La bella estate
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La bella estate
I.
A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare la strada, per diventare come matte, e tutto era cosí bello, specialmente di notte, che tornando stanche morte speravano ancora che qualcosa succedesse, che scoppiasse un incendio, che in casa nascesse un bambino, o magari venisse giorno all’improvviso e tutta la gente uscisse in strada e si potesse continuare a camminare camminare fino ai prati e fin dietro le colline. — Siete sane, siete giovani, — dicevano, — siete ragazze, non avete pensieri, si capisce — . Eppure una di loro, quella Tina ch’era uscita zoppa dall’ospedale e in casa non aveva da mangiare, anche lei rideva per niente, e una sera, trottando dietro gli altri, si era fermata e si era messa a piangere perché dormire era una stupidaggine e rubava tempo all’allegria.
Ginia, se queste crisi la prendevano, non si faceva accorgere ma accompagnava a casa qualche altra e parlava parlava, finché non sapevano piú cosa dire. Veniva cosí il momento di lasciarsi, che già da un pezzo erano come sole, e Ginia tornava a casa tranquilla, senza rimpiangere la compagnia. Le notti piú belle, si capisce, erano al sabato, quando andavano a ballare e l’indomani si poteva dormire. Ma bastava anche meno, e certe mattine Ginia usciva, per andare a lavorare, felice di quel pezzo di strada che l’aspettava. Le altre dicevano; — Se torno tardi, poi ho sonno; se torno tardi, me le suonano — . Ma Ginia non era mai stanca, e suo fratello, che lavorava di notte, la vedeva soltanto a cena, e di giorno dormiva. Nelle ore del mezzogiorno (Severino si girava nel letto quando lei entrava) Ginia preparava la tavola e mangiava affamata masticando adagio, ascoltando i rumori della casa. Il tempo passava adagio, come fa negli alloggi vuoti, e Ginia aveva tempo di lavare i piatti che aspettavano nel lavandino, di fare un po’ di pulizia; poi, di stendersi sul sofà sotto la finestra e lasciarsi assopire al ticchettio della sveglia dall’altra stanza. Qualche volta chiudeva anche le imposte per far buio e sentirsi piú sola. Tanto Rosa alle tre avrebbe sceso le scale, fermandosi a grattare contro l’uscio, piano per non svegliare Severino, finché lei non le rispondesse ch’era sveglia. Allora uscivano insieme e si lasciavano al tram.
Di comune, Ginia e Rosa non avevano che quel pezzo di strada e una stella di perline nei capelli. Ma una volta che passavano davanti a una vetrina e Rosa disse: — Sembriamo sorelle, — Ginia s’accorse che quella stella era ordinaria e capí che doveva portare un cappellino se non voleva parere anche lei un’operaia. Tanto piú che Rosa, soggetta ancora a padre e madre, non avrebbe potuto pagarsene uno che chi sa quando.
Quando passava a svegliarla, Rosa entrava se non era già tardi; e Ginia si faceva aiutare a rimettere in ordine, ridendo sottovoce di Severino che, come tutti gli uomini, non sapeva che cosa voglia dire tenere una casa. Rosa lo chiamava «tuo marito», per continuare lo scherzo, ma non di rado Ginia si rabbuiava e ribatteva che avere tutte le noie della casa ma non l’uomo, era poco allegro. Scherzava, Ginia — perché il suo piacere era proprio di starsene quell’ora in casa da sola, come una padrona — , ma a Rosa bisognava di tanto in tanto far capire che non erano piú bambine. Neanche per strada Rosa sapeva stare, e faceva dei versacci, rideva, si voltava — Ginia l’avrebbe pestata. Ma quando andavano insieme a ballare, Rosa era necessaria perché dava a tutti del tu, e con le sue matterie faceva capire agli altri che Ginia era piú fine. In quell’anno cosí bello, che cominciavano a vivere da sole, Ginia s’era presto accorta che la sua differenza dalle altre era di essere sola anche in casa — Severino non contava — e di potere a sedici anni vivere come una donna. Per questo fin che portò la stella nei capelli si lasciò accompagnare da Rosa, che la divertiva. Non c’era un’altra in tutto il rione, che fosse scema come Rosa, quando voleva. Sapeva smontare chiunque, ridendo e guardando in aria, e delle sere intiere non faceva né diceva niente che non fosse per commedia. E litigava come un gallo. — Che cos’hai, Rosa? — diceva qualcuno, mentre si aspettava che cominciasse l’orchestra. — Paura — (e le uscivano gli occhi dalla testa); — ho visto là dietro un vecchio che mi fissa, mi aspetta fuori, ho paura — . L’altro non ci credeva. — Sarà tuo nonno. — Stupido. — Allora balliamo. — No perché ho paura — . Ginia, a metà del giro, sentiva quell’altro gridare: — Sei una maleducata, una strega, vatti a nascondere. Torna in fabbrica! — Allora Rosa rideva e faceva ridere gli altri, ma Ginia, continuando a ballare, pensava che era proprio la fabbrica che riduceva cosí una ragazza. E del resto bastava guardare i meccanici, che anche loro cominciavano la conoscenza facendo questi scherzi.
Se nella compagnia ce n’era qualcuno, si poteva star certi che prima di notte una ragazza si arrabbiava o, se era piú scema, piangeva. Prendevano in giro come Rosa. Volevano sempre portarle nei prati. Con loro non si poteva discorrere e bisognava stare subito sulla difesa. Ma avevano di bello che certe sere si cantava, e cantavano bene, specialmente se veniva Ferruccio, con la chitarra, uno alto, biondo, che era sempre disoccupato ma aveva ancora le dita nere e fiaccate dal carbone. Pareva impossibile che quelle mani grosse fossero cosí brave, e Ginia che se le era sentite una volta sotto l’ascella mentre tornavano tutti insieme dalla collina, stava attenta a non guardarle mentre suonavano. Rosa le aveva detto che quel Ferruccio si era informato di lei due o tre volte, e Ginia aveva risposto: — Digli che prima si faccia le unghie — . La volta dopo s’aspettava che Ferruccio ridesse, e invece Ferruccio neanche l’aveva guardata.
Ma venne il giorno che Ginia uscí dall’atelier aggiustandosi il cappello con le due mani, e trovò sul portone proprio Rosa che le saltò incontro. — Cosa c’è? — Sono scappata dalla fabbrica — . Fecero insieme il marciapiede fino al tram, e Rosa non parlava piú. Ginia, seccata, non sapeva cosa dire. Fu quando scesero dal tram, vicino a casa, che Rosa brontolando disse piano che aveva paura di essere incinta. Ginia le diede della stupida e litigarono sull’angolo. Poi la cosa passò, perché Rosa si era messa in quello stato solamente per lo spavento, ma intanto Ginia fu piú agitata di lei, perché le pareva di essere stata truffata e lasciata a far la bambina mentre gli altri si divertivano, e proprio da Rosa poi che non aveva neanche un po’ di ambizione. «Io valgo di piú, — diceva Ginia, — a sedici anni è troppo presto. Peggio per lei se si vuole sprecare». Diceva cosí ma non poteva ripensarci senza umiliazione, perché l’idea che quelle altre senza mai dirlo fossero tutte passate nei prati, mentre a lei, che viveva da sola, la mano di un uomo dava ancora il batticuore, quest’idea le tagliava il fiato. — Perché quel giorno sei venuta a dirlo a me? — chiese a Rosa un pomeriggio mentre uscivano insieme. — E a chi vuoi che lo dicessi? Stavo fresca. — Perché non mi hai mai detto niente prima? — Rosa che adesso era tranquilla, rideva. Cambiò il passo. — Se non si dice è piú bello. Porta male parlarne — . Ginia pensava: «È una stupida. Adesso ride ma prima voleva ammazzarsi. Non è ancora una donna, ecco cos’è». Intanto, anche da sola, quando andava e veniva per la strada, pensava che siamo giovani tutte e bisognerebbe avere subito vent’anni, per sapersi regolare.
Per tutta una sera Ginia guardò l’innamorato di Rosa — Pino dal naso storto, uno piccolo che sapeva soltanto giocare al biliardo, e non faceva niente e parlava nell’angolo della bocca. Ginia non capiva perché Rosa venisse ancora al cinema con lui dopo aver provato quant’era vigliacco. Non poteva levarsi dalla mente quella domenica ch’erano andati tutti insieme in barca e s’era visto che Pino aveva la schiena lentigginosa che pareva ruggine. Adesso che sapeva, ricordò che quel giorno Rosa era scesa con lui sotto le piante. Che stupida era stata a non capire. Ma piú stupida Rosa, e glielo disse ancora una volta sulla porta del cinema.
Pensare che in barca erano andati tante volte, e si scherzava, si rideva, si pigliavano in giro le coppie. Ginia che stava attenta alle altre, non si era accorta di Rosa e di Pino. Nel caldo del mezzogiorno erano rimaste sole nel barcone lei e Tina la zoppa. Gli altri, compresa Rosa, erano saliti sulla riva, dove si sentivano gridare. Tina che aveva tenuto sottana e camicetta, disse a Ginia: — Se non viene nessuno, mi svesto per prendere il sole — . Ginia le disse che avrebbe fatto lei la guardia, ma invece tendeva l’orecchio alle voci e ai silenzi della riva. Passò un po’ di tempo che tutto taceva sull’acqua tranquilla. Tina era stesa sotto il sole, con un asciugamano intorno ai fianchi. Allora Ginia era saltata sull’erba e aveva fatto qualche passo a piedi nudi. Non si sentiva piú la voce di Amelia, che si era tirata dietro tutti gli altri. Ginia, scema, immaginando che giocassero a nascondersi, non li aveva cercati e se n’era tornata sulla barca.
II.
Amelia almeno si sapeva che faceva un’altra vita. Suo fratello era meccanico, ma lei compariva solo di tanto in tanto, le sere di quell’estate, e non dava confidenza a nessuno ma rideva con tutti, perché aveva diciannove o vent’anni. Ginia avrebbe voluto avere la sua statura perché, con le gambe di Amelia, stavano bene sí le calze fini. Quantunque, vista in costume da bagno, Amelia era sporgente di fianchi e come fattezze dava un po’ l’aria a un cavallo. — Sono disoccupata, — disse a Ginia, una sera che lei le guardava il vestito, — ho tempo tutto il giorno per studiarmi il modello. Ho imparato a tagliare lavorando come te in sartoria. Tu sai? — Ginia pensava che il bello era farseli fare, ma non lo disse. Fecero invece un giro insieme, quella sera, e Ginia l’accompagnò fino a casa, perché si sentiva tutta sveglia e non pensava a dormire. Aveva piovuto, e l’asfalto e le piante eran tutte lavate: si sentiva il fresco in faccia.
— Ti piace andare a spasso, — diceva Amelia ridendo. — Che cosa dice tuo fratello Severino? — Severino a quest’ora è sul lavoro. Tutti i lampioni li accende e li sorveglia lui. — Allora è lui che fa lume alle coppie? Com’è vestito? Da gasista? — Ma no, — disse Ginia ridendo, — sorveglia gli interruttori alla centrale. Passa la notte davanti a una macchina. — E vivete da soli? non ti fa la morale? — Amelia parlava con l’allegria di chi conosce tutti quanti e Ginia le dava senza fatica del tu. — Sei disoccupata da molto? — le chiese.
— Un lavoro ce l’ho. Mi faccio dipingere.
A sentire la voce, pareva uno scherzo, e Ginia la guardò. — Dipingere come?
— Di faccia, di profilo; vestita, spogliata. Si dice la modella.
Ginia ascoltava fingendo stupore per farla parlare, ma sapeva benissimo quel che Amelia diceva. Soltanto non avrebbe mai creduto che ne parlasse con lei, perché a nessuna di loro Amelia l’aveva mai detto, e il segreto l’aveva scoperto Rosa soltanto per via di portinaie.
— Vai davvero da un pittore?
— Andavo, — disse Amelia. — Ma d’estate gli costa meno dipingere fuori. D’inverno fa troppo freddo a stare nude in posa, e cosí non si lavora quasi mai.
— Ti spogliavi?
— E già, — disse Amelia.
Poi prese Ginia sottobraccio e disse ancora: — Come lavoro è bello, perché tu non fai niente e stai a sentire i discorsi. Andavo una volta da uno che aveva uno studio magnifico e quando veniva gente prendevano il tè. S’impara a stare al mondo là in mezzo, meglio che al cinematografo.
— Entravano mentre posavi?
— Chiedevano permesso. Il piú bello sono le donne. Lo sapevi che anche le donne fanno dei quadri? Pagano una ragazza per copiarla nuda. Ma perché non si mettono davanti allo specchio? Capirei se copiassero un uomo.
— Magari ne copiano, — disse Ginia.
— Non dico di no, — disse Amelia, fermandosi davanti al portone, e strizzò l’occhio. — Ma certe modelle le pagano il doppio. Va’ là che il mondo è bello perché è vario.
Ginia le chiese perché non veniva qualche volta a trovarla, e tornò sola camminando sui riflessi dell’asfalto che il tepore della notte aveva quasi asciugato. «Vecchia com’è, racconta troppo le sue cose, — pensava Ginia, contenta. — Se facessi la sua vita io, sarei piú furba».
Ginia fu un po’ delusa quando si accorse che passavano i giorni e Amelia non veniva a trovarla. Si capiva che quella sera non aveva cercato di fare amicizia, ma allora — pensava Ginia — vuol proprio dire che racconta quelle cose a chiunque e che è scema davvero. Forse mi crede una bambina, di quelle che credono tutto. E Ginia raccontò una sera, a molte, di aver visto in un negozio un quadro che si capiva che la modella era Amelia. Ci credevano tutte, ma Ginia volle dire che l’aveva conosciuta da come era fatto il corpo, perché, quando la modella è nuda, la faccia i pittori gliela cambiano apposta. — Figurati se han questi riguardi, — disse Rosa, e la presero in giro per la sua ingenuità. — Io sarei contenta se un pittore mi facesse il ritratto e mi pagasse ancora, — disse Clara. Allora discussero se Amelia era bella, e il fratello di Clara, che era stato in barca con loro, si mise a dire che nudo era piú bello lui. Tutte ridevano e Ginia disse, ma non l’ascoltarono: — Se non fosse ben fatta un pittore non la copierebbe — . Restò umiliata quella sera, e avrebbe pianto dalla rabbia; ma i giorni passavano, e la volta che incontrò di nuovo Amelia — scendendo dal tram — si accompagnarono discorrendo. Ginia era persino piú elegante di Amelia, che camminava col cappello in mano e rideva mostrando i denti.
L’indomani pomeriggio Amelia venne a cercarla. Comparve nel caldo, sulla porta spalancata, e Ginia la vide dal suo buio, senz’esser vista. Si fecero feste, una volta spalancate le imposte, e Amelia guardava intorno, facendosi vento col cappello. — L’idea dell’uscio mi piace, — disse Amelia. — Sei fortunata. A casa mia non si potrebbe, perché stiamo a pianterreno — . Poi guardò nell’altra stanza dove dormiva Severino, dicendo: — Da noi c’è la fiera. In due stanze siamo in cinque, senza i gatti — . Uscirono insieme, quando fu l’ora, e Ginia le disse: — Quando sei stufa del tuo pianterreno, vieni a trovarmi; qui si sta in pace — . Voleva che Amelia capisse che non parlava per dir male dei suoi, ma perché era contenta che si fossero capite. E Amelia, senza dire sí né no, le offri un caffè prima del tram. Poi, l’indomani non si vide, né il giorno dopo. Venne invece una sera, senza cappello, e si sedette sul sofà e chiese ridendo una sigaretta. Ginia finiva di lavare i piatti e Severino si faceva la barba. Le diede lui la sigaretta e gliel’accese con le dita bagnate, e scherzarono tutti e tre sui lampioni. Severino doveva scappare, ma fece in tempo a dire a Ginia che non passasse la notte bianca. Amelia lo guardò uscire con una faccia divertita.
— Non cambi mai sala da ballo? — disse a Ginia. — Quei ragazzi sono tanto cari ma tengono caldo. Come le tue amiche.
Se ne andarono al centro, tutte e due senza cappello, seguendo il fresco dei corsi, e per cominciare presero il gelato e leccandolo guardavano la gente e ridevano. Con Amelia era tutto piú facile, e ci si divertiva di gusto come se niente importasse e quella sera dovessero succedere le cose piú varie. Con Amelia che aveva vent’anni e camminava e guardava sfacciata, Ginia sapeva di potersi fidare. Amelia non s’era neanche messe le calze, per il caldo; e quando passarono vicino a una sala da ballo, di quelle con l’orchestra sottovoce e i paralumi sui tavolini, Ginia aveva paura di dovercela accompagnare. Non c’era mai stata, e trattenne il fiato. Amelia disse: — Non vuoi mica andar qui dentro?
— Fa caldo e non siamo vestite, — disse Ginia. — Passeggiamo: è piú bello.
— Neanch’io ne ho voglia, — disse Amelia, — ma che cosa facciamo? Non vuoi mica fermarti su un angolo e rider dietro alla gente che passa?
— Che cosa vorresti?
— Se non fossimo donne, avremmo l’automobile e a quest’ora saremmo sui laghi a fare il bagno.
— Chiacchieriamo camminando, — disse Ginia.
— Potremmo andare in collina a bere un litro e cantare una volta. Ti piace il vino?
Ginia diceva di no e Amelia guardava l’ingresso della sala. — Però un bicchierino lo beviamo. Vieni via. Chi si annoia, è colpa sua — . Il bicchierino lo presero nel primo caffè che trovarono e, appena uscite, Ginia sentí nell’aria un fresco che prima non c’era, e pensò ch’era bella che d’estate i liquori rinfrescassero il sangue. Intanto Amelia le spiegava che, chi fa niente tutto il giorno, ha diritto per lo meno a svagarsi di sera, ma viene un momento, certe volte, che una ha paura del tempo che passa, e non sa piú se val la pena di correre tanto. — A te non succede? — Io corro solo per andare a lavorare, — disse Ginia, — mi diverto cosí poco che non ho tempo di pensarci. — Sei giovane tu, — disse Amelia, — a me succede che non sto ferma neanche quando lavoro.
— Quando posavi, stavi ferma, — disse Ginia camminando.
Amelia si mise a ridere. — Neanche per idea. Le modelle piú in gamba sono quelle che fanno ammattire il pittore. Se non ti muovi ogni tanto, lui si dimentica che posi e ti tratta come una serva. Chi si fa pecora, il lupo lo mangia.
Ginia rispose con un semplice sorriso, ma una parola le scottava in gola, piú irresistibile del liquorino. Fu allora che chiese ad Amelia perché non andavano a sedersi al fresco, e bere un altro bicchierino. — Ma sí, — disse Amelia. Lo presero al banco perché costava di meno.
Ora Ginia cominciava a sentirsi accaldata, e senza fatica mentre uscivano disse ad Amelia: — Volevo chiederti questo. Vorrei vederti posare.
Ne parlarono per un pezzo di strada, e Amelia rideva perché, nuda o vestita che sia, la modella interessa agli uomini, non a un’altra ragazza. La modella sta ferma, cosa c’è da vedere? Ginia disse che voleva vedere il pittore dipingerla: non aveva mai visto maneggiare i colori e doveva esser bello. — Non è per oggi né per domani, — diceva, — adesso sei senza lavoro. Ma se torni da qualche pittore, mi devi promettere che conduci anche me — . Amelia rise un’altra volta e le disse che, quanto ai pittori, era il meno: sapeva dove stavano e poteva condurcela. — Ma sono carogne, sta’ attenta — . Anche Ginia rideva.
Poi si trovarono sedute su una panchina e nessuno passava, perché non era piú né presto né tardi. Finirono la sera in una sala da ballo in collina.
III.
Da quella volta Amelia venne sovente a prenderla, per uscire o per discorrere insieme. Entrava nella stanza e parlava forte e non lasciava dormire Severino. Quando Rosa passava nel pomeriggio a chiamar Ginia, le trovava tutte e due pronte a uscire. Amelia finiva la sua sigaretta — quando l’aveva — e dava dei consigli a Rosa che le aveva raccontata la storia del suo Pino. Si capiva che nella sua portieria non stava volentieri, e non avendo niente da fare tutto il giorno si accontentava della loro compagnia. Anche con Rosa, che quand’erano sole prendevano in giro, Amelia scherzava facendo finta di non credere alle sue storie e ridendole in faccia.
