.
Non capisco, ero calmo e mi tremavano i denti. Fermo la voce per parlare, e in quel momento Talino fa un salto, coperto di fieno, e viene giú per la costa e mi passa davanti correndo e scompare in un buco per terra. Era caduto nella stalla per dove buttavano il fieno alle bestie. Sento dei colpi là sotto e capisco che apriva la porta.
Non ho tempo a voltarmi che dal cortile mi chiamano. C’era Gallea, c’era la guardia dagli occhiali neri, c’era la vecchia matta che voleva salire la scala. Mi sporgo e dico: — È scappato dal buco del fieno.
Non bastavano in due a tenere la vecchia. Appena sceso le chiedo: — E Gisella? C’è il medico? — La vecchia voleva vedere Talino per gridare, ma io scommetto che aveva invece paura che gliel’avessimo toccato. — State tranquilla, ci pensa la forza, — le faccio, — ha finito di cimentare la gente — . E di nuovo, mentre parlavo, la voce mi saliva alla testa e il cuore in bocca.
Allora corro in cucina, perché avevo pensato che Gisella era morta. Trovo la Pina che scaldava dell’acqua sulla fiamma del petrolio. C’era ancora quel catino sul tavolo, rosso. — E Gisella? La Pina scappa su per la scala con l’acqua.
Allora salgo anch’io la scala e mi scontro col vecchio. — E Gisella? — Mah, — dice lui, — non parla piú. — Siete tutti insensati, — gli grido, — bisogna stagnarle il sangue.
Traverso la stanza da letto, ne traverso una seconda; era dall’altra parte. Allora arrivo a una porta aperta e sento odore d’aceto. Sento la voce di Adele: — È di freddo che muore, ha le unghie bianche.
Allora entro dentro, e l’Adele e la Pina buttavano una coperta sul letto. C’era dell’acqua rovesciata, c’era una lampada accesa anche qui, che scaldava dell’acqua. Vedo dalla finestra uno che corre nella stoppia.
Guardo Gisella e non sembrava piú lei. Non era smorta la faccia, ma tutta lavata, sembrava bollita, e gli occhi aperti e fermi che si potevano toccare. Qualche spruzzo di sangue era ancora sul cuscino, e gliene usciva un filo di bocca e Miliota con un panno lo asciugava adagio. Solo l’Adele mi fece attenzione e mi disse: — Ernesto è sotto che fa fuoco.
Gisella era tutta fasciata, le usciva un braccio sulla coperta e sembrava di un’altra, cosí scuro e rotondo.
— Ma Ernesto non è mica sotto, — dico.
— Allora è corso dietro a Talino.
— Talino è scappato.
— Quel mulo d’un mulo.
Poi l’Adele mi dice: — Andate voi a far fuoco. Bisogna scaldare Gisella che ha freddo. Andate, adesso le cambio le pezze, e aveva una bocca che sembrava cucita.
— Ma dite una cosa. Non è lui che l’altra volta l’ha ferita qui?
La Pina si ferma a sentire facendo un verso con la bocca, anche lei, come un bambino che piange, e l’Adele mi dice sulla porta: — Bisogna chiedere a Gisella. Son cose? — e mi chiude fuori.
Mentre rompevo la legna in cucina, vedo ancora una macchia di sangue sulla finestra. — Quest’è il coniglio, — dico. — C’era la pelle là vicino. L’ha scannata come un coniglio — . E allora me la rivedo nuda sotto le piante, che non mi toglieva gli occhi d’addosso e mi diceva: — Non mi ha mai toccata, cosa credi? parlavamo soltanto — . E mi monta la rabbia, perché sembravano tutti d’accordo a lasciarla morire come se fosse roba loro.
Vengo sulla porta e grido a Vinverra di correre. Corrono lui e la vecchia, e gli dico di accendere e scaldare dell’acqua perché Gisella moriva di freddo. La vecchia si butta alle fascine e chiama i piccoli e li fa lavorare, e mettono al fuoco una pentola grossa e la Pina corre a prendere l’acqua con noi. Vinverra, la guardia e Gallea ci guardavano senza parlare.
Tirando il secchio pensavo: — A quest’ora è già morta e facciamo il lavoro dei matti. A quest’ora è già morta — . Dando il secchio alla Pina pensavo: — Ma l’Adele diceva di chiedere a lei.
