Le Novelle Indiane di Visnusarma/Libro Primo
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Traduzione dal sanscrito di Italo Pizzi (1896)
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LIBRO PRIMO.
Ora s’incomincia il primo libro detto della scissione degli amici, e i suoi primi versi sono questi:
L’amor grande e crescerne del leone
E del toro, abitanti alla foresta.
Per lo sciacallo andò a perdizione,
Fiera ingorda soverchio e disonesta.
Intanto così s’ode raccontare: Vi è nella regione meridionale una città di nome Mihiralopia. Là era già il figlio di un mercante, detto Vardamanaca, che s’era acquistato l’avere con giustizia. Una certa notte, mentre egli giaceva in letto, gli sorvenne questo pensiero, cioè quali mezzi, anche essendo abbondante l’avere, doveva pensarsi e adoperare per acquistar ricchezza; inquantochè è stato detto:
Nulla si sa quaggiù che col danaro
Far non si possa, e l’uom che ha fior di senno,
Ricchezza acquista ov’ei si studi al paro.
Amici ha chi ha ricchezze, ed ha parenti
Chi è ricco, e un nomo egli è quaggiù nel mondo;
Vive davver chi ha assai possedimenti.
Non è scïenza e non è studio bello,
Non maestria, non arte e non dovizia,
Che ne’ ricchi non lodi il poverello.
Quaggiù, nel mondo, è dei ricchi parente
Anche l’estrano, ma stranier si mostra
A’ poveri il congiunto, immantinente.
Da ricchezze cresciute e accumulate
Da tutte parti vengon tutte cose,
Come da’ monti l’acque derivate.
Si rende a chi non merita, onoranza;
Chi n’è indegno, si cerca e si saluta;
Questa delle ricchezze è la possanza.
Come pel cibo i sensi, hanno vigore
Per la ricchezza l’opre tutte. Intanto
Ella è pur detta universal motore.
L’avido di ricchezze, ancor vivente,
Affronta i cimiteri e va lontano.
Lasciando il padre suo s’egli è indigente.
Detta è del trafficar l’arte lucrosa
Di tutte la miglior per far denari;
Ogn’altra per natura è dubïosa.
Gli uomini di cui già passaron gli anni,
Giovani son pur che abbiano ricchezza;
Ma sempre è vecchio tal che ne va privo,
Anche se nel bel fior di giovinezza.
Ora l’avere degli uomini si procaccia in sei maniere, col mendicare, col servire il principe, con l’agricoltura, col guadagno per mezzo del sapere, con l’usura, col trafficare. Ma il guadagno che si fa col commercio, deve essere superiore a tutti gli altri mezzi, poichè è stato detto:
La questua si suol far dai mendicanti,
E dona il re non quel che dovrìa dare1;
L’agricoltura è faticosa, e ingrato
Lo studio è ancor per quella sua natura
Di grave disciplina, e dall’usura
Nasce la povertà, poi che l’avere
Passato è in mano altrui. Fuor del commercio
Altro io non penso che vi sia guadagno.
Il commercio poi deve essere di sette maniere, perchè vengano le ricchezze, cioè con l’adoperar falsi pesi, col falsificare i conti, col ricever pegni, col sopravvenir di qualche compratore facoltoso, con la cooperazione dei soci, col trafficar di aromi, col menar suppellettili in altri paesi. Perchè è stato detto:
Con misura piena o scarsa
Sempre ingannasi chi è ricco;
È faccenda di Chirati
Prezzi dir falsificati2.
Onest’uom che ha qualche sozio,
Pensar può con alma lieta:
«Io la terra m’acquistai
Ricca e piena! e che altro mai?».
Comprator che sia voglioso,
Come vegga un mercatante.
Giubilar cupido suole
Come per novella prole.
E poi:
Come alcun pegno gli si lasci in casa,
Al suo santo3 il buon uom fa i voti suoi.
Crepi presto il padron4, questo egli dice,
A te poscia darò ciò che più vuoi5.
De’ commerci il commercio è con aromi;
A che con altre merci, oro ed argento?6
Ciò che si compra con un sol denaro.
Quello si vende poi per cento e cento.
Ma questo è de’ poveri e non degno dei ricchi, e però è stato detto:
La ricchezza è pur grande di que’ tali
Che anche da lungi con denari molti
N’acquistan altri, come al laccio colti
Son con altri elefanti altri più grossi.
Gente avveduta in vender suppellettili,
Ita in terra straniera, arte adoprando,
Ricchezza acquista ch’è duplice e triplice.
E altrimenti:
Chi teme codardo, — qual donna leggiera,
D’andarne, infingardo, — in terra straniera,
Cornacchia dispetta, — omuccio dappoco,
Antilope abietta, — si muore al suo loco7.
E si dice nella dottrina morale:
È qual rana in cisterna prigioniera
Chi, non uscendo, la terra non mira
Così adunque avendo fermato nell’animo suo, un bel giorno, tolte con sè derrate e suppellettili che andavano a Matura8, salutato dai parenti e dagli amici, partì montato sopra di un carro. Lo trasportavano, legati al timone, due suoi bellissimi tori natigli in casa, Nandaca e Sangivaca di nome. Ora, uno di essi, quello detto Sangivaca, nell’accostarsi alla sponda della Yamuna, sdrucciolando nel pantano si ruppe una gamba e si buttò giù, per cui Vardamanaca, vedendolo in quello stato, venne in grande afflizione, e però, tocco di compassione nel cuore, per tre notti sospese viaggio della carovana. Allora, vedendolo così afflitto, i suoi compagni di viaggio gli dissero: O signore, come mai, per un toro, tutta questa carovana è così da te lasciata nelle angustie in questa selva molto pericolosa e tutta piena di leoni e di tigri? Ed è stato detto:
Mai non perda l’uom saggio por il poco Il molto, anzi saggezza è veramente |
Avendo posto mente a ciò, com’ebbe deputato certi uomini alla custodia del suo Sangivaca, per amor della sicurezza della carovana partì. Ma quei custodi sapendo la selva molto pericolosa, abbandonato Sangivaca e venendo dietro all’altro giorno così dissero falsamente al condottiero della carovana: O signore, Sangivaca è morto e da noi è stato arso nel fuoco. — Ciò vedendo il condottiero della carovana, per riconoscenza dei servigi prestati, tocco nel cuore di compassione, fece tutte le cerimonie funerarie del suo toro, l’atto di sua franchigia9 e tutto il resto.
Ma Sangivaca con quel poco di forza vitale che gli restava, ristorato dai freschi venticelli che venivano dalle selve e dalle acque della Yamuna, levandosi a poco a poco, raggiunse le sponde del fiume. Allora, cibandosi delle più alte erbe verdi come smeraldi, diventato in pochi giorni come il toro di Siva10, grasso, corpulento e forte, scompigliando di giorno con le corna i formicai11, là se ne stava e muggiva. Ora, egregiamente ciò si dice:
Ciò che non si custodisce.
Custodito è dagli Dei;
Ciò che ben si custodisce,
Va in malora per gli Dei.
Nella selva abbandonato,
Senza scorta altri si vive;
Con gran cura riguardato,
In sua casa altri non vive.
Re dalle bestie non si vuol sacrare.
Nè ordinarsi il leon. Sugli animali
La signoria da sè gli venne allora
Ch’ei con la forza l’ebbe ad acquistare.
Intanto, erano sempre suoi seguaci due sciacalli, figli di due ministri già dimessi di ufficio, di nome Carataca e Damanaca. Questi due fra loro solevano consigliarsi, perchè allora Damanaca disse: Caro Garataca, cotesto nostro re Pingalaca, disceso per ber dell’acqua alla sponda della Yamuna, si sta qui ora. Perchè mai egli, benchè tormentato dalla sete, mutando divisamente, dopo aver disposto in ordine di battaglia l’esercito, s’è perduto d’animo e si sta là a’ piedi del fico? — Garataca disse: Caro mio, qual frutto per noi due dall’occuparci di questo affare che non è nostro? Perchè è stato detto:
L’uom che curar desia
Affar che suo non è,
Dritto a morir s’avvia
Come la scimia ch’estraeva il conio.
Damanaca disse: Come ciò? — E quegli disse:
Racconto. — In un certo luogo vicino alla città, in mezzo ad un boschetto d’alberi, dal figlio di un mercante erasi incominciato a fabbricare un tempio agli Dei. Gli operai, il maestro e gli altri tutti, solevano andare in città, all’ora del mezzogiorno, per desinare. Un giorno, una schiera di scimie che là presso abitava, dopo ch’ebbe errato qua e là, capitò in quel luogo. Ora, là giaceva il tronco d’un albero di angiana14 stato spaccato per metà da uno degli operai, introdottovi nel mezzo un conio di legno di cadira15. Le scimie, intanto, cominciarono a trastullarsi secondo il loro piacere sulle cime degli alberi, sui pinnacoli del tempio, e sulle estremità dei tronchi, quando una di loro, vicina omai a morte, sedutasi per leggerezza su quel tronco spaccato per metà, tirando la corda che legava il legno, gridava: Oh! perchè mai questo conio è stato ficcato qui fuor di posto? — E afferrandolo colle mani cominciò a voler spaccare. Ma, per cagion d’un testicolo che le era entrato nella spaccatura del tronco, levato il conio, avvenne appunto ciò che dianzi t’ho detto. Perciò io dico:
L’uom che curar desia
Affar che suo non è,
Dritto a morir s’avvia
Come la scimia ch’estraeva il conio.
Per desio di far bene a’ propri amici,
Per desio di far male a’ suoi nemici,
Dei re corra l’aita l’uom prudente.
Deh! chi non è, l’epa a colmar, valente?
Ancora:
Viver possa colui là ’ve parecchi
Vivon dov’egli vive17!
Forse che empir gli augelli
Non sanno il ventre co’ lor propii becchi?
E poi:
La vita che si vive anche per poco,
Dagli uomini lodata allorchè adorna
Di sapienza, di valor, di forza,
Detta è dai saggi frutto aver di vita
In coteste virtù. Ma la cornacchia
Ha vita lunga e cibasi d’avanzi18.
Chi, nè da sè, nè d’altri con l’aita,
Pietà non sente della turba afflitta
O de’ congiunti o de’ prossimi suoi,
Qual della vita, in questo mondo umano,
Qual frutto mai darà? Ma la cornacchia
Ha vita lunga e cibasi d’avanzi.
E altrimenti:
Che si fa d’un figliuol che dalla madre
Vigor giovanile ebbe,
Nè, qual vessillo, a capo di sua stirpe
Mai si levò nè crebbe?
S’è sostegno alla man, di chi, sommerso
Pien d’angoscia nell’acqua, omai periva.
Tuttavia:
Rari son que’ buoni al mondo
Che somigliano alle nubi;
Esse van sublimi e lente
E ogni pena ed ogni arsura
Via cancellan dalla gente20.
E ancora:
E altrimenti:
Uom di valor, come di lui si resti
Ignota la virtù, tocca sovonte
Fin che si sta raccolto in secco legno
E non divampa fuor, lieve e dappoco
Carataca disse: Noi due, intanto, siam gente dappoco. A che dunque occuparci di questa faccenda? Perchè è stato detto:
L’uom sapïente che non dimandato
Stolto favella al cospetto d’un sire.
Dalla gente, non sol tocca disprezzo.
Ma pur anche dileggio e contumelie.
E poi:
Damanaca disse: O fratello, non dir così, perchè è stato detto:
Ma l’uomo di valor nullo diventa
Se la corte del re più non frequenta.
E poi:
Quei ministri che i modi conoscono
Del piacere e dell’ira d’un re,
Bello bello di sotto sel pongono
S’anche strano e volubile egli è.
Sia dato in pena fino al dì che muore,
Attorno mendicar continuamente.
«Oh! poca cosa ch’è domare un prence!»,
Dicono i saggi e gli uomini prestanti.
Il sandalo odoroso
Sul Malaya soltanto suol fiorire22.
Doni son di propizio signore. —
Carataca disse: Dunque che pensi tu di fare? — E quegli disse: Questo nostro signore, cioè Pingalaca, insieme col suo seguito è spaventato. Perciò io, andando da lui, come avrò risaputo la cagione del suo sgomento, gliel torrò via con uno almeno di questi spedienti, che sono la pace, la guerra, l’avanzarsi, il tenersi tranquillo, l’alleanza, la mala fede. — Carataca disse: Ma come sai tu che nostro signore è preso da paura? — E l’altro disse: Ben si può riconoscere! E che? Intanto, è stato detto:
Io adunque, tornando presso quello spaventato, come avrò scacciato la sua paura e l’avrò fatto mio col potere della mia sapienza, avrò toccata la via per diventar ministro. — Carataca disse: Tu non sai le regole dello stare in corte; come dunque tu potrai farlo tuo? — E l’altro disse: Come mai io non so le regole dello stare in corte? Anzi, tutta quella dottrina morale che da me si è udita, quando mi trastullava sulle ginocchia di mio padre, da certi sapienti che presso di lui si radunavano e me l’andavano insegnando, s’è tutta impressa nel cuor mio come la quintessenza delle regole dello stare in corte. Intanto, s’ascolti questo:
Tre quelli son che sfruttano la terra
Aureo-fiorente,
L’uom di valore, il dotto, e chi alla corte
È servïente.
Volto il servire al ben del suo signore
Veracemente intendere si dè;
Per questa porta sola, e non per altra,
Il sapïente accostisi ad un re.
Non serva il saggio a chi non ne conosce
Le virtù egregie, ch’ei non ne avrà frutto
Come da steril campo, anche se arato.
Fuggir si dee come d’arca26 un arbusto,
Sebben sempre di fior, di frutti onusto.
Ver la regina e ver la regia madre,
Verso il primo minislro e verso il prence
Ereditario, verso il sacerdote
E il guardiano delle porte28, sempre.