Ginia entrò in confidenza con Amelia quando fu convinta che, per quanto cosí vivace, era una povera diavola. Ginia ormai lo capiva solo a guardarle gli occhi o la bocca mal truccata. Amelia andava senza calze, ma perché non ne aveva; portava sempre quel bel vestito, ma non ne aveva un altro. Ginia se ne convinse, una volta che s’accorse che anche lei quando usciva senza cappello si sentiva piú matta. Chi le dava sui nervi era Rosa, che l’aveva capita subito. — Val la pena aver fatto la vita, — disse Rosa, — per doversi mettere a letto quando si strappa il vestito — . Diverse volte Ginia le chiese perché non tornava a posare, e Amelia le diceva che per trovare lavoro bisogna non essere disoccupate.
Sarebbe stato bello non far niente tutto il giorno, e uscire insieme a passeggiare sull’ora che rinfresca ma essere cosí eleganti che, mentre guardavano le vetrine, la gente guardasse loro. — Essere libera come son io, mi fa rabbia, — diceva Amelia. Ginia avrebbe pagato a sentirla parlare con voglia di molte cose che a lei piacevano, perché la vera confidenza è sapere quel che desidera un altro, e quando piacciono le stesse cose una persona non dà piú soggezione. Ma Ginia non era sicura che Amelia, quando passavano verso sera sotto i portici, guardasse quello che lei guardava. Non si poteva mai giurare che le piacesse quel cappello o quella stoffa, e c’era sempre da aspettarsi che ridesse come faceva con Rosa. Sola com’era tutto il giorno, non diceva mai quel che avrebbe voluto fare di bello, o se parlava non parlava sul serio. — Hai mai fatto attenzione, aspettando qualcuno, quante facce da maiale e quante gambe da gallina passano? È un divertimento — . Forse Amelia scherzava ma forse era vero che passava cosí i quarti d’ora, e Ginia a buon conto pensava ch’era stata ben scema a lasciarle capire quella sera la sua gran voglia di veder dipingere.
Adesso, quando uscivano, era Amelia che sceglieva di andare in un posto o in un altro, e Ginia si lasciava portare, facendo la compiacente. Quando tornarono nella sala da ballo di quella sera, Ginia che s’era tanto divertita allora non riconobbe piú né lampade né orchestra e le piacque soltanto il fresco che veniva dai balconi aperti. Voleva dire che non si sentiva cosí ben vestita da scendere in mezzo ai tavolini, ma Amelia si era messa a parlare con un giovanotto che le dava del tu, e cessata la musica ne spuntò un altro che le salutò con la mano, e Amelia voltandosi disse: — Ce l’ha con te quel tale? — Allora Ginia fu contenta di esser stata riconosciuta da qualcuno, ma il giovanotto era scomparso, e un tale antipatico, che aveva ballato con lei, passò in fretta senza vederla. Pareva a Ginia che la prima sera non fossero mai state sedute a un tavolino se non per riprendere fiato, e invece adesso aspettarono un pezzo sotto la finestra e Amelia, che fu la prima a sedersi, disse forte: — È un divertimento anche questo — . Certo, le altre in quella sala non erano meglio vestite di Amelia e molte non avevano le calze, ma Ginia guardava specialmente le giacche bianche dei camerieri e pensava che fuori era pieno di automobili. Poi capí di esser scema a sperare che là in mezzo ci fosse il pittore di Amelia.
Quell’anno faceva tanto caldo che bisognava uscire ogni sera, e a Ginia pareva di non avere mai capito prima che cosa fosse l’estate, tanto era bello uscire ogni notte per passeggiare sotto i viali. Qualche volta pensava che quell’estate non sarebbe finita piú, e insieme che bisognava far presto a godersela perché, cambiando la stagione, qualcosa doveva succedere. Per questo non andava piú con Rosa alla vecchia sala o nel loro cinema, ma qualche volta usciva sola e correva a un cinema del centro. Poteva farlo lei, se lo faceva Amelia. Amelia venne una sera e le disse mentre uscivano: — Ieri ho trovato.
Ginia non si stupí. Se l’aspettava. Chiese tranquilla se cominciava subito. — Già cominciato stamattina, — disse Amelia. — Due ore. — Sei contenta, — disse Ginia.
Poi le chiese che quadro facevano. — Nessun quadro. Mi fa dei disegni. Mi copia la faccia. Io parlo e ogni tanto lui butta giú un profilo. Non è un lavoro che duri. — Non posi, allora? — disse Ginia. — Cosa credi, — fece Amelia, — che posare sia soltanto mettersi nude e star lí?
— Domani ritorni? — disse Ginia.
Amelia ci tornò l’indomani, e per diversi giorni. La sera dopo, ne parlava ridendo e raccontava del pittore che non stava mai fermo e le chiedeva se qualcuno l’aveva mai disegnata a quel modo, camminando come faceva lui. — Mi ha fatto un nudo stamattina. È di quelli che la sanno lunga e ci arrivano poco alla volta. Ma poi con quattro disegni ti mettono in carta e di te non han piú bisogno — . Ginia le chiese com’era, e Amelia disse: un ometto. — Come l’hai trovato? — Era stato per caso. — Vienimi a prendere domani, — disse Amelia. Combinarono di andarci insieme, per il pomeriggio di sabato.
Sotto il sole, per tutta la strada, quel pomeriggio Amelia la fece ridere. Sbucarono per una scala a chiocciola in un grande stanzone semibuio, che solo in fondo, da uno spacco di tende, prendeva un po’ di luce fresca. Ginia, col cuore che batteva, s’era fermata sugli ultimi scalini. Amelia gridò forte «buon giorno» e camminò fino al centro, nella penombra, e dalle tende uscí un uomo — grasso e barbetta grigia — che disse, scrollando le mani: — Niente da fare, ragazze. Oggi scappo — . Aveva indosso un camicione chiaro, che diventò giallo sporco quando lui, voltandosi, scostò un poco la tenda per far luce. — Quest’oggi, ragazze, il lavoro non serve. Ci vuol aria, quest’oggi.
Ginia non s’era mossa dal suo gradino. Vedeva controluce, a distanza, le gambe di Amelia. Diceva piano, a se stessa: «Amelia, andiamo».
— Sarebbe questa l’amichetta che le piace conoscermi? Ma è una vera bambina. Fatti vedere in luce.
Ginia salí l’ultimo gradino, controvoglia, sentendosi addosso gli occhi grigi e curiosi non sapeva se da vecchio o da furbo. Sentí pure la voce di Amelia — tagliente, la voce seccata — che diceva: — Ma avevamo appuntamento.
— Che vuoi farci? — disse l’altro. — Che vuoi farci? Anche voialtre siete stanche. Il lavoro è una cosa che va fatta con calma. Non sei contenta se ti lascio riposare?
Allora Amelia andò a sedersi su una sedia, nell’ombra delle tende, e a Ginia parve di stare chi sa quanto, senza sapere che cosa rispondere alle occhiate di quei due, che si guardavano e guardavano lei. Le pareva che quel tipo scherzasse, ma non con loro; parlava ancora con Amelia, parlava a scatti, diceva sempre «che vuoi farci». Un bel momento saltò indietro, cosí piccolotto com’era, e allargò di piú il tendaggio. Nello stanzone vuoto c’era odore di calce fresca e di vernice.
— Siamo sudate, — disse Amelia, — ci lasci almeno rinfrescare. Vero, Ginia? — Disse cosí, mentre il barbetta si voltava di nuovo e apriva i grandi vetri che davano sul cielo. Amelia, con le gambe accavallate, lo guardava, e rideva. Davanti alla finestra c’era un cavalletto, con una tela sopra, coperta di macchie di colore buttate e raschiate. — Se non si lavora adesso che c’è luce, quando vuole lavorare? — disse Amelia. — Scommetto che va a tradirmi con un’altra modella. — Con tutto il mondo ti tradisco, — gridò il pittore, chino a terra. — Credi di valere piú di una pianta o di un cavallo? Io lavoro anche quando passeggio, cosa credi? — e intanto rovistava in una cassa sotto il cavalletto e buttava in aria dei fogli, delle scatole, dei pennelli. Amelia saltò dalla sedia, si tolse il cappello, e ammiccò a Ginia. — Perché non fa uno schizzo alla mia amica? — disse ridendo. — Non ha mai posato per nessuno.
Il pittore s’era voltato. — È quello che faccio, — disse. — La sua espressione m’interessa.
Tenendo in mano una matita, cominciò a camminare a distanza intorno a Ginia, con la testa piegata, carezzandosi la barba, e la fissava come un gatto. Ginia in mezzo alla stanza non osava muoversi. Poi le disse di farsi in luce, e senza perderla d’occhio, buttò un foglio sulla tela del cavalletto e cominciò a disegnare. Nel cielo c’era una nuvola gialla e dei tetti; Ginia fissava quella nuvola, col cuore che batteva, e senti Amelia dir qualcosa, nella stanza, e camminare e soffiare, ma non la guardò.
Quando Amelia la chiamò a vedere il disegno, Ginia dovette chiuder gli occhi per abituarsi alla penombra. Poi si chinò adagio sul foglio e riconobbe il suo cappello, ma la faccia le parve di un’altra, una faccia addormentata, senza senso, con la bocca aperta come se parlasse dormendo. — È preoccupante, — diceva Barbetta, — davvero nessuno ti ha mai disegnata? — Le fece togliere il cappello, e le disse di sedersi e parlare con Amelia. Sedute, si guardarono con voglia di ridere, e quell’altro riempiva altri fogli. Amelia faceva dei gesti e le diceva di non pensare alla posa.
— Preoccupante, — disse ancora Barbetta, guardando di sbieco; — si direbbe che il profilo vergine è informe — . Ginia chiese ad Amelia se lei non posava e Amelia disse forte: — Oggi ha trovato te. Non ti molla di certo — . Giacché parlavano, Ginia le chiese se non si potevano vedere i suoi ritratti dei giorni passati. Allora Amelia si alzò e andò a prendere in fondo alla stanza una cartella. Gliel’aprí sulle ginocchia e disse: — Guarda.
Ginia voltò diversi fogli, e al quarto o al quinto era sudata. Non osava parlare perché si sentiva addosso gli occhi grigi di quell’uomo. Anche Amelia la guardava aspettando. Finalmente le disse: — Ti piacciono?
Ginia levò la faccia, cercando di sorridere. — Non ti conosco, — disse. Poi li fece passare, a uno a uno, tutti quanti. Quand’ebbe finito, era piú calma. Dopo tutto, Amelia le stava davanti vestita, e rideva.
Disse, come una stupida: — È lui che li ha fatti? — Amelia, che non capí, rispose forte: — Io no di certo.
Quando Barbetta ebbe finito, Ginia avrebbe voluto essere ancora abbagliata come prima, per chiudere gli occhi e aspettare. Ma Amelia gridò che venisse, e davanti al gran foglio anche Ginia fu meravigliata. C’erano tante teste sue, buttate a capriccio sul foglio, qualcuna per storto, qualche volta una smorfia che non aveva mai fatto, ma i capelli, le guance, le narici, erano veri, erano i suoi. Guardò Barbetta che rideva, e le parve impossibile che fossero quegli occhi grigi di prima.
Poi avrebbe pestato Amelia che cominciò a tirar stoccate e a insistere che un’ora era un’ora e che Ginia lavorava per vivere. Ribattè che era venuta con lei per caso e che non voleva rubarle il mestiere. Barbetta rideva tra i denti e disse che doveva uscire. — Venite, vi pago il gelato. Ma poi scappo.
IV.
Il mattino dopo ci tornarono insieme, perché stavolta era Amelia che doveva posare. — Guai a te, — le disse Amelia, — se mi prendi ancora il posto. Quel lazzarone sa che ti accontenti di gelati, e con la storia che sei vergine approfitta — . Ginia non era piú cosí contenta come prima, e appena sveglia aveva pensato ai suoi ritratti rimasti in mezzo ai nudi di Amelia, e a quel tremendo batticuore che aveva provato. Nutriva un filo di speranza di farsi regalare le sue facce, non tanto per averle quanto perché non restassero esposte, là in mezzo, alla curiosità di chiunque. Non si capacitava che proprio Barbetta, quel vecchio papalotto grasso, avesse disegnato cancellato pasticciato le gambe la schiena il ventre i capezzoli di Amelia. Non osava guardarla in faccia. Quegli occhi grigi e quel lapis l’avevano fissata, misurata e frugata, piú sfacciati di uno specchio, e lei ferma o magari a fare le capriole e discorrere.
— Non vi disturbo stamattina? — le chiese mentre infilavano il portone.
— Senti, — le fece Amelia. — Volevi o non volevi vedermi posare? Un’altra volta starò attenta a non mettermi piú con le figlie di famiglia.
Nello studio tutti i vetri erano spalancati e le tende aperte, e mentre aspettavano Barbetta, sbucò dalla scala la vecchia serva per tenerle d’occhio. Ginia si chiedeva dove si sarebbe messa Amelia per posare, ma Amelia discuteva già con la vecchia e le fece chiudere i vetri perché l’aria del mattino rinfrescava la stanza. La donna non parlava ma borbottava, e aveva una faccia cosí muffita e pelosa che Amelia le rideva sotto il naso.
Venne finalmente Barbetta infilandosi il camicione e cominciò a tempestare e trasportarono il cavalletto in fondo allo studio e comparve la tavolozza. C’era là in fondo un sofà-letto, e chiusero tutte le tende tranne l’ultima, in modo che la luce pioveva tutta su quell’angolo. Ginia nel trambusto si sentiva di troppo, e le pareva che anche la vecchia la guardasse per traverso.
Quando la vecchia se ne andò, Amelia si stava spogliando vicino al sofà e Ginia si mise a guardare la grossa mano di Barbetta che, tenendo un carboncino leggero tra le dita, anneriva sul cavalletto il fondo di una carta biancastra. Barbetta, senza guardarla, le disse di sedersi, e si sentí la voce di Amelia. Ginia guardò dalla finestra sui tetti, come posasse un’altra volta, e pensò ch’era ben sciocca. Fece uno sforzo e si voltò.
La prima idea fu che Amelia doveva aver freddo e che Barbetta la guardava appena, e che l’incomodo vero era lei sola, venuta per curiosità. Amelia — bruna com’era — pareva sporca, e faceva pena vederla. Se ne stava seduta sul sofà, con le braccia sulla spalliera di una seggiola e la faccia nascosta, e mostrava bene la gamba dall’anca al tallone e tutto il fianco e l’ascella.
Dopo un po’, Ginia s’annoiava. Guardava Barbetta cancellare e rifare, gli vedeva la fronte concentrata, scambiò un sorriso con Amelia, ma s’annoiava. Le tornò il batticuore quando Amelia si alzò la prima volta stirandosi e raccolse le mutandine cadute dal sofà, ma era un batticuore stupido che avrebbe provato lo stesso anche se fossero state sole, il batticuore di accorgersi che tutte siamo fatte uguali e che chiunque avesse visto nuda Amelia, era come vedesse lei. Cominciò a non piú star ferma.
Dalla testa appoggiata sul braccio Amelia le disse; — Ciao Ginia — . Bastò questo per farle piacere e calmarla. S’era accorta un momento prima che Amelia aveva le caviglie arrossate, e pensò se anche lei, dovendosi spogliare, avrebbe avuto quei segni. «Io ho la pelle piú giovane», disse. Poi chiese forte: — Ti ha mai fatta a colori?
Le rispose Barbetta: — I colori non si studiano. Entrano dalla finestra col sole. Non ci sono colori qua dentro. — Si capisce, — disse Amelia, — è troppo avaro. Costan cari, i colori. — Fa’ il piacere, — gridò il vecchio, — è che il colore va rispettato, e tu non sai neanche che cosa sia perché, tolto quel trucco, non sai di niente. Ne ha di piú questa biondina — . Amelia alzò le spalle e non mosse la testa.
Poi si senti una sirena chi sa dove, di là dai tetti, e Ginia cominciò a passeggiare e ritrovò sulla finestra quei suoi ritratti ma non osava chiederli. Sfogliandoli, rivide quelli di Amelia e piano piano li confrontava, e si chiedeva se proprio Amelia aveva preso quelle pose che sembravano, qualcuna, di ginnastica. Possibile che un vecchio come Barbetta si divertisse ancora a copiare le ragazze e studiare com’erano fatte? Era anche lui ben preso, pensava.
Uscirono dopo mezzogiorno, e faceva piacere ritrovarsi in mezzo alla gente e camminare tutte vestite e vedere i bei colori della strada che, non si capiva come, ma era vero che venivano dal sole se di notte non c’erano. Anche il nervoso di Amelia era passato e le pagò l’aperitivo, e di pittori non parlò piú.
Ginia ci pensò un pezzo, sola sul suo sofà, quel pomeriggio e altri ancora. Rivedeva nel buio il ventre nero di Amelia e quella faccia indifferente e le mammelle che pendevano. Non c’era forse di piú da dipingere in una donna vestita? Se i pittori le volevano far nude, dovevano avere altri scopi. Perché non copiavano uomini? Persino Amelia, svergognandosi in quel modo, diventava un’altra. Ginia quasi piangeva.
Ma con Amelia non diceva niente, e solo le faceva piacere che adesso guadagnasse e, trovandosi con lei, venisse piú volentieri al cinema. Poi Amelia si comprò delle calze e si pettinò meglio, e Ginia tornò a camminarle insieme con vero piacere perché Amelia faceva figura e molti si voltavano a guardarle. Finí cosí l’estate e una sera Amelia disse: — Il tuo Barbetta va in campagna a cercare i suoi colori e a vendemmiare. Cominciava a seccarmi.
Proprio quella sera Amelia aveva una borsetta nuova, e Ginia disse: — Ti ha fatto il regalo di uscita?
— Quello? — disse Amelia. — Fammi ridere. Quello voleva che tornassi tu, per non pagarti.
Allora litigarono perché Amelia non gliel’aveva mai detto, e tanto dissero che si lasciarono offese. «Ha trovato un amante, — pensò Ginia, tornandosene sola, — ha trovato un amante che le fa dei regali». Decise di fare la pace soltanto se Amelia veniva a pregarla.
Di malavoglia, per non annoiarsi, Ginia provò a riprendere le vecchie compagnie. Dopo tutto, l’estate ventura avrebbe avuto diciassette anni e le pareva ormai di saperla lunga come Amelia. Tanto piú, non vedendola. In quelle sere già fresche, con Rosa provò a fare l’Amelia. Le rise in faccia sovente e la condusse a passeggio discorrendo. Le riparlò di Pino. Ma in collina a ballare non osava portarla.
Amelia aveva certo qualcuno, e piú nessuno la vedeva. «Finché una donna ha da vestirsi, — pensava Ginia, — fa figura. Bisogna stare attente a non lasciarsi veder nude». Ma non erano cose che si potesse parlarne con Rosa o con Clara né coi loro fratelli che avrebbero subito pensato male o cercato di metterle le mani addosso, e Ginia questo non voleva perché aveva capito che al mondo c’è di meglio di un Ferruccio o di un Pino. Le sere che si trovava con loro, ballavano e scherzavano — discorrevano anche — ma Ginia sapeva ch’era come l’allegria delle domeniche che si andava in barca: una cosa da ragazzi, senza conseguenza, un effetto del sole e del cantare, quando bastava veder uno con l’asciugamano intorno ai fianchi a far la donna, per mettersi a ridere. Invece adesso la domenica e le sere eran fatte di noia, perché da sola Ginia non sapeva piú decidersi e si lasciava portare dalle altre. Dove si divertiva, qualche volta, era all’atelier, quando la signora la chiamava a puntare gli spilli sull’abito di una cliente. C’era da ridere a sentire certe storie che qualche cliente scema raccontava, ma ancora piú divertente era quando la signora fingeva di crederci e se ne stava seria seria mentre gli specchi la riflettevano maliziosa. Una volta venne una bionda che, a sentirla, aveva l’automobile sotto ma se fosse stato vero, pensava Ginia, sarebbe andata in una sartoria piú di lusso. Era giovane e alta, e senza fede. Ma bella — parve a Ginia — bella e slanciata, anche quando restò in calzoncini, reggiseno e nient’altro. Quella sí, se avesse posato, avrebbe fatto un bel quadro, e forse era davvero una modella perché passeggiava davanti agli specchi con lo stesso portamento di Amelia. Giorni dopo, Ginia ne vide la fattura, ma era al semplice cognome, e non seppe di piú. Per lei la bionda restò una modella.