Poi pensavo a Talino e a quell’altro. E pensavo alla Grangia. — Sta’ a vedere, — dicevo, — che Talino è scappato nella cisterna. E nessuno ci pensa.
Scaldata l’acqua, la vecchia chiama la Pina e Miliota, che entrano scalze nella cenere e staccano il manico, e Miliota con gli occhi rossi non faceva a tempo a piangere. — Levateci i bambini dai piedi, — dico alla vecchia. — Andate a vedere se il medico arriva.
Ma la vecchia testarda voleva restare in cucina e che tutti restassero lí. Correva alla porta e ascoltava il discorso che gli uomini adesso facevano in mezzo al cortile. Correva alla stanza del torchio e guardava nell’aia. Il trambusto era finito e si sentiva il fuoco morire e veniva sera.
Poi vedo i tre che si avvicinano alla porta, e Vinverra entra dentro e chiama gli altri. Gallea e la guardia volevano restare sul trave, e allora il vecchio tira giú la bottiglia, cerca i bicchieri e sulla porta versa da bere. Bevono alzando gli occhi e Gallea, ch’era voltato verso casa, si fermò un po’ di piú col naso in aria, guardando la finestra dove correvano le donne. Un bambino cominciò a piagnucolare che aveva fame. La vecchia s’era seduta sulla porta.
Non c’era piú niente da fare. Vado sull’aia, dietro il letame, a calare i calzoni. Mi pareva di averne gran voglia, ma dopo un poco ero al punto di prima. Allora mi alzo, mi ficco in bocca una sigaretta e ritorno dalla strada. Vedo in fondo alla strada il rossonero dei carabinieri.
A vederli mi tremano i denti, come fossi io Talino, ma non era per loro; era perché sono come i becchini, e soltanto a vederli capivo davvero cos’era successo. Mi siedo nell’erba e comincio a ripetere: — Ma perché non l’hanno tenuto, perché non l’hanno tenuto? — Poi pensavo: «Se aspetto qui, nel frattempo arriva il medico, e cosí quando torno lo trovo», perché anch’io sono vigliacco la mia parte.
Avevo davanti la stoppia e vedevo la cisterna sotto la collina, dov’ero sicuro che c’era Talino, e sentivo delle voci lontane, da tutte le strade, e non pensavo ch’era domenica. A metà sigaretta non ne potevo piú e la butto via, e m’incammino alla cisterna. Erano solo due notti che avevo aspettato Gisella là dietro, e a pensarci mi veniva un freddo che non ero piú io. Non ce l’avevo con Talino, ce l’avevo con tutti che lo sapevano prima e non mi dicevano niente.
A dieci passi dal muretto prendo un pezzo di terra e glielo butto dentro. Ne butto un altro e ascolto, e mi ricordavo la notte prima, quand’era Talino che faceva il bersaglio. — Che Ernesto l’abbia preso e ammazzato? Cosí sarebbero già tre — . Se lo trovavo, cosa dirgli? Che Gisella era tutta per me?
E allora mi sporgo nella cisterna, sperando che non ci fosse. Non c’era. In quel momento sento una motocicletta che si avvicina alla cascina e si ferma.
A tornare c’era da discorrere coi carabinieri, e non ne avevo voglia. Avrei però voluto dirgli: — State attenti che sembra stupido ma la fa a tutti quanti — . Poi mi viene un sospetto: — Se non torno, la vecchia è capace di dire che suo figlio è innocente — . Allora corro verso casa. La motocicletta era ferma nel cortile. Un carabiniere aspettava e i bambini lo guardavano dal portico.
Mentre aspetto che scendano, compare Ernesto. Sporco di terra, senza giacca e a mani vuote. — C’è il medico, — grido. Lui si butta di sopra. In cucina trovo l’appuntato che scende, e mi guarda e tira dritto. Erano tutti in cucina; la vecchia piangeva con le mani sugli occhi, come le toccava fin da principio. Vinverra era seduto alla tavola e guardava fisso, masticando la cicca. Tutti ballavano nell’ultima fiamma e non sembrava che vedessero quel catino sul tavolo.
— È morta? — chiedo piano alla guardia.
— Cercano il fratello, — dice lui. — Questa volta è mal messo.