Carataca disse: Allora, quando tu sarai andato là, qual cosa dirai tu per la prima? Questo almeno mi si dica! — E l’altro disse: Fu detto:
Da una parola, quando due favellano,
La parola in risposta si congenerà
Come da una semenza che dal piovere
Ebbe vigore, un’altra se ne origina.
E ancora:
Carataca disse:
Ogni gran cosa. D’aspidi
Tutti son pieni, asperrimi,
Ripidi, inaccessibili.
E poi:
E poi:
Bilingui, facitor d’opre dolenti,
Vagheggianti alle colpe più perverse.
Veggon da lungo i re, come i serpenti.
Quei che son cari ai principi,
Ove anche poco sbaglino,
Dentro la fiamma abbruciano
Come farfalle stupide.
Difficile a toccar grado reale
Che pur s’onora da tutta la gente;
Ma, come al grado avvien sacerdotale,
Per picciol fallo rendesi perdente.
Damanaca disse: Ciò è vero, ma pure
E di questo e di quello comportandosi
Secondo la natura ed acconciandosi,
E questo e quello tragge il sapïente
Al suo voler, sollecito adoprandosi.
L’andar secondo volontà del sire
Pur fa bene a chi vive sottomesso;
Da chi s’acconcia a volontà d’altrui
Anche i mostri si possono asservire.
Carataca disse: Ebbene! se così hai deliberato, viaggio felice! e si faccia il tuo desiderio. — E l’altro, fattagli riverenza, si mosse per andar nel cospetto di Pingalaca. Pingalaca allora, vedendo venir Damanaca, disse al custode della porta: Mettasi da parte la bacchetta36. Damanaca, che è figlio del nostro antico ministro, non si deve impedire dall’entrare. Si faccia entrare perciò dentro il secondo circolo. — E l’altro disse: Così appunto come ha detto vostra Maestà! — Allora Damanaca, facendosi avanti, com’ebbe inchinato Pingalaca, si sedette al luogo che gli fu indicato; e quello, stendendogli la mano destra fornita di punte acute d’unghie, con segno d’onore gli disse: E sii felice tu pure! E perchè ti fai tu vedere dopo tanto tempo? — Damanaca disse: Da noi non può venire alcuna utilità al re; pure, ciò che è a proposito nel tempo presente per voi, si deve dire, perchè vi può essere utilità per i re da parte dei grandi, dei medii e anche degl’infimi. Perchè fu detto:
Una pagliuzza sempre può giovare
Anche ad un re, gli orecchi per grattare
O i denti stuzzicar. Quanto più l’uomo!
L’uom che ha pur corpo e mani e può parlare.
Noi intanto che siamo servi del re nati in sua casa, gli siam fedeli anche nelle sventure sebbene non abbiamo il nostro vero ufficio; ciò che veramente non è degno di lui. Ed è stato detto:
Al degno posto devonsi ordinare
E servi e gemme, nè si avvince al piede
Col dir: Così vogl’io! gemma frontale.
Anche se ricco e nobile
E regnator legittimo,
Non ha dai servi ossequio
Quel re che ignora lor virtudi e pregi.
E poi:
Messo tra gl’inferiori e trascurato
Nelle accoglienze a’ pari suoi dovute.
Non messo al posto ch’egli ha meritato;
Ecco le tre ragioni
Per che il servo il suo principe abbandoni.
Perchè poi il re, per sua inconsideratezza, assegni un posto infimo e negletto a quei servi che sono degni d’alto ufficio, ed essi poi là non vogliano rimanere, cotesto è colpa del re, non già di loro. Ed è stato detto:
Se in vil stagno una gemma si lega
Di castone degnissima d’oro,
Non tintinna, non brilla, ma il fallo
Di chi là l’incastrò, sempre allega.
Per quello poi che il mio signore dice: «Dopo gran tempo tu ti fai vedere!» questo ancora si ascolti, perchè è stato detto:
Dove tra la man dritta e la mancina
Distinguer non si sa,
Qual valentuom di testa integra e fina
A far soggiorno andrà?
Per soli tre quattrini
Sogliono il ciandracanta37 trafficare,
D’Abira nella terra38, i contadini.
Là ’ve tra il zafferano
E tra il rubin giallastro
Non è diversità39,
Un trafficar di gemme
Come far si potrà?
Quando d’ugual ragione
Con tutti i servi suoi
Comportasi il padrone,
Torna ogni sforzo vano
Di chi potria toccar grado sovrano40.
Star senza servi — non può il signore,
Non ponno i servi — senza il padrone;
Tale per vincolo — d’uffici alterni
È di lor vivere — ferma ragione.
Il re che se ne sta senza ministri
Che il favor ne procacciano alla gente,
Splender non può, sì come allor che il sole
Privo è di raggi, ben che assai possente.
Sui raggi insiste il mozzo della ruota,
Sul mozzo della ruota i raggi insistono;
Così d’un prence e de’ ministri suoi
La ruota della vita intorno volgesi.
Ma i servi suoi nel limite
Il servon dell’onore e con la vita!
Malagevole e all’uopo, in niuna guisa
Il dice a lui, ma per pudor si tace.
Dell’impero il confine
Come, al fuoco sospeso,
Un cuoio s’è rappreso,
Da chi suo regno ha in cura, è da dimettere.
È quel ministro una seconda sposa
In cui fidato sta commesso ufficio
Alla mente di lui non dubitosa.
Vien da un baco la seta e dalle pietre
L’oro e il panico dal pel de’ giovenchi44,
Dal fango il loto, e la luna dal mare,
Dal letame bovino il loto azzurro,
Dal legno il fuoco, e nascon dalla cresta
De’ serpenti le gemme45, e vien dal fiele
Delle vacche il sapone. Or, chi ha valore
Sol col mostrar proprio valor, non mai
Con l’origine sua, montasi in gloria.
Come con molte e molte
Festuche insiem raccolte
Di erandi, binde e nale
E d’arche46, non può farsi opra di legno47,
Così niun frutto degno
Vien da un servo ignorante e dozzinale.
Anche se nato in casa,
Vuolsi uccidere il topo malfattore;
Ma il gatto utile e savio,
Si fa venir con doni anche di fuore.
Che far d’un servo ch’è fedel, ma stolido?
Che d’un protervo, ben che destro ed abile?
Ma tu, gran re, stima non far spregevole,
Non far di me, che abil ti sono e dedito! —
Pingalaca disse: Sia pure! Ma, abile o non abile, tu sei pur sempre il figlio dell’antico nostro ministro, e però di’ tu liberamente ciò che vuoi dire. — Damanaca disse: O signore, c’è alcuna cosa da farti sapere! — Pingalaca disse: E tu dilla di proposito. — E l’altro disse:
Non dovrassi mai ridire» — ,
Così dicea Brihàspati48 una volta.
Perciò voglia il re ascoltare in disparte ciò che io desidero fargli sapere, inquantochè
Il saggio, sia che lecita la pensi
O illecit’anco, di celarsi degna
Sempre, con gran rispetto, la ritegna. —
Avendo udito ciò, Pingalaca pensò: Costui mi sembra un onest’uomo. Però gli voglio dire il mio proprio pensiero, poichè è stato detto:
O Damanaca, odi tu questa gran voce che vien da lontano?49 — E l’altro disse: O signore, io l’odo. E che perciò? — Pingalaca disse: Alla buon’ora! io voglio andar via da questa selva. — Damanaca disse: Poi qual ragione? — Pingalaca disse: Perchè oggi in questa selva deve essere entrato qualche animale non mai visto innanzi. Quello di cui s’ode così gran voce deve pur essere di tal forza che corrisponda alla sua voce. — Damanaca disse: Non è bello che nostro signore, soltanto per una voce, sia venuto in tanta paura. Perchè è stato detto:
Amor da maldicenza vien distrutto,
Dalle ciarle l’uom vil si lascia prendere.
Però disdice al re ch’egli abbandoni la selva occupata già da tanto tempo, perchè vi son suoni diversi e vari di tamburi, di flauti, di liuti, di tamburelli, di castagnette, di cembali, di conche, di timballi e di altri di altra specie. Però non si deve aver paura per un solo suono. Perchè è stato detto:
Seccati gli stagni nell’estiva arsura,
Ma l’Indo vieppiù cresce e si dilaga.
E poi:
Della fortuna è lieto nel favore,
Nell’ora del pugnar non ha paura,
Figlio tal ch’è ornamento
Del mondo, raro assai
Ha da madre mortale il nascimento.
Ancora:
Intanto io vado, ed ecco che il rinvegno
Cuoio soltanto e legno. —
Pingalaca disse: Come ciò? — E l’altro rispose:
Racconto. — In un certo paese, uno sciacallo di nome Gomayu, andando qua e là per la selva con la strozza tormentata dalla fame, giunse a vedere, il campo di battaglia di due eserciti, e là intese il suono d’un tamburo che, caduto a terra, di tanto in tanto era colpito dalle punte dei rami d’un albero, mossi dalla forza del vento; perchè egli, turbato in cuore, pensò: Oimè! son perduto! Ma perchè io non capiti nel luogo dov’é cotesta cosa che così risuona, me n’andrò altrove. Eppure, non è hello abbandonar d’uu subito la selva già percorsa dai padri miei, perché è stato detto:
Intanto, io vo’ sapere di chi sia questo suono. — Così egli pensava riprendendo animo. Andando adunque adagio adagio, ecco ch’egli vide il tamburo, che, quand’era colpito dalle cime dei rami mossi dal vento, faceva rumore, altrimenti taceva. Perchè allora lo sciacallo, osservato bene tutto ciò, accostandosi sempre più venne, per la curiosità, a urtar nel tamburo; anzi, per la gioia, così pensò: Oh! dopo tanto tempo finalmente ci tocca un buon pasto! Ora, cotesto sarà tutto pieno di carne, di grasso e di sangue. — Lacerando pertanto il tamburo tutto rivestito d’un cuoio aspro e tacendovi a un certo punto un pertugio, v’entrò dentro. Ma, nel lacerare il cuoio, ebbe rotti i denti. Allora, vedendo che quello era soltanto legno e cuoio, perduta la speranza, recitò questi versi:
Intanto io vado, ed ecco che il rinvegno
Cuoio soltanto e legno.
Perciò non devesi temere d’un solo rumore. — Pingalaca disse: Oh vedi! tutto questo mio seguito, preso nell’animo da paura, vuol fuggire. Come dunque posso formar io animo sicuro? — E l’altro disse: O signore, la colpa non è di quelli. I servi sono simili al padrone. Perchè è stato detto:
Indole del padron partecipando,
Abili o inetti sono in lor maniera.
Perciò, facendo animo virile, tu devi qui aspettar tanto che io ritorni quando abbia scoperto che sia mai cotesto rumore. Allora s’avrà da fare secondo che converrà. — Pingalaca disse: E come hai tu il coraggio d’andar fin là? — E quello disse: Forse che, ad un comando del padrone, è in facoltà del buon servo l’eseguirlo o il non eseguirlo? È pur stato detto:
Nella strozza d’un serpe, o in un gran mare,
Ei si caccia, difficile a varcare.
Nutricar non si dee da tal signore
Che di suo buono stato è curatore. —
Pingalaca disse: Caro mio, se è così, va pure! Possano esser fortunate le tue vie! — Damanaca adunque, fattogli inchino, partì andando dietro alla voce di Sangivaca. Ma, partito Damanaca, Pingalaca, pieno di paura andava pensando: Aimè! io non ho fatto bene quando, fidandomi di lui, gli ho fatto conoscere il mio pensiero! forse Damanaca, avuto un regalo dall’una e dall’altra parte, mi serba rancore perchè fu già dimesso dall’ufficio. Intanto, è stato detto:
Io pertanto, finchè possa conoscere ciò ch’egli vuol fare, andando in altro luogo, là starò ad aspettare. Perchè è stato detto:
E vita lunga e personal vantaggio.
Vritra che un regno si levò ad ambire,
Coi giuri suoi per Indra fu ammazzato51.
Così avendo pensato, recatosi in altro luogo, si stette là da solo ad aspettar la venuta di Damanaca. E Damanaca intanto, venuto là presso di Sangivaca, come l’ebbe riconosciuto per un toro, lieto dell’animo pensò: Oh! cotesto va egregiamente! E per pace e per guerra ch’io gli faccia fare con costui, Pingalaca sarà sempre sottomesso al mio volere. Perchè fu detto:
Però, che tocchi al principe sciagura,
I consiglieri ognor s’augureranno.
Così avendo pensato, si mosse per andar da Pingalaca, e Pingalaca che lo vide venire, dissimulando il proprio pensiero, si mostrò qual era dianzi. Damanaca, venuto presso di lui, fattogli un inchino, si sedette, e Pingalaca disse: Amico, hai tu dunque veduto quella creatura? — Damanaca disse: Veduta, se piace al re!— Pingalaca disse: Davvero? — Damanaca disse: Perchè mai si dovrebbe dire il falso dinanzi al re? Ed è stato detto:
Tragge sè stesso a morte
In un momento, s’anche grande ei sia.
E poi:
Come un dio riguardandolo il mortale,
Detto non parli che sia falso o vano.
Dal principe all’istante,
Ma dal celeste in la vita futura,
Dell’opre buone o ree cogliesi il frutto. —
Pingalaca disse: Dunque da te sarà stata veduta quella creatura! Se non che, pensando essa che un grande non si cruccia con un miserabile, tu non sei stato ucciso. Ora, è stato detto:
In giù si piegano,
Non schianta il nembo mai dalle radici;
Ma piante altissime
Piuttosto abbatte,
Chè guerra imprendere
Desìa chi è grande sol con gran nemici.
E ancora:
Che le guancie gli riga53, oh! mai non sale
Valoroso elefante in reo furore.