Una sera Ginia si lasciò invitare da un amico di Severino, che venne in casa a portarle una lampada: e l’indomani passò nel suo negozio. Era un giovanotto come Severino, e non le dava soggezione, perché portava sempre la tuta, e qualche anno prima la prendeva ancora per i polsi dicendo se voleva la scossa. Adesso la guardava sporgendo la lingua tra i denti. Ginia ci andò perché da quel negozio si vedeva il portone di Amelia, ma quel Massimo non immaginava certo perché lei si fermasse a chiacchierare e a ridere, e ci tornasse il giorno dopo.
Guardavano le lampade rosa e celesti, e lei faceva la matta. Dalla vetrina si vedeva passar gente, e Ginia gli chiese se era vero che Amelia girava vestita di bianco. — Chi lo sa? — disse Massimo, — siete tante, voi ragazze. Lo saprà Severino. — Oh perché Severino? — A Severino, — disse Massimo, — piacciono le cavallone. È ben quella che va senza calze? — Te l’ha detto lui? — chiese Ginia. — Sei sua sorella e non lo sai? — rispose Massimo ridendo; — fattelo dire da Amelia. Non ti veniva sempre in casa?
A questo Ginia non aveva mai pensato. L’idea che a Severino fosse piaciuta Amelia, che se lo fossero detto e magari si vedessero, le guastò la giornata. Se questo era vero, tutta l’amicizia di Amelia era stata una finta. «Sono proprio una bambina», pensava Ginia, e per tenersi dalla rabbia si ricordò che vederla nuda le aveva fatto ribrezzo. «Ma sarà vero?», pensava. Severino innamorato di qualcuna non riusciva a immaginarselo, e anzi era certa che, se lui l’avesse vista quella volta posare, povera Amelia non gli sarebbe piú piaduta. «O forse sí?» «Ma perché siamo nude?» pensò disperata.
Verso sera, era già piú tranquilla, e convinta che Massimo aveva detto per dire. Mentre mangiava con Severino, gli guardava le mani e le unghie rotte e capiva che Amelia era abituata a tutt’altro. Poi rimase sola alla luce smorzata e pensava alle belle sere di agosto che Amelia veniva a prenderla, quando senti dietro la porta la sua voce.
V.
— Venivo a trovarti, — disse Amelia.
Ginia non rispose subito.
— Sei sempre arrabbiata, — disse Amelia. — Lascia correre. Non c’è tuo fratello?
— È uscito adesso.
Amelia aveva il vecchio vestito, ma una bella pettinatura coi coralli. Andò a sedersi sul sofà e le chiese subito se usciva. Parlava con la voce di un tempo, ma piú bassa, come fosse raffreddata.
— Cerchi me o Severino? — disse Ginia.
— Oh questa gente. Lasciala stare. Voglio soltanto divagarmi, se vieni anche tu.
Allora Ginia si cambiò le calze e corsero giú per le scale, e Amelia si lasciò raccontare cos’era successo nel mese. — E tu cos’hai fatto? — diceva Ginia. — Cosa vuoi che abbia fatto? — diceva Amelia ricominciando a ridere, — niente ho fatto. Stasera ho detto: andiamo a vedere se Ginia pensa ancora a Barbetta — . Altro non si poteva cavarle, ma Ginia era contenta. — Andiamo a bere un bicchierino? — disse.
Mentre bevevano, Amelia le chiese perché non era mai venuta a trovarla. — Non sapevo dov’eri. — Figúrati. Al caffè tutto il giorno. — Non l’avevi mai detto.
L’indomani Ginia andò a cercarla al caffè. Era un caffè nuovo sotto i portici, e Ginia si guardò intorno per trovarci Amelia. Fu Amelia che la chiamò, forte, come fosse in casa sua; e Ginia le vide un bel soprabito grigio e il cappello con la veletta, che la faceva quasi irriconoscibile. Era seduta con le gambe accavallate e il pugno sotto il mento, come posasse. — Hai proprio voluto venire, — disse ridendo.
— Non aspetti nessuno? — chiese Ginia.
— Aspetto sempre, — disse Amelia facendole posto accanto. — È il mio lavoro. Per potersi spogliare davanti a un pittore, bisogna fare la coda.
Amelia aveva sul tavolino un giornale e il pacchetto delle sigarette. Dunque qualcosa guadagnava. — È bello questo cappello ma ti fa vecchia, — disse Ginia guardandole gli occhi. — Lo sono, vecchia, — disse Amelia. — Non ti piace?
Amelia stava appoggiata allo specchio, come fosse su un sofà. Guardava avanti, nello specchio di fronte, dove Ginia vedeva anche se stessa ma piú bassa. Parevano madre e figlia. — E stai qui sempre? — le chiese. — Vengono qui i pittori?
— Vengono quando han voglia. Oggi non se n’è visti.
Il lampadario era acceso, e molta gente passava davanti alla vetrina. L’ambiente era pieno di fumo, ma cosí lucido e calmo che i rumori e le voci pareva venissero da lontano. Ginia osservò due ragazze in un angolo che facevano salotto e parlavano col cameriere. — Sono modelle? — disse.
— Non le conosco, — disse Amelia. — Prendi il caffè o l’aperitivo?
Ginia aveva sempre creduto che nei caffè si andasse per far coppietta con un uomo, e non si capacitava che Amelia ci passasse i pomeriggi da sola, ma trovò cosí bello uscendo dall’atelier fare i portici e aver dove andare, che l’indomani ci tornò. Purché fosse stata sicura che Amelia la vedeva con piacere, si sarebbe proprio divertita. Amelia stavolta la vide dal vetro, e le fece segno e uscí fuori. Presero il tram insieme.
Non parlò molto quella sera Amelia. — Ci sono dei maleducati, — disse soltanto. — Aspettavi qualcuno? — chiese Ginia.
Discorrendo, prima di lasciarsi, combinarono per l’indomani e Ginia si convinse che Amelia la vedeva volentieri e, se qualcosa le era andato per traverso, era stato per altri motivi, forse qualche brutta figura.
— Come fanno? Viene un pittore e ti dice se vuoi posare? — le chiese ridendo.
— Ci sono anche quelli che non dicono niente, — le spiegò Amelia. — Non vogliono modelle.
— E che cosa dipingono? — disse Ginia.
— Lo sai, tu? C’è uno che racconta che lui dipinge come noi ci diamo il rossetto. «Tu che cosa dipingi quando ti dài il rossetto? Lo stesso dipingo io».
— Ma col rossetto si dipingono le labbra.
— E lui dipinge la tela. Ciao, Ginia.
Quando Amelia scherzava cosí senza ridere, Ginia aveva paura che succedesse qualcosa e restava male e tornava a casa sentendosi sola. Fortuna che, a casa, doveva sbrigarsi a buttare la pasta per Severino e, finita la cena, era già diverso, perché veniva notte e il momento di uscire da sola o con Rosa. Certe volte pensava: «Ma che vita faccio. Non mi fermo un attimo». Ma quella vita le piaceva, perché solo cosí era bello trovare quel momento di pace al pomeriggio, o alla sera quando passava al caffè di Amelia, e riposarsi. Se non avesse avuto Amelia, sarebbe stata piú libera, ma per fare che cosa, adesso che le giornate si guastavano e non c’era piú gusto a traversare la strada? Se qualcosa doveva succedere quell’inverno — Ginia se lo sentiva — era da Amelia che sarebbe venuto, non da stupide come Rosa o Clara.
Al caffè cominciò a fare conoscenze. C’era un signore che somigliava a Barbetta e, quando loro se ne andavano, salutava Amelia con la mano. Le dava del voi, e Amelia disse a Ginia che non era un pittore. Un giovanotto alto che si fermava davanti ai portici con l’automobile e aveva insieme una signora molto elegante, venne qualche volta al banco, e Amelia non lo conosceva, ma diceva che non era un pittore. — Non sono mica molti, cosa credi? — disse a Ginia. — Chi lavora veramente, non viene al caffè — . Tutto sommato, Amelia conosceva piú i camerieri che gli avventori, ma Ginia che si divertiva a sentir quelli scherzare, stava attenta a non dar troppa confidenza a nessuno. Uno che spesso era seduto con Amelia e la prima volta salutò Ginia senza neanche guardarla, era un giovanotto peloso, dalla cravatta bianca e dagli occhi nerissimi che si chiamava Rodrigues. Difatti non sembrava un italiano e parlava raschiando, e Amelia lo trattava come un ragazzo, dicendogli che se invece di spendere quella lira al caffè l’avesse tenuta, in dieci giorni si sarebbe pagata la modella. Ginia ascoltava divertita, ma l’altro ricominciava con la sua voce malsicura a trattare Amelia di bella donna e di bambina capricciosa. Lei rideva, ma qualche volta si seccava e gli diceva di andarsene. Allora Rodrigues cambiava tavolino, tirava fuori la matita e si metteva a scrivere, guardandole di traverso. — Non fargli attenzione, — diceva Amelia, — ci godrebbe — . Poco alla volta, anche Ginia s’abituò a non farne piú caso.
Una sera uscirono insieme senza nessuna meta. Avevano passeggiato, poi s’era messo a piovere e si ripararono sotto un portone. Faceva freddo, specialmente a star ferme con le calze bagnate. Amelia aveva detto: — Se Guido è in casa, vuoi che andiamo da lui? — Chi è Guido? — Amelia aveva messo fuori il naso, torcendosi il collo a guardare le finestre della casa di fronte. — È acceso; andiamo, staremo al riparo — . Avevano salito almeno sei piani, erano alle soffitte, quando Amelia s’era fermata ansimando, e aveva detto: — Hai paura?
— Perché paura? — disse Ginia, — non lo conosci?
Mentre toccavano la porta, sentirono ridere nella stanza, una risata sottovoce e sgradevole che a Ginia ricordò Rodrigues. Sentirono dei passi, la porta si schiuse e non si vide nessuno. — Permesso, — disse Amelia entrando.
C’era proprio Rodrigues, buttato su un sofà contro il muro, sotto una luce cruda. Ma c’era un altro in piedi, un soldato in maniche di camicia, biondo e infangato, che le guardò ridendo. Ginia batté gli occhi in quella luce che sembrava acetilene. Quadretti e tende coprivano tre pareti; la quarta era tutta finestra.
Amelia diceva a Rodrigues tra seria e ridendo: — Ma lei è proprio dappertutto? — Quello la salutò con la mano e brontolò: — La seconda si chiama Ginia, Guido — . Allora il soldato tese la mano anche a lei, squadrandola impertinente e sorridendo.
Ginia capí che ci voleva disinvoltura, e sopra la testa di Amelia e di Guido cominciò a guardare quei quadri sulle pareti. Sembravano paesaggi con piante e montagne, e intravide qualche ritratto. Ma la lampadina appesa senza riflettore, come nelle case non finite, accecava senza far luce. Vide appena che qui non c’erano tanti tendaggi come da Barbetta, salvo uno — un tendone rosso — che chiudeva la stanza in fondo, e Ginia capí che dietro doveva esserci un’altra stanza.
Guido disse se volevano bere. Sul gran tavolo in mezzo alla stanza c’era una bottiglia e dei bicchieri. — Siamo venute per scaldarci, — disse Amelia. — Abbiamo l’acqua fino alle ginocchia Guido versò da bere — un vino nero — e Amelia portò il bicchiere a Rodrigues che si alzò a sedere. Mentre bevevano, Amelia gli disse: — Mi dispiace per Guido, ma lei adesso si alza e mi lascia il letto per scaldarmi le gambe. I letti sono per le donne. Vieni anche tu, Ginia — . Ma Ginia non volle e disse che il vino l’aveva già scaldata, e si sedette su una sedia. Allora Amelia si levò le scarpe, si tolse la giacchetta, e si cacciò sotto la coperta. Rodrigues rimase seduto sull’orlo del sofà.
— Continuate il discorso, — disse Amelia. — Mi dà noia soltanto la luce — . E tese il braccio sul muro e la spense. — Ecco fatto. Datemi una sigaretta.
Ginia restò nel buio, esterrefatta. Ma s’accorse che Guido era andato al sofà e sentí che sfregava il cerino e vide le due facce nella fiamma in un ballonzolare d’ombre. Poi tornò il buio, e per un attimo nessuno fiatò. Sulle finestre si sentiva sgocciolare la pioggia.
Qualcuno parlò per un momento, ma Ginia, che non si capacitava ancora, non si rese conto delle parole. S’accorse che anche Guido fumava, passeggiando al buio, tranquillo. Vedeva la brace della sigaretta e sentiva i passi. Poi capí che Amelia e l’altro avevano ricominciato a litigare. Fu soltanto quando, poco alla volta, si fu avvezzata al buio e cominciò a distinguere il tavolo, le ombre degli altri e persino qualche quadro sulla parete, che divenne piú tranquilla. Amelia parlava con Guido di una volta che aveva dormito ammalata su quel sofà. — Ma allora non avevi questo socio, — gli diceva, — che cosa ne fai? lo spogli nudo?
Tutto era cosí strano che Ginia disse: — Sembra d’essere al cinema.
— Qui non si paga il biglietto, — fece Rodrigues dal suo cantuccio.
Guido passeggiava sempre e teneva tutta la stanza; coi suoi scarponi faceva vibrare il pavimento sottile. Parlavano tutti insieme, ma un bel momento Ginia s’accorse che Amelia taceva — si vedeva la sigaretta — , e che taceva anche Rodrigues. Solo la voce di Guido riempiva la stanza e spiegava qualcosa che lei non capí perché tendeva l’orecchio al sofà. Una luce notturna veniva dai vetri, come un riflesso elettrico della pioggia, e si sentivano sgocciolare, sciacquare, scorrere tetti e grondaie. Tutte le volte che per caso la pioggia e la voce tacevano insieme, pareva che facesse piú freddo. Allora Ginia tendeva gli occhi nel buio per distinguere la sigaretta di Amelia.
VI.
Nella strada, davanti al portone, si lasciarono, che aveva smesso di piovere. Ginia rivedeva ancora la stanza sporca e sgocciolante in quella luce da lampione. Diverse volte Guido l’aveva accesa, per versar da bere o per cercare qualcosa, e Amelia dal sofà s’era coperti gli occhi gridando di spegnere, e s’era visto Rodrigues raggomitolato contro il muro ai suoi piedi, immobile.
— Non hanno nessuno quei due, che gli scopi la stanza? — disse Ginia, mentre tornavano a casa sole.
Amelia disse che Guido si fidava troppo a lasciar la chiave dello studio a Rodrigues.
— Li ha fatti Guido, quei quadri?
— Io al suo posto avrei paura che quel portoghese me li vendesse, subaffittandomi la stanza sul patto.
— Tu posavi per Guido?
Amelia raccontò camminando come aveva conosciuto Rodrigues quando lei era piú giovane e posava per un tale. Rodrigues capitava, come adesso, e si sedeva nello studio come fosse al caffè; se ne stava lí rincantucciato, guardava da lei al pittore, e non diceva mai niente. Portava già la cravatta bianca. Faceva lo stesso con un’altra modella, che lei conosceva.
— Ma non dipinge anche lui?
— Chi è quella disperata che vuoi che gli si metta nuda davanti?
Ginia avrebbe voluto rivedere i quadri di Guido, perché sapeva che soltanto di giorno si vedon bene i colori. Se fosse stata sicura che non c’era Rodrigues, avrebbe preso il coraggio a due mani per andarci da sola. Immaginava di salire, bussare, e trovare quel Guido coi suoi calzoni da soldato, e ridergli in faccia per rompere il ghiaccio. Il bello di quel pittore era che non sembrava un pittore. Ginia si ricordava di quando le aveva stretto la mano con un sorriso incoraggiante, e poi la sua voce nella stanza buia, e la sua faccia, quando accendeva la luce, che la guardava come se loro due fossero una coppia a parte da Rodrigues e Amelia. Ma adesso Guido non c’era, e bisognava fare i conti con l’altro.
Al caffè, l’indomani chiese ad Amelia se almeno la domenica Guido era libero. — Una volta l’avrei saputo, — disse Amelia. — Ma non lo vedo piú da un pezzo.
— Rodrigues mi ha detto di andare al suo studio quando voglio.
— Guarda guarda, — fece Amelia.
Ma per diversi giorni non lo videro al caffè. — Vuoi scommettere che aspetta che andiamo noi a trovarlo, adesso che dispone di un letto, per farci una scena e riceverci? È da lui, — disse Amelia.
— Sta fresco, — rispose Ginia.
Ripensandoci, si convinse che il gesto d’Amelia di mettersi a letto e di far buio in presenza di terzi, non era poi cosí sfacciato, tant’è vero che Guido e Rodrigues non ne avevano fatto caso. Quel che la tormentava era l’idea di ciò che su quel letto Amelia poteva aver fatto in altri tempi, quando la stanza era solo di Guido.
— Quanti anni ha Guido? — le chiese.
— Una volta aveva i miei.
Ma Rodrigues non si vedeva, e Ginia, un mattino che uscí in commissioni, passò per la strada di quella notte. Guardò in alto e riconobbe la facciata triangolare dello studio. Senza pensarci tanto, salí le scale — non finivano piú — ma, entrata nell’ultimo corridoio, c’erano diverse porte e non seppe decidersi. Capí che Guido non era famoso, perché non aveva neanche la targhetta, e discendendo pensava intenerita alla lampadina di quella sera che per un pittore doveva essere una morte. Quando poi vide Amelia, non le parlò della visita.
Un giorno che discorrevano, le chiese perché gli uomini facevano i pittori. — Perché ci sono di quelli che comprano i quadri, — rispose Amelia. — Ma non tutti, — disse Ginia, — e i pittori che nessuno li compra?
— È un gusto come un altro, — disse Amelia, — ma fanno la fame.
— Dipingono perché c’è soddisfazione, — disse Ginia.
— Fa’ il piacere. Tu ti faresti un vestito per poi non portarlo? Il piú furbo è Rodrigues che si dà del pittore, ma nessuno gli ha mai visto un pennello in mano.
Proprio quel giorno Rodrigues si fece trovare al caffè, e disegnava tutto concentrato su un taccuino. — Cosa fa? — disse Amelia e gli prese il foglio. Anche Ginia lo guardò, curiosa, ma videro solo un pasticcio di linee che parevano i bronchi di un uomo. — Cos’è? una pianta di lattuga? — disse Amelia. Rodrigues non rispose né sí né no, e allora sfogliarono il taccuino dove i disegni erano molti: qualcuno somigliava a degli scheletri di piante, e qualche volta erano facce ma senz’occhi, con chiazze nere tratteggiate; certi non si capiva se erano facce o paesaggi. — Questi sono soggetti veduti di notte alla luce del gas, — disse Amelia. Rodrigues se la rideva, ma a Ginia faceva piú pena che rabbia.
— Non c’è niente di bello, — disse Amelia, — se a me facesse un ritratto cosí, le toglierei il saluto.
Rodrigues guardava senza parlare.
— Una bella modella è sprecata per lei, — disse Amelia. — Dove le trova le modelle? in quel posto?
— Io non adopero modelle, — disse Rodrigues. — Io rispetto la carta.
Allora Ginia gli disse che voleva rivedere i quadri di Guido. Rodrigues si rimise in tasca il taccuino e rispose: — Ai suoi ordini.
Finí che ci andarono tutte e due, la prima domenica, e Ginia saltò un pezzo di messa per fare in tempo. Erano d’accordo per trovarsi sul portone, ma non c’era nessuno e allora Ginia salí. Di nuovo fu incerta fra le quattro porte del corridoio, e non sapeva decidersi e ridiscese la scala fino a metà. Ma poi si diede della stupida; risalí e origliò davanti all’ultima. Intanto uscí da un’altra porta una donna spettinata, in vestaglia, che portava un secchio. Ginia fece appena in tempo a rialzarsi, e le chiese dove stava il pittore. Quella non la guardò neanche e non rispose, e se ne andò per il corridoio. Ginia, rossa e tremante, tenne il fiato finché tutto tacque, e poi corse giú dalla scala.
Dal portone ogni tanto entrava e usciva qualcuno, e la guardavano passando. Ginia cominciò a passeggiare disperata, tanto piú che dall’altra parte del marciapiede c’era un garzone macellaio appoggiato allo stipite e la fissava maligno. Pensò di chiedere alla portinaia dove fosse lo studio, ma ormai tanto valeva aspettare Amelia. Era quasi mezzogiorno.
Il peggio era che per quel pomeriggio non aveva appuntamento con Amelia e cosí avrebbe dovuto restarsene sola. «Tutto, tutto, mi va male», pensava. In quel momento sul portone sbucò Rodrigues e le fece segno.
— Amelia è di sopra, — disse disinvolto, — dice di venire.