Il medico ci tenne sospesi fino a notte, e i carabinieri erano andati da un pezzo e arrivava gente dalle cascine, quando Vinverra esce sulla porta e borbotta; — Bisogna finire quel grano. Tu Gallea, prendi qualcuno e libera il carro.
E allora nel cortile, mentre le donne andavano e venivano e si sentiva esclamare e domandare e la Pina portava fuori le sedie, alla luce di una lampada a petrolio Gallea con Ernesto e gli altri buttarono i covoni. Si vedevano ancora nel portico le macchie di sangue. Cosa c’è di speciale, pensavo, tutti i giorni le strade ne bevono. Ma a guardarlo e pensare che quel fango era il calore di Gisella che se ne andava, veniva freddo anche a me.
Poi si sente gridare un bambino, dalle stanze di sopra; era il bambino dell’Adele che voleva il suo latte.
Poi sulla porta succede un trambusto. Era il medico e sembrava un cacciatore: con la giacca di cuoio e la borsa a tracolla. Si abbottonava la giacca e cercava Vinverra. Io pensavo: — Se è stato da lei tanto tempo, vuol dire che ha potuto far qualcosa e che è viva — . Dal cortile vedevo soltanto che era un uomo alto, e Vinverra vicino a lui sembrava un gobbo. I bambini ch’erano intorno alla moto si staccano. Le donne parlavano parlavano.
— E dove è scappato quell’altro? — diceva il medico. — Ne avrà per trent’anni.
Guardo quella finestra ancora accesa e mi mordo la bocca.
— Peccato. Era un fisico sano. Neanche i maiali resistono tanto. Tenete da conto le altre.
Mi ricordo che il medico accese la moto facendo un fracasso d’inferno, e che Ernesto gli parlava ancora che era già in marcia. Poi, che accese il faro facendo scappare i bambini; e, una volta cessato il rumore nella piana, nel cortile per un momento fu scuro e nessuno parlava. Corsi allora, deciso, a cercare l’Adele.
Dalla scala la vecchia scendeva appoggiata ai due muri. — Fate largo, — le dico. Dietro c’era l’Adele col bambino in braccio che poppava. La vedevo al riflesso della luce di sotto. — Tornate giú, — dice l’Adele. — Il medico le ha fatto la puntura, e non conosce piú nessuno.
Allora scendo e mi siedo alla tavola e guardo il catino; mentre fuori parlavano forte e Vinverra cercava uno che corresse a chiamare il prete.
Partiti tutti dal cortile, non mi ero mosso e avevo visto le donne salire e scendere la scala, e la vecchia tagliare col filo la polenta e darne ai bambini, e poco alla volta s’era fatto silenzio. Si sentivano i grilli e, lontano, anche i cani.
Vinverra, col cappello in testa, s’era seduto anche lui e fissava la polenta e sembrava ascoltasse quei tonfi che i piedi scalzi facevano sulla volta. Già prima si era alzato, era andato ai piedi della scala, e tornando aveva detto, non a me: — Donne che aspettano il prevosto.
— Cosí il grano è già bell’e battuto, — gli dico, — Vinverra. Come farete adesso?
Vinverra mi dice: — No, che non è battuto. Attacchiamo domani.
Non mi aveva neanche guardato, perché ascoltava piú lontano, fissando in terra la faccia. Che domani la macchina andasse piazzata, era vangelo per lui. Non si accorgeva che le mani mi tremavano; ma capivo che era inutile contrariarlo. E poi, non gli facevo attenzione, perché avevo di continuo qualcosa davanti agli occhi come quando uno va per la strada e di colpo si vede un’automobile addosso.
— Chi lo batte? Vi mancano quattro braccia.
Ma Vinverra testardo: — Verranno a aiutarci, verranno. Ernesto è suo interesse.
— Ernesto corre dietro a Talino, — dico. — E fa bene.
— Non tocca a lui, — dice arrabbiato Vinverra. — Non tocca a lui.
— Era meglio se diventava vostro genero. Cosí niente succedeva.
Sento i cani abbaiare piú forte e scommetto che era uscita la luna. Pensavo ancora che, se niente succedeva, magari quella sera mi trovavo con Gisella e ci saremmo fatti amici un’altra volta.
— Era meglio se quell’insensato restava dov’era, — dice di colpo Vinverra, senza alzare la testa. — La sua disgrazia è stata di uscire e tornare al paese. Io dal primo momento che siete arrivati ho sentito l’odore.