Ma ben s’adira quando un forte, in cui
Sia forza eguale, crucciasi con lui. —
Damanaca disse: Così è! egli magnanimo, e noi dappoco. Eppure, se il re mi dice cotesto, io lo trarrò in sua servitù. — Pingalaca disse: Come mai potresti farlo con buon esito? — Damanaca disse: Qual cosa è mai che non riesca col sapere? Ora è stato detto:
A così lieto fine opera cresce
Com quella sì che per saper riesce. —
Pingalaca disse: Se così è, tu omai sei elevato al grado di ministro. Da oggi in poi, io senza di te nulla farò che riguardi la pace o la guerra o altro. Tale è il mio divisamento. Però tu, andando subito, fa sì che quello venga in mia servitù. — E l’altro, avendo risposto che si, fatto a Pingalaca un inchino, venutosene di nuovo presso Sangivaca, gli disse con disprezzo: Vieni, vieni, malvagio bue! Pingalaca li chiama. A che più e più volte muggisci così, senz’alcun rispetto? — Ciò udendo, Sangivaca disse: Amico, chi è cotesto Pingalaca? — Ciò udendo, Damanaca, mostrando meraviglia, disse: Come non conosci tu il re Pingalaca? Aspetta un momento, e lo conoscerai dall’eletto! Non si sta egli forse, egli di nome Pingalaca, gran leone, là sotto al fico, circondato da tutti gli animali, elevato di mente nella sua gloria, signore delle ricchezze degli animali tutti? — Sangivaca allora, udendo cotesto, pensandosi di esser giunto alla sua morte, venne in grande costernazione, e disse: Amico, tu mi sembri di costume onesto e valente nel parlare. Se pertanto di necessità mi devi menar là, da parte del tuo signore mi si faccia la grazia di darmi un salvacondotto. — Damanaca disse: Oh! tu hai detto bene a proposito! tale, in fatti, è la regola. Perchè è stato detto:
Ma da nessuno per nessuna guisa
Andar puossi d’un re in fondo al pensiero.
Tu però intanto sta qui finchè poi, quando avrò obbligato colui a questo fatto, io ti meni là da lui. —
Damanaca allora, fattogli un inchino, intanto che andava da Sangivaca, pensava con gioia: Oh! ecco che il nostro signore è propenso a me col favor suo! Egli ora si governa secondo la volontà e la parola mia. Ora, non c’è alcuno più felice di me. Perchè è stato detto:
Ambrosia, aver la stima d’un regnante;
Ambrosia, conversar col sapiente. —
Così adunque, essendo venuto presso di Sangivaca, gli disse con deferenza: Amico, nostro signore da me è stato ben disposto al tuo riguardo; anzi ti è stata data la promessa di un salvacondotto. Vieni, perciò, con me senza alcun timore. Solanto, poichè tu hai avuto il favore del re, ti devi governare in tutta concordia con me, e punto punto comportarti con superbia per il tuo alto grado. Io pure, andando d’accordo con te, come avrò preso il posto mio di ministro, sosterrò tutto il peso della cura del regno. Come ciò si faccia, da noi due si potrà godere la felicità del regnare, poichè:
Ecco! a guisa di fiere,
L’un d’essi incita l’altro, e l’altro ammazza!
E poi:
Il lor dovuto onore,
Come Dantila, di suo grado scende,
Ben che onorato assai dal suo signore. —
Sangivaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — È quaggiù, sulla terra, una gran città di nome Vardamana. In essa abitava già un mercante d’ogni sorta di derrate, di nome Dantila, il primo dei maggiorenti di tutta la città; e perchè egli curava gli affari della città e gli affari del re, erano contenti tutti quei cittadini e il re ancora. Che più? Da nessuno non fu veduto nè udito mai uomo più destro! Intanto, anche ciò si dice egregiamente:
Quaggiù viene in fastidio della gente;
Quei che ha in cura gli affari della gente,
Da prenci inonorato si trascura.
Grande essendo l’ostacolo ed eguale,
Difficile è a trovar chi sa accudire
Della gente agli affari e del suo sire!
Intanto, passato certo tempo, si fecero certe nozze di Dantila, e però, avendoli egli invitati con segni di onore, furon da lui convitati e donati di vesti e d’altro gli abitanti tutti della città e il re col suo seguito. Terminate le nozze, il re col suo gineceo fu ricondotto a casa e onorato. Ora vi era un servitore del re, di nome Goramba, che ne soleva spazzar le stanze. Costui, essendosi seduto ad un posto che non gli conveniva, dinanzi al re e al mercante, dal mercante che se n’avvide, fu preso a pugni e discacciato. Goramba, da quel giorno in poi, fattosi sospiroso, per l’onta non poteva dormire nemmen di notte e intanto pensava: Come mai da me si potrebbe togliere il favore del re a cotesto mercante? E che mi fa questo inutile dimagrar del corpo? appunto perchè io non posso rendergli il contraccambio? Ora, ciò è stato detto a proposito:
Ma una mattina, nel momento che il re sonnecchiando stava a meditare, egli, mentre spazzava con le scope a piedi del letto, disse: Oh! grande ardire di Dantila che abbraccia la moglie del re! — Ciò udendo, il re, levatosi su tutto turbato, gli disse: O Goramba è vero ciò che tu hai mormorato? Dunque la regina si fa abbracciare da Dantila? — Goramba disse — O signore, avendo vegliato questa notte per esser dedito al giuoco, ora che io attendeva al lavoro delle scope, di forza il sonno mi ha colto. Perciò non so cosa mai io abbia detto. — Perchè il re, insospettito, andava dicendo fra sè: Come costui ha l’entrata libera in casa mia, così l’ha anche Dantila, e forse veramente egli avrà veduto la regina farsi abbracciare da colui. Perciò egli ha parlato così, perchè è stato detto:
E ancora:
Quanto poi alle donne, qual dubbio v’è mai? Perchè è stato detto:
E ancora:
Con un lung’ora folleggiando scherzano;
Ampi come il bel fior che all’alba schiudesi,
Fugge da gentilezza e ha molti spiccioli.
Veracemente ove l’amor si collochi?
Non di viventi
La morte mai, non d’uomini la donna
Da’ grandi occhi splendenti.
Se non v’è l’ora opportuna,
Se non v’è l’innamorato
Che pregando la importuna,
Sappi, o Nàrada55, che allora
Nelle donne di quaggiù
Nasce intatta la virtù56.
E poi:
Sempre al voler di lei deve obbedire
Come angel per sollazzo entro la stia.
E a’ servizi lor provveggia
Un pochin di tanto in tanto,
Davver! che si compiacciono le donne!
Come d’un loro cencio. E l’hanno strofinato
E preso per un lembo, nel c... se l’han ficcato
Così adunque il re come ebbe lungamente brontolato, ritirò il favor suo da Dantila. Che più? Anche gli fu impedito l’accesso alla porta del re. Dnntila allora, stando a considerare per qual mai cagione il re così gli avesse tolto il favor suo, andava pensando: Oh! anche ciò è stato detto bene a proposito:
Senno in brïachi e in codardi fortezza,
E re che amico sia veracemente,
Fùr visti o uditi mai da alcuna gente?
Eppure da me non fu fatta, nemmen per sogno, alcuna cosa ingrata nè al re nè ad alcun altro. Perchè dunque ciò? Intanto, il re mi si è fatto nemico. - Un giorno, lo scopatore, avendo veduto Dantila rimandato dalla porta del re, ridendo così disse a’ portinai: O portinai! Cotesto Dantila che è nelle grazie del re, è quello che la grazia e punisce, però ch’egli è stato scacciato, godrete pur voi, come me, dei suoi pugni. — Ciò udendo, Dantila si mise a pensare: Oh! tutto ciò è opera di costui. Intanto, ciò fu detto a proposito:
Così, avendo borbottato, vergognoso, a casa, fattosi chiamar Goramba sul principiar della notte, come l’ebbe onorato del dono d’una muta di vesti, gli disse: Amico, in quel giorno tu non sei stato scacciato da me per rancore; ma perchè tu, nel cospetto dei Bramini, sei stato veduto sederti in un luogo che non ti conveniva, hai ricevuto quello sfregio. Però, sii riconciliato con me! — Ma l’altro che aveva toccato quella muta di vesti, come se avesse toccato il regno del cielo, venuto in grande allegrezza, gli rispose: O mercante, per tutto ciò son già riconciliato! Per il dono tuo, vedrai ora ciò che mai può la mia saggezza e riavrai la grazia del re. — Così avendo detto, se n’andò via tutto allegro. Ora, fu detto egregiamente:
L’altro giorno, Goramba, andato a palazzo, attendendo a spazzare mentre il re sonnecchiando meditava, disse ad un tratto: Oh! balordaggine di questo nuovo re! il quale, quando va a far le sue occorrenze, mangia dei citrioli! — Ciò udendo, il re, levandosi su meravigliato, gli disse: Eh eh! Goramba, che sciocchezze vai tu dicendo? Io non ti scaccerò pensando che sei mio servitore di casa. Ma quando mai m’hai tu veduto far le mie occorrenze? — E quegli disse: Signore, perchè io son dato al giuoco e ho vegliato la notte, intanto che qui sto a spazzare, a forza m’ha colto il sonno. Dopo ciò, io non so cosa m’abbia detto. Però il re mi faccia grazia, essendo stato vinto dal sonno. — Il re, quand’ebbe udito ciò, andò pensando: Da che son nato, io, quando faccio le occorrenze mie, non ho mai mangiato citrioli, e però come è impossibile cotesto malanno che questo sciocco ha or ora detto, così è impossibile quell’altro di Dantila. Tale è il mio pensiero, lo ho fatto male togliendo a quel poveretto ogni onore. Simili cose sono impossibili in uomini tali! Intanto, perchè egli manca, le faccende del re e le faccende dei cittadini vanno tutte a male. — Così più volte avendo parlato fra sè, chiamato a sé Dantila e restituitigli i suoi propri ornamenti e le vesti e altro ancora, lo rimise nel suo ufficio. Perciò io dico:
Il lor dovuto onore,
Come Dantila, di suo grado scende,
Ben che onorato assai dal suo signore. —
Sangivaca disse: Amico, è vero quello che tu hai detto, e però si faccia così. — Detto ciò, Damanaca, presolo con sè, se ne venne nel cospetto di Pingalaca e disse: O signore, costui che è stato qui menato da me, è Sangivaca. Ora, il re comandi! — Sangivaca allora, fatto con rispetto un inchino a Pingalaca, stette con sommissione nel suo cospetto, e Pingalaca, porgendo la destra armata d’unghioni, simili a cunei di ferro, a lui che aveva una grossa e prolungata gobba, facendogli onore, gli disse: E tu pure stai bene? Come mai sei tu venuto in questa selva disabitata? — Da Sangivaca allora fu raccontata tutta la sua avventura; in qual modo egli si fosse separato da Vardamana, anche questo fu fatto conoscere da lui. Avendo ciò udito Pingalaca, disse: Amico, non temere. Tu starai a tua voglia in questa selva difesa dal mio braccio. Tuttavia tu devi star sempre sempre accanto a me, perchè, non potendosi questa pericolosa foresta abitare nemmeno dagli animali forti per essere infestata da belve terribili, come mai vi si potrebbe stare da animali erbivori? — Come ebbe detto ciò, il signor degli animali, disceso alla sponda della Yamuna, quando ebbe bevuto e preso un bagno a sua voglia, se ne ritornò alla selva di prima, suo proprio e libero soggiorno. Rimesso allora il carico del regno a Carataca e a Damanaca, insieme a Sangivaca se ne stette a godere della felicità dello stare insieme e del conversare. Intanto, fu detto a proposito:
Intanto, in pochi giorni, da Sangivaca che si valeva del suo sapere per aver letto certi libri di morale, Pingalaca, benchè duro di cervello, fu fatto sapiente; laonde, dismesso il costume selvaggio, gli fu fatto assumere costume cittadinesco. Che più? Ogni giorno Pingalaca e Sangivaca di tutto si consigliavano insieme in segreto, allorquando tutta l’altra corte degli animali si era allontanata. Anzi, i due sciacalli Carataca e Damanaca non avevano più l’accesso. Ma poi, poichè il leone omai si asteneva dall’usar violenza59, tutta la corte e i due sciacalli ancora, afflitti dal malanno della fame, passando ciascuno in altra parte della selva, là si stettero. Perchè è stato detto:
E se nobile egli è, come una pianta
Che si seccava, lasciano gli augelli.
E poi:
Invece:
Mai non fia da’ suoi servi tradito
S’anche alcun n’ha vessato e garrito.
E poi non soltanto i ministri son così fatti, ma tutto (pianto il mondo, per amor dell’interesse, si regge alternatamente per mezzo dell’amicizia e degli altri tre modi60. Inquantochè:
La notte e il giorno, i medici ai malati,
Ad altre terre i principi, i mercanti
Ai compratori, agl’ignoranti i dotti,
I ladri agl’imprudenti, i mendicanti
Ai padroni di casa, ai vagheggini
Le cortigiane, i furbi a tutti quanti;
Così, con arte, di vivere intendono
Come i pesci che ai pesci insidie tendono.
Anche questo, tuttavia, egregiamente si suol dire:
Ma il pavon di Cumara l’ha acciuffato,
Allor venne il leone
Della montana dea, che quel pavone
Sbranò che il serpe avea dilacerato62.
Perchè simile altrove63 non sarà?
Di questa guisa appunto il mondo va.
Allora Carataca e Damanaca, privati della grazia del loro signore, con la strozza afflitta dalla fame, si consigliarono l’un con l’altro, e Damanaca diceva: O nobile Carataca, eccoci caduti in basso! Quel Pingalaca, infatuato delle parole di Sangivaca, s'è volto contro il suo stesso costume. Intanto, tutta la sua corte s’è dispersa. Che si fa adunque? — Carataca disse: Se anche il re non vorrà seguire il tuo consiglio, si deve tuttavia ammonirlo per prevenire gli errori. Poichè è stato detto:
E poi:
E però, poichè da te fu menato presso il nostro padrone quell’animale erbivoro, ecco che di tua mano stessa son state accumulate le brace. — Damanaca disse: Questo è vero! L’errore è mio, non del re. Perchè è stato detto:
Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — In un certo paese è un oratorio laddove abitava già un monaco mendicante di nome Devasarma. Costui, dalla vendita di certe vesti finissime state date a lui da gente devota, adagio adagio s’era procacciata una bella somma di denaro. Allora, egli cominciò a non fidarsi di nessuno, nè si toglieva mai di sotto all’ascella quella somma, fosse giorno, fosse notte. Però fu detto bene anche questo:
Disagio allor che vengono,
Disagio allor che sfumano.