Ginia salí con lui, senza parlare. La porta era proprio quell’ultima, dove non s’era sentita un’anima. Amelia, sul sofà, se la fumava come fosse al caffè. — Perché non salivi? — disse subito, tranquilla. Ginia le diede della stupida, ma quella e Rodrigues fecero cosí i convinti che lei avrebbe dovuto salire, che litigare fu impossibile. E neanche poteva gridare che aveva ascoltato alla porta, perché sarebbe stato peggio. Ma bastava guardare come tutti e due se ne stavano cheti, per capire che il sofà doveva saperne qualcosa. «Mi pigliano anche per stupida», pensò Ginia, e cercò di capire se Amelia era spettinata e quel che dicevano gli occhi dell’altro.
Il cappello di Amelia — quello della veletta — era gettato sul tavolo, e Rodrigues in piedi, con la schiena alla finestra, lo fissava con aria ironica.
— Chi sa se a Ginia starebbe bene la veletta, — disse Amelia di punto in bianco.
Ginia fece una smorfia e senza muoversi cominciò a guardare i quadretti sulla testa di Amelia. Ma quei piccoli colori non la interessavano piú. Levando le narici sentiva nel tanfo freddo il profumo di Amelia. Non riuscí a ricordarsi che odore sapeva la stanza l’altra volta.
Allora camminò per la stanza, guardando i quadri sui muri. Fissava un paesaggio o un piatto di frutta; si fermava; non si decideva a staccarne gli occhi; nessuno parlava. C’era qualche ritratto di donna: non conosceva quelle facce. Arrivò in fondo alla stanza e si trovò dinanzi la tenda profonda, di panno sfilacciato e pesante, che copriva tutta la parete. Le tornò in mente che Guido aveva preso là dietro i bicchieri; e disse «Si può?» a mezza voce, ma i due non sentirono perché Rodrigues diceva qualcosa, e allora Ginia scostò la fessura, a guardare, ma non vide che un letto disfatto, e il vano di un lavandino. Anche là dentro c’era odor d’Amelia, e Ginia se ne accorse mentre pensava che doveva essere bello dormir sola in quel cantuccio.
VII.
— Rodrigues muore dalla voglia che tu posi per lui, — disse Ginia mentre tornavano a casa.
— Ebbene?
— Non hai visto come ci saltava intorno e ti guardava le gambe?
— Guardi pure, — disse Amelia.
— Per Guido non hai mai posato?
— Mai, — disse Amelia.
Traversando la piazza, videro passare Rosa, a braccetto di un tale che non era Pino. Gli stava attaccata come se fosse zoppa, e Ginia disse: — Guarda. Hanno paura di perdersi. — Di domenica tutto è permesso, — disse Amelia. — Ma non in piazza. Fanno ridere. — Dipende dalla voglia, — rispose Amelia, — quando una è stupida e ne ha voglia, fa questo e altro.
Ginia aveva saputo da Rodrigues che Guido veniva molti pomeriggi a far la libera uscita nello studio e a dipingere. — Dipingerebbe anche la notte, — aveva detto Rodrigues. — Davanti a una tela perde il lume degli occhi come il toro, e bisogna che la copra — . E si era messo a ridere in quel modo catarroso.
Senza dir nulla, Ginia cercò un pomeriggio che Rodrigues fosse al caffè, e andò da sola allo studio. Questa volta salí le scale col batticuore per un altro motivo. Ma davanti alla porta non stette a pensare. La trovò aperta.
— Avanti, — disse Guido.
Ginia nell’imbarazzo si chiuse il battente alle spalle. Si fermò ansante, sotto gli occhi di Guido. Forse era effetto dell’ora, ma il tendone di velluto, colpito da un po’ di sole, arrossava tutta la stanza. Guido si mosse a testa bassa, e le disse: — Che c’è?
— Non mi conosce piú?
Guido era in maniche di camicia al solito e in calzoni grigio-verde.
— C’è anche l’altra? — disse.
Allora Ginia gli spiegò che era sola, e che Amelia se ne stava al caffè. — Rodrigues mi ha detto che potevo venire a vedere i quadri. Siamo già venute un mattino ma lei non c’era.
— Siediti, allora, — disse Guido. — Finisco un lavoro.
Tornò vicino alla finestra e si mise a raschiare una tavola di legno con un coltello. Ginia si sedette sul sofà, e le parve di cadere tant’era basso. Era confusa da quel tu, e le scappava da ridere pensando che tutti, pittori e meccanici, cominciavano a quel modo. Ma socchiudere gli occhi in quella luce morbida era bello.
Guido disse qualcosa di Amelia. — Siamo amiche, — rispose Ginia, — ma io lavoro all’atelier.
La stanza si andava spegnendo e allora Ginia si alzò e girò il collo a guardare un quadretto. Era quello delle fette di melone, che sembravano trasparenti e tutte acqua. Ginia s’accorse che c’era nel quadro un riflesso di luce rosa ma dipinta, che ricordava quello rosso del velluto di quand’era entrata. Capí allora che per dipingere bisogna sapere queste cose, ma non osò dirlo a Guido. Guido le venne dietro, e guardava i quadri con lei.
— Roba vecchia, — diceva ogni tanto.
— Ma sono belli, — disse Ginia, col cuore in gola perché si aspettava di sentirsi lí per lí una mano addosso. — Sono belli, — e fece un passo laterale. Guido guardava i quadri e non si mosse.
Mentre Guido accendeva la sigaretta, Ginia appoggiata contro il tavolo, cominciò a chiedergli chi erano quei ritratti e se non aveva mai dipinto Amelia. — Fa la modella, — disse. Ma Guido cadde dalle nuvole e disse che non l’aveva mai saputo. — Se l’ho vista posare, — ribattè Ginia. — Quest’è nuova. Da che pittore? — Non so il nome, ma posava. — Nuda? — domandò Guido. — Sí.
Allora Guido cominciò a ridere. — Ha trovato il suo mestiere, le è sempre piaciuto far vedere le gambe. Anche tu sei modella? — Io no, lavoro, — disse Ginia di scatto, — vado all’atelier.
Ma era un poco offesa che Guido neanche ci pensasse a farle il ritratto. Se il suo profilo era piaciuto a Barbetta, perché non a Guido? — Amelia racconta molte storie, — disse allora, — e le piace farne di tutti i colori. Non si capisce che cosa voglia.
— Una volta, starle insieme era un divertimento, — disse Guido allegro. — Questo studio ne ha viste di belle.
— Ne vede ancora, — disse Ginia, — Amelia e Rodrigues non perdono tempo.
Guido la guardò tra serio e ridendo. Faceva già sera, e la sua espressione s’indovinava appena. Ginia aspettò una risposta che non venne. Dopo un lungo silenzio Guido disse: — Mi piaci, Ginetta. Sai, mi piaci perché non fumi. Le ragazze che fumano hanno tutte qualche complicazione.
— Qui non c’è quell’odore di vernice che si sente dai pittori, — disse allora Ginia.
Guido si alzò e cominciò a infilarsi la giacca. — È l’acqua ragia. È un buon odore — . Ginia non seppe come, ma se lo vide davanti e sentí che una mano le sfiorava la nuca, mentre lei sbarrava gli occhi come una stupida e urtava con l’anca nel tavolo. Rossa come un carbone si sentí Guido addosso che diceva: — L’odore che hai tu sotto le ascelle è piú buono dell’acqua ragia.
Ginia gli diede uno spintone, trovò la porta e corse via. Si fermò soltanto per prendere il tram. Dopo cena, andò al cinema per non pensare piú a quel pomeriggio.
Ma piú ci pensava e piú capiva che sarebbe tornata lassú. Era per questo che si disperava: perché sapeva di aver fatta una cosa ridicola che una donna alla sua età non doveva piú fare. Sperava soltanto che Guido fosse offeso con lei e non cercasse piú di abbracciarla. Si sarebbe pestata perché, gridandole Guido qualcosa giú dalla scala, lei non aveva ascoltato se le diceva di tornare. Per tutta la sera, nel buio del cinema, pensò con male al cuore che, qualunque cosa decidesse al momento, tanto ci sarebbe tornata. Sapeva che quella voglia di rivederlo e di chiedergli scusa e dirgli che era stata una stupida, l’avrebbe fatta ammattire.
Ginia non ci andò l’indomani ma si lavò sotto le ascelle e si profumò tutta. Si convinse ch’era stata colpa sua se l’aveva eccitato, ma in certi momenti era contenta di aver avuto quel coraggio perché adesso sapeva che cosa innamora gli uomini. «Sono queste le cose che Amelia sa bene, — pensava, — ma lei per saperle ha dovuto sprecarsi».
Trovò Amelia e Rodrigues insieme, al caffè. Appena entrata ebbe paura che sapessero ogni cosa, perché Amelia la guardò con una faccia, ma dopo un momento Ginia era già tranquilla e fingeva di esser stanca e seccata, mentre, pensando alla voce di Guido, ascoltava Rodrigues dir le solite sciocchezze. Adesso capiva tante cose: perché Rodrigues parlando si piegava su Amelia, perché chiudeva gli occhi come un gatto, perché Amelia se la intendeva con lui. «Ha dei gusti da uomo, — pensava, — è peggio che Guido, Amelia». E le scappava da ridere, come si ride da soli.
Il giorno dopo ritornò allo studio. La mattina all’atelier la signora Bice aveva detto asciutta che potevano starsene a casa quel pomeriggio perché era festa. A casa aveva trovato Severino che si cambiava la camicia per l’adunata. Era una festa patriottica, c’erano fuori le bandiere, e Ginia gli aveva chiesto: — Chi sa se ai soldati dànno libera uscita. — Farebbero meglio a lasciarmi dormire, — disse Severino. Ma Ginia, felice, non aveva aspettato che passassero a prenderla né Amelia né Rosa, e se n’era scappata. Poi, sotto il portone dello studio, aveva rimpianto di non esser venuta con Amelia.
Si disse «Passo un momento a cercare Amelia», e salí adagio le scale. Non pensava veramente che Amelia ci fosse, perché a quell’ora la sapeva sotto i portici. Ma giunta davanti alla porta e fermandosi per respirare, sentí la voce di Rodrigues.
VIII.
La porta era aperta e si vedeva la finestra nel cielo. La voce di Rodrigues era forte e insistente. Ginia si sporse e vide Guido che appoggiato al tavolo ascoltava.
— Si può? — disse piano, ma non la sentirono: Guido, in camicia grigio-verde le sembrava un operaio. Le posò gli occhi addosso senza vederla.
— Cercavo Amelia, — disse Ginia con un filo di voce.
Allora cessò la voce di Rodrigues, e Ginia lo vide sul sofà con un ginocchio tra le mani, fermo a guardare.
— Non c’è Amelia?
— Questo non è mica il caffè, — disse Rodrigues.
Ginia guardava Guido e si fermò. Lo vide poggiare le mani dietro la schiena sul tavolo, e far gli occhi piccini. — Una volta non venivano, tutte queste ragazze, — disse. — Sei tu che le attiri?
Allora Ginia abbassò la testa e capi dalla voce che Guido non era arrabbiato. — Vieni avanti, — le dissero, — non fare la scema.
Quel pomeriggio fu il piú bello che Ginia avesse mai passato. Aveva solo paura che arrivasse Amelia e ne dicesse delle sue, ma il tempo passava e Guido e Rodrigues discutevano sempre e ogni tanto Guido la guardava ridendo e le diceva di dare anche lei del fesso a Rodrigues. Era una discussione di pittura e Guido parlava con furia e diceva che i colori sono colori. Rodrigues, tenendosi in mano il ginocchio, s’impuntava e alle volte stava zitto o rideva come un galletto, maligno. Non si capiva il discorso ma Guido, quando diceva qualcosa, faceva piacere sentirlo. Aveva una voce scattante, e a fissarlo negli occhi Ginia teneva il fiato.
Fuori, sui tetti, faceva ancora un po’ di sole e Ginia seduta vicino alla finestra girava lo sguardo dal cielo a quei due, e vedeva in fondo il tendone granata e pensava che sarebbe stato bello, nascosta là dietro a insaputa di tutti, spiare qualcuno che si credesse solo nella stanza. In quel momento Guido disse: — Fa freddo. Ce n’è ancora del tè?
— C’è tè e fornello. Solo mancano le paste.
— Oggi ce lo prepara Ginetta, — disse Guido, voltandosi. — Dietro la tenda c’è il fornello.
— Sarebbe meglio se andasse a comprarci i biscotti, — disse Rodrigues.
— Niente affatto, — rispose Ginia. — Vada lei che è un uomo.
E mentre i due si rimettevano a parlare, Ginia cercò la macchinetta a spirito, dietro la tenda, e le tazze e la scatola. Messa l’acqua a bollire, risciacquò le tazze al lavandino, nel buio della tenda appena rischiarato dalla fiammella. Si sentiva le due voci alle spalle; le pareva di esser sola in quell’angolo come in una casa vuota, e di avere una gran calma intorno per raccogliersi e pensare. S’intravedeva appena, in quella luce, il letto sfatto, in quello stretto corridoio fra il muro e la tenda. Ginia s’immaginò Amelia distesa là sopra.
Quando uscí fuori, s’accorse che la guardavano incuriositi. Ginia s’era già tolto il cappello, rigettò indietro la testa e prese un gran piatto sulla finestra, tutto chiazzato di colori come una tavolozza. Ma Guido capí a volo, cercò tra le casse e gliene tese uno pulito. Su questo piatto Ginia posò le tazzine ancor umide, poi tornò al suo fornello e gettò il tè.
Mentre bevevano, Guido le raccontò che quelle tazze erano un regalo di una ragazza come lei, che veniva a trovarlo per farsi fare il ritratto. — E dov’è questo ritratto? — chiese Ginia. — Non era mica una modella, — disse Guido ridendo.
— Starà molto tempo soldato? — disse Ginia, bevendo il suo tè adagio.
— Con dispiacere di Rodrigues fra un mese sarò libero, — rispose Guido. E poi disse: — Dunque non sei piú offesa?
Ginia fece appena in tempo a torcere la bocca, e a sorridere adagio, scuotendo la testa.
— Allora diamoci del tu, — disse Guido.
Dopo cena, specialmente, fu bello. Amelia, che passò a prenderla a casa, era anche lei allegra, — perché quando è festa e la gente non fa niente, — diceva, — sono felice Andarono insieme a spasso, scherzando come due sceme. — Dove sei stata oggi? — chiese a Ginia camminando. — Niente di speciale, — disse Ginia, — andiamo a ballare in collina? — Non è piú estate, sai, c’è troppo fango — . Si trovarono, come d’incanto, nella via dello studio. — Non ci vengo lassú, — disse Ginia, — basta coi tuoi pittori. — E chi ti dice che ci andiamo? Questa sera siamo libere — . Arrivarono sul ponte e si fermarono a guardare la collana dei riflessi nell’acqua. — Ho veduto Barbetta e mi ha chiesto di te, — disse Amelia.
— Non è stufo di copiarti?
— L’ho veduto al caffè.
— Non me li dà i ritratti?
Ma mentre Amelia la guardava, Ginia pensava a tutt’altro.
— Che cosa facevate l’altr’anno quando andavi da Guido?
— Cosa vuoi che facessimo? Si rideva e si rompeva i bicchieri.
— Poi avete litigato?
— Oh bella. Un’estate lui è andato in campagna, ha chiuso tutto e chi s’è visto s’è visto.
— Come l’hai conosciuto?
— E chi se ne ricorda? Faccio o non faccio la modella?
Ma quella sera litigare era impossibile, e star ferme sull’acqua faceva freddo. Amelia aveva acceso la sigaretta e fumava appoggiata alla pietra del parapetto.
— Anche per strada fumi? — disse Ginia.
— Non è come al caffè? — rispose Amelia.
Ma in un caffè non andarono a sedersi, perché Amelia era già stufa di starci di giorno. Tornarono invece verso casa e si fermarono davanti al cinema. Era troppo tardi per entrarci. Mentre guardavano le fotografie, uscí Severino, tutto nero, con una faccia seccata. Severino salutò Amelia alzando il mento, poi tornò indietro e cominciò a discorrere con loro, e Ginia non l’aveva mai sentito cosí cavaliere. Disse perfino la sua sulla veletta di Amelia. Raccontò il film, per farle ridere, e Amelia rideva ma non come al caffè quando i camerieri le dicevano qualcosa: rideva a labbra aperte, mostrando i denti, come si fa tra ragazze e come da un pezzo non faceva piú. La sua voce era ben rauca: doveva essere il fumo, pensò Ginia. Severino le accompagnò fino al bar e pagò il caffè a tutte e due, e diceva ad Amelia che avrebbero dovuto combinare una domenica di trovarsi insieme. — A ballare? — Sicuro. — Cosí viene anche Ginia, — disse Amelia. A Ginia scappava da ridere.
Accompagnarono Amelia fino al portone, e quando il portone si chiuse tornarono insieme a casa. «Guido ha quasi l’età di Severino, — pensava Ginia, — potrebbe essere lui mio fratello». «Com’è la vita, — pensava, — Guido che non lo conosco, mi prenderebbe a braccetto e ci fermeremmo sugli angoli, mi direbbe che sono una donna e ci guarderemmo. Per lui sono Ginetta. Non bisogna conoscersi per volersi bene». E pensando, trottava accanto a Severino con l’impressione di essere ancora una bambina, e un bel momento gli chiese se gli piaceva Amelia e si accorse di aver detto una cosa che lui non si aspettava.
— Che cosa fa di giorno? — rispose Severino.
— Fa la modella.
Severino non capí, perché si mise a raccontare che infatti i vestiti li portava bene, e allora Ginia cambiò discorso e gli chiese se era già mezzanotte.
— Sta’ attenta, — disse Severino, — Amelia è una in gamba, e tu con lei fai la parte della stupida.
Ginia gli disse che si vedevano di rado e Severino stette zitto, poi accese una sigaretta camminando, e arrivarono davanti al portone, ciascuno come fosse solo.
Ginia quella notte dormí poco, e le pesavano addosso le coperte, ma pensò a tante cose che piú il tempo passava piú diventavano stravaganti. S’immaginava di esser sola, nel letto sfatto in quel cantuccio dello studio, e sentir Guido muoversi di là dalla tenda, e vivere con lui baciandolo e facendogli cucina. Chi sa dove mangiava Guido, quando non era ancor soldato. Poi cominciò a pensare che non avrebbe mai creduto di mettersi con un soldato, ma che Guido in borghese doveva essere un uomo bellissimo, cosí biondo e forte, e cercava di ricordarsi la sua voce che aveva già dimenticata, mentre quella di Rodrigues la ricordava benissimo. Doveva rivederlo, fosse solo per sentirlo parlare. Piú ci pensava e meno capiva perché Amelia si era messa con Rodrigues invece che con lui. Era contenta di non sapere che cosa Amelia e Guido avessero fatto insieme, a quel tempo che rompevano i bicchieri.
Quando la sveglia suonò, lei non dormiva e pensava a tante cose, nel tepore del letto. Alla prima luce rimpianse che fosse ormai inverno, e non si potessero piú vedere i bei colori del sole. Chi sa se Guido ci pensava, lui che diceva che i colori erano tutto. «Che bellezza», disse Ginia, e si alzò.
IX.
L’indomani a mezzogiorno Amelia le capitò in casa, ma siccome Severino era a tavola con lei, chiacchierarono soltanto del piú e del meno. Quando furono in strada Amelia le disse ch’era stata quel mattino da una pittrice che l’avrebbe fatta lavorare. Perché non veniva anche lei? Quella scema voleva fare un quadro di due donne abbracciate e cosí avrebbero posato insieme. — Perché non si copia lei dallo specchio? — rispose Ginia. — Vuoi che si metta nuda a dipingere? — disse Amelia ridendo.
Ginia rispose che non poteva uscire dall’atelier a piacimento.
— Ma quella ci paga, sai? — disse Amelia. — È un quadro che durerà molto. Se tu non vieni non prende neanche me.
— Non le basti tu sola?
— Devon essere due donne che fanno la lotta, capisci. Ce ne vogliono due. È un quadro grande. Basta che ci mettiamo come se ballassimo.
— Io non voglio posare, — disse Ginia.
— Di che cos’hai paura? È una donna anche lei.
— Non voglio.
Discussero fino al tram, e Amelia cominciò a chiederle che cosa si credeva di avere sotto i vestiti da conservare come il santissimo. Parlava rabbiosa, senza guardarla. Ginia non rispondeva. Ma quando Amelia le disse che per Barbetta lei Ginia avrebbe accettato di spogliarsi, le rise in faccia.