— L’odore di cosa?
— Di quel catino, — risponde Vinverra, sporgendo il dito.
— Anche questa è bella, — gli faccio, piú arrabbiato di lui, — dovevate dirmelo allora, ch’era un delinquente e che aveva bruciato la Grangia, e non dare la colpa ai grilli e pretendere che gli facessi la guardia.
— Qualcosa doveva succedere, — dice l’altro, testardo, — e bisognava battere il grano.
Allora mi alzo e vado di sopra, e dalla scala sentivo borbottare piú forte, e incontro allo scuro una donna che non mi dice niente e sento odore questa volta di ospedale, ma la finestra era spalancata e si vedeva la Grangia e la luna. Erano tutte in cerchio intorno al letto inginocchiate, alla luce di due o tre candele, e dicevano il rosario. Quelle di casa avevano in testa il velo nero come tornassero da messa. E tra le candele e la luna Gisella era sul letto ancor tutta fasciata e una pezza bianca sulla fronte, e naso e bocca erano neri.
La luce ballava e mi girava la testa. — È già morta, — pensavo, — è già morta — . Le avevano anche fatto l’altare su una cassa, con dei rami d’ulivo e la madonna e del velluto. Sotto c’era un catino e un asciugamano. Tutte mi avevano guardato e una mi chiede di traverso: — È arrivato il Santissimo?
— È morta? — dico allora.
L’Adele mi fa segno di no, poi va verso il letto e le tocca la faccia. Io guardavo, guardavo, e una di loro mi fa a mezza voce: — Pregate anche voi perché arrivi il Santissimo — . Io guardavo, per fare qualcosa e perché mi lasciassero stare. Allora ricomincia il rosario. Io guardavo il lenzuolo.
Da quando son qui non ho ancora dormito una notte sul serio, pensavo. Come faccio a resistere fino a domani? E Vinverra si aspetta che gli accenda la macchina. Guardavo il lenzuolo e la faccia, e cercavo di stamparmi in mente com’era Gisella da viva, per ricordarmela sempre. Le ferite alla gola resteranno, pensavo, non si chiuderanno mai piú come le altre. Da morti, la pelle marcisce, non si rimargina piú. Chi sa se sentiva ancor male?
Allora me ne vado, perché il rosario e l’altare, e quell’odore di ambulatorio, e sapere che Gisella era viva e non potere far niente, mi tagliavano le gambe. Poi, quelle donne mi guardavano, e la vecchia baciava un rosario e si baciava le dita e borbottava borbottava come se criticasse. Mi fermo un momento nell’ultima stanza, ch’era scura, e dico forte: — Era meglio se restavo in prigione.
Sotto, Vinverra non si era mosso di là. Sembrava un vecchio all’osteria, ammazzato dal vino, col cappello e gli occhi fissi sul tavolo. E allora, senza guardare quel catino, prendo una fetta di polenta e me la mangio. Sapeva di terra e di minestra fredda e trangugiandola pensavo a Gisella.
Finalmente sentiamo abbaiare e una voce ci chiama, e Vinverra non si muoveva. Arriva Nando, tutto spaventato ma non lo diceva, e ci dice invece che lo avevano fermato i carabinieri. Lo mando a dormire.
Nel cortile faceva fresco, quasi freddo e si vedeva la mammella sotto la luna. Mi torna allora in mente Rico e se sapeva che quella era la notte che poteva ammazzare Talino. Lui, doveva ammazzarlo. Toccava a lui. In prigione io c’ero già stato. Ma quel Rico doveva esser quadro come gli altri.
Poi mi metto a fumare e dicevo: «No cosí sporchi l’acqua. No cosí sporchi l’acqua», con la voce come l’aveva gridato Gisella, ma piano. Come sono le cose, pensavo: uno che fosse nuovo e la sentisse raccontare, darebbe la colpa a lei. Mentre invece la colpa era di tutti, compreso il maresciallo dei carabinieri, e lei l’avevano ammazzata.
La finestra era gialla, quasi spenta. Se andavo su ancora una volta, quelle vecchie mi saltavano addosso perché non ero il Santissimo. Gisella non sarebbe stata cosí, ero sicuro. Avevo voglia di chiederglielo, ma poi pensavo che era morta.
