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Invece guardavo la piana e pensavo: — Non è mica Torino. Torino è chi sa dove.

— No, che non è Torino, — mi dice un ragazzo che arriva di corsa e si appoggia al muretto. — È la collina di Bra.

Allora prendo tutto in un’occhiata, la campagna, le macchie degli alberi e dei paesi, le nuvole, i mattoni del muro, e mi dico e ridico: — Bella strada che hai fatto. Valeva la pena!

Quando torna Talino, lo guardo. — Credevo ti avessero rimesso al fresco.

Ma lui ride perché non la intendeva in quel modo. Mi chiede se ho sete. — Sicuro, che ho sete. — E allora andiamo a bere una gazzosa. Le hanno buone. — Prima le sigarette — . Non me l’avrebbe piú fatta. Cinque pacchetti, dieci lire; non mi avanzava piú un soldo.

— E adesso, andiamo pure. Paghi tu.

Talino invece si ferma a scherzare sotto la lea del paese, dove un carradore aveva portato la forgia e piantato i picchetti per cerchiare una ruota. Il carradore era biondo ma piú quadro di lui, col grembiale di cuoio, come quelli che portano il ghiaccio. Aveva anche lui un garzone che gli ventilava la forgia, e mi fermo contro un platano a guardare in aria. Vedo che tra i platani ci sono i lampioni.

— Chi sa se li accendono, — dico.

— Sicuro, ce l’abbiamo la luce, — dice il biondo. — Non sentite la dinamo?

— Mi pareva un mulino. E lavoro, ce n’è?

— Ce n’è, ma non pagano. Fin che Talino non mette la luce nei suoi beni, la luce non rende.

— C’è la luna, d’estate; si vede lo stesso, — dice Talino.

Allora sghignazzano tutti due, e il ragazzo lascia andare la forgia. Io accendo la sigaretta sui carboni, e li guardo fare gli scemi. Intanto veniva notte.

Quando scendemmo la strada, almeno faceva fresco, e pensavo ancora dov’era la luna in quella campagna, che non l’avevo ancor vista. Tra le piante si vedeva la nostra collina, e faceva fresco come l’acqua.

— Talino, — gli chiedo, — non c’era la luna quando hai bruciato la Grangia?

In quel momento sentiamo un galoppo come avessimo il dia-


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