Si lasciarono cosí male che si capiva che Amelia non gliel’avrebbe perdonata. Ma Ginia che da principio alzò le spalle, un bel momento ebbe paura all’idea che Amelia l’avrebbe presa in giro con Guido e Rodrigues, e non era sicura che Guido fosse tanto ingenuo da non ridere anche lui. «Per lui poserei, se volesse», pensava. Ma sapeva benissimo che Amelia era meglio fatta di lei e che un pittore doveva preferirla. Amelia era piú donna.
Sul tardi, passò un momento allo studio, per far prima d’Amelia. Era l’ora che Guido le aveva detto che ci andava sempre. Trovò l’uscio di legno. Le venne in mente che Guido fosse al caffè con quei due. Passò al caffè e guardò un momento dai vetri, e non vide che Amelia, seduta a fumare col pugno sotto il mento. «Poveretta», pensò, tornando a casa.
Dopo cena, vide dalla strada lo studio illuminato, e corse su contenta; ma Guido non c’era. Le aprí Rodrigues e la fece entrare, e le disse di scusarlo perché lui aveva fame e mangiava. Mangiava del salame su un pezzo di carta, in piedi contro il tavolo, nella luce malinconica di quella prima volta. Mangiava come un ragazzo, mordendo nel pane, e se non fosse stata la pelle scura della faccia e gli occhi falsi, Ginia avrebbe magari scherzato. Lui le disse se ne voleva, ma Ginia gli chiese soltanto di Guido.
— Quando non viene, è consegnato, — rispose Rodrigues. — Gli tocca restare in caserma.
«Allora me ne vado», pensava Ginia, ma non osava dirlo perché Rodrigues la fissava con quegli occhi e cosí avrebbe capito che era venuta soltanto per Guido. Guardò indecisa la stanza che con quella luce sembrava proprio una miseria, e i cartocci e le cicche buttati per terra, e chiese a Rodrigues se aspettava qualcuno.
— Sí, — disse Rodrigues, smettendo di masticare.
Neanche allora Ginia fu capace di andarsene. Gli chiese se aveva veduto Amelia.
— Voialtre non fate che corrervi dietro, — disse Rodrigues guardandola. — Perché, se siete donne tutte e due?
— Perché? — disse Ginia.
Rodrigues ghignava. — Perché? Ma tocca a voialtre saperlo. Per intuizione. Non si fa cosí tra donne?
Allora Ginia si dibattè un momento, e disse: — Amelia mi ha cercata?
— C’è di meglio, — disse Rodrigues. — Ti vuole.
Si aperse la tenda là in fondo e uscí Amelia. Venne avanti impetuosa e Rodrigues, strappando un boccone, girò intorno alla tavola come giocassero a prendersi. Amelia non aveva il cappello e, da rabbiosa che pareva, si fermò in mezzo alla stanza ridendo. Ma rideva male. Disse: — Non sapevamo ch’eri tu.
— Ah cenavate, — disse Ginia asciutta.
— Una cenetta intima, — disse Rodrigues. — Ma in tre sarà piú intima.
— Cercavi Guido, — disse Amelia.
— Passavo un momento, ma Rosa mi aspetta. È già tardi.
Amelia le gridò: — Férmati, scema, — ma Ginia disse: — Non sono una scema, — e scappò giú dalla scala.
Credeva di esser sola quando svoltò all’angolo, ma si sentí correre dietro a passetti precipitati. Era Amelia, senza cappello. — Perché vai via? non avrai creduto a Rodrigues?
Ginia senza fermarsi le disse: — Lasciami stare.
Passò diversi giorni con un batticuore come se scappasse ancora. Quando pensava a quei due, là nello studio, stringeva i pugni. A Guido non osava pensare, e non sapeva come fare per rivederlo. Era convinta di aver perduto anche lui.
«Sono una scema, — pensò Ginia finalmente, — perché scappo sempre? Non ho ancora imparato a star sola. Mi vengano a cercare, se mi vogliono».
Da quel giorno stette tranquilla e pensava a Guido senza commuoversi, e cominciò a fare attenzione a Severino che, quando gli dicevano qualcosa, prima di rispondere guardava in terra e non dava mai ragione a chi aveva parlato: piuttosto stava zitto. Non era poi stupido, per quanto fosse un uomo. Invece lei finora aveva fatto come Rosa. Si capisce che la gente la trattasse come trattava Rosa.
Non andò piú a cercare nessuno al cinema o alla sala. Si accontentò di camminare tutta sola per le strade e di andare qualche volta fino al centro. Era novembre, e certe sere prendeva il tram, scendeva ai portici, girava un momento e poi rincasava. Sperava sempre d’incontrare Guido, e tutti i soldati li guardava in faccia di sfuggita. Tanto per sapere, s’arrischiò una volta, col batticuore, davanti al caffè di Amelia e intravide molta gente ma lei no.
Le giornate passavano adagio, ma il freddo aiutava a starsene al chiuso, e Ginia in quella malinconia pensava che un’estate come l’ultima non l’avrebbe passata mai piú. «Ero un’altra donna, — pensava, — è impossibile che fossi cosí matta. Mi è andata bene per miracolo». Che un altr’anno sarebbe tornata l’estate, le pareva incredibile. E si vedeva già per i viali, alla sera, sola e con gli occhi rossi, da casa al lavoro, dal lavoro a casa, nell’aria tiepida, come una ragazza di trent’anni. Il peggio era che il gusto di una volta a starsene quella mezz’ora sul letto al buio, non lo provava piú. Anche lavorando in cucina pensava allo studio, e le avanzava sempre tempo per guardare in aria.
S’accorse dopo, di aver trascorso in questo modo non piú di quindici giorni. Sperava sempre, uscendo dall’atelier, di trovare qualche novità sotto il portone, e che non ci fosse mai nessuno ad aspettarla le dava il senso di aver perduto la giornata, di essere già a domani, a doman l’altro, e di aspettare aspettare qualcosa che non veniva mai. «Non ho ancora diciassette anni, — pensava, — ho tanto tempo». Ma non capiva perché Amelia, che le era corsa dietro senza cappello, non si facesse piú vedere. Forse aveva solo avuto paura che lei parlasse.
Un pomeriggio la signora Bice venne a dirle che la chiamavano al telefono. — È una donna con la voce da uomo, — le disse. Era Amelia. — Senti, Ginia, racconta che Severino sta male e vieni da noi. C’è anche Guido. Ceniamo insieme. — E Severino? — Corri a casa a buttargli la pasta, poi vieni. Ti aspettiamo.
Ginia ubbidí e corse a casa e disse a Severino che cenava con Amelia; si aggiustò i capelli e uscí che pioveva. «Amelia ha proprio una voce da tisica, — pensava, — poveretta».
Era decisa, se non c’era Guido, di scapparsene. Trovò Amelia e Rodrigues che accendevano nell’ombra una stufa a petrolio. — E Guido? — chiese. Amelia si alzò passandosi la mano riversa sulla fronte, e indicò la tenda. Dalla tenda uscí la testa di Guido che le gridò «Ciao» e allora Ginia gli sorrise. La tavola era un disordine di piatti di carta e di provviste. In quel momento sul soffitto s’accese il riflesso circolare della stufa. — Accendete la luce, — gridò Guido. — No, è bello; restiamo cosí, — disse Amelia.
Caldo non faceva, e bisognava tenere il soprabito. Ginia andò al lavandino, scostando la tenda, e di là chiese forte: — Che festa è questa sera? — Se vuoi, la tua, — le disse Guido piano, asciugandosi le mani. — Perché non venivi piú?
— Sono venuta e lei non c’era, — bisbigliò Ginia.
— Dammi del tu, — disse Guido, — questa sera ci diamo tutti del tu.
— È stato consegnato? — disse Ginia.
— Sei stato consegnato, — disse Guido carezzandole con le dita i capelli.
In quel momento alle spalle le accesero la luce, e Ginia lasciò cadere la tenda e fissò il quadro del melone.
Per mangiare, aspettarono che l’ambiente si scaldasse. A girare cosí col soprabito e le mani in tasca, pareva di essere al caffè. Rodrigues si versò da bere, e ne riempí altri tre bicchieri. — Non cominciare, — disse Amelia. Rodrigues disse che cominciare bisognava. Poi portarono il tavolo vicino al sofà, piano per non versare i bicchieri, e Ginia fece in tempo a sedersi sul sofà con Amelia.
C’era del salame, della frutta, dei dolci, e due fiaschi. Ginia pensava se eran quelle le feste che Amelia faceva una volta con Guido, e glielo chiese, dopo aver bevuto un bicchiere, e quelli ridendo cominciarono a raccontarsi tutte le commedie che avevano fatto là dentro. Ginia ascoltava invidiosa e le pareva di esser nata troppo tardi e si dava della scema. Capiva che i pittori vanno trattati ridendo perché fanno una vita diversa dagli altri, tant’è vero che Rodrigues che non dipingeva stava cheto e masticava o, se diceva la sua, prendeva soltanto in giro. Guardava lei sotto sotto, malizioso, e tutta la rabbia perché Guido s’era divertito con Amelia, Ginia la covava contro di lui.
— Non sta bene, — disse piagnucolosa, — raccontarmi queste cose a me che non c’ero.
— Ma stasera ci sei, — disse Amelia, — divertiti.
Allora a Ginia venne voglia, ma una voglia terribile, di esser sola con Guido. Eppure capiva di avere quel coraggio soltanto perché Amelia era seduta lí vicino. Diversamente, sarebbe scappata.
«Non ho ancora imparato a star tranquilla, — ripeteva. — Non devo commuovermi».
Poi gli altri accesero le sigarette, e gliene diedero una. Ginia non la voleva, ma Guido venne a sedersi accanto a lei e gliel’accese e le disse di non respirare. Gli altri due facevano la lotta sull’angolo del sofà.
Allora Ginia saltò in piedi scostando le mani di Guido, posò la sigaretta e attraversò lo studio senza parlare. Alzò la tenda e si fermò in piedi nel buio. Dietro di lei parlavano come un ronzio lontano. — Guido, — bisbigliò senza voltarsi, e si buttò su quel letto, a faccia in giú.
X.
Uscirono insieme tutti e quattro senza parlare, e Guido e Rodrigues le accompagnarono al tram. Guido col berretto negli occhi non era piú lui, ma le stringeva la mano tra le sue e le diceva: — Cara, Ginetta — . Camminando, pareva che il marciapiede sprofondasse. Amelia si prese Ginia a braccetto.
Mentre aspettavano il tram, si misero a parlare di biciclette. Ma Guido le venne accanto e le disse piano: — Guai a te se cambi idea. Non ti farei piú il ritratto — . Ginia gli fece un sorriso e gli tenne la mano.
Salite sul tram, Ginia fissava la schiena del manovratore e non parlava. — Vai a casa e ti metti a letto, — disse Amelia. — È piú il vino che altro. — Non sono ubriaca, — disse Ginia, — non credere. — Vuoi che ti tenga compagnia? — disse Amelia. — Lasciami stare — . Allora Amelia le parlò dell’altra volta per spiegarle com’era andata, e Ginia ascoltava il rumore del tram.
Quando fu sola in casa, cominciò a sentirsi meglio perché non aveva piú addosso gli occhi di nessuno. Si sedette sul letto e stette un’ora a guardare per terra. Poi di colpo si spogliò, si cacciò sotto e spense il lume.
L’indomani c’era il sole, e a Ginia vestendosi pareva di esser stata malata. Pensò che Guido era già in piedi da tre ore, e si sorrise nello specchio e si baciò. Poi uscí, prima che tornasse Severino.
Si stupiva di camminare come sempre, e di aver fame e pensava a una cosa sola: che d’or innanzi doveva trovarsi con Guido senza quei due. Ma Guido le aveva detto soltanto di venire allo studio; di appuntamenti fuori non aveva parlato. «Bisogna che gli voglia proprio bene, — pensò Ginia, — altrimenti sto fresca». Di colpo era tornata l’estate, con la voglia di andare, di ridere, far festa. Non le pareva quasi vero quel che era successo. Le veniva da ridere pensando che al buio lei avrebbe potuto essere Amelia, e per Guido sarebbe stato lo stesso. «Si vede che gli piaccio come parlo, come guardo, come sono; gli piaccio come amicizia, mi vuol bene. Non credeva che avessi diciassette anni, mi baciava sugli occhi; sono proprio una donna».
Adesso era bello lavorare tutto il giorno pensando allo studio e aspettando la sera. «Sono piú che modella, — diceva Ginia, — siamo amici». Amelia le faceva compassione perché non capiva neanche cos’era bello nei quadri di Guido. Ma alle due, quando lei venne a prenderla, Ginia voleva chiederle una cosa e non sapeva come fare. Di chiederla a Guido non aveva il coraggio.
— Hai già visto qualcuno? — le disse.
Amelia alzò le spalle.
— Ieri, quando hai spento la luce, mi girava la testa e mi pareva di gridare. Hai sentito gridare?
Amelia ascoltava tutta seria. — Io non ho spento niente, — disse adagio, — so soltanto che sei sparita. Pareva che Guido ti scannasse. Vi siete almeno divertiti?
Ginia fece una smorfia, guardando dritto avanti a sé. Continuarono a piedi, fino all’altra fermata.
— Vuoi bene a Rodrigues? — chiese Ginia.
Amelia tirò un sospiro e poi disse; — Non avere paura. Non mi piacciono i biondi. Se mai, preferisco le bionde.
Allora Ginia sorrise e non le disse piú niente. Era contenta di camminare cosí con Amelia e sapere che andavano d’accordo. Si lasciarono sotto i portici, tranquille, e Ginia la guardò dall’angolo chiedendosi se andava a posare da quella pittrice.
Lei invece alle sette tornò allo studio e salí i cinque piani, adagio, per non diventar rossa. Saliva adagio, ma faceva due gradini per volta. Continuava a pensare che, se anche Guido non c’era, lui non ne aveva colpa. Ma la porta era aperta. Guido la sentí camminare e le venne incontro nel corridoio. Adesso Ginia era davvero felice.
Avrebbe voluto discorrere e dirgli tante cose, ma Guido chiuse l’uscio e prima cosa l’abbracciò. Dalle vetrate veniva ancora un po’ di luce e Ginia gli nascose la faccia sulla spalla. Sentí il caldo della pelle attraverso la camicia. Si sedettero sul sofà, e Ginia senza parlare piangeva.
Piangendo pensava «Se piangesse anche Guido» e si sentiva in cuore una fitta scottante fonderle tutto il corpo, e le pareva di svenire. Ma subito le mancò l’appoggio; capí che Guido si alzava e aprí gli occhi. Vide Guido in piedi, che la fissava curioso. Smise allora di piangere perché le pareva di piangere in pubblico. Sotto quello sguardo Ginia che ci vedeva appena, si sentí un’altra volta le lacrime agli occhi. — Ehilà, — disse Guido come se scherzasse, — si viene al mondo per cosí poco, non c’è bisogno di piangere.
— Piangevo perché sono contenta, — disse Ginia piano.
— Cosí va bene, — disse Guido, — ma un’altra volta dillo subito.
Cosí quella mezz’ora che Ginia avrebbe voluto chiedergli tante cose, di Amelia, di lui, dei suoi quadri, e che cosa faceva di sera e se le voleva bene, passò che Ginia non ebbe coraggio e ottenne soltanto che andassero dietro la tenda perché alla luce le pareva che tutti guardassero. Qui, mentre si baciavano, Ginia gli disse piano che ieri le aveva fatto un male da gridare, e Guido allora divenne piú buono e le fece coraggio e molte carezze, e le diceva all’orecchio: — Vedrai che passa, vedrai. Ti faccio male? — Poi, mentre stavano distesi in quel po’ di tepore, scaldandosi, le spiegò molte cose e le disse che di una ragazza come lei aveva riguardo e che stesse sicura. Ginia allora gli prese la mano nel buio e gliela baciò.
Adesso che sapeva che Guido era cosí buono, divenne piú coraggiosa e, con la testa poggiata sulla sua spalla, gli disse che voleva sempre vederlo da solo perché con lui stava bene ma non con gli altri. — Alla sera ci viene Rodrigues a dormire, — disse Guido, — non vorrai che lo metta sui tetti. Qui si lavora, sai? — Ma Ginia gli disse che lei s’accontentava di un’ora, di un momento, che anche lei lavorava, e avrebbe fatto una scappata ogni sera a quell’ora, ma voleva trovarlo solo. — Quando sarai borghese, verrà ancora Rodrigues? — gli chiese. — Mi piacerebbe tanto vederti dipingere, ma che non ci fosse nessuno — . Poi gli disse che avrebbe posato per lui, solamente a quel patto. Stavano distesi al buio, e Ginia non s’accorgeva che veniva notte. Quella sera Severino gli toccò andare a lavorare a stomaco freddo, ma non era la prima volta e non s’era mai lamentato. Ginia uscí dallo studio soltanto quando arrivò Rodrigues.
Quegli ultimi giorni prima del congedo. Guido passava le sere a preparare delle tele e farle asciugare, aggiustarsi il cavalletto e riordinare tutto. Non usciva mai. Pareva cosa decisa che Rodrigues avrebbe abitato ancora con lui. Ma Rodrigues sapeva soltanto buttare in disordine e attaccare discorso quando Guido aveva fretta. Ginia sarebbe stata cosí contenta di aiutar Guido a far pulizia e rimettergli in ordine lo studio, ma vedendo Rodrigues capiva che li avrebbe seccati, e tornò a uscire con Amelia. Andarono insieme al cinema, perché tutte e due in quello che pensavano nascondevano qualcosa e non era facile passar la sera discorrendo. Si capiva che Amelia girava intorno a qualcosa, perché tirava delle satire sulle bionde e sui biondi. Ma Ginia adesso le voleva bene, e non era capace di nascondere un sentimento. Mentre tornavano a casa, le parlò.
Le chiese se si era aggiustata con quella pittrice. Amelia fece la stupita e disse di lasciar perdere. — Ma no, — disse Ginia, — cosa vuoi? non ho mai posato, ma mi dispiace che hai perso quel lavoro. — Fa’ il piacere, — disse Amelia, — tu in questi giorni hai trovato l’amore e t’infischi di tutti. Fai bene. Ma io al tuo posto starei attenta. — Perché? — chiese Ginia.
— che cosa dice Severino? Gli piace il cognato? — disse Amelia ridendo.
— Perché devo stare attenta? — chiese Ginia.
— Mi porti via il mio bel pittore e me lo chiedi?
Allora Ginia provò un colpo al cuore, e camminava sentendosi addosso gli occhi di Amelia.
— Hai posato per Guido? — le chiese.
Amelia la prese a braccetto e disse: — Scherzavo — . Poi, dopo un silenzio: — Non è piú bello andare a spasso noi due che siamo donne e lo sappiamo, che guastarsi il sangue con dei maleducati che non han mai saputo che cos’è una ragazza e la prima che vedono le fanno il filo?
— Ma tu vai con Rodrigues, — disse Ginia.
Amelia alzò le spalle e fece «pf!» — Dimmi una cosa. Guido almeno sta attento?
— Non so, — disse Ginia.
Amelia le prese il mento e la fece fermare. — Guardami in faccia, — disse. Erano all’ombra di un portone. Ginia non fece resistenza, perché si trattava di Guido, e Amelia le diede sulla bocca un bacio rapido.
XI.
Ripresero a camminare e Ginia sorrideva spaventata, sotto gli occhi di Amelia.
— Pulisciti il rossetto, — disse Amelia con una voce tranquilla. Ginia senza fermarsi si guardò nello specchio fino all’altro lampione, e non osava smettere e, studiandosi gli occhi, s’aggiustava i capelli.
— Che tu sappia, stasera ho bevuto? — disse Amelia, passato il lampione.
Ginia posò lo specchio e andò avanti senza rispondere. I loro passi echeggiavano sul marciapiede. Quando furono all’angolo, Amelia fece per fermarsi. Ginia disse: — Di qua — . Girarono insieme e, quando furono al portone, Amelia disse: — Allora, ciao. — Ciao, — disse Ginia, e continuò sola.