Entro allora in cucina, e Vinverra mi guarda, con quegli occhi da morto. Mangio dell’altra polenta e la mastico e dico: — Se Talino ritorna?
E Vinverra: — Bevete una volta, poi andate a dormire. Domani è fatica.
— Non andate di sopra? — gli chiedo.
Poi ero cosí stanco che ciondolavo la testa. Non ricordo come passò la notte. Avevo freddo, dormivo appoggiato con la testa sulla tavola, ogni tanto nel sonno facevo un salto, cercavo di fumare e la sigaretta si spegneva; poi sentivo parlare e sentivo silenzio.
Mi sveglio di colpo, che la finestra era grigia. Vinverra non c’era, c’era invece l’Adele che accendeva il fuoco. Mi ricordavo adesso che avevo bevuto del vino con Vinverra; ma Gisella me l’ero ricordata anche dormendo, e avevo ancora quel sapore in bocca.
— E Gisella?
— Gisella è sempre in agonia.
— Le fa male?
Ma l’Adele mi chiede se volevo mangiare. Aveva gli occhi rossi e addormentati, e sembrava piú stanca di me. Mi dice di andarle a prendere dell’acqua, se volevo scaldarmi.
Fuori era chiaro. Avevo il secchio in fondo al pozzo quando sento delle voci e vedo il prete con la camicia bianca e un tovagliolo sulle mani e due ragazzi davanti. Vanno dritti in cucina e il cane abbaia. Quando torno col secchio pieno, erano già saliti.
Sopra sentivo delle voci, e borbottare e tirar tavole e sedie. Viene Vinverra dalla stalla. Gli dico che è arrivato e lui mi chiede se era solo o il sacrista gli portava l’incenso. Poi si versa un bicchiere e si pulisce la bocca.
In quel momento, dalla scala scende Ernesto. Lo credevo in collina da tutta la notte, e feci allora per salire anch’io, ma Ernesto mi dice: — Aspettate, le dà l’olio santo.
— E con questo?
— Le donne non vogliono.
Dicendo cosí fa per ridere, e doveva essere la prima volta in tutta la notte, perché si vedevano ancora le mascelle tese.
— Bevete una volta, Ernesto, — gli dice Vinverra. — Poi sarà meglio dar l’acqua alle bestie, e voialtri pensare a piazzare.
— Non ho ancora il libretto, — gli dico.
Vinverra dice: — Non pensateci, — e ci porta verso la stalla.
Il terreno era ancor umido dalla serena e, spalancati i portoni sull’aia, prepariamo le bestie, perché le macchine andavano tirate nel cortile. Io guardavo quel buco della volta, di dove Talino era scappato, e sulla collina usciva già il primo sole. Non si sentiva un’anima, neanche un gallo nella campagna, e il cane ci guardava fare, accucciato sulla porta.
Mentre Ernesto m’insegnava a buttare i cinghioni, do un’occhiata alla Grangia e gli dico: — Chi sa dov’è andato.
— Tornerà, — dice Ernesto.
— Dipendeva da voi di lasciarlo in prigione.
Ernesto mi guarda brutto. Poi dice: — Ho creduto di fare una ragione a chi non ne aveva. Sarà l’ultima volta.
Poi ci chiamano dal cortile. Venivano per battere il grano, facce della sera prima. Uno dice che Talino l’avevano preso a Monticello; un altro, ch’era scappato verso la Langa; un altro, che non fosse lontano. — Ma com’è stato? — chiedeva qualcuno. — È stato qui, vedi le macchie; se Ernesto del Prato non lo teneva, scannava anche i buoi.
Venivano altre donne e salivano. Io guardavo la finestra. Doveva ancora esserci il prete.
Portate le macchine nel cortile dell’aia, le piazziamo al posto giusto. Io guardavo il trambusto e mi ricordo che bestemmiavano tutti ma sottovoce.
