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io mi facevo l’occhio e cercavo il letto: non c’era letto ma un gran materasso buttato per terra.
— Qui non si cade dal letto, — dico a Talino.
— Attenti col fuoco, — fa il vecchio Vinverra. — C’è il fieno, e se ne va per la scala, deciso a rompersi il collo.
Non so perché, ci sediamo tutti due con le gambe che pendono sull’aia, davanti alla collina nera. Meno male che, in una stanza cosí, faceva fresco. Accendo la sigaretta per provare se Talino era come suo padre, ma Talino non se ne accorge neanche. C’era un cane, lontano lassú, che abbaiava. O una cagna: piú facile. La collina era tutta scura; dormivano tutti. Dico: Michela riderebbe se mi vedesse in questo stato. Pensavo a Corso Bramante sotto la collina: anche a essere solo, uno almeno è a Torino, e a mezzanotte trova ancora tutto aperto.
— E uno che volesse chinarsi una volta, dove va? — chiedo a Talino.
— Nella stoppia.
Magari ci andavano anche le ragazze. Chi sa dove dormivano.
— E se arriva il tuo Rico e ti prende i calzoni? — gli faccio, per ridere.
— Glieli lascio, — dice Talino. — Cosí siamo in pace.
— Mi piacerebbe sapere chi è che ha bruciato la Grangia.
Talino si alza e si sbottona i calzoni, come faceva là dentro, e comincia a innaffiare di lassú, che pareva un cavallo.
— Io, sono stato, — dice nei denti, — io. Non ho mai riso tanto. Si vedeva di qui come se fosse giorno.
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