L’indomani, Guido accese la luce quando lei entrò, perché fuori faceva nebbia e con quei grandi vetri pareva d’esserci dentro. — Perché non accendi la stufa? — gli chiese. — È accesa, — disse Guido, che stavolta aveva la giacca. — Non avere paura, quest’inverno accendiamo il camino — . Ginia girando per la stanza sollevò un pezzo di stoffa inchiodato al muro, e ci trovò un caminetto pieno di rottami e di pile di libri. — Com’è bello. E chi posa, si mette qui? — Se ce la fa a star nudo, — disse Guido. Poi trascinarono una valigia da sotto il letto della tenda e dentro c’era il vestiario di Guido. — Ne hai già avuto delle modelle? — chiese Ginia. — Fammi vedere le cartelle dei disegni.
Guido le prese un braccio. — Quante cose tu sai sui pittori. Dimmi un po’, ne conosci? — Ginia scherzando si mise il dito sulla bocca e si dibattè per liberarsi. — Fammi vedere le cartelle piuttosto. Con Amelia dicevi che qui venivano tante ragazze. — Si capisce, — disse Guido, — è il mio mestiere — . Poi, per tenerla ferma, la baciò. — Chi conosci?
— Ma nessuno — . Ginia abbracciandolo gli disse: — Vorrei conoscere te solo e che qui non venisse mai nessuno. — Ci annoieremmo, — disse Guido.
Quella sera Ginia volle scopare, ma non c’era la scopa, e si accontentò di rifare il letto dietro la tenda, che era sporco come una tana. — Dormirai qui? — gli chiese. Guido disse che di notte gli piaceva vedere le finestre e avrebbe dormito sul sofà. — Allora il letto non lo faccio, — disse Ginia.
L’indomani arrivò con un pacco nella borsetta. Era una cravatta per Guido. Guido la prese scherzando e se la provò sulla camicia grigio-verde. — Starà bene in borghese, — disse Ginia. Allora andarono dietro la tenda e si abbracciarono sul letto sfatto, tirandosi addosso la coperta perché faceva freddo. Guido le disse che toccava a lui farle regali, e Ginia con una smorfia gli chiese una scopa per lo studio.
Quei giorni che si vedevano cosí di sfuggita furono i piú belli, ma non c’era mai tempo a parlare con un po’ di pace, perché da un momento all’altro arrivava Rodrigues, e Ginia non voleva farsi trovare senza scarpe. Ma una delle ultime sere Guido disse che voleva sdebitarsi, e combinarono di uscire dopo cena. — Andremo al cinema, — diceva Guido. — Perché? Passeggiamo invece, è tanto bello stare insieme. — Ma fa freddo, — disse Guido. — Possiamo andare al caffè o in una sala. — Non mi piace ballare, — disse Guido.
Si trovarono, e a Ginia faceva effetto camminare accanto a un sergente, ma pensava che era Guido e che era lui. Guido le prese il braccio, sotto l’ascella, come lei fosse una bambina. Ma doveva salutare continuamente gli ufficiali, e allora Ginia passò dall’altra parte e si attaccò lei al suo braccio. Cosí andavano, e la strada pareva un’altra.
«Se incontrassimo Amelia», pensava Ginia, e parlava con Guido della signora Bice, cercando di non ridere. Guido scherzava e diceva: — Fra tre giorni non li saluterò piú, questi macachi. Guarda, che facce da sale e tabacchi. — Anche Amelia, — disse Ginia, — le piace fermarsi e ridere in faccia a chi passa.
— Amelia qualche volta esagera. La conosci da un pezzo?
— Stiamo vicine, — disse Ginia. — E tu?
Allora Guido le raccontò di quell’anno che aveva preso lo studio e che venivano i suoi amici studenti a trovarlo e ce n’era uno che poi si era fatto frate. Amelia non faceva ancora la modella ma le piaceva divertirsi, e venivano di giorno e di sera e ridevano e bevevano mentre lui cercava di lavorare. Proprio come fosse stato con Amelia la prima volta, non si ricordava. Poi qualcuno era andato soldato, un altro aveva fatto gli esami, uno s’era sposato: l’allegria era finita.
— Ti dispiace? — disse Ginia, fissandolo.
— Dispiace di piú al frate, che ogni tanto mi scrive e mi chiede se lavoro e se vedo qualcuno.
— Ma possono scrivere?
— Non sono mica in prigione, — disse Guido. — Quello era l’unico che gli piacevano i miei quadri. Se lo vedessi: un uomo forte come me, grande, con degli occhi da ragazza. Capiva tutto, è un peccato.
— Tu non ti farai frate. Guido?
— Non c’è pericolo.
— A Rodrigues non gli piacciono i tuoi quadri. Lui sí che ha una faccia da prete.
Ma Guido difese Rodrigues e le disse che era un pittore straordinario ma era uno che prima di dipingere ci pensava sopra e non faceva niente per caso e gli mancava soltanto il colore. — Al suo paese ce n’è troppi, di colori, — disse. — Ne ha fatto indigestione da piccolo e adesso vorrebbe dipingere senza. Ma com’è in gamba.
— Mi lascerai vedere quando dipingi coi colori? — disse Ginia stringendogli il braccio.
— Se sarò ancora capace, quando poserò questa divisa. Prima sí che lavoravo. Facevo un quadro alla settimana. Quella vita mi eccitava. È finito il bel tempo.
— Di me non t’importa niente? — chiese Ginia.
Allora Guido se la strinse al braccio. — Tu non sei mica estate. Tu non sai cosa sia fare un quadro. Dovrei innamorarmi di te, per diventare intelligente. E allora perderei tempo. Devi sapere che un uomo lavora soltanto se ha degli amici che lo capiscono.
— Non sei mai stato innamorato? — disse Ginia, senza guardarlo.
— Di voialtre? Non ho tempo.
Quando furono stanchi di camminare, andarono al caffè a fare gli innamorati, e Guido accese la sigaretta e ascoltò quello che lei gli diceva, guardando chi entrava e chi usciva. Poi per accontentarla le fece col lapis il profilo sul marmo. Un momento ch’erano soli, Ginia gli disse: — Sai, sono contenta che non sei mai stato innamorato.
— Se ti fa piacere, — disse Guido.
Finirono la sera malinconici, perché venne fuori che Guido appena congedato doveva fare una scappata al paese a salutare la mamma. Ginia si consolò come poteva, facendolo parlare dei suoi e della casa, del mestiere di suo padre e di quando era ragazzo. Seppe che aveva una sorella che si chiamava Luisa, ma le dispiacque che Guido fosse insomma un contadino. — Da ragazzo andavo scalzo, — le confessò ridendo, e Ginia allora capí il perché delle sue mani forti e di quella voce larga, e non credeva che un contadino potesse fare il pittore. Lo strano era che Guido se ne vantava e, quando Ginia gli disse: — Ma tu però stai qui, — le rispose che la vera pittura si faceva in campagna. — Ma tu stai qui, — ripetè Ginia, e allora Guido: — Io sto bene soltanto in punta a una collina.
Da allora Ginia pensò molto, chi sa perché, a quella Luisa, e le invidiava che fosse sorella di Guido, e cercava d’immaginare i discorsi che Guido aveva fatto con lei da ragazzo. Adesso capiva perché Amelia non lo aveva mai voluto. «Se non fosse un pittore, sarebbe un campagnolo qualunque», e se lo immaginava come un coscritto, di quei ragazzi che passano in marzo col fazzoletto al collo cantando, e vanno soldati. «Ma lui sta qui, — pensava, — e ha fatto lo studente, e abbiamo gli stessi capelli». Chi sa se anche Luisa era bionda. Quella notte Ginia, appena entrata in casa, chiuse a chiave la porta, poi si spogliò davanti allo specchio e si guardò preoccupata, confrontandosi col colore della nuca di Guido. Adesso tutto quel male era passato e le pareva straordinario che non le fossero rimasti segni. Si figurò di posare davanti a Guido, e si sedette su una sedia come quel giorno Amelia nello studio di Barbetta. Chi sa quante ragazze Guido aveva veduto. L’unica che non aveva ancor visto bene era lei, e Ginia, solo a pensarci, si sentiva il batticuore. Sarebbe stato bello diventare di colpo come Amelia, bruna, slanciata e indifferente. Cosí non poteva lasciarsi veder nuda da Guido. Prima dovevano sposarsi.
Ma Ginia sapeva che non l’avrebbe mai sposata, per bene che lei gli volesse. Questo l’aveva saputo fin dalla sera che si era sprecata per lui. Guido era fin troppo buono a smettere ancora di lavorare, per venire con lei dietro la tenda. Poteva continuare a vederlo, solo se diventava la sua modella. Altrimenti, un bel giorno Guido ne prendeva un’altra.
Ginia sentiva freddo là davanti allo specchio, e si gettò il soprabito sui fianchi nudi che le diedero la pelle d’oca. «Ecco, come sarei, se posassi», diceva, e invidiava Amelia che non aveva piú vergogna.
XII.
Quando vide Guido l’ultima volta, la sera prima che partisse, Ginia sentí di colpo che far l’amore come piaceva a lui, era una cosa da morire, e rimase istupidita, tanto che Guido scostò la tenda per vederle la faccia, ma Ginia gli tenne le mani e non volle. Quando poi venne Rodrigues, e Ginia li lasciò a chiacchierare, allora capí che cosa voglia dire non essere sposati e non poter passare insieme giorno e notte. Scese la scala, sbalordita, e stavolta era convinta di non essere piú lei e che tutti se ne accorgessero. «È per questo, — pensava, — che far l’amore è proibito, è per questo». E si chiedeva se anche Amelia, se anche Rosa, c’erano passate. Si vide nelle vetrine camminare come ubriaca, sentiva di essere un’altra da quell’immagine molle che passava come un’ombra. Adesso capiva perché tutte le attrici avevano quegli occhi sbattuti. Ma non doveva esser questo che lasciava incinte, perché le attrici non hanno bambini.
Appena Severino fu uscito, Ginia chiuse la porta e si spogliò davanti allo specchio. Si trovò sempre la stessa e le parve impossibile. Si sentiva la pelle come staccata dal corpo e ancora un resto di brividi freschi la correvano. Ma non era cambiata, era pallida e bianca come sempre. «Ci fosse Guido, mi vedrebbe, — pensò in fretta, — lascerei che mi guardi. Gli direi che adesso sono davvero una donna».
Venne la domenica, e passarla senza Guido era brutto. Venne Amelia a cercarla, e Ginia fu felice perché adesso non le faceva piú paura e, avendo Guido a cui pensare, non aveva piú bisogno di pigliarla sul serio. La lasciava chiacchierare e intanto pensava al suo segreto. Amelia, poveretta, era piú sola di lei.
Neanche Amelia non sapeva dove andare. Era un pomeriggio corto e freddo, tutto umido di nebbia, che toglieva la voglia anche di andare al campo a veder la partita. Amelia le chiese un caffè e voleva restarsene in casa, distesa sul sofà a discorrere. Ma Ginia si mise il cappello e le disse: — Usciamo. Voglio andare in collina.
Amelia, caso strano, si lasciò comandare: era pigra quel giorno. Presero il tram per far piú presto e non sapevano perché. Ginia diceva, camminava, sceglieva le strade come avesse uno scopo. Quando attaccarono la salita, cominciò a piovigginare, e Amelia si lamentava e non voleva piú saperne. — È solo nebbia che cade, — disse Ginia, — non è niente — . Erano ormai sotto le piante dei parchi, per lo stradale vuoto, dove pareva di esser fuori del mondo e si sentiva soltanto lo sciacquio del fossato e, lontano alle spalle, il sobbalzo di qualche tram. Si cominciava a respirare un’aria bagnata e aperta e, piú che freddo, si sentiva odore di foglie marce. Amelia poco alla volta si svegliava, e trottavano a braccetto sull’asfalto e ridevano dicendo che bisognava esser matte e che nemmeno le coppiette non andavano in collina con quel tempo.
Una bella automobile le raggiunse e, passata avanti, cominciò a rallentare. — Avessimo quella, — diceva Amelia. Dall’automobile si sporse un braccio grigio, che fece segno. — Posso offrire? — disse una faccia incaramellata, quando furono a tiro. — Prendiamo l’automobile, Amelia? — bisbigliò Ginia ridendo. — Di’ piuttosto, — disse Amelia, — che questo ci porta fino a casa del diavolo e poi ci lascia a piedi.
Tirarono avanti e quello seguiva a passo d’uomo, e diceva stupidaggini e suonava la tromba. — Io ci vado, — disse Amelia, — scusa, è sempre meglio che consumare le scarpe.
— La biondina non viene? — disse, saltando a terra, quel tale. Era un uomo sui quarant’anni, magro magro.
Allora presero posto, Amelia in mezzo e Ginia schiacciata contro lo sportello. Il signore magro s’insinuò sotto il volante e, tanto per cominciare, gettò il braccio intorno alla spalla di Amelia. A vedersi quella mano ossuta e scura vicino all’orecchio, Ginia pensò: «Se mi tocca, lo mordo». Ma partirono subito, e il profilo di quel signore — che aveva una brutta cicatrice sulla tempia — si concentrò sulla strada, e Ginia, poggiata la guancia al finestrino, pensò come sarebbe stato bello passare sempre viaggiando quei sette giorni che Guido non c’era.
Invece finí subito. L’automobile rallentò sullo spiazzo e si fermò. Non c’erano piú quei begli alberi verdi, ma un vuoto pieno di nebbia e di fili del telegrafo. La costa della collina sembrava una montagna spelata. — È qui che volete scendere? — disse il signore senza far cadere la caramella, voltandosi.
Fu allora die Ginia disse: — Voi andate pure al caffè. Io torno a piedi.
Amelia le fece gli occhiacci. — È pazzesco, — disse quell’altro. — Torno a piedi, — disse Ginia. — Voi siete in due e vi bastate.
— Stupida, — le sussurrò Amelia mentre scendevano, — non capisci che questo non parla ma paga? — Ma Ginia fece una giravolta e gridò: — Grazie di tutto. Riporti a casa la mia amica.
Quando fu giunta sulla strada, ascoltò un momento se il motore riattaccava, nel silenzio della nebbia. Poi se la rise da sola e attaccò lei la discesa. «Oh Guido, cosí mi perdoni», pensava, e guardava le coste, fiutava il freddo e la campagna. Anche Guido era in mezzo alla terra scoperta, nelle sue colline. Forse era in casa, vicino al fuoco, e fumava una sigaretta come faceva nello studio per scaldarsi. Allora Ginia si fermò, perché rivide il cantuccio dietro la tenda, cosí tiepido e buio come ci fosse dentro. «Oh Guido, torna», diceva, stringendo i pugni nelle tasche.
Arrivò a casa presto, ma i capelli ancor umidi e le calze spruzzate e la stanchezza le tennero compagnia. Si tolse le scarpe, si distese sul letto caldo, e chiacchierò con Guido. Pensava alla bella automobile, divertendosi per Amelia e figurandosi addirittura che conoscesse quel signore già prima.
Quando tornò Severino, gli disse che era stufa di lavorare all’atelier.
— E tu cambia, — disse lui, pacifico. — Ma non farmi piú saltare i pasti. Trova un orario piú civile.
— C’è tanto da fare.
— Mamma diceva sempre che bastava che tu stessi in casa. Per quel che guadagni.
Ginia saltò su dal sofà. — Quest’anno non siamo andati al camposanto.
— Ci sono andato io, — disse Severino. — Non fare la bugiarda. Lo sapevi benissimo.
Ma Ginia diceva per dire. Senza quel poco che guadagnava, non avrebbe piú avuto niente da mettersi indosso e non si sarebbe comprati i guantoni per lavare i piatti risparmiando le mani. E il profumo, il cappello, le creme, i regali per Guido, non li avrebbe piú avuti, e sarebbe stata un’operaia come Rosa. Quello che le mancava era il tempo. Ci voleva un lavoro che si sbrigasse in mattinata.
D’altra parte, un’occupazione aveva il suo bello. Che cosa avrebbe fatto in quei giorni senza Guido, se le fosse toccato restarsene in casa o gironzolare tutto il giorno, rompendosi la testa a pensare? Invece, l’indomani tornò all’atelier, e la giornata passò. Corse a casa e preparò una bella cena per Severino e decise di trattarlo bene tutti quei giorni, perché poi avrebbe saltati i pasti davvero.
Amelia non si vedeva. Diverse sere Ginia fu lí lí per uscire ma si ricordava di aver promesso a se stessa di non farlo, e sperava che Amelia venisse lei a trovarla. Venne una volta Rosa, che voleva farsi un vestito, a mostrarle il campione e Ginia quasi non sapeva piú cosa dirle. Parlarono di Pino, ma Rosa non disse che l’aveva cambiato. Si lamentava, invece, che si annoiava a morte e insisteva: — Cosa vuoi? se una si sposa, sta fresca.
Ginia s’accorse che pensare sempre a Guido non la lasciava piú dormire e qualche volta si arrabbiava che lui non capisse che doveva tornare. «Chi sa se torna lunedí, — pensava, — magari non torna». Odiava specialmente Luisa che era soltanto sua sorella e che aveva quel piacere di vederlo tutto il giorno. Le prese un tale affanno che pensava di andare allo studio e farsi dire da Rodrigues se Guido manteneva la parola.
Andò invece al caffè e vide Amelia. — Com’è andata, — le chiese, — domenica? — Amelia, che fumava, non sorrise nemmeno, e disse adagio: — È andata bene. — Ti ha riportato a casa? — Sicuro, — disse Amelia.
Poi chiese: — Perché sei scappata?
— Si è offeso?
— Macché, — disse Amelia guardandola fissa. — Ha detto soltanto: «Spiritosa la piccina». Perché sei scappata?
Ginia si sentí arrossire. — Senti, era ridicolo con quella caramella.
— Stupida, — disse Amelia.
— E Rodrigues?
— È andato via adesso.
Tornarono a casa insieme e Amelia le disse: — Stasera vengo a trovarti.
Quella sera nessuna parlò di uscire. Ginia, finito di lavare i piatti, venne a sedersi sulla sponda del sofà, dove Amelia era distesa.
Restarono un pezzo senza parlare, e poi Amelia bisbigliò con la sua voce rauca; — Spiritosa la piccina — . Ginia scosse la testa, guardando dall’altra parte. Amelia allungò il braccio e le toccò i capelli. — Lasciami stare, — disse Ginia.
Con un grosso sospiro Amelia si rialzò sul gomito.
— Sono innamorata di te, — disse rauca — . Allora Ginia la guardò di scatto. — Ma non ti posso dare un bacio. Ho la sifilide.
XIII.
— Lo sai che cos’è?
Ginia fece di sí con gli occhi, senza parlare.
— Io invece non lo sapevo.
— Chi te l’ha detto?
— Non senti come parlo? — disse Amelia come strozzata.
— Ma è perché fumi.
— Credevo, — disse Amelia. — Ma il tuo brav’uomo di domenica era un medico. Guarda — . Si spaccò la camicetta e tirò fuori una mammella. Ginia le disse: — Io non ci credo.
Amelia levò gli occhi, con la mammella tra le dita, e la guardava. — Allora baciami qui sopra, — disse adagio, — qui dove c’è l’infiammazione — . Per un momento si fissarono; poi Ginia chiuse gli occhi e si chinò sulla mammella.
— Ah no, — disse Amelia, — ti ho già baciata io una volta.
Ginia si accorse di esser tutta sudata, e fece un sorriso scemo, diventò rossa come il fuoco. Amelia la guardava senza parlare.
— Lo vedi che sei stupida, — disse finalmente, — proprio adesso mi vuoi bene, quando sei innamorata di Guido e di me non t’importa piú niente — . Si abbottonò la camicetta con la mano magra. — Di’ la verità che di me non t’importa piú niente.
Ginia non seppe cosa dire, perché lei stessa non capiva quel ch’era stata per fare. Ma che Amelia la maltrattasse, era contenta, perché adesso capiva cos’erano i nudi, le pose e i suoi discorsi. Lasciò che Amelia si sfogasse a parlare e tutto il tempo ebbe la nausea come quando da bambina faceva il bagno e si svestiva sulla sedia vicino alla stufa.
Ma quando Amelia disse che la malattia si capiva dal sangue, Ginia si spaventò.
— Come fanno? — le chiese.
Amelia raccontando si disperava meno che a star zitta. Le disse che prendono un sangue nero dal braccio, con l’ago. Le disse che fanno spogliare e che tengono al freddo piú di mezz’ora. Il medico era sempre arrabbiato e minacciava di chiuderla all’ospedale.
— Non può, — disse Ginia.
— Sei giovane, — disse Amelia. — Anche in prigione mi può mettere, se vuole. Tu non sai che cos’è la sifilide.
— Ma dove l’hai presa?
Amelia la guardò per storto. — Si prende facendo l’amore.
— Bisogna che uno dei due ce l’abbia.