A sole alto il prete non era ancora uscito. Con Ernesto avevamo già accesa la motrice e, passata la cinghia, ecco che la baracca di legno si chiudeva si apriva e faceva un rumore come di mille calabroni. — Il fischio, — dice uno. — Piazzata la macchina, bisogna farla fischiare perché tutte le campagne lo sappiano. — Non si può, — dico, e mostro la finestra. Allora salgono sul battitore e dan mano ai tridenti, e cominciano a buttar su i covoni. Ogni covone sprofondava, come la macchina si fracassasse e i calabroni diventassero il doppio. Al principio quei pochi uomini correvano nella confusione, poi mi lasciano solo al mio forno; dal portico fanno la catena per i covoni, e le donne pensavano ai sacchi dove il grano cadeva trebbiato. Altre donne ammucchiavano la paglia. Le vedevo con quei fazzoletti sugli occhi, le gambe scalze e le sottane in aria. Poi, una mi sembra Miliota. Allora, corro e la fermo. — Non eri di sopra col prete, tu? — Il prete è un pezzo che è andato. — E Gisella? — Non può piú parlare — . Miliota era già sudata sotto il fazzoletto, ma aveva ancora gli occhi rossi. — Non è morta? — Miliota lascia andare la forca e giú a piangere. — È morta? — Non so, non mi conosce piú.
Lasciare la macchina non potevo, Ernesto non c’era. In quel momento sento un fischio da spaccare le orecchie, un fischio lungo e mi volto: erano due di quei tangheri, attaccati alla sirena, che a tutti i costi volevano il segnale. Allora corro e li sbatto via a calci. Uno resiste e do mano alla pala. Se ne tornò al suo grano.
E cosí continuò quel mattino: cercavo Ernesto e non c’era. A lasciarsi andare, la voce del macchinone sotto il sole e la polvere metteva sonno. Sempre uguale quell’alto e quel basso, sempre uguale quel caldo del sole e del forno, e tutti che maneggiavano i tridenti e le forche e portavano i sacchi e saltavano via. Ce l’avevo con Ernesto che, scommetto, era di sopra. E pensavo: magari è già morta, e tutto fa lo stesso. Se non è morta, dicevo, forse sente che battono il grano e si ricorda e l’addormenta. A quest’ora non ha piú male.
Poi manca il carbone e la macchina rallenta. Dico a Vinverra: — Quando arriva, chiamate, — e corro in cucina. L’Adele e un’altra donna impastavano. — Ernesto? — È di sopra.
Lassú faceva fresco, ma Ernesto a torso nudo, poggiato contro la finestra, non si muoveva. La vecchia, seduta alla testa del letto, cacciava le mosche dal lenzuolo che copriva anche il cuscino, e sembrava che sotto non ci fosse nessuno.
Nessuno diceva niente. Ci avevo tanto pensato, e adesso ero quasi tranquillo.
— La macchina è ferma, — dice Ernesto, — è finito il carbone?
Le scoprimmo la faccia e guardai per un pezzo. — Andiamo sotto, — dice Ernesto, — non c’è piú niente da fare.
Che fischiassero pure, e gridassero e scoppiasse magari anche la macchina, pensavo vedendone due, rossi e piantati lassú sopra il grano, nella polvere che bruciava piú del fuoco. È a fare di questi lavori che gli gira la testa e diventano bestie. Intorno alla macchina ferma, coi covoni disfatti sulle braccia, tutti voltati aspettando, sembrava che sapessero che Gisella era morta.
Mentre il lavoro riprendeva, la voce cominciò a circolare. Allora chi parlava, chi smetteva, chi andava a vedere. Le donne sparirono quasi tutte. Un bel momento restiamo soli, io, Nando, Ernesto, sotto il cinghione teso, e gli altri erano tutti nella cucina e sulla porta. Solo Nando andava e veniva contento e sudato, portandomi fascine a bracciate per riattaccare il fuoco.
A mezzogiorno prendo da parte Vinverra e gli dico: — Stasera mi spettano quindici lire, sí o no?
C’era l’Adele sulla scala e ci guardava.
— Vedete in che stato ho la camicia, — gli faccio. — Non sono in galera. Stasera mi date il mio conto e vi cercate un macchinista. Ho già parlato con Ernesto, e adesso potete prenderlo.
Vinverra mi aveva capito e neanche fiatò.
— Prima finite il grano, eh?
— Si capisce, se voglio i miei soldi.
La tavola era preparata nella stanza del torchio. C’era soltanto tagliatelli e vino. La vecchia si scusava perché non avevano avuto tempo e le braccia mancavano.
Fame ce l’avevo anch’io e avevo sonno. Mi prendo il piatto e me ne vado a mangiare sul trave, per star solo. Poi ritorno là dentro per bere un bicchiere, e Miliota e la Pina servivano gli uomini, che parlavano poco e guardavano il piatto. I bambini facevano mucchio, e Vinverra con la cappellina in testa passeggiava a capo tavola.
