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Vengono tutti dall’aia, meno Gisella e la vecchia, e se non fosse che i bambini si erano messi a corrergli intorno, sembrava Ernesto il fratello delle ragazze, non Talino. Quello grasso salta giú dai covoni e prende i buoi per la cavezza e bestemmia: ferma il carro di fronte al fienile. Cosí il portico restava quasi chiuso.
Ernesto parlava con Miliota e con la Pina scherzando, ma non perdeva d’occhio Vinverra. Tiro fuori il pacchetto e gli do da fumare: accendiamo e ridiamo. Vinverra visto che facciamo domenica, traversa un momento il cortile e va a vedere nella stanza del torchio se l’Adele e Gisella si sono messe a impastare.
— Non c’è pericolo d’incendio a fumare in mezzo al grano? gli chiedo.
— Ci sarebbe, — fa Ernesto.
Rispunta Talino con quattro tridenti in mano e li butta sotto il carro nelle gambe di Milota, che deve fare un salto se vuole salvarsi.
— Bastardo, — gli grida.
— Non è mica vero, — le fa Ernesto tranquillo, — è figlio anche lui di suo padre.
— Molte cose sarebbero chiare, se fosse bastardo, — gli dico; e vedo Ernesto che mi fissa, come se non avesse capito. Prima parlava ridendo e adesso mi guardava.
Tornato Vinverra, cominciano a scaricare. Il grassone aveva disfatto le corde che tenevano fermi i covoni, poi s’erano messi col tridente, lui e Talino, sopra il carro, e piantavano delle forcate là dentro, come due facchini. Sotto, Ernesto e le ragazze prendevano in spalla i covoni e li gettavano sotto il portico.
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