— E già, — disse Amelia.
Allora Ginia si ricordò di Guido e divenne cosí pallida che non disse piú niente.
Amelia si era seduta e si teneva la mammella sotto la camicetta con la mano. Guardava fisso, in nessun posto; e cosí senza veletta e disperata si capiva bene che non era piú lei. Di tanto in tanto stringeva i denti, mostrando le gengive. Neanche il profumo che aveva addosso bastava a calmarla.
— Dovevi vedere Rodrigues, — disse a un tratto con quella voce. — Proprio lui che diceva che si diventa cieche e si muore di croste. È venuto bianco fin sul collo — . Amelia fece una smorfia come se sputasse. — Sempre cosí succede. Lui non ha niente.
Ginia le chiese tanto in fretta se era proprio sicuro, che Amelia si fermò. — No, sta’ tranquilla, gli hanno preso il sangue. I lavativi hanno la pelle dura. Hai paura per Guido?
Ginia cercò di sorridere e sbattè gli occhi. Amelia stette zitta, zitta, un’eternità, poi disse brusca: — Guido non mi ha mai toccata, sta’ tranquilla.
Allora Ginia fu felice. Fu tanto felice che posò sulla spalla di Amelia una mano. Amelia fece una smorfia. — Non hai paura di toccarmi? — disse. — Ma noi non facciamo l’amore, — balbettò Ginia.
Il batticuore si calmò poco alla volta, mentre Amelia parlava di Guido. Le disse che con Guido non si era mai neanche baciata, perché non si può mica far l’amore con tutti, e che Guido le piaceva, ma non capiva perché piacesse anche a lei ch’erano biondi tutti e due. Ginia sentiva quel calore ritornarle addosso, e se la godeva, felice.
— Ma se Rodrigues non ha niente, — disse, — vuol dire che anche tu non hai niente. Si sono sbagliati.
Allora Amelia la guardò con gli occhi bassi. — Ma che cosa credevi? che me l’avesse data lui?
— Non so, — disse Ginia.
— Se ha piú paura che un bambino, — disse Amelia a fior di denti. — Lui no. Ma il Signore castiga. Quella che mi ha fatto il regalo, sta peggio di me. Non lo sa ancora, e lascerò che venga cieca.
— È una donna? — chiese Ginia a bassa voce.
— Sono piú di due mesi. Questo segno è un suo regalo, — e si toccò la camicetta.
Per tutta la sera Ginia cercò di consolarla, ma stette attenta a non lasciarsi toccare e si dava coraggio pensando che piú che a braccetto non erano state, e del resto anche Amelia le disse che per prendere il male ci voleva una ferita, perché l’infezione è nel sangue. E poi Ginia era certa, ma non osava parlarne, che quelle cose succedevano a fare i peccati che faceva Amelia. Ma qui smetteva di pensarci, perché allora dovremmo esser tutti ammalati.
Le disse invece, scendendo le scale, che non doveva vendicarsi di quella donna che, se non lo sapeva, non aveva nessuna colpa. Ma Amelia, ferma sul gradino, la interruppe: — Le manderò un mazzo di fiori allora? — Si promisero di vedersi al caffè l’indomani, e Ginia la guardò allontanarsi, col batticuore.
Ma Ginia l’indomani non viveva piú. Uscí di casa un’ora prima, ch’erano ancor accesi i lampioni, e corse allo studio. Non osò salir subito, perché Rodrigues dormiva, e passeggiò là sotto, al freddo, che le pareva di rivoltolarsi ancora nel letto. Ma poi salí, tutta tremante, e bussò all’uscio.
Trovò Rodrigues in pigiama, che la guardò con gli occhi torbidi e, saltellando per la stanza, si rimise a sedere sulla sponda del letto. Tutto era sporco e luminoso come sempre, e Ginia cominciò a balbettare e Rodrigues a grattarsi le caviglie, finché lei non gli chiese se era andato dal medico. Allora ne dissero insieme di tutti i colori su Amelia, e Ginia diventò che la voce le tremava e intanto guardava da una parte, per non vedergli quei brutti piedi.
Poi Rodrigues disse: — Io torno a letto, fa freddo, — e si girò tirandosi addosso le coperte.
Quando Ginia gli disse tremando ch’era stata baciata da Amelia, lui si mise a ridere, appoggiato al gomito, nell’ombra: — Allora siamo colleghi, — disse. — Soltanto un bacio?
— Sí, — disse Ginia, — c’è pericolo?
— Un bacio come?
Ginia non capiva. Allora lui glielo disse, e Ginia giurò ch’era stato un bacio da ragazze.
— Sciocchezze, — disse Rodrigues, — sta’ tranquilla.
Ginia era in piedi, davanti alla tenda, e sul tavolo c’era un bicchiere sporco e delle bucce d’arancia. — Quando ritorna Guido? — chiese.
— Lunedí, — disse Rodrigues. — La vedi? quella è una natura morta, — e indicava il bicchiere.
Ginia sorrise e si scostò. — Siediti, Ginia. Siedi qui sul letto.
— Devo scappare, — disse Ginia, — io lavoro.
Ma Rodrigues si lamentò che l’aveva svegliato e adesso non gli dava neanche il buon giorno. — Per celebrare lo scampato pericolo, — disse.
Allora Ginia si sedette sull’orlo, sotto la tenda spalancata. — Ho il batticuore per Amelia, — disse. — Povera diavola. È disperata. Davvero si diventa ciechi?
— Ma no, — disse Rodrigues, — si guarisce. La sforacchieranno da tutte le parti, le taglieranno qualche pezzo di pelle, e vedrai che quel dottore se la porta ancora a letto. Credi a me.
Ginia cercò di non sorridere, e Rodrigues continuò: — Vi ha portate in collina? — e parlando le carezzava la mano come se fosse la schiena di un gatto.
— Che mani fredde, — disse ancora. — Perché non vieni a scaldartele?
Ginia si lasciò baciare sul collo, dicendo: — Stia buono, — poi si alzò in piedi, tutta rossa, e corse via.
XIV.
La sera, anche Rodrigues venne al caffè e si sedette al tavolino accanto, dalla parte di Ginia.
— Come va la voce? — disse né serio né ridendo.
Ginia cercava proprio allora di consolare Amelia spiegandole che si guariva, e fu contenta di star zitta. Con Rodrigues si guardarono appena.
Stette zitta anche Amelia, e lei pensava già di chieder l’ora, quando Rodrigues disse ironico: — Brava, brava, cosí mi seduci anche le minorenni.
Amelia non capí subito, e Ginia ebbe tempo di chiudere gli occhi. Quando li aprí, sentí la voce minacciosa di Amelia: — Che cosa ti ha raccontato questa stupida?
Ma Rodrigues ebbe pietà, perché disse: — È venuta stamattina a svegliarmi, per sapere da me tue notizie.
— Ha del buon tempo, — disse Amelia.
Ginia cercò in quei giorni di esser molto buona, perché Guido tornasse davvero, e andò ancora a trovare Rodrigues. Non piú allo studio, perché il ricordo la spaventava, e poi Rodrigues era un dormiglione, ma a mezzogiorno nella trattoria dove mangiava, e dove avrebbe mangiato anche Guido. Era sulla strada del tram e lei passava un momento a scherzare e a sentire se c’erano novità. Faceva come Amelia e lo prendeva in giro. Ma Rodrigues l’aveva capita e non allungava piú le mani. Combinarono insieme che sarebbe tornata allo studio domenica per fare un po’ di pulizia per Guido. — Noi sifilitici, — disse Rodrigues, — non abbiamo paura di niente.
Amelia invece non ci andava piú. Ginia le stette insieme il pomeriggio di sabato e l’accompagnò dal dottore che le faceva le iniezioni. Si fermarono indecise sulla porta e finalmente Amelia disse: — Non salire, se no trova anche a te qualche male, — e saltò svelta sullo scalino e disse ancora: — Ciao, Ginia, — tanto che Ginia, cosí allegra che era prima, tornò a casa disperata. Nemmeno pensare che tra un giorno ci sarebbe stato Guido, la consolava abbastanza.
Anche la domenica passò, come un sogno. Ginia stette nello studio tutto il pomeriggio, e scopò, strofinò, mise in ordine. Rodrigues non si provò nemmeno, a darle noia. L’aiutò a portar via delle montagne di cartocci e di bucce. Poi sbatterono i libri del caminetto e li posarono sopra una cassa a biblioteca. Quando lavarono i pennelli, Ginia si fermò un momento incantata: l’odore dell’acqua ragia le ricordava Guido come se l’avesse vicino. Sorrise, perché Rodrigues non capiva.
— È fortunato, quel porco, — disse Rodrigues, quando Ginia ebbe finito e uscí da dietro la tenda con l’asciugamano. — Mai piú se l’aspetta.
Poi prese il tè vicino alla stufa, ce fecero passare delle cartelle di Guido che avevano trovato sotto i libri, ma Ginia fu delusa perché c’erano soltanto dei paesaggi e la testa di un vecchio.
— Aspetta, aspetta, — disse Rodrigues, — Io so che cosa cerchi.
Dopo un po’ cominciarono i disegni di donne. Sembravano figurini. Ginia guardava divertita, perché era la moda di due anni prima. Poi ne comparvero di nude. Poi comparvero degli uomini nudi, e Ginia voltò in fretta perché Rodrigues, appoggiato contro il muro, si sporse. Finalmente tornò una donna vestita, una ragazza dalla faccia quadra, campagnola, testa e spalle. — Chi è? — disse Ginia.
— Sua sorella, sarà, — disse Rodrigues.
— Luisa?
— Non so.
Ginia studiò quegli occhi grossi, e quella bocca sottile. Non somigliava a nessuno. — È bella, — disse. — Non ha l’aria addormentata che fate sempre voi pittori.
— Parla per lui, — disse Rodrigues, — io non c’entro.
Ginia era tanto contenta che, se Rodrigues l’avesse saputo, avrebbe potuto baciarla. E lui invece se ne stava malinconico, rannicchiato sul sofà, e se non fosse che dai vetri entrava ancora un po’ di luce, Ginia avrebbe immaginato di aver Guido vicino e gli avrebbe fatto una carezza. Chiuse gli occhi per pensarci.
— Com’è bello, — disse forte.
Poi chiese ancora una volta a Rodrigues se non sapeva l’ora precisa di domani. Ma Rodrigues rispose che magari Guido ritornava in bicicletta. Allora parlarono dei paesi di Guido e, senz’esserci mai stato, Rodrigues glieli descrisse per burla come fatti di porcili e pollai e con le strade cosí sfondate in quella stagione, che forse non si poteva venir via. Ginia allora gli fece il broncio e gli disse di smetterla.
Uscirono insieme e Rodrigues promise che non avrebbe versato cenere. — Dormirò su una panchina stanotte. Va bene? — Uscirono dal portone ridendo e Ginia prese il tram pensando ad Amelia, a quelle ragazze dei disegni, e confrontandosi mentalmente con loro. Le pareva ieri che erano andate in collina, e adesso Guido tornava.
Si svegliò l’indomani costernata. In un niente fu mezzogiorno. Si era messa d’accordo con Rodrigues che, se Guido arrivava, si sarebbero trovati al caffè. Passò al caffè in punta di piedi, e dalla vetrina li vide al banco. Guido con l’impermeabile era magro, se ne stava col piede appoggiato alla sbarra. Ginia non l’avrebbe riconosciuto da solo. Per l’impermeabile aperto gli vide una cravatta grigia, non la sua. Guido, cosí in borghese, non sembrava piú un giovanotto.
Parlavano, lui e Rodrigues, ridendo. Ginia pensò: «Ci fosse Amelia. Farei finta di andare da lei». Per decidersi a entrare dovette ricordarsi che gli aveva pulito lo studio.
Era ancora sull’ingresso quando Guido la vide, e allora lei gli andò incontro come se entrasse per caso. Mai come in quel momento Guido le aveva dato soggezione. Tra la gente che andava e veniva, Guido le tese la mano, continuando a parlare rivolto a Rodrigues.
Non si dissero quasi niente. Guido aveva piú fretta di lei, perché qualcuno lo aspettava. La rincuorò con un sorriso, chiedendole: — Stai bene? — e sulla porta gridò: — Arrivederci!
Ginia andò verso il tram, sorridendo come una stupida. In quel momento le presero il braccio, e una voce, la voce di Guido, le disse all’orecchio: — Ginetta!
Si fermarono e Ginia aveva le lacrime agli occhi. — Dove andavi? — le chiese Guido. — Andavo a casa. — Senza salutarmi? — e
Guido le serrò il braccio e la guardò con quegli occhi. — Oh Guido, — disse Ginia, — non aspettavo che te.
Tornarono sul marciapiede senza parlare, poi Guido disse: — Adesso va’ a casa e, quando vieni a trovarmi, mi raccomando non piangere.
— Stasera?
— Stasera.
Quella sera Ginia, prima di uscire, si lavò apposta per Guido. Si sentiva piegare le gambe a pensarci. Salí la scala con mille paure. Giunta alla porta, ascoltò: c’era la luce e nessuno parlava. Allora tossí, come aveva già fatto una volta, ma nessuno si mosse, e Ginia si decise a bussare.
XV.
Le aprí Guido, ridendo, e una voce di ragazza chiese «Chi è?» dal fondo. Guido tese la mano e le disse di entrare.
Sotto la luce smorta, addosso alla tenda, una ragazza s’infilava l’impermeabile. Non aveva cappello, e la guardò dall’alto in basso come se fosse la padrona.
— È una collega, — disse Guido. — È solo Ginia.
L’altra andò alla finestra, mordendosi il labbro, a specchiarsi nel vetro nero. Camminava col passo di Amelia. Ginia guardava da lei a Guido.
— Dunque, Ginia, — disse Guido.
Finalmente la ragazza se ne andò, non senza squadrarla un’ultima volta dalla porta. Sbattè l’uscio e si sentirono i passi allontanarsi.
— È una modella, — disse Guido.
Quella notte restarono sul sofà a luce accesa, e Ginia non cercò piú di nascondersi. Avevano portato la stufa vicino alla sponda, ma faceva freddo lo stesso e, dopo un momento che Guido la guardava, Ginia doveva tornare sotto le coperte. Ma piú bello di tutto fu pensare, stretta con lui, che questo era proprio l’amore. Guido si alzò, nudo com’era, per prendere del vino e tornò saltellando dal freddo. Misero i bicchieri sulla stufetta, per scaldarli, e Guido venne che sapeva di vino, ma Ginia preferiva l’odore caldo della pelle. Guido aveva dei peli ricci sul petto, che solleticavano la guancia, e nei momenti che si scoprivano Ginia confrontava quel biondo col suo, e aveva vergogna e le piaceva nello stesso tempo. Disse all’orecchio di Guido che aveva paura a guardarlo, e Guido rispose che allora non guardasse.
Proprio quand’erano abbracciati sotto, parlarono di Amelia, e Ginia gli disse ch’era stata una donna la causa di tutto. — Se lo merita, — disse allora Guido. — Sono scherzi da fare?
— Come sai di vino, — disse Ginia a voce bassa. — È ancora l’odore piú buono che si può sentire a letto, — rispose Guido, ma Ginia gli chiuse la bocca con la mano.
Poi spensero la luce, e stettero zitti. Ginia fissava il soffitto incerto e pensava a tante cose, mentre Guido le respirava addosso. Dalla parte dei vetri si vedevano lontano dei lumi. Quell’odore di vino e di fiato caldo, la faceva pensare ai paesi di Guido. Poi pensava se a Guido piaceva davvero il suo corpo cosí sottile, o se davvero anche lui non avrebbe preferito Amelia, bruna e bella. Guido l’aveva tutta baciata, senza parlare.
Poi s’accorse che Guido dormiva, e le parve impossibile che si potesse dormire abbracciati cosí, e si scostò piano piano e trovò un posto fresco, tanto che divenne inquieta perché sentí di essere nuda e di esser sola. Di nuovo la prese il ribrezzo e la pena come quando da bambina si lavava. E si chiese perché Guido faceva l’amore con lei e pensò all’indomani, pensò a tutti quei giorni che aveva aspettato, e le si empirono gli occhi di lacrime che pianse adagio per non farsi sentire.
Si rivestirono al buio, e Ginia al buio chiese improvvisamente chi era quella modella.
— È una povera diavola che le han detto che sono tornato.
— È bella? — disse Ginia.
— Non hai visto?
— Ma come è possibile posare in questo freddo?
— Voi ragazze non patite il freddo, — disse Guido. — Siete fatte per star nude.
— Io non potrei, — disse Ginia.
— Ci sei stata stasera.
Alla luce Guido la guardò sorridendo. — Contenta? — le disse. Si sedettero accanto sul sofà, e Ginia gli posò la testa sulla spalla per non guardarlo negli occhi. — Ho tanta paura, — disse, — che tu non mi voglia bene.
Poi fecero il tè, e Guido fumava seduto mentre lei andava per la stanza. — Ti lascio fare quel che vuoi, mi pare. Ho persino mandato a passeggio Rodrigues per tutta la sera.
— Torna a momenti? — disse Ginia.
— Non ha la chiave del portone. Vado a prenderlo sotto.
Cosí si lasciarono sul portone, perché Ginia non voleva vedere Rodrigues. Tornò a casa accasciata nel tram, senza pensare piú a nulla.
Cominciò cosí la sua vera vita d’innamorata, perché adesso che con Guido si erano visti nudi, tutto le pareva diverso. Adesso sí che era come sposata e, anche da sola, bastava pensare ai suoi occhi, come l’avevano guardata, per non sentirsi piú sola. «Vuol dir questo, sposarsi». Chi sa la mamma se aveva fatto come loro. Ma le pareva impossibile che degli altri nel mondo avessero avuto quel coraggio. Nessuna donna, nessuna ragazza, poteva aver visto un uomo nudo come lei vedeva Guido. Una cosa simile non può succedere due volte.
Ma Ginia non era una stupida, e sapeva che tutte quante si dice cosí. Anche Rosa, quella volta che voleva ammazzarsi. C’era soltanto di diverso che Rosa faceva l’amore nei prati e non sapeva com’era bello chiacchierare e trovarsi con Guido.
Eppure con Guido sarebbe stato bello anche nei prati. Ginia ci pensava sempre. Malediceva la neve e il gran freddo che non lasciavano far niente, e pensava, stordita dal piacere, alla prossima estate che sarebbero andati in collina, che avrebbero passeggiato di notte, che avrebbero aperto le vetrate. Guido le aveva detto: — Mi devi vedere in campagna. Solo allora dipingo. Nessuna ragazza è bella come una collina — . Ginia era contenta perché Guido non aveva preso la modella e voleva invece fare un quadro che fosse da mettere tutt’intorno a una camera, come uno spacco nel muro, e si vedessero colline e cielo chiaro da tutte le parti. Ci studiava da quand’era soldato, e adesso maneggiava tutto il giorno striscioline di carta e ci dava sopra pennellate che non erano ancor niente ma solo prove. Un giorno disse a Ginia: — Non ti conosco ancora abbastanza per farti il ritratto. Aspettiamo.
Rodrigues non si vedeva quasi mai, perché prima di cena quando Ginia veniva allo studio, lui era già fuori, al caffè. Invece venivano degli altri a passare la sera con Guido — anche delle donne, perché Ginia vide una volta una cicca sporca di rossetto — e fu allora che per fargli piacere gli disse che aveva paura di disturbarlo e che a lei quella gente dava soggezione. Propose a Guido che lasciasse la porta aperta quand’era solo e aveva voglia di vederla. — Io verrei sempre. Guido, — gli disse, — ma capisco che tu hai la tua vita. Voglio che quando ci vediamo siamo soli e che tu non debba mai trovarmi antipatica — . Dirgli di queste cose dava a Ginia una gioia acuta come quando si abbracciavano. Ma la prima volta che trovò la porta chiusa, non si tenne e bussò, col cuore in gola.
Amelia veniva da lei qualche volta dopo pranzo con la faccia seccata e gli occhi pesti. Uscivano subito, perché Ginia non voleva lasciarle il tempo di sedersi sul letto, e facevano le tre gironzolando. Senza riguardi Amelia entrava in un bar e prendeva il caffè, lasciando la macchia del rossetto sulla tazza. Se ne dava molto, per non essere pallida. Quando Ginia le disse che cosí poteva infettare le tazze, lei rispose: — Le lavino, — alzando le spalle. — Che cosa credi? il mondo è pieno di gente come me. L’unica differenza è che non lo sanno.
— Ma stai meglio, — disse Ginia. — Hai la voce piú chiara.