Oh! ree dovizie a stento conservate!
Ora, un tale, di nome Asadabuti, scellerato ladro degli averi altrui, avendo veduto quel gruzzolo di denari andar sotto l’ascella del monaco, così pensò: Come mai gli s’ha da portar via quel gruzzolo di denari? Ma qui, nel chiostro, per la soldità delle pietre congiunte, non c’è modo di rompere la parete, e per l’altezza non c’è da entrare per la porta. Io dunque, quando gli avrò ispirato fiducia con finte parole, mi acconcerò ad essere suo discepolo in modo che egli si fidi. Perchè è stato detto:
Chi non fa il vagheggin presso alle donne,
Nè l’ignorante cosa che ti piaccia,
Parlerà mai, nè fia che inganni altrui
Chi dice aperto li pensieri sui. —
Così avendo pensato, andato nel cospetto del monaco, dicendo: Om!67 venerazione a Siva! — inchinandosi con tutte le otto parti del corpo68, in atto di compunzione disse: O reverendo, l’esistenza è fatua; simile, nella rapidità, a corrente montana, la giovinezza; eguale a un fuoco di paglia, la vita; simili ad ombre di nuvole, i piaceri; pari ad un sogno, i figli, la moglie, gli amici, la folla dei servitori, i congiunti! Questo è stato interamente conosciuto da me. Ora, per qual mai cosa che io faccia, avverrà che si superi da me l’oceano dell’esistenza?69 — Ciò udendo, Devasarma rispose con degnazione: Te beato, figlio mio, che nella prima giovinezza sei di natura tanto indifferente per le cose di quaggiù! Perchè è stato detto:
Quanto poi all’espediente che mi domandi per superar l’oceano dell’esistenza, si ascolti:
Asadabuti, come ebbe udito ciò, abbracciandogli i piedi, così gli disse con rispetto: O reverendo, allora, col darmi i voti, mi si faccia grazia! — Devasarma disse: O figlio, io ti farò grazia. Soltanto non si deve star da te, di notte, nel chiostro, per ciò appunto che si loda la separazione dei monaci; e ciò, tanto per me quanto per te. Perchè è stato detto:
Perciò da te, come avrai preso i voti, si dovrà dormire alla porta del chiostro, in una capanna di paglia. — L’altro disse: O reverendo, la prescrizione tua è comando; anzi, nel mondo di là, io ne avrò buon frutto. — Allora, fatta la convenzione per il dormire, Devasarma, come l’ebbe accolto presso di sè, con insegnamenti a voce e di scrittura lo condusse al grado di discepolo, e Asadabuti, con lavargli le mani e i piedi, con procacciargli foglie di sandalo e con altri servizi, molto lo rallegrò. Ma il monaco non si toglieva mai di sotto dall’ascella il denaro, e intanto, andando il tempo, Asadabuti così pensava: Oimè! come mai dunque costui non si fida di me? Forse che io, sia pure di giorno, l’ho da uccidere con qualche arma? o gli ho da dar del veleno? o l’ho da ammazzare alla maniera di un bue? — Mentre egli così pensava, da certo villaggio, per fargli invito, venne un discepolo di Devasarma ch’egli teneva in conto di figlio. Il quale disse: O reverendo, per la cerimonia del conferire il cinto bramanico, vengasi da te a casa mia. — Avendo udito ciò, Devasarma, con Asadabuti, d’animo lieto s’incamminò. Andando egli così innanzi, fu da loro incontrato un fiume. Vedendolo, Devasarma, levatosi di sotto all’ascella il denaro, depostolo ben ravvolto in mezzo alla sua tonaca, fatta l’abluzione e l’adorazione agli Dei, d’un tratto disse ad Asadabuti: O Asadabuti, (intanto che io torni come abbia fatto le mie occorrenze, si deve da te guardar con cura questa tonaca che è del tuo maestro spirituale. — Così avendo detto, se n’andò. Ma Asadabuti, come l’altro non fu più in vista, toltosi il denaro, se n’andò via in tutta fretta, e Devasarma, preso nell’attimo dalle virtù del suo discepolo, fidandosi bene di lui, postosi giù, mentre così stava, osservava la battaglia di due caproni in mezzo ad una mandra di pelo rossiccio. Urtandosi, per il gran furore, quel paio di caproni dopo che s’eran molto ritratti indietro, il sangue loro stillò in gran copia dalla fronte. Allora uno sciacallo, con lingua ingorda entrando in mezzo, leccava il suolo insanguinato della battaglia, e Devasarma, nel veder ciò, pensava: Oh! quanto è sciocco di mente cotesto sciacallo! se anche una volta egli capiterà là nell’urto di quei due, s’avrà la morte. Così penso io. — Ed ecco che appunto in quel momento, essendo entrato nel mezzo per ingordigia di lambire il sangue, nell’urlo del capo di quei due lo sciacallo cadde e morì. Devasarma allora, compiangendolo, incamminatosi verso il suo tesoretto, mentre pian piano se ne veniva, non vide più Asadabati. Fatta perciò con grande ambascia l’abluzione di rito, esaminando la tonaca, ecco che il denaro non c’era più. Gridando allora: Aimè! aimè! ch’io son derubato! cadde svenuto a terra. Ma poi, dopo qualche tempo avendo ripreso i sensi, di nuovo, levandosi, incominciò a lamentarsi: O Asadabuti, or che m’hai ingannato, dove sei ito? suvvia! dammi risposta! — Così lamentandosi in maniere diverse, seguitando le pedate di colui, pian piano s’incamminò, e, andando, si trovò nell’ora della sera presso di un villaggio. Ora, da quel villaggio usciva appunto, con la moglie sua, un tessitore incamminato verso la città vicina per comprarsi rosolii, perchè Devasarma, vedutolo, così disse: O amico, noi siamo ospiti venuti presso di te ora che il sole è tramontato76, nè conosciamo alcuno qui, nel villaggio. Si osservi adunque il dovere dell’ospitalità, perchè è stato detto:
Il signor della casa, facendogli accoglienza,
A conseguir si leva de’ sommi Dei l’essenza.
E poi:
Quattro cose. Ora i Fuochi si compiacciono,
S’ei dicon79: «Benvenuto!», e tutto allegrasi
Indra, se da sedere ei dànno agli ospiti.
Dei piè per la lavanda i Padri godono,
E, pel primo boccon, l’Autor dell’essere80.
Il tessitore, udendo ciò, disse alla moglie: O cara, va tu a casa prendendo con te l’ospite e rimani intanto ad onorarlo di lavanda di piedi, di cena, di letto e d’altro. Io poi ti porterò rosolio in abbondanza. — Così avendo detto, se n’andò. Ma la moglie di lui ch’era donna di mal affare, prendendo con sè l’ospite, con bocca ridente perchè aveva in mente il suo Devadatta81, s’incamminò verso casa. Ora, egregiamente si dice:
E poi:
E poi:
La sua famiglia andarsene in malora;
Al biasimo s’acconcia della gente,
Al carcere s’acconcia
E della vita al periglio imminente.
La moglie, adunque, del tessitore, tornata a casa, come ebbe tratto fuori per Devasarma un letticciuolo senza coperta e sgangherato, disse: O reverendo, finchè io, come sia stata un poco con una mia amica venuta da un altro villaggio, non torni il più presto che possa, si resti da te in questa nostra casa a far buona guardia. — Così avendo detto, postasi certi ornamenti leggiadri, nel momento che usciva per andar dal suo Devasarma, le capitò dinanzi il marito suo tutto tremante per l’ubriachezza, coi capelli sciolti, barcollante a ogni tratto, avente in mano un fiasco di rosolio; perchè essa, vedutolo, fuggendo indietro rapidamente e rientrando in casa, deposti gli ornamenti, venne innanzi quale era prima. Il tessitore che l’aveva vedata fuggire fattasi quella meravigliosa attillatura, e che già aveva turbato il cuore per aver udito le sue perfidie da una tale che gliele aveva susurrate all’orecchio, se n’era pur stato fino allora a celar la sua intenzione. Ma allora, avendo veduto quel cotal atto di lei, fatto certo da ciò che aveva visto, mosso dalla forza dello sdegno, entrando in casa le gridò: O malvagia meretrice, dove andavi tu? — Quella rispose: Io, poichè son venuta via da te, non sono uscita in alcun luogo. Perchè dunque, per tanti rosolii bevuti, vai dicendo tante sciocchezze? — Intanto, egregiamente è stato detto:
Fatti son manifesti. Ecco! è spossato
Chi n’usa, e al suol stramazza
E borbotta confuso e stranïato.
Anche il sol di cotesto ha esperienza
Quando son tremebondi i raggi suoi
Ed ei gitta le vesti
E perde suo vigore
E si tinge d’insolito rossore85.
Ma colui, udendo quella contraddizione e avendo veduto quel mutar di vesti, le disse: O meretrice! da lungo tempo son state udite da me le tue magagne, e però io stesso oggi, fattone certo, ti darò il dovuto castigo. — Così dicendo, dopo che le ebbe rotto il corpo con battiture di bastone, legatala ad un pilastro con forti lacci, vinto dall’ebbrezza, cadde in poter del sonno. Intanto un’amica di lei, moglie di un barbiere, accortasi che il tessitore era caduto in poter del sonno, venendo da lei, le disse: O cara, Devadatta ti aspetta a quel tal posto. Si vada adunque subito! — Ma l’altra disse: Vedi lo stato mio! Come posso andare? Però va tu e di’ all’amor mio: «Questa notte non posso venir con te». — Allora, la moglie del barbiere le disse: Cara mia, non dir così! Questo non è il costume della donna galante. Perchè è stato detto:
Di quei che fermo e certo in cor proposito hanno Di côrre un dolce frutto, come i cammelli fanno86,Anche se in chiuso loco e inaccessibil stia, |
E poi:
E questo ancora:
E quella disse: Se è così, dimmi allora in qual modo, legata come sono con forti lacci, posso io andare. Ed è pur qui questo scellerato di mio marito. — La moglie del barbiere disse: O cara, quest’ubbriacone non si desterà se non toccato dai raggi del sole. Perciò io ti scioglierò, e tu, come m’avrai legata al tuo posto, prestamente, dopo che sarai stata col tuo Devadatta, farai ritorno. — E quella disse: E sia così. — Come ciò seguì, il tessitore a un certo momento, levandosi su, poichè alcun poco gli era andato via lo sdegno e cessata l’ubbriachezza, disse a colei: O ganza degli altri, se da questo giorno in poi non uscirai più di casa e non t’intratterai con alcun altro, io li scioglierò. — Ma la moglie del barbiere, per timore della differenza della voce, non disse nulla, od egli più e più lo ridiceva quelle parole. Allora, poichè essa non gli dava alcuna risposta, egli, montato in ira, preso un rasoio affilato, le tagliò il naso, e disse: O meretrice, sta così intanto, che io non ti farò più alcuna carezza! — Così avendo borbottato, di nuovo s’addormentò; e Devasarma, che aveva perduto il sonno per la perdita del tesoro, con lo stomaco afflitto dalla fame, aveva veduto tutta cotesta faccenda delle donne. Ma la donna del tessitore, quando, fin che n’ebbe voglia, col suo Devadatta si ebbe goduto le dolcezze del piacere, a un certo momento ritornatasene a casa, così disse alla moglie del barbiere: Ohè! stai tu bene? e questo scellerato è stato su dopo che io era uscita? — La moglie del barbiere disse: Io sto bene per tutto il corpo fuorchè nel naso. Però tu scioglimi subito da questi legami perchè costui non mi vegga e io me ne torni così a casa mia. — Come ciò seguì, il tessitore, levatosi su di nuovo, disse alla donna: O meretrice, perchè non parli oggi? Forse che t’ho da dare altro più grave castigo col tagliarti gli orecchi? — E quella allora, con ira e con disprezzo, rispose: Via, via, ubbriacone! E chi mai può trattarmi male o mutilarmi, molto saggia come sono e fedele al marito? Questo ascoltino tutti gli Dei custodi del mondo, poichè è stato detto:
Crepuscoli, col giorno e con la notte,
Con la Giustizia ancor, sanno dell’uomo
La condotta che sia nell’opre sue.
Perciò, se v’è alcuna saviezza in me, gli Dei mi rendano il naso mio intatto; ma se, anche col solo pensiero, fu da me desiderato un altr’uomo, mi riducano essi in cenere. — Come ebbe detto ciò, ripigliò verso il marito: O scellerato, vedi ora che per la savia natura mia il naso m’è così appunto ritornato come prima! — Quegli allora, prendendo un tizzone acceso, intanto che guardava, ecco che il naso era così appunto e che al suolo era un gran lago di sangue. Perchè egli, stupito nell’animo, sciogliendola e liberandola dai lacci, fattala umiliar sul letto, con molte carezze la consolò; e Devasarma, avendo osservato tutta quella faccenda, con mente stupita, così diceva:
E fu detto anche in altra maniera:
Poter di donne
Non fate crescere!
Co’ lor mariti
Che troppo le amano.
Qual con cornacchie
Che han tronche l’ali,
Si baloccan le tali e le cotali.
Ancora:
Ch’è la donna, velen misto d’ambrosia,
Corba di tutti inganni, aspra e difficile
A governar da grandi e valent’uomini,
Ostel d’impudicizia e gorgo e vortice
Di perigli, città di scelleraggini,
Ripostiglio di vizi e casa propria
Di cento iniquità, regno di trappole?
