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chio. Ma uno, un giovanotto con la giacca sulle spalle, si stacca e mi dice: — Voi siete il macchinista? Mi hanno detto che mi cercate. Sono Ernesto del Prato — . Questo sembrava piú civile, ma mentre lo guardo vedevo Gisella e mi dico: — Sta’ attento, sono tutti una razza.
— Battete domani, — mi fa lui, tranquillo, voltandosi verso la chiesa. Aveva una faccia piú da ciclista che da campagna, e parlando non guardava per terra come gli altri.
— Vi cercavo perché vi ho portato via il lavoro senza saperlo. Non me l’avevano detto.
Lui si mette a ridere. — Tanto è una macchina che va da sola. Vi fermate molto?
— Dipende.
Allora ci guardiamo e gli occhi gli ridevano ancora e io pensavo a Gisella.
— E con Talino andate d’accordo?
— Poco da stare allegri in quella casa, — borbotto.
— Talino è mio amico, — fa lui. — Siamo stati insieme soldati. Gli cucivano il letto e lui dormiva sopra le coperte. Basta prenderlo per il suo verso.
— Ma ce l’ha il verso? — dico.
Dalla chiesa scampanavano e la gente usciva, e vedo scendere Vinverra e le sue donne col velo nero in testa, e i bambini e Talino. In quel sole, a vederlo venire, io pensavo che perdere sangue in campagna deve fare meno effetto che all’ombra di una casa a Torino. Una volta ne avevo visto sulle rotaie di un tram dopo una disgrazia, e faceva spavento; invece, pensare uno chinato che perde sangue sulle stoppie sembra piú naturale, come all’ammazzatoio. Guardate come cammina, stavo per dire a Ernesto, ma poi mi tengo.
— Sono contento della conoscenza, — diceva Ernesto guardando me.
Dietro le spalle sento un vecchio che dice: — Non sono venuti in paese. Possibile che Rico stia tranquillo?
— Se non vengono a messa, — dice una voce piú ferma, — avrà qualcosa in mente.
— Macché. Stanno ai Mulini e vanno a messa alla Madonna.
Ernesto ride con me, senza voltarsi, e io cambio gamba e gli dico: — Cosí domani, venite col grano e battete da noi?
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