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Talino gettò ancora la sua manata, e le sentimmo tempestare sulle tegole e sui muri, e perfino su una lastra di zinco. Finito il rumore, nessuno rispose. Talino allora gridò: — Ohi della Grangia! Talino di Vinverra è qui fuori! — Faceva effetto quella voce nel vento. Lo prendo per la camicia e lo tiro indietro.

Ma Talino si ferma ancora sull’orlo e si studia quei muri, come se non li avesse mai visti. Sotto la luna sembravano ancora piú scheletro, il vero quadro del terremoto.

— Vieni via, ti ho già detto, voglio discorrere.

— Si può sapere, — gli faccio, una volta in discesa, — si può sapere che cosa ti ha preso?

— Allora Rico sta ai Mulini, — dice lui, senza farmi caso; — sta proprio ai Mulini.

— Senti, gli hai già bruciata la casa a quel diavolo. Lascialo vivere, ché lui vivere ti lascia. Non è ancora abbastanza?

Ma il coraggio di Talino era presto finito. Davanti a noi sentiamo dei passi e una voce, e Talino mi prende per il braccio e mi ferma. — Chi sarà?

— Sarà Rico. L’hai chiamato e lui viene.

Spuntano due ombre sotto la luna, due ombre che salgono svelte e non parlano piú. Talino si ficca la roncola dentro i calzoni e mi dà una ginocchiata in un fianco. Io bestemmio e conosco quei due: erano carabinieri.

Si fermano, moschetto a tracolla, e piú che Talino guardavano me.

— Che cosa facciamo a quest’ora, in campagna? — chiedono a Talino, che li guardava ghignando.

— Sera fresca, — dice lui.

— E voi, — mi fa l’appuntato, — di dove venite?

Tiro fuori le carte, mi accendo una sigaretta e poi col cerino gli faccio lume.

— È il macchinista, — dice l’altro.

Quando il cerino mi brucia le dita, faccio per prenderne un altro, ma l’appuntato chiude i fogli e me li ficca in mano, dicendo: — Perché avete lasciato Torino?

— A Torino non battono il grano, — dice quel goffo di Talino.

— Dovete passare in municipio per il permesso. L’avete il libretto di macchinista?

— Ce l’hai? — fa Talino.


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