Intanto che dell’uom poi non si fidano.
Però da chiunque è d’alta e nobile indole,
Son veramente da fuggir le femmine,
Come per cimiteri atre fantasime93.
Elefanti, le gote che han rigate
Di molto umor stillante94:
Uomini saggi, eroi forti e animosi
Dell’armi alla tenzone,
Davver, che sono assai povera cosa
Di donne al paragone!
Se d’amor preso al laccio il veggan poi,
Traggonlo dietro a sè come quel pesce
Che avidamente diè di morso all’esca.
E che?
Nel momento del crepuscolo,
Loro intento come aggiungano,
L’uom deluso elle abbandonano
Qual di lacca un frusto inutile
Che con forza già spremettero.
Acquetano, disturbano.
Nel molle cor dell’uom poich’entrar sanno,
Con quegli occhi sinistri96 oh! che non fanno?
Perciò simili ad un cesto
Tutto a frutti e a fiori intesto97,
Si ponno definir le nostre spose. —
Mentre il monaco così pensava, con affanno grande passò quella notte, e la mezzana, ritornata a casa sua col naso tagliato, andava pensando: Che s’ha da fare ora? e in che modo s’ha da nascondere questo gran malanno? — Mentre era in questi pensieri, ecco che il marito, che era stato a corte per sue faccende e ora tornava a casa sua in sul mattino, stando pur sulla porta di casa nella fretta di aver molte cose da fare in città, le gridò: O cara, portami subito la scatola de’ rasoi perchè io me ne vada alle mie faccende in città! — Ma quella, che aveva il naso tagliato, standosi pur dentro in casa, guardando a ciò che doveva fare, dalla scatola de’ rasoi toltone uno solo, lo scagliò contro il marito, perchè il barbiere, per la fretta che aveva, vedendo quel solo rasoio, preso dall’ira glielo avventò di contro. Allora la mala donna, levando in alto le braccia, con animo furioso, saltò fuori di casa gridando: Aimè! da questo scellerato, vedete! mi è stato tagliato il naso, onesta come sono! Aiuto! aiuto! — Intanto, i sergenti del re, accorrendo, come ebbero ben picchiato il barbiere con colpi di bastone, legatolo con corde robuste, insieme alla donna che aveva il naso tagliato, menandolo alla casa del tribunale, dissero ai giudici: Ascoltino le vostre signorie, i giudici. Da questo barbiere, senza alcuna colpa di lei, è stata mutilata questa perla di donna. Ora, ciò che si merita, gli si faccia. — Così essendo stato detto, dissero i giudici: Ah! barbiere, perchè mai da te fu mutilata la donna tua? forse che da lei è stato amato un altro? o forse che ti è stato fatto alcun danno alla vita? o forse che è stata fatta opera di ladroneccio? Suvvia! dicasi il fatto suo! — Ma il barbiere, disfatto dalle battiture, non poteva parlare, perchè i giudici dissero: Oh! dunque è pur vero ciò che dicono i sergenti del re! Costui non ode! Costui è uno scellerato! e questa povera innocente è stala trattata male da lui. Ora, è stato detto:
Altro ancora:
E costui appunto si mostra coi segni del misfatto, e però devesi mandar a morte per aver trattato male una donna. Facciasi dunque salir sulla forca. Così la legge. — Devasarma allora, come vide che menavano il barbiere al luogo del supplizio, correndo nel cospetto dei giudici, gridò: Oh! ingiustamente si manda a morte quel poveretto! Il barbiere è uomo d’onestissima vita. S’ascolti pertanto una mia parola:
I giudici allora gli dissero: Oh! reverendo, come va cotesto? — Perchè allora Devasarma raccontò con tutti i particolari l’avvenimento di quei fatti, e i giudici, udendo ciò, molto meravigliati della mente, liberato il barbiere, andavano dicendosi l’un l’altro: Davvero!
Condannar non si ponno impunemente.
Per ogni colpa loro anche più grave,
La mutilazione
La legge nostra espressamente impone.
La donna del barbiere, per colpa sua, ebbe il naso tagliato; ma ora sia la sua pena, per legge regale, il taglio degli orecchi. — Come tutto ciò fu fatto, Devasarma, reso libero omai dal dolore nato in lui per la perdita del suo tesoro, se ne tornò al suo eremitaggio. Però io dico:
Carataca disse: In queste condizioni, cosa dobbiam fare noi due? — Damanaca disse: In questi termini mi verrà certamente qualche lampo di genio per cui io separerò Sangivaca dal nostro padrone. Perchè è stato detto:
Io però, con arte multiforme, ricorrendo a un inganno nascosto, ne lo separerò. — Carataca disse: E se Pingalaca o Sangivaca viene a conoscere in qualche maniera quest’arte tua multiforme, caro mio, allora sarà un guaio! — E l’altro disse: Non dir così, amico. Da chi ha mente profonda, in tempo di disdetta, anche essendo contraria la fortuna, si deve usar dell’ingegno nè si deve lasciar mai alcun tentativo. L’ingegno in un attimo può acquistarsi un regno. Perchè è stato detto:
E poi:
Io adunque, ben sapendo nel mio profondo pensiero che quei due non s’accorgeranno di nulla, li separerò l’uno dall’altro. Perchè è stato detto:
Di Visnù nella forma, il tessitore
Della figlia del re godè il favore. —
Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — In un certo paese abitavano due amici, un tessitore e un carpentiere. Là, fin dalla fanciullezza, essi avevano passato il loro tempo dimorando sempre insieme e sempre l’un con l’altro aggirandosi per i medesimi luoghi, quando un giorno, in quel paese, presso l’oratorio d’un idolo, vi fu una gran festa con una processione. Andando pertanto quei due e passeggiando per il luogo tutto pieno di saltimbanchi, di ballerini, di cantanti, ingombro di genti venute da diverse parti, ecco che essi videro la figlia di un re che era montata su di un elefante, adorna dei segni tutti della bellezza, circondata da paggi e da eunuchi, venuta essa pure a veder l’idolo. Ma il tessitore, appena l’ebbe veduta, come se fosse stato preso da avvelenamento o colto da un pianeta maligno, ferito dalla saetta dell’amore, cadde d’un tratto a terra. Vedendolo in quello stato, il carpentiere, dolente di quella sventura, fattolo levar su da uomini atti, lo menò a casa sua, dove egli, con diversi rinfrescanti additati dai medici e curato dagli indovini, dopo lungo intervallo ritornò in sè. Allora, fu così domandato dal carpentiere: Amico mio, come mai e per qual cagione ti sei così svenuto? Raccontami tutto ciò come è veramente! — E l’altro disse: Amico, se così è, tu ascoltami in segreto e io ti dirò il tutto. — Dopo questo, egli disse: Amico mio, se tu mi stimi tuo amico, fammi grazia di procacciarmi le legne per il rogo99 e perdonami se, per la violenza dell’amore, t’ho fatto cosa che tu non meritavi. — L’altro, udendo ciò, con occhi gonfi di lagrime e balbettando disse: Dimmi adunque la cagione del tuo dolore, acciocchè vi si ponga rimedio se ciò si potrà fare. Perchè è stato detto:
Se pertanto questo tuo male è rimediabile per alcuna di queste quattro cose, io vi porrò rimedio. — Il tessitore disse: Amico, il mio male è irrimediabile e per questi e per mille altri rimedi. Però non perder tu il tempo nella morte mia. — Il carpentiere disse: Oimè, amico, piuttosto fammelo sapere, perchè, ove io pure lo stimi irrimediabile, entri con te nel fuoco. Io non sopporterei nemmeno un istante la tua lontananza. Tale è il mio divisamento. — Il tessitore disse: Dunque ascolta, o amico. Dal momento che io ho veduto là alla festa quella figlia di re montata su di un elefante, questa condizione mia mi è stata fatta dal dio beato dell’amore. Però io non posso sopportar questo malanno. Intanto è stato detto:
Sazio dormir di voluttà, fra quelle
Mammelle sue cacciandomi col petto,
Molli di zafferai!, turgide in guisa
Di tumor d’elefante ebbro d’amore?100
E poi:
E poi:
Così in varie maniere avendo pensato, egli parlò alla regina in un luogo segreto: Sappiasi, o regina, ciò che i paggi dicono. Intanto si crucci il dio della morte con colui dal quale questo inganno ci è fatto! — Anche la regina, ciò udendo, tutta turbata, venendo in gran fretta alla stanza della fanciulla, vide che il labbro inferiore le era stato morsicato e il corpo segnato da unghie, e però disse: Oh! malvagia, oh! disonor della tua casa, come mai hai tu fatto quest’onta a te stessa? Chi è quel già segnato dal dio della morte che ti si accosta? Suvvia! in presenza mia, si dica il vero! — Avendole così parlato la madre con ira aspra e riottosa, la giovane principessa, con aspetto di timore e di vergogna, rispose: Mamma, ogni giorno Visnù in persona, montato sull’aquila Garuda, viene da me la notte. Se questa parola mia non è la verità, tu stessa co’ tuoi occhi, ben nascosta, potrai vedere questa notte il beato sposo di Lacsmi. — Ciò udendo, la regina con bocca ridente, coi peli arricciati per la gioia, ritornando in gran fretta, così parlò al re: O re, possa tu essere felice! Ogni notte, il beato Visnù si
accosta sempre a nostra figlia. Essa fu sposata da lui col matrimonio gaudarvico. Questa notte stessa egli si potrà vedere da me e da te andando a una finestra, perchè egli non vuol parlare coi mortali. — Al re che con gioia udì cotesto, parve quel giorno della lunghezza di cent’anni. Ma poi, standosi egli nascosto quella notte, postosi con la sua donna a una finestra, mentre si stava cogli occhi volti al ciclo, ecco che al tempo stabilito vide discender Visnù per l’aria, avente fra le mani la conchiglia, il disco e la clava, fornito de’ suoi segni consueti. Egli allora, pensandosi di nuotare
come in un mare pieno di nettare, così disse alla sua donna: O cara, non vi è alcuno al mondo più ricco di me e di te! Poichè il beato Visnù si prende piacere di nostra figlia convenendo con lei, tutti i desideri nostri del cuore saranno soddisfatti. Intanto, col potere di mio genero, io sottometterò tutta quanta la terra. — Così avendo pensato, violò i confini di tutti i re circonvicini. Ma quelli, vedendo ch’egli violava i confini, radunatisi insieme, tutti gli mossero guerra. Il re allora, per bocca della regina, così fece dire alla fanciulla: O figlia, avendo noi una figlia come te ed essendo nostro genero il beato Visnù, come va che tutti quanti i re mi fanno guerra? Però si deve avvertire oggi il tuo proprio marito perchè tolga di mezzo questi nemici miei. — La fanciulla allora così disse con rispetto al tessitore, venuto da lei quella notte: O beato, non è punto bello che, essendo tu suo genero, mio padre sia oppresso dai suoi nemici. Facendogli adunque grazia, disperdili tu! — Il tessitore disse: O cara, i nemici di tuo padre son ben poca cosa; però non aver timore. In un istante io li farò a pezzi col disco mio Sudarsana. — Intanto, con l’andar del tempo, essendo stata invasa dai nemici tutta quanta la terra, il re fu ridotto alle sole sue mura. Egli tuttavia mandando pur sempre al tessitore in forma di Visnù, non sapendo chi egli si fosse, doni di canfora, d’aloè, di muschio, e d’ogni altro odor soave, con cibi, bevande e varie maniere di vesti, per bocca della figliuola gli faceva dire: O beato, domani all’alba sarà presa la città; mancano ormai le biade e le legna da ardere, tutti hanno guasta la persona dalle ferite e però non possono combattere, molti poi sono morti. Ciò sapendo, facciasi da te quanto si conviene all’occasione. — Avendo ciò udito, il tessitore pensò: Se la città vien presa, io avrò la morte e dovrò separarmi da costei. Io però, montando sull’aquila Garuda, mi farò veder nell’aria con le mie armi. Forse, pensando che io sia Visnù, i nemici spaventati periranno tutti, uccisi dai soldati del re. Perché è stato detto:
Abbia tosco o non abbia, non può a meno
Della cresta l’ardir di spaventare.
Anzi, se io, uscendo in favor della città, avrò la morte, sarà anche più bello. Perchè è stato detto:
Anche è stato detto:
Del forte è pur laudabil la sventura
Quando il toccò per alcun suo protetto. —
Così avendo pensato, come ebbe fatto pulizia dei denti, rispose alla fanciulla: O cara, quando saranno sterminati tutti i nemici, io berrò e mangerò ancora. Che più? allora io tornerò a star con te. Intanto, tu devi dire al padre tuo che domani all’alba, uscendo dalla città con un forte esercito, cominci la battaglia. Io a tutti i nemici suoi toglierò ogni vigore, ed essi allora potranno essere uccisi da lui agevolmente. Se io in persona li sterminassi, quei malvagi sarebbero in via di salute108; perciò bisogna trattarli in modo che essi nel fuggire siano uccisi e non vadano in paradiso. — La fanciulla allora, avendo udito cotesto, andando in persona dal padre, gli fece saper tutto ciò, perchè il re, dando fede alle sue parole, levatosi di gran mattino, con un ben compatto esercito uscì a combattere, e il tessitore, posto il pensiero a morire, con l’arco in pugno, per le vie dell’aria, uscì alla battaglia. In quel momento, il beato Visnù che conosce il passato, il presente, il futuro, chiamata a sè con un solo atto del pensiero109 l’aquila Garuda, così le disse sorridendo: O pennuto augello mio, sai tu che un certo tessitore sotto le mie forme, cavalcando un’aquila Garuda di legno, fa all’amore con la figlia d’un re? — Rispose: O beato, tutta questa faccenda si sa! che faremo intanto? — Il beato Visnù disse: Oggi il tessitore deliberato di morire, fattone voto, è uscito a combattere. Egli se ne va a morte ucciso dalle forti saette dei soldati. Morto lui, tutta la gente andrà dicendo che Visnù, venuto a battagla con gagliardi soldati, è stato atterrato insieme all’aquila Garuda. Tutto il mondo allora non ci renderà più alcun onore. Tu perciò, andando presto, ficcati dentro a quell’aquila di legno; io intanto entrerò nel corpo del tessitore perchè egli possa sterminare i nemici. Sterminati i quli, avrem noi grande accrescimento di onore. — Come Garuda ebbe risposto: Così si faccia, — il beato Visnù si cacciò nel corpo del tessitore, il quale, per la virtù di lui, stando nell’aria, armato di conchiglia, di disco, di clava e d’arco, in un attimo e come per giuoco tolse ogni vigore a tutti quei valorosi guerrieri, che, circondati dal re col suo esercito, furon tutti vinti e uccisi in battaglia. Allora andò attorno fra la gente questa voce, cioè che i nemici erano stati tutti sterminati dalla potenza di Visnù genero del re. Il tessitore intanto quando vide che i nemici erano tutti uccisi, con mente lieta si calò dall’aria, e perchè il re, i ministri e i cittadini quando videro ch’egli era il tessitore, gli domandarono: Come va cotesto? — , egli, cominciando dal principio, fece loro sapere quanto già era accaduto. Il re allora, con animo giubilante, essendo cresciuto in potenza per lo sterminio de’ suoi nemici, in presenza di tutta la gente, secondo le regole nuziali, diede in isposa al tessitore la figlia e vi aggiunse anche delle terre; e il tessitore, godendo di lei del quintuplice goder del mondo, così passò il suo tempo. Perciò si disse:
Di Visnù nella forma, il tessitore
Della figlia del re godè il favore. —
Avendo udito ciò, Carataca disse: Amico, sia pur così. Ma io ho gran timore, perchè Sangivaca è accorto e il leone è feroce e tu non sei da tanto da separar questo da quello. — L’altro disse: Anche chi non è da tanto è da tanto, perchè è stato detto:
Carataca disse: Come ciò? — E quegli disse:
Racconto. — C’era una volta in un certo luogo un grand’albero di fico dove abitavano, avendovi posta la loro dimora, due corvi, marito e moglie. Ma, ogni qual volta essi nutrivano i loro piccini, ecco che un serpente nero, uscendo da una cavità di quell’albero, di mano in mano se li divorava, perchè essi, per disperazione, andando da uno sciacallo, loro caro amico, che abitava alle radici di un altro albero, gli dissero: Amico, che dobbiam far noi due, essendoci accaduto cotesto? Quel nero serpe malvagio, uscendo dalla cavità dell’albero, si va divorando i nostri piccini. Dicasi alcuno spediente per riparare a ciò!
E ancora:
Noi pure che stiam là, ogni giorno siamo in pericolo di vita. — Lo sciacallo disse: Quanto a voi, voi non dovete minimamente turbarvi. Però quel ghiottone non potrà essere tolto di mezzo che con l’astuzia, perchè è stato detto:
E poi:
Una gru che assai pesci divorava Grandi, mezzani e piccoli, fu morta |
I due dissero: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — In un certo paese selvoso era già un grande stagno fornito di diversi pesci. Una gru che là aveva posto la sua dimora, venuta a vecchiezza non poteva più prender pesci, perciò, con la strozza tormentata dalla fame, sedutasi sulla sponda di quello stagno, se ne stava piangendo, bagnando la terra di lagrime scorrenti, simili a perle. Allora un granchiolino accompagnato da diversi pesci, afflitto per il suo dolore, accostatosi a lei, così le disse con rispetto: Perchè mai oggi, o mamma, s’è preso da te a digiunare? Tutto è qui pieno di lagrime e di sospiri. — Ed essa disse: Figlio mio, tu hai indovinato il vero. Io mi nutro di pesci, ma ora, per penitenza, ho fatto voto di digiunare, e però io non mangio di alcun pesce anche se molto mi si accosta. — Il granchio, udendo ciò, disse: Qual è la cagione, mamma, di questa penitenza? — E quella disse: Figlio mio, io son nata presso queso stagno e vi sono anche invecchiata, e qui è stato udito da me che presto seguiranno dodici anni di siccità. — Il granchio disse: Da chi l’hai tu udito? — La gru disse: Dalla bocca di un astrologo, e ciò quando Saturno, tagliando la via al carro di Rohini110, prende Marte e Venere. Ora, è stato detto da Varahamihira111:
E poi:
Di gran delitti, tutta d’ossa infrante
E di cenere piena, a chi di teschi
Si fe’ cintura, ha simile sembiante113.
E poi:
E poi:
Ora, questo stagno è scarso d’acqua e fra poco sarà asciutto. In quella siccità tutti quelli coi quali io son cresciuta e coi quali mi sono trastullata, per mancanza d’acqua verranno a morire. Io non reggo a veder la loro morte, e però ho fatto questo voto di lasciarmi morir di fame. Intanto i pesci di tutti gli stagni scarsi d’acqua dai loro addetti sono trasportati in luoghi d’acque profonde; alcuni, anzi, incominciando dai delfini, dagli alligatori, dagli orchi e dagli elefanti marini114, vi si recano da loro stessi. Ma qui, in questo stagno, i pesci se ne stanno senza darsi alcun pensiero, e io appunto vo piangendo perchè di essi non resterà nemmeno la semenza. — Il granchio allora, avendo udito tutto ciò, fece sapere agli altri pesci quelle parole della gru, e quelli tutti, con animo preso da terrore, cominciando dai pesci maggiori alle testuggini, andando dalla gru, così le domandarono: Mamma, c’è qualche modo per salvarci? — Disse la gru: Non lontano da questo stagno se ne trova un altro, grande, d’acque molte, ornato di foglie di loto, che, anche se non piove per ventiquattr’anni, non si asciugherà. Ora, se alcuno di voi mi monta sulla schiena, io lo porterò là. — I pesci allora, fidandosi di lei, gridando: Mamma! zia! sorella! io per il primo! io per il primo! — , la attorniarono da tutte le parti. Ma la malvagia, prendendoli per ordine uno ad uno sulla schiena, andando su d’una rupe piatta non lontana dallo stagno e traendoveli sopra, in disparte se li mangiava. Tornando poi di nuovo allo stagno, sempre ingannando la mente dei pesci con false novelle degli altri, si procacciava il suo nutrimento. Ma, un giorno, essa fu così dimandata dal granchio: Mamma, con me per la prima volta tu hai parlato con affetto. Perchè dunque mi abbandoni e meni via gli altri? Salva oggi almeno la vita mia! — Udendo cotesto, la malvagia così pensò: io son sazia di carni di pesci, e però oggi mi farò un manicaretto di questo granchio; — Dicendo allora: Suvvia! fatto salir il granchio sulla schiena, s’incamminò verso quella rupe da macello. Ma il granchio come vide da lontano la rupe che omai era un monte d’ossa, accortosi che quelle erano ossa di pesci, così domandò alla gru: Mamma, di quanto è ancora distante quello stagno? Sei tu stanca, dimmi, del mio peso? — Ma la sciocca gru pensando che il granchio fosse un pesce e credendo che non potesse vivere all’asciutto, sorridendo rispose: O granchio, dov’è mai quest’altro stagno? Il modo di sostentar la vita mia è questo; perciò accomandati pure al tuo dio protettore, che io, traendoti su quella rupe, voglio pur divorarti. — Ma, mentre essa così diceva, fu presa dal granchio con le branche nella parte molle del collo, bianca come uno stelo di loto, e uccisa. Il granchio allora, prendendo la testa della gru, adagio adagio se ne ritornò allo stagno. Tutti i pesci l’interrogarono: Ohè, granchio, perchè sei tu ritornato? E c’è qualche segno di buono augurio? E la mamma non è venuta con te? Perchè dunque s’indugia? Noi tutti siam qui bramosi con gli occhi su di te. — Avendo quelli così parlato, il granchio sorridendo rispose: Tutti quegli sciocchi pesci, ingannati da quella bugiarda che li ha tratti non lontano di qui su quella piatta rupe, sono stati divorati da lei. Io però che non era ancor destinato alla morte, conosciuto il disegno di lei, micidiale di chi in lei si confidava, qui ne porto la testa. Non più paure adunque! Tutti i pesci omai possono star tranquilli. — Però io dico:
Una gru che assai pesci divorava Grandi, mezzani e piccoli, fu morta |
Disse il corvo: O caro, dimmi allora in che modo quel malvagio serpente può essere ucciso. — Lo sciacallo disse: Tu devi andate a una città che sia sede di re. Là, ad un qualche ricco o ad un ministro regio o ad un altro nel momento ch’ei non vi badi, devi rapire un monile d’oro o un vezzo di perle e cacciarlo nel buco dell’albero. Per esso, il serpente agevolmente verrà ucciso. — Il corvo allora e la cornacchia, levatisi a volo in quell’istante, se ne vennero ad una città, e la cornacchia capitò ad un giardino, laddove, mentre se ne stava ad osservare, ecco che tutte le donne del gineceo d’un re, venute ad uno stagno, deposti i monili d’oro, i vezzi di perle, le vesti e gli altri ornamenti, stavano scherzando nell’acqua. Essa allora, rapito un monile d’oro, si mosse per volare al suo albero. Ma i paggi e gli eunuchi, vedendo portar via quel monile, con bastoni alla mano, corsero in fretta dietro alla cornacchia, e la cornacchia, cacciato quel monile nel buco del serpente, si fermò ad un punto ben lontano. Intanto che i servitori del re, montati sull’albero, frugavano in quel buco, ecco che là si stava, sciolte le spire, un nero serpente. Uccisolo a colpi di bastone e ripreso il monile, essi se ne andarono per la loro via, e i due corvi, marito o moglie, d’allora in poi abitarono felicemente in quel luogo. Perciò io dico:
Del resto, non v’è nulla al mondo che non si possa fare dai saggi. Perchè è stato detto:
Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — In mezzo ad una selva abitava un leone di nome Basuraca. Per la soverchia sua forza egli non cessava mai dall’ammazzar gazzelle, lepri e altri animali. Un giorno però, tutti gli abitatori di quella selva, antilopi, cinghiali, bufali, buoi selvatici, lepri e altri, radunatisi, andando da lui, così parlarono: O signore, a che mai questo infruttuoso macello di animali, mentre con un solo puoi saziarti? Facciasi oggi una convenzione fra noi. Da oggi in poi, fin che tu qui ti starai, ogni giorno uno di noi, per turno, verrà da te per il tuo nutrimento, così facendo, tu avrai il tuo sostentamento senza fatica e intanto non vi sarà questo sterminio di noi tutti. Seguasi da te il costume dei re, poichè è stato detto:
Il frutto, come il legno
Porge la vampa, acconciamente attrito116.
Offendonsi le leggi nell’opprimerli,
E infamia ell’è per l’uom di mal talento.
Come si suol da vacche il latte mungere.
Chi così fa, dritta segue sua traccia.
Quei l’or co’ pregi suoi preclari e questa
Con lo stoppin lucente,
Non si fanno conoscere per niente.
Dal re si cura. E perchè dian lor frutti,
E perchè dian lor fiori, acconciamente
S’innaffiano le piante e si difendono.
Rendono al tempo debito
I frutti lor con cura custodite,
Così lor frutti rendono
Le genti ben guardate e ben nutrite.
Allora, avendo udito quelle loro parole, Barusaca disse: Oh! voi avete detto il vero! Però, se, mentre io qui mi sto, non verrà sempre uno di voi, io vi divorerò tutti quanti. — Quelli allora, avendo promesso, contenti e senza timore si dispersero per la selva. Intanto, ogni giorno, uno di loro per turno, o un vecchio, o uno che più non si curava della vita, o un ipocondriaco, o uno che temeva d’essere ucciso dalla moglie o dal figlio, a mezzogiorno si partiva da loro per essere divorato dal leone. Venne poi, nell’ordine, la volta d’una povera lepre, che contro sua voglia da tutti gli altri animali fu mandata fuori. Perchè essa, andando adagio adagio e perdendo il tempo, pensando, tutta angustiata nel cuore, qualche modo d’uccidere il leone, arrivò presso di lui alla fine del giorno. Il leone intanto, tormentato dalla fame per quell’indugio, preso dall’ira, leccandosi le basette andava pensando: Oh! io domani mattina vuoterò di animali la selva! — Mentre egli così pensava, la lepre, venendo innanzi adagio adagio, fattogli un inchino, si fermò nel suo cospetto, e quegli che la vide venir così lenta mentre l’aveva già veduta velocissima, avvampando d’ira, così gridò rimproverandola: O vilissima lepre, tu che sei così veloce, ora sei venuta con questo indugio! Per questo tuo fatto, domani, come ti avrò uccisa, sbranerò tutti quanti gli altri animali. — La lepre allora, inchinandosi con rispetto, rispose: O signore, qui non c’è fatto ne di me ne degli altri animali. Però si ascolti la ragione. — Disse il leone: Dilla tosto intanto che non sei ancora sotto i miei denti. — La lepre disse: O signore, oggi io, secondo il mio turno, da tutti gli animali che hanno riconosciuto in me il pregio dell’essere io la più veloce, sono stata mandata qui con altre cinque lepri, io però, nel tempo che veniva, fui così domandata da un altro gran leone uscito fuori da una caverna: Ehi! dove andate voi? Raccomandatevi al vostro Dio! — io allora risposi: Noi, per un patto convenuto, ci rechiamo presso il re leone Basuraca per suo cibo. — Egli allora disse: Se così è, allora questa selva che è una, si deve abitare da tutti gli altri animali soltanto per una convenzione fatta con me. Quel Basuraca intanto è un ladro. Però, se egli è re qui, tu, mentre io mi terrò qui in pegno queste quattro lepri, come l’avrai invitato a venir da me, ritorna da me subitamente, acciocchè quello che di noi due riuscirà re per la sua forza, si mangi tutti questi animali. — Così io, comandata da lui son venuta nel cospetto del re. Questa è la cagione del mio indugio. Il re ora comandi. — Avendo udito cotesto, Basuraca disse: O cara, se così è mostrami tu subito subito quel furfante di leone, perchè io, sfogando su di lui l’ira che ho contro gli animali, resti soddisfatto. Ora, è stato detto:
La lepre disse: O signore, tutto questo è vero. Ora i guerrieri combattono per la propria terra o per disperazione. Ma colui, riparatosi in luoghi difficili s’è ritirato in una fortezza, e noi vi abbiamo un ostacolo. Quando un nemico si sta in una fortezza, è difficile da prendersi. Perchè è stato detto:
Indra fe’ una fortezza ed aiutollo
Visvacarma celeste architettore118.
Indra concede una fortezza. A mille
Perciò contansi in terra i luoghi forti.
Che privo di fortezze si restò,
Sì come il serpe che i denti perdè,
O l’elefante a cui l’umor stagnò119. —
Avendo udito ciò, Basuraca disse: Cara mia, anche se sta in una fortezza, mostrami quel furfante perchè io lo spacci. Perchè è stato detto:
D’uno o dell’altro al crescere ne resta
Oppresso, ancor che vigoroso ei sia.
La lepre disse: Così è, ma quel potente è stato veduto da me, nè si conviene andare al mio signore quando non ne conosca ancora le forze. Perchè è stato detto:
Avido e ardito, corre a morte come
Farfalla che nel fuoco perirà.
Basuraca disse: Oimè! a che questo tuo affaccendarti? Mostrami colui anche s’egli sta nella sua fortezza. — La lepre disse: Se così è, allora il re mi segua. Così dicendo gli entrò innanzi. Come giunse a una cisterna, disse a Basuraca: Chi mai, o signore, può resistere alla tua maestà? Ecco che quel furfante, come t’ebbe veduto da lontano, è entrato nella sua fortezza. Vieni adunque, perchè io te lo mostri. — Avendo udito ciò, Basuraca disse: Mostrami subito subito, o amico, quella fortezza. — La lepre allora gli mostrò la cisterna, e quello sciocco di leone, quando vide in fondo alla cisterna e nel mezzo dell’acqua la propria immagine, mandò un ruggito e quel ruggito, per l’eco, ritornò raddoppiato dal fondo. Perchè egli, udendo quel suono e pensando: Costui è più forte! — , avventandoglisi sopra, si uccise. La lepre allora, con animo lieto venendo a rallegrar tutti gli animali, lodata da loro abitò conforme al piacer suo in quella selva. Perciò io dico:
Se, pertanto, così vuoi, io, andando là, col valor dell’ingegno mio separerò i due amici. — Carataca disse: Amico, se è così, sia felice il tuo viaggio! Facciasi da te come desideri. — Damanaca allora, quando vide Pingalaca starsi solo senza Sangivaca, fattogli un inchino, se gli sedette dinanzi perchè Pingalaca gli disse: Ehi! perchè mai ti fai veder così di rado? — Damanaca disse: il re non aveva alcun bisogno di noi; però non son venuto. Vedendo tuttavia che vanno in rovina le faccende del re, io, nel mio smarrimento, col cuore turbato son venuto per parlarti. Perchè è stato detto:
L’uomo a colui che punto ei non vorria
Veder d’un tratto a terra rovinato. —
Udendo allora quel discorso pieno di significato, Pingalaca disse: Che vuoi tu dire? Parla! — E quegli disse: O signore, Sangivaca va macchinando insidie contro di voi. A me che ho la sua fiducia, egli ha detto così in un luogo appartato: «O Damanaca, io conosco omai il forte e il debole di Pingalaca. Però io, come l’avrò ucciso, sarò il re di tutti gli animali con te per ministro». — Pingalaca, udendo quel terribile discorso che gli parve un colpo di fulmine, tutto costernato non diceva nulla, e Damanaca, vedendo lo stato dell’animo suo, andava pensando: Costui è preso ancora dall’affetto per Sangivaca. Il re si rovina per cotesto suo ministro. Perchè è stato detto:
L’autorità
Quando un re dà,
Orgoglio il prende
Per gran stoltezza
Ed ei dell’obbedire, in quel suo vampo,
Sente stanchezza.
Di libertà
Desìo verrà.
Per tal desìo
Di far da sè.
Insidiando andrà la vita ancora
Del suo buon re.
Intanto cosa mai si convien fare? — Ma Pingalaca, avendo raccolto la mente, in qualche modo potè dire: O Damanaca, Sangivaca è un servitore che ci è caro come la nostra vita. Come mai potrebbe egli insidiarmi? — Damanaca disse: O signore, il dire servo o non servo è cosa che non va. Perchè è stato detto:
Pingalaca disse: Amico, quanto a Sangivaca, il mio pensiero non si è punto mutato, intanto, è stato detto egregiamente:
Damanaca disse: Qui appunto sta il malanno, perchè è stato detto:
Non si riveli nessuna mancanza
Da chi teme tradir la sua promessa.
D’altra parte, io, persuaso dalle tue parole, gli ho dato un salvacondotto. Come dunque potrei mandarlo a morte? Egli ci è tutto amico, nè io ho alcun corruccio contro di lui. Ora è stato detto:
E poi:
Ma, posto allor che sia, di giorno in giorno
Mostrar gli si dovrà sempre favore.
Se avvien che abbassi alcuno alcun mortale
Che prima sollevò, scorno produce.
Chi a terra piana sta, del cader mai
Dentro al suo cor temenza non induce.
E poi:
Perciò, anche s’egli va macchinando insidie, io non gli devo fare alcun male. — Damanaca disse: O signore, non è questo costume di re che si tolleri chi va macchinando insidie. Perchè è stato detto:
Che di beni l’uguaglia e di balia
E il suo debol conosce, astuto e forte,
E nel suo regno ha mezza signoria,
Da sè stesso procacciasi la morte.
Con questo, per quest’amicizia tua ogni consuetudine di re è stata da te abbandonata, onde, appunto perchè vengon meno le consuetudini tue, tutti i tuoi sudditi con l’animo si sono allontanati da te, perchè Sangivaca è un erbivoro e tu e i servi tuoi siete carnivori. Intanto, per il tuo comando del non uccidere gli erbivori, donde mai i tuoi potranno aver provvista di carni? Però tutti i tuoi cortigiani, mancando di carne, come ti avranno abbandonato, si disperderanno per la selva. Tu pure avrai il tuo malanno dalla compagnia di colui nè li ritornerà mai più come prima il talento di andare a caccia. Perchè è stato detto:
E poi:
I più avveduti ancora.
Bisma potè discendere
Le altrui vacche a rubar, di Duryodana
Stando nella dimora122.
Perciò appunto i saggi evitano la compagnia della gente dappoco. Perchè fu detto:
Pingalaca disse: Come ciò? — E quegli disse:
Racconto. — In un certo paese, un re aveva un letto bellissimo, dove, in mezzo a due lenzuola bianchissime, abitava un pidocchio bianco di nome il Cammina-lento. Succhiando il sangue del re, egli là si stava a passar felicemente il tempo. Però, un giorno, un cimice di nome l’Infuocato, errando qua e là, capitò in quel letto. Al vederlo, il pidocchio, con viso turbato, così gli disse: O l’Infuocato, come mai sei tu venuto in questo luogo insolito? Intanto che nessuno non t’ha ancor veduto, vattene via subitamente. — L’altro disse: Caro mio, non è questo il modo di parlare a chi ci viene in casa, anche se ci è inferiore. Perchè è stato detto:
Che nuove hai tu? son lieto del vederti,
Ma di salute sei debole molto!».
Tal discorso a’ più saggi si conviene
Volger sempre anche a gente inferïore,
Ove alcun giunga in casa. I sapïenti
De’ padri di famiglia afferman questo
Esser debito sauro, ed è pur questa
Del paradiso la diritta via.
Oltre a ciò, io ho già assaggiato il sangue di molti uomini che, per difetto dei cibi, era di gusto ora salato, ora piccante, ora amaro, ora mordente, ora acido; ma non ho mai assaggiato sangue che fosse dolce. Perciò, se tu mi fai grazia, possa io con la lingua procacciarmi questo piacere con l’assaggiare il sangue dolce, che s’è generato nel corpo di questo re in forza delle diverse specie di cibi colti, bolliti, succiabili, masticabili. Perchè è stato detto:
Per un pezzente;
Però la gente
Suda e fatica sol per questo obietto,
Chè questo è in terra l’unico diletto.
Ancora:
Io adunque, venuto in tua casa, tormentato dalla fame, devo chiedere a te il mio mangiare, nè si conviene che tu solo ti sostenti col sangue di cotesto re. — Ciò udendo, il Cammina-lento rispose: O cimice, io vo succiando il sangue del re, ma quand’egli è entrato nel sonno. Tu invece hai nome l’Infuocato e sei impaziente. Se però vorrai gustar con me del sangue del re, fermati qui e succhiane quanto vuoi. — L’altro disse: O caro, così farò. Mi prenda la maledizione degli Dei e del mio maestro se io succhierò di quel sangue prima che tu ne abbi assaggiato. — Mentre essi così parlavano fra loro, il re, venuto al suo letto, si pose giù per dormire. Allora il cimice, per l’impazienza eccitata dalla voglia della lingua, lo morsicò che ancora era desto. Ora, si dice a proposito:
Acqua, anche ben scaldata, immantinenti.
Ma il re, come se fosse stato tocco da una punta d’ago, lasciando il letto, balzò in piedi all’istante e gridò: Oh! guardate! Nelle coperte o nelle lenzuola c’è un cimice o un pidocchio che mi ha morsicato! — Gli eunuchi allora che là si trovavano, sciorinando subitamente le coperte e le lenzuola, tutte le esaminarono attentamente. Ma intanto il cimice nella sua prontezza era corso in fondo al letto, mentre il Cammina-lento che s’era ficcato in una piega dei panni, fu veduto e ammazzato. Però io dico:
Per queste ragioni, tu devi mandare a morte Sangivaca; se no, egli ti ammazzerà. Perchè è stato detto:
Pingalaca disse: Come ciò? — L’altro disse:
Racconto. — In una parte d’una foresta abitava uno sciacallo di nome Ciandarava. Un giorno, preso dalla fame, per voglia di mangiare, entrò in una città; ma i cani di città, come l’ebbero veduto, correndogli attorno da tutte le parti con latrati, già stavano per addentarlo coi denti acuti, perchè egli, sul punto d’esser divorato, temendo della vita, si cacciò dentro la casa d’un tintore che era vicina. Là stava preparata una gran tinozza piena di tinta azzurra, dentro la quale egli, attorniato dai cani, venne a cadere. Quando ne uscì, ecco che era tutto tinto di color d’azzurro. Tutti quei cani allora, non riconoscendolo più, se n’andaron qua e là dove vollero, e Ciandarava, cercando d’andare in luogo lontano, s’incamminò verso la foresta, e il color d’azzurro non era ancora sparito. Ora, è stato detto:
I leoni allora e le tigri, i leopardi, i lupi e gli altri animali tutti che abitavano la selva, vedendo quella bestia non più veduta prima, simile ad un albero di tamala del color del veleno ond’è tinta la gola di Siva123, turbati di spavento, da tutte le parti cominciarono a fuggire, dicendo: Oh! donde mai è venuta questa bestia non più veduta prima? Poichè non si sa qual sia il suo costume e la sua forza, fuggiam più lontano che si possa! — Ora è stato detto:
Ciandarava, come vide che tutti erano presi da spavento, disse: Oh! oh! bestie, perchè mai, al vedermi, fuggite spaventale? Non temete! Brahma che oggi stesso mi ha procreato, mi ha detto: «Poichè fra gli animali non vi è alcun re, tu oggi sei da me consacrato nella signoria di tutte le bestie, col nome di Cacudruma. E però tu, discendendo in terra, sii custode di loro tutti». Io allora son venuto qui. Intanto, tutti gli animali devono starsi sotto la mia protezione, io sono il re Cacudruma, fatto re degli animali nei tre mondi. — Udendo cotesto, il leone e gli altri animali, salutandolo col dirgli: O signore! o principe! — , gii si schierarono dattorno. Al leone allora fu dato da lui l’ufficio di ministro, alla tigre l’ufficio di prefetto della stanza reale, al leopardo quello di procacciare il betel odoroso per uso del sovrano, all’elefante l’ufficio di guardiano delle porte, alla scimia l’ufficio di reggere l’ombrella regia; ma agli animali della sua stessa famiglia non fece neppure un motto; anzi tutti gli altri sciacalli con cattive maniere furono discacciati. Mentre egli adunque faceva da re, il leone e le altre fiere, ammazzando gazzelle, gliele traevano dinanzi, ed egli, nel suo diritto di sovrano, spartendole, ne porgeva all’uno e all’altro. Così passando il tempo, avvenne che un giorno, nell’ora ch’egli era venuto nell’adunanza degli animali, si udì da un posto lontano il fracasso d’ima schiera di sciacalli che urlavano. Udendo quelle voci; levatosi su con arricciati i peli del corpo e con gli occhi pieni di lagrime di gioia, ad alta voce cominciò ad urlare. Il leone allora e gli altri animali, udendo quella chiara voce, avvedutisi ch’egli era uno sciacallo, stando alcun poco col viso vergognoso a terra, si dicevano l’un l’altro: Oh! noi ci siam lasciati guidare da questo miserabile sciacallo! S’ammazzi adunque! s’ammazzi! — Lo sciacallo, come udì quelle voci, benchè cercasse di fuggire, su quel luogo stesso dal leone e dagli altri animali fu sbranato e morto. Però io dico:
Avendo udito ciò, Pingalaca disse: O Damanaca, qual fondamento è in tutto questo per dire che colui m’insidia alla vita? — E l’altro disse: O signore, egli stesso oggi ne ha fatto il divisamente dinanzi a me, dicendo: «Domani mattina ammazzerò Pingalaca». E il fondamento n’è questo. Doman mattina, a un dato momento opportuno, egli, con occhi rossi, con labbra enfiate, guardando qua e là, postosi in un luogo solitario, ti starà a mirare con occhi minacciosi. Come avrai veduto cotesto, dovrai fare ciò che ti si conviene. — Così avendo parlato, fattogli un inchino, s’incamminò per andar da Sangivaca, e Sangivaca vedendo ch’egli veniva adagio adagio con aspetto turbato, con rispetto gli disse: Benvenuto, amico! Da lungo tempo non ti sei fatto vedere. Stai tu bene? Parla, perchè io possa offrirli, poichè sei venuto in casa mia, anche ciò che è impossibile a darsi. Perchè è stato detto:
Damanaca disse: Oh! come mai può star bene chi serve altrui! Perchè è stato detto:
Di chi a principi serve, in man d’altrui Son le sostanze e trepida è la mente, |
E poi:
E ancora:
Non parla sicuro,
Eppur vive127 chi è servo anche con questo!
Ma il can sen va dove il desìo l’appella,
Il servitor dove altri gli comanda.
Che sopporta chi serve,
Valgon ben poco ad acquistar dovizia.
Ghiotta, rotonda e molle,
Se dovette servir chi aver la volle? —
Sangivaca disse: Dunque che vuoi tu dire? — E l’altro disse: Amico, non si conviene ai ministri svelar segreti. Perchè è stato detto:
E del suo prence guasta alcun disegno,
Scenderà in luogo d’eterno martire.
Al suo prence morte diè
(Così Narada129 già sentenziò)
S’anche il ferro non trattò.
Io tuttavia che ti son legato da vincolo d’affetto, posso svelar quel segreto in quanto che tu, per mia raccomandazione, sei stato accolto nella famiglia del re. Perchè è stato detto:
Ch’ebbe in un altro, dassene a costui
La prima colpa nel morir di lui.
Questo Pingalaca, adunque, ti vuol male; anzi, oggi stesso, in presenza mia e a quattr’occhi130, ha detto: «Domani mattina, come avrò ucciso Sangivaca, sazierò, ciò che non ho fatto da gran tempo, tutto il mio corteggio di animali». Io allora gli ho detto: Signore, non è bello che si procacci alcuno il proprio sostentamento col tradimento degli amici. Perchè è stato detto:
Egli allora mi rispose con ira: «O malvagio! Sangivaca è erbivoro e noi siamo carnivori. Però fra noi è inimicizia naturale. Come dunque si può tollerar vicino un nemico? Intanto, esso dev’esser mandato a morte con arti amichevoli131 e con altri modi; nè, come sarà ammazzato, noi avremo in ciò alcuna colpa. Perchè è stato detto:
Io pertanto, avendo saputo il suo divisamente, son venuto da te, nè ho io colpa d’aver tradito la fede di colui, avendoti fatto conoscere il suo più intimo pensiero. Tu, intanto, farai ciò che ti parrà meglio. — Sangivaca allora, come ebbe udito quel discorso che gli parve terribile come la caduta d’uua folgore, per alcun tempo stette come smemorato. Riavutosi poi della mente, con certa freddezza disse: Oh! quanto egregiamente fu detto:
Io intanto non mi sono adoprato bene nel fare amicizia con colui, perchè è stato detto:
E poi:
Coi matti i matti, con i savi i savi;
Quei che hanno indole egual, società fanno.
Ora, se io, andando da lui, cercassi di farmelo favorevole, egli non mi renderebbe la benevolenza di prima. Perchè è stato detto:
Oh! quanto giustamente si dice:
Del bene altrui curanti, - al vero sempre ligi,
Lontani dagl’inganni, — i torti sono certi,
Se piglian qualche abbaglio; — sempre i meriti incerti.
Però il servir padroni — è affar pericoloso
Come di chi s’affida - a un mare tempestoso.
E poi:
Ora io ho bene indovinato che Pingalaca è stato aizzato contro di me da quelli de’ suoi aderenti che non sanno sopportare il favore concesso a me. Però egli così parla di me, mentre io non ho alcuna colpa. Peichè è stato detto:
Come donne elle soglionsi crucciare
Per favor che altra donna135 ebbe per sè.
Ed è appunto così, perchè, quando sono attorno al re persone di merito, non si concede alcun favore a chi non ne ha. Perchè è stato detto:
Fiamma di cero che di notte splende,
Cessa, ratto che il sol pel ciclo ascende. —
Damanaca disse: Amico, se così è, per te non c’è timore. Quantunque aizzato contro te da quei malvagi, ti si ritornerà benevolo alle tue parole. — E l’altro disse: Oh! tu non dici il vero! perchè con gente cattiva, anche se di poco conto, non si può reggere in alcun modo. Costoro, ordinando qualche trappola, giungono sempre a colpire. Perchè è stato detto:
Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — Abitava già in una selva un leone di nome Madotcata che aveva per cortigiani un leopardo, un corvo e uno sciacallo. Un giorno, mentre andavano qua e là, fu veduto da loro un cammello di nome Cratanaca che s’era dilungato dalla sua carovana. Disse allora il leone: Oh! cotesto animale non fu mai veduto da noi! però si cerchi se egli è selvatico o domestico. — Il corvo, udendo ciò, disse: O signore, egli è domestico e dicesi cammello ed è animale che può essere mangiato da te. Però si uccida. — Il leone disse: Io non uccido chi viene in casa mia, perchè è stato detto:
Perciò, datogli un salvacondotto, s’accompagni qui da me acciocchè io lo dimandi della cagione del suo venire. — Così il cammello, datagli fidanza e salvacondotto, da quegli animali fu menato al cospetto di Madotcata. S’inchinò e si mise giù; poi, dimandandolo il leone, raccontò tutti i casi suoi incominciando dal suo smarrirsi dalla carovana. Allora il leone disse: O Cratanaca, tu non andrai mai più al villaggio e non farai più vita dura col menar pesi, ma qui, in questa selva, brucandone le erbe verdi come smeraldo, starai ad abitar con me. — Cratanaca, rispondendo di acconsentire, aggirandosi senza timore fra quegli animali, si trovò molto bene. Ma un giorno Madotcata ebbe una battaglia con un grande elefante selvatico e toccò una ferita dai colpi di quelle zanne simili a clave. Fu ferito, anzi per poco non fu morto. Per tale infermità del corpo egli non poteva muovere un piede, e però il corvo e tutti gli altri animali, presi dalla fame per la mancanza del suo aiuto sovrano, soffrivano gran disagio. Ma il leone disse loro: Orsù! cerchisi in alcun luogo qualche animale col quale io, come l’abbia ucciso benchè venuto in questo stato, provvegga al vostro mangiare. — I quattro animali incominciarono ad andare attorno; ma poichè non videro nulla, il corvo e lo sciacallo si consigliarono fra loro. Lo sciacallo disse: O corvo, a che tanto andare attorno? Poichè c’è qui questo Cratanaca affidato da nostro signore, ammazziamolo e procacciamo il sostentamento a tutta la corte. Il corvo disse: Tu dici bene. Ma dal re gli è stato dato un salvacondotto per il quale non può essere ammazzato. — Lo sciacallo disse: O corvo, io consiglierò nostro signore e farò in modo che l’ammazzerà. Tu sta qui finchè io, andando a casa e avuto il consenso del re, non faccia ritorno. — Così avendo detto, si mosse in gran fretta per andar dal leone; anzi, venutogli nel cospetto, disse: O signore, noi siamo andati attorno per tutta la selva, ma non abbiam potuto accostarci ad alcuna belva. Ora, che faremo noi che per la fame non possiam nemmeno muovere un piede? Intanto, nostro signore si deve pur pascere di ciò che più gli si confà. Se però egli dà il suo assenso, ecco che oggi si può far passabile provvigione con la carne di Cratanaca. — Ma il leone com’ebbe udita quella parola crudele, rispose con ira: Oibò, oibò! vile mariuolo! se tu dici ancora ciò, io ti ammazzo nel momento. Poichè gli ho dato il salvacondotto, come mai io stesso potrei mandarlo a morte? Perchè è stato detto:
Tanto ha merto quaggiù quanto fra gli altri
Doni l’ha quello che ti dà franchigia.
Quanto ad un salvar la vita
Che sia preso da timore.
Ciò udendo, lo sciacallo disse: O signore, se, dopo datogli il salvacondotto, si fa ammazzare, la colpa è tua; ma se invece egli per devozione verso il re dà la vita, allora non c’è colpa. Perciò, se egli stesso si dà da uccidere, devesi uccidere, ovvero si deve ammazzare alcuno di noi, perchè nostro signore che si suol pascere di ciò che più gli si confà, per la fame verrà presto ad uno stato di debolezza estrema. Ora, che si fa di questa nostra vita se non va spesa per la salute del re? Se accadesse alcuna cosa spiacevole a nostro signore, noi tutti, uno dietro l’altro, ci getteremmo nel fuoco. Perchè è stato detto:
Morto lui ch’è il sostegno della casa,
Gli è come quando le ruote del carro,
Rottosi il mozzo, non posson girare. —
Avendo udito ciò, Madotcata disse: Se così è, fa tu quello che ti pare. — Com’ebbe inteso, lo sciacallo; venendo in gran fretta, cosi parlò alle belve: oh! oh! trista condizione di nostro signore! Egli è omai con l’anima alla gola. Perciò a che questo andare attorno? Senza di lui, chi ci difenderà in questa selva? Ma noi intanto, suvvia! poichè egli afflitto dalla fame già si parte per l’altro mondo, facciamogli offerta della nostra persona perchè almeno possiam così sdebitarci di tante sue grazie sovrane. Perchè è stato detto:
Se al prence incoglie una sventura e inerte Si sta un servo a guardar lieti che aitante, |
Allora, in un momento, tutti quegli animali, venendo con occhi pieni di lagrime presso Madotcata, fattogli un inchino, si sedettero, e Madotcata, come li ebbe veduti, disse: Avete dunque trovato o veduto alcun animale? — Di mezzo ad essi, allora, il corvo prese a dire: O signore, noi siamo andati attorno da per tutto, ma non abbiam nè trovato nè veduto alcun animale. Oggi però nostro signore, mangiando di me, si sostenga in vita, in modo ch’egli n’abbia conforto. Intanto, io avrò raggiunta la via del cielo. Perchè è stato detto:
Non mangian cani mai.
A che adunque mangiarne
Se nutrimento alcuno non ne avrai?
Da te, intanto, è stata dimostrata la tua fedellà verso il tuo signore e ti sei sdebitato verso di lui del cibo che t’ha dato, e ti tocca omai l’augurio buono per questa e per l’altra vita. Ma fatti da una parte perchè io pure dia un consiglio al signore mio! — Fatto ciò, lo sciacallo, inchinandosi con gran rispetto, disse: O signore, oggi, sostentando la tua vita col corpo mio, fammi toccar grado in questa e nell’altra vita. Perchè è stato detto:
Avendo udito ciò, il leopardo disse: Oh! tu hai parlato egregiamente. Tuttavia anche tu sei di piccolo corpo e della stessa specie del leone, e perchè hai come lui gli unghioni, non puoi essere mangiato da lui, perchè è stato detto:
Intanto, tu hai mostrato la tua nobiltà; però anche qui si dice a proposito:
Perciò fatti da una parte perchè io possa propiziarmi il mio signore! — Fatto ciò, il leopardo inchinandosi così parlò a Madotcata: O signore, si sostenga oggi la tua vita con la vita mia; mi si dia imperitura sede in paradiso e spandasi la mia fama gloriosa per la faccia della terra. A questo punto noti c’è da dubitare, perchè è stato detto:
Com’ebbe detto ciò, ecco che ad un cenno del leone sbranatogli il ventre dal leopardo e dallo sciacallo e cavati gli occhi dal corvo, Cratanaca finì la vita e fu divorato da tutti quei birbaccioni astuti. Perciò io dico:
Fatto questo breve racconto, Sangivaca così riprese a dire a Damanaca: Intanto, amico mio, io ho riconosciuto che questo re ha una corte di birbanti e che perciò non può esser servito da gente per bene. Perchè è stato detto:
Egli è qual cigno che va via via
Di nibbi in compagnia.
E poi:
Ma da quel prence d’uopo è fuggir via
Ch’è quale un cigno e nibbi ha per ministri.
Certamente egli è stato messo in ira contro di me da qualche maligno, però egli parla così. Così è appunto. Perchè è stato detto:
Che volentieri le calunnie ascoltano,
Le menti fatue soglionsi commovere!
Uccide l’uom ch’egli coi denti tocca.
Oh! quanto più crudel, quanto più duro
È il costume dell’uom! Tocca costui
In un orecchio alcun138, d’un altro intanto
Viene apprestando la rovina estrema.
E poi:
Poichè le cose vanno così, che s’ha da fare? Io ne domando a te che mi sei amico. — Damanaca disse: A te starebbe bene l’andare in altro paese per non restar così ai servizi di siffatto re dappoco. Perchè è stato detto:
Perciò, tranne l’azzuffarmi con lui, non v’è altro buon partito. Perchè è stato detto:
Difficili a ottener, concessi ai forti.
Saggi preti onorando, e con offerte
Molte di sacrificio acconciamente,
Amicamente, a’ sacri liti andando,
Abitando nell’eremo e bruciando
Primizie sugli altari, anche de’ mesi
Compiendo i voti143 ed altri opere pie,
Quel premio, in un momento da’ gagliardi
S’ottien che cadean morti combattendo. —
Avendo udito tutto questo, Damanaca pensò: Questo furfante è deliberato a far battaglia; ma ove egli, co’ suoi corni aguzzi, ferisca nostro signore, ne nascerà un gran malanno. Io