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Poi mi metto per strada, perché non volevo dare a quei due la soddisfazione di tenergli compagnia. Da Monticello scampanavano scampanavano, e sulla lea mi sorpassano correndo dei ragazzotti coi calzoni a mezza gamba, che sembravano tanti coscritti. Li lascio andare e mi metto al fresco contro il muretto della chiesa, ma sotto il portone doveva fare piú fresco ancora, a giudicare dall’eco dell’organo e dell’alleluia, e dal freddo della pietra dov’ero seduto. Ma era fumare che non si poteva.

Dopo un po’ vedo arrivare Vinverra e Talino, e Vinverra era un altro: sembrava fatto di terra, dentro la camicia pulita e la giacca e il cappello nero. Si fermano sugli scalini, ma io mostro la sigaretta cominciata e faccio segno che vadano. Talino allora entra dentro, e Vinverra scende giú e viene a chiedermi se avevo parlato col municipio. — No, che non ho parlato — . Vinverra mi guardava con un occhio solo, e mi dice che bisognava parlare. — Allora andiamo, ma è chiuso.

Era aperto, e non c’era nessuno, e io dico a Vinverra: — Guardate che perdete la messa — . Lui non alza neanche le spalle e si mette a correre per il paese. Tendevo a portarlo davanti ai tabacchi, ma lui gira intorno alla piazza e borbottava, e allora tiro fuori il libretto. — Tanto è qui, — dico, — non scappa — . Me lo prende, allora, con quella manaccia, e si ferma. — Chi sa se sa leggere? — dico. Lo volta e lo rivolta e mi chiede se era ancora buono. — E già che è buono — ; ma lui si ferma e guarda l’anno. — Dice il ’35, — mi fa. Non sapeva leggere, ma conosceva i numeri. — Non è mica una licenza, — faccio, — se uno ha dato l’esame, l’ha dato, e i motori sono sempre gli stessi.


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