— Ti pare? — diceva Amelia.
D’altro non parlavano, e Ginia che aveva tante cose da chiederle non osava. L’unica volta che lei accennò a Rodrigues, Amelia fece una smorfia e disse: — Lasciali perdere, quei due.
Ma una sera le capitò in casa e le chiese: — Vai da Guido stasera?
— Non so, — disse Ginia, — deve averci gente.
— E tu gli dài questo vizio di non andarlo a seccare? Stupida, finché diventi rossa non combinerai mai niente.
Ginia le disse, mentre ci andavano, che credeva che con Rodrigues lei avesse litigato.
— È sempre lo stesso porco, — disse Amelia. — Te l’ha detto lui? Pensare che gli ho salvato la pelle.
— No. Lui dice soltanto che è una scusa che hai trovato per far l’amore con quel medico.
Amelia comindò a ridere minacciosa. Quando furono sotto il portone, Ginia vide in alto la finestra illuminata e si disperò perché fino a quel momento aveva sperato che Guido fosse uscito. — Non c’è nessuno, — disse ancora. — Non andiamo — . Ma Amelia entrò decisa.
Trovarono Guido e Rodrigues che accendevano il fuoco nel caminetto. Entrò prima Amelia; poi Ginia che cercava di sorridere. — Chi si vede, — disse Guido.
XVI.
Ginia chiese se disturbavano e Guido le diede un’occhiata comica che la lasciò perplessa. Vicino al caminetto c’era una catasta di legna. Intanto Amelia andò al sofà e si sedette, dicendo tranquilla che faceva freddo. — Dipende dal sangue, — brontolò Rodrigues dal caminetto.
Ginia pensava chi potesse mai venire quella sera, che accendevano persino il fuoco. Ancora ieri quella legna non c’era. Nessuno parlò per un momento, e lei si vergognava della sfacciataggine di Amelia. Quando la fiamma ebbe attaccato. Guido disse a Rodrigues senza voltarsi: — Tira sempre — . Amelia scoppiò a ridere come una scema, e anche Rodrigues fece una smorfia di piacere. Poi Guido si alzò e spense la luce. La stanza divenne un’altra, piena d’ombre che ballavano.
— Noialtri insieme siamo sempre quelli, — disse Amelia dal sofà. — Come si sta bene.
— Mancano solo le castagne, — disse Guido. — Il vino c’è.
Ginia allora si tolse il cappello, felice, e disse a tutti che le castagne le vendeva arrostite la vecchia sull’angolo.
— Tocca a Rodrigues, — disse Amelia.
Ma Ginia corse lei giú dalle scale, perché era contenta che non fossero piú offesi. Dovette girare al freddo un pezzo, perché la vecchia non c’era, e girando pensava che una cosa simile Amelia non l’avrebbe fatta per nessuno. Quando rientrò era trafelata. Nella stanza che ballava, vide Rodrigues rannicchiato in fondo al sofà come una volta, ai piedi di Amelia distesa. E Guido in piedi, nell’ombra rosseggiante, che parlava e fumava.
Avevano già riempito i bicchieri, e chiacchieravano di quadri. Guido diceva della collina che voleva fare, e che aveva in mente di trattarla come una donna distesa con le poppe al sole, e darle il fluido e il sapore che sanno le donne.
Rodrigues disse: — Già fatto. Cambia. Già fatto.
Allora si attaccarono se era vero che questa pittura era già stata fatta, e mangiavano le castagne e gettavano le bucce nel caminetto. Amelia le gettava per terra. Un bel momento Guido disse: — Ma no che nessuno ha mai fatto le due cose insieme. Io ti prendo una donna e te la stendo come fosse una collina in cielo neutro.
— Pittura simbolica. Allora fai la donna e non fai la collina, — disse Rodrigues arrabbiato.
Ginia non se ne accorse lí per lí, ma un bel momento ecco che Amelia si era offerta di posare per Guido, e Guido non diceva di no.
— Con questo freddo? — chiese Ginia.
Non le risposero neanche e si misero a discutere dove in caso portare il sofà per conciliare la luce e il calore del fuoco.
— Ma Amelia è malata, — disse Ginia.
— E con questo? — scattò Amelia. — Il mio lavoro è di non muovermi.
— Sarà un quadro morale, — disse Rodrigues, — sarà il quadro piú morale del mondo.
Risero e ne dissero di tutti i colori e Amelia, che per prudenza non beveva, finí per chiederne un bicchiere e spiegò che poi bastava lavarlo con acqua e sapone. Disse che faceva cosí anche in casa, e spiegò a Guido la cura che quel dottore le faceva e scherzarono sulle iniezioni, e Amelia disse che stesse tranquillo perché la pelle lei l’aveva sana. Ginia per vendicarsi le chiese se era ancora infiammata alla mammella, e allora Amelia si arrabbiò e ribattè che le aveva piú belle delle sue. Guido disse: — Vediamo — . Tutti si guardarono ridendo. Amelia si slacciò la camicetta, si staccò il reggiseno e mostrò le mammelle tenendole fra le due mani. Avevano acceso la luce e Ginia, che guardò di sfuggita, si fermò agli occhi di Amelia, trionfanti e cattivi.
— Vediamo le tue, — disse Rodrigues.
Ma Ginia scosse il capo disperata e abbassò gli occhi sotto quelli di Guido. Passò un lungo momento e Guido non parlava.
— Avanti, — disse Rodrigues, — facciamo un brindisi alle tue.
Guido taceva sempre. Ginia si voltò di scatto al caminetto e senti che dicevano «Stupida».
Cosí l’indomani Ginia andò all’atelier sapendo che Amelia nuda era sola con Guido. In certi momenti le pareva di morire. Vedeva di continuo la faccia di Guido fissata su Amelia. Sperava soltanto che ci fosse Rodrigues.
Nel pomeriggio potè uscire per portare una fattura. Corse allo studio e ci trovò l’uscio di legno. Tese l’orecchio e non sentí nessuno. Allora ridiscese piú calma.
Alle sette li trovò tutti al caffè. Guido aveva la sua cravatta e faceva il bello, e Amelia ascoltava fumando. Le dissero «Siediti» come fosse una bambina. Parlavano dei tempi d’una volta, e Amelia raccontava dei suoi pittori.
— E tu che cosa ci racconti? — disse Rodrigues all’orecchio di Ginia.
Ginia senza voltarsi disse: — Stia buono.
Fecero poi insieme un pezzo dei portici, e chiese a Guido se potevano vedersi dopo cena. — C’è Rodrigues, — disse Guido. Allora Ginia lo guardò disperata. Combinarono di trovarsi fuori un momento.
Quella sera nevicava e fu Guido che propose di entrare al caffè a prendere il ponce. Lo presero al banco. Ginia, tutta infreddolita, gli domandò come faceva Amelia a posare con tanto freddo. — Il caminetto scalda, — disse Guido, — e poi lei è abituata.
— Io non resisterei, — disse Ginia.
— E chi ti chiede di resistere?
— Oh Guido, — disse Ginia, — perché mi tratti cosí? Dicevo perché Amelia è malata.
Allora uscirono, e Guido la teneva a braccetto. Avevano la neve in bocca, sugli occhi, dappertutto. — Senti, — le disse Guido, — lo so. E so anche che facevate delle cose. Non c’è niente di male. A tutte le ragazze piace darsi dei baci. Lascia vivere dunque.
— Ma è Rodrigues... — disse Ginia.
— No, è che siete tutte uguali. Se è per Rodrigues che vuoi posare, avanti, vieni domani. Io non ti chiedo cosa fai tutto il giorno.
— Ma io non voglio posare per Rodrigues.
Si lasciarono cosí sotto il portone e Ginia tornò a casa nella neve, invidiando i ciechi che chiedono l’elemosina e non pensano piú a niente.
L’indomani alle dieci piombò nello studio. Disse a Guido, sulla porta, che si era licenziata.
— È solo Ginia, — disse Guido verso la stanza.
Fuori sui tetti si vedeva la neve. Amelia nuda era seduta sul sofà, messa per lungo davanti al camino acceso, e si stringeva nelle spalle e supplicava di chiudere la porta.
— Hai voluto venire a vederci, — disse Guido, tornando al cavalletto. — Di chi sei gelosa?
Ginia facendo il broncio si accoccolò vicino al fuoco. Non guardò Amelia né andò da Guido. Venne Guido a gettare altra legna sulla fiamma, che faceva davvero un riverbero che si poteva star nudi. Passando le batté con la mano aperta sulla nuca, e, mentre Ginia scostava il capo, carezzò Amelia sul ginocchio, come si tocca una fiamma. Amelia che distesa sulla schiena dava il fianco al calore, lasciò che Guido ritornasse alla finestra e poi bisbigliò rauca: — Sei venuta a vedermi?
— È uscito Rodrigues? — le chiese Ginia.
Guido dalla finestra disse forte: — Solleva un poco il ginocchio.
Allora Ginia osò voltarsi e guardò Amelia con invidia, scostandosi perché il riverbero era troppo forte. Guido dal cavalletto ogni tanto gettava un’occhiata a loro due, un’occhiata rapida che poi passava sul foglio.
Finalmente disse: — Vestiti, ho finito — . Amelia si sedette e si tirò il soprabito sulle spalle. — Fatto, — disse ridendo, a Ginia. Ginia andò a poco a poco verso il cavalletto. Su una lunga striscia di carta. Guido col carboncino aveva segnato il profilo del corpo d’Amelia. Erano righe molto semplici, qualche volta intrecciate. Pareva che Amelia fosse diventata acqua e passasse cosí sulla carta. — Ti piace? — disse Guido. Ginia annuí col capo cercando di riconoscere Amelia. Guido se la rideva.
Allora Ginia, col batticuore, disse: — Copia anche me.
Guido levò gli occhi. — Vuoi posare? — le disse.
— Spogliarti?
Ginia guardò dalla parte d’Amelia e disse: — Sí.
— Hai sentito? Ginia vuol posare nuda, — disse forte Guido.
Amelia rispose con una risata. Saltò giú e corse, avvolgendosi nel soprabito, verso la tenda. — Spogliati lí, vicino al fuoco. Io mi vesto.
Ginia guardò un’ultima volta la neve sui tetti e balbettò:
— Devo proprio?
— Avanti, — disse Guido. — Ci conosciamo.
Allora Ginia si spogliò vicino al fuoco, adagio, con un cuore furioso che la faceva tremare, e ringraziava nell’anima Amelia ch’era andata a vestirsi e non la vedeva. Guido tolse il foglio dal cavalletto e ne appuntò un altro. Ginia posava la roba a pezzo a pezzo sul sofà. Guido venne a riattizzare il fuoco. — Presto, — le disse, — altrimenti mi va troppa legna. — Coraggio, — le gridò Amelia da dietro la tenda.
Quando Ginia fu nuda. Guido la percorse adagio con gli occhi chiari, senza sorridere. La prese per mano, e gettò a terra un lembo della coperta. — Sali sopra e guarda verso il fuoco, — disse. — Ti copio in piedi.
Ginia fissò le fiamme, chiedendosi se Amelia era già uscita di laggiú. S’accorse che il riverbero le dorava la pelle e la mordeva. Allora sbirciò la neve sui tetti senza muovere il collo.
— Non coprirti con le mani. Levale su, come tenessi un balcone, — disse la voce di Guido.
XVII.
Ginia fissava la fiamma sorridendo. Le corse un brivido giú per la schiena. Sentí i passi leggeri di Amelia e la vide spuntare accanto a Guido, vicino alla finestra, aggiustandosi la cintura. Le sorrise senza guardarla.
Ma sentí un altro passo vicino al sofà. Fece per abbassare le braccia.
— Stai naturale, — disse Guido.
— come sei smorta, — disse Amelia. — Non pensarci.
Ginia in quell’attimo capí ogni cosa e fu tanto atterrita che non seppe voltarsi. Per tutto quel tempo dietro la tenda c’era stato Rodrigues, che adesso era in mezzo alla stanza e la guardava. Le parve persino di sentire il suo fiato. Si fissò nella fiamma come una stupida e tremò dal midollo. Ma non seppe voltarsi.
Passò un lungo silenzio. L’unico che muoveva la mano, era Guido. — Ho freddo, — balbettò Ginia senza voce.
— Vòltati, prendi la giacchetta e copriti, — disse finalmente Guido.
— Poveretta, — disse Amelia.
Allora Ginia si voltò di scatto, vide Rodrigues a bocca aperta, e afferrò la sua roba coprendosi. Rodrigues, appoggiato con un ginocchio al sofà e chino in avanti, fece un «oh» come un pesce e le fece una smorfia. — Non c’è male, — le disse, con la voce di sempre.
Mentre tutti ridevano e cercavano di consolarla, Ginia corse a piedi nudi alla tenda e si vestí disperata. Nessuno la seguí là dietro. Ginia strappò la cintura delle mutandine per fare piú presto. Poi rimase in piedi nel buio, piena di ribrezzo per le lenzuola del letto sfatto. Fuori, tutti tacevano.
— Ginia, — disse la voce di Amelia, vicino alla tenda, — si può?
Ginia afferrò la tenda e non rispose.
— Lasciala stare, — disse la voce di Guido, — è una scema.
Allora Ginia cominciò a piangere, in silenzio, attaccata alla tenda. Piangeva di cuore come quella notte che Guido dormiva. Le pareva di non aver mai fatto altro con Guido che piangere. E ogni tanto si fermava e diceva: «Ma perché non se ne vanno?» Le sue scarpe e le sue calze erano rimaste vicino al sofà.
Piangeva da un pezzo, e si sentiva tutta intontita, quando la tenda si aprí bruscamente e Rodrigues le tese le scarpe. Ginia le prese senza dir nulla e intravide appena la sua faccia e lo studio. Capí in quel momento di aver fatta una stupidaggine e di esser stata cosí spaventata che adesso anche gli altri non ridevano piú. Si accorse che Rodrigues era fermo davanti alla tenda.
Allora le prese una paura folle che venisse Guido e la svergognasse senza pietà. Pensava «Guido è un contadino e mi tratterà male. Che cosa ho fatto a non ridere». S’infilò calze e scarpe.
Quando uscí fuori non guardò Rodrigues. Non guardò nessuno. Intravide la testa di Guido dietro il cavalletto e la neve sui tetti. Amelia si alzò dal sofà sorridendo. Ginia strappò il soprabito dal sofà e nell’altra mano il cappello, aprí la porta e scappò via.
Quando fu sola nella neve le parve d’essere ancor nuda. Tutte le strade erano vuote, e non sapeva dove andare. Tanto poco la volevano lassú, che non si erano neanche stupiti di vederla a quell’ora. Si divertiva a pensare che l’estate che aveva sperato, non sarebbe venuta mai piú, perché adesso era sola e non avrebbe mai piú parlato a nessuno ma lavorato tutto il giorno, e cosí la signora Bice sarebbe stata contenta. Un bel momento si accorse che chi ci aveva meno colpa era Rodrigues perché lui che dormiva sempre fino a mezzogiorno l’avevano svegliato gli altri, e si capisce che aveva guardato. «Se avessi fatto come Amelia, li avrei stupiti tutti. Invece, io piangevo». Solo a pensarci, le tornavano le lacrime.
Ma Ginia non riusciva a disperarsi davvero. Capiva di esser stata lei stupida. Tutta la mattina pensò di ammazzarsi, o almeno di essersi presa la polmonite. Cosí sarebbe stata colpa loro e avrebbero avuto rimorso. Ma ammazzarsi cosí non valeva la pena. Era lei che aveva voluto far la donna e non c’era riuscita. Sarebbe stato come ammazzarsi per essere entrata in un negozio di lusso. Quando si è stupide si torna a casa. «Sono una povera disgraziata», diceva Ginia, rasentando i muri.
Quel pomeriggio le fece piacere quando la signora Bice, solo a vederla, gridò: — Ma che vita fate, voi ragazze. Hai una faccia che sembri incinta — . Le disse che al mattino aveva avuto la febbre, e fu contenta che almeno si vedesse che soffriva. Ma tornando a casa, si aggiustò per le scale con un po’ di cipra, perché di Severino si vergognava.
Quella sera aspettò Rosa, aspettò Amelia, aspettò perfino Rodrigues, decisa a chiudere la porta in faccia a chiunque fosse. Non venne nessuno. Severino, per farle rabbia, le gettò in tavola un paio di calze strappate chiedendole se voleva mandarlo scalzo. — Starà fresco quel merlo che ti sposa, — le disse. — Ci fosse mamma, vedresti — . Ginia ridendo e con gli occhi rossi, gli rispose che, piuttosto di sposarsi, si ammazzava. Quella sera non lavò i piatti. Si mise invece davanti alla porta in ascolto. Poi passeggiò per la cucina, e non andava alla finestra, per non vedere i tetti bianchi di neve. Trovò delle sigarette in una tasca di Severino, e si mise a fumarne una. S’accorse che ci riusciva e allora si buttò sul sofà respirando come avesse la febbre, e decise da domani di fumare.
Il sollievo che Ginia in quei giorni provò, di non dover piú correre per fare ogni cosa, le faceva rabbia, perché ormai aveva imparato a sbrigarsi alla svelta e le restava tanto tempo da pensare. Fumare non bastava, perché avrebbe tanto voluto che qualcuno la vedesse, e adesso neanche Rosa non veniva piú a cercarla. Era terribile la sera, quando se ne andava Severino, e Ginia aspettava aspettava qualcuno, senza decidersi a uscire. Provò un brivido una volta, come una carezza, spogliandosi per andare a letto, e allora si mise davanti allo specchio, si guardò senza paura e alzò le braccia sul capo, girandosi adagio, col cuore in gola. «Ecco, se adesso entrasse Guido, che cosa direbbe?» si chiedeva, e sapeva benissimo che Guido a lei non ci pensava nemmeno. «Neanche l’addio ci siamo dati», balbettò, e corse a letto per non piangere nuda.
In certi momenti, per le strade, Ginia si fermava perché di colpo sentiva persino il profumo delle sere d’estate, e i colori e i rumori e l’ombra dei platani. Ci pensava in mezzo al fango e alla neve, e si fermava sugli angoli col desiderio in gola. «Verrà sicuro, le stagioni ci sono sempre», ma le pareva inverosimile proprio adesso ch’era sola. «Sono una vecchia, ecco cos’è. Tutto il bello è finito».
E una sera che tornava a casa in fretta, incontrò Amelia sul portone. Fu un incontro brusco e non si salutarono, ma Ginia si fermò. Amelia con la veletta e tutto, passeggiava aspettando. — Che cosa fai? — Aspetto Rosa, — disse Amelia tutta rauca, e si guardarono. Allora Ginia fece una faccia, e scappò su per le scale.
— Che cos’hai questa sera? — le diceva Severino mangiando. — Ti hanno dato un cane?
Quando fu sola, Ginia cominciò a disperarsi davvero. Non piangeva nemmeno. Girava per la stanza come una matta. Poi si buttò sul sofà.
Invece proprio quella sera venne Amelia. Ginia, quando le aprí, non ci credeva. Ma Amelia entrò come al solito, chiese se c’era Severino, e andò a sedersi sul sofà.
Ginia non si ricordò di fumare. Parlarono di quel che facevano, adagio, tanto per dire qualcosa. Amelia s’era tolto il cappello e stava con le gambe accavallate, e Ginia appoggiata al tavolo, vicino alla lampada abbassata, non le vedeva la faccia. Parlarono del gran freddo e Amelia disse: — Quanto ne ho preso, stamattina.
— Sei sempre in cura? — chiese Ginia.
— Perché? sono cambiata?
— Non so, — disse Ginia.
Amelia chiese da fumare: sul tavolo c’era il pacchetto. — Fumo anch’io, — disse Ginia.
Mentre accendevano, Amelia disse: — Ti è passata?
Allora Ginia arrossi tutta e non rispose. Amelia si guardò la sigaretta e disse: — Credevo.
— Vieni di là? — balbettò Ginia.
— Non ha importanza, — disse Amelia buttando le gambe e alzandosi. — Vuoi che andiamo al cinema?
Mentre finivano la sigaretta, Amelia disse ridendo: — Hai fatto colpo su Rodrigues. Voleva sapere se mi piaci. Guido adesso è geloso di lui — . E mentre Ginia cercava di sorridere, continuò: — Sono contenta perché questa primavera sarò guarita. Quel tuo medico dice che mi ha preso in tempo. Senti, Ginia, al cinema non c’è niente di bello.
— Andiamo dove vuoi, — disse Ginia, — conducimi tu.