Vado da me nella stanza delle mele di Gisella, e prendo le piú belle, e mordo dentro come un matto. Stasera, pensavo, me ne riempio le tasche. Poi m’incammino e giro intorno alla casa, dove il sole picchiava ma almeno non c’era nessuno. C’era una pianta di fico che cresceva sul letamaio, e mi fermo là contro, e dico: — Basta, non tocca piú a te. Piú ci pensi, piú è morta.
A tenere il fiato, si sentiva il rumore del sole come fosse un incendio. Che pianta, non ha neanche un fico, dicevo, e non fa un dito d’ombra. Cosí impari a venire in campagna. Il tuo posto è a Torino. Poi vado sull’aia e mi siedo sullo scalino della stalla, dove c’era un po’ d’ombra.
Tanto vale, mi stendo per terra e chiudo gli occhi, davanti alla Grangia. Mentre dormivo, dalla collina sentivo le voci come fossero a due passi. Ci doveva essere il vento. Chi sa se Talino l’avevano preso. Non lo prendono mica, pensavo, tutto il mondo è lo stesso.
Poi mi sveglio, e me lo vedo davanti, che gettava ombra. Era venuto a piedi scalzi fino in mezzo al battuto, e avevo sentito che mi guardava. Perdeva sangue da un ginocchio e aveva la braca rimboccata. Mi guardo intorno e non c’era nessuno.
— Ho sentito la macchina, — dice.
— Di dove vieni?
Lui fa un passo e si volta e mi mostra la collina. — Ho dormito alla Grangia, — mi dice, con la solita voce. — Ho sentito la macchina. Ho la schiena rotta.
Però aveva paura, si guardava intorno. Mi prese la rabbia e pensavo: — Qui mi fa fesso un’altra volta, se non lo fermo mi fa fesso un’altra volta.
— Lo sai che è morta? — gli dico sui denti.
— È morta? — fa lui.
Sembravano gli occhi di quand’era entrato in prigione. Li girava da tutte le parti come si gira una paglia tra i denti, e non si muoveva di là. Li chiudeva perché aveva vergogna, e con la mano si tirava su i calzoni.
Non so ancora adesso perché non gli sono volato addosso a buttarlo per terra. Era cosí spaventato che ci sarebbe riuscito anche Nando. — Tocca ai carabinieri, — dicevo, — tanto Gisella è morta, tanto torno a Torino. Deve andare in galera, e tocca ai carabinieri.
Che stupido, pensavo, perché non scappa?
In quel momento me lo immagino addosso a Gisella che urlava, e lui come una bestia a fiaccarle la schiena e tenersela sotto. Dovette vedermelo in faccia, perché mi accorgevo che tremava e stringeva le dita. Ma ormai gli avevo parlato. — Vieni in cortile, — gli dico, — vieni a vedere cos’hai fatto.
Ma lui dice: — Va’ a chiamare Pa’, fa’ il piacere, ho bisogno del Pa’.
Io lo guardo, lo guardo, e poi dico: — Va’ tu.
Guardava in aria e io mi volto: era il portico dove avevamo dormito. Guardava con quegli occhi che non stavano fermi. Poi parla, non a me. — Sono qui, — dice forte con la voce contenta. C’era Vinverra alla finestra della stalla.
Prese la corsa verso le canne della strada; e dopo un attimo vedo il vecchio sbucare e filare anche lui, come può, nella stoppia.
Mentre guardavo la collina vuota, sento Nando che chiama. — Vi cercano i carabinieri, — dice dalla finestra della stalla. — Subito.
Ma nel cortile era arrivata la guardia di Monticello e mostrava già all’appuntato il mio libretto. I due carabinieri avevano il moschetto a tracolla e dalle finestre le donne li guardavano. Meno Ernesto e quei tre, il cortile era vuoto.
— E come va quest’anno il grano? — dice l’appuntato girando gli occhi.
— Poca roba, stasera è finito, — fa Ernesto.
— Non è in casa il padre Vinverra?
— Torna subito, — dice Nando. — Dev’essere andato in cantina — . E con Ernesto s’incamminano al trave, mentre l’Adele ci guardava ancora dalla finestra. Ma che guardasse proprio me, non credo.