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il discorso di quel Berto di Bra quando diceva che quelli del Prato avevano risposto ai carabinieri che non era la stagione per andare testimoni. Sicché, se Talino non mi aveva preso in mezzo un’altra volta, l’unica che aveva denunciato Talino era proprio Gisella. Doveva essere dritto quest’Ernesto se faceva il macchinista e gli piaceva Gisella.
— Non andarci, stai bene cosí, — mi diceva una voce. — Questo è un nido di vespe. Per quadro che sia quest’Ernesto del Prato, a quest’ora lo sa che sei tu il macchinista e, se è in gamba, sa già che ti piace Gisella.
Ma, una volta che entro in quel cortile, trovo solo una donna, una specie di Adele piú piccola, che mi dice che non era il Prato, tutt’altro, che il Prato era di là dall’acqua: di dove venivo?
— Siete voi il macchinista di Torino?
Le chiedo da bere e lei mi porta in cucina, gridando al cane. Saltano fuori ragazzi.
— Battiamo lunedí, sicuro, — le dicevo, e lei mi guardava con quegli occhi piccini e mi chiede perché volevo andare al Prato. Le dico allora che avevo sentito che prima quel lavoro era di Ernesto, e se c’erano state parole tra lui e Vinverra.
L’altra ride come per forza. — Le parole ci sono sempre.
— Dico bene, volevo sapere per regolarmi.
Mentre bevevo, la guardavo sopra il mestolo e lei mi guardava.
— Non li conosco questi Vinverra, — le dico, — ma ho sentito molte storie. Chi comanda in quella casa?
— Cosa vi dànno?
— Da mangiare e da dormire... Perché? È poco? — le faccio. — Quanto davano a Ernesto?
— Ernesto ha della roba, — dice lei guardandomi come si guarda un disgraziato.
— L’avranno pagato le figlie, — faccio allora.
— Niente di piú facile.
Io rido cosí alla buona. — Credevo volesse sposare...
— Chi? Ernesto? Quando marita una figlia, Vinverra vuole il genero in casa per risparmiare il lavorante.
— E le figlie vorranno andarsene...
Ma l’altra sprangava, perché s’era accorta che avevo il mio scopo. Le chiesi allora la strada per tornare, e me la spiegò senza uscire dal cortile. Lei, i ragazzi e il cane mi stavano a guardare da
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