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— Vengo stasera a scaricare.

— Buona giornata.

Entro al banco, prendo un pacchetto, ma avevo già aspettato troppo: Vinverra e Talino arrivavano. Li trovo fermi in circolo con Ernesto e quegli altri, le mani dietro la schiena, e non parlavano.

Poi Ernesto diceva: — Sei stato fortunato. Talino. Dove vi siete conosciuti col macchinista?

E Talino fa bocca da ridere e risponde che lo chiedesse a me.

— Abbiamo mangiato insieme, — rispondo, — e attaccato discorso.

Ma Talino sentiva all’odore che l’avevo con lui, e voleva fregarmi. — Mangiato e dormito per quindici giorni, — dice guardando tutti. — Ma poi, niente è stato e l’hanno messo fuori anche lui.

Persino Vinverra che lo sapeva, lo guarda per storto. — Sono tempi cattivi, — dice Ernesto, — ma adesso che sei a casa, Talino, sta’ tranquillo.

Uscendo dal paese Ernesto ci accompagnò fin sotto la lea, e mi raccontava che aveva imparato da soldato a fare il macchinista. — E perché siete tornato in campagna? — gli chiedo. — Sapete bene come sono i padri, — mi rispondeva, — abbiamo un po’ di terra, e sembra una gran cosa.

Quando Ernesto prese per la sua strada, io camminavo tra l’Adele e Talino; e Talino mi chiede per la seconda volta se quel giorno andavo con lui per i boschi.

— E i sacchi da ripassare? — dice l’Adele.

— Stasera.

— Stasera, — grida Vinverra, da dietro, — andate subito a dormire. Domani si batte.

A casa troviamo il coniglio e la peperonata, e una bella polenta vuotata da Gisella sull’asse. Me la ricordo come fosse adesso, perché poi quella sera nessuno ebbe tempo di far cuocere niente e ne ingozzai due fette fredde e mi pareva che avesse un sapore di sangue e mi tremavano i denti, perché proprio sotto gli occhi sul tavolo mi vedevo un catino di sangue e mi sentivo il cuore in bocca, piú freddo della polenta. Ma adesso, polenta, coniglio e peperoni, tutto bruciava, e i bambini ne volevano tanta, e le ragazze mangiavano. Come mangiava Gisella! Mangiava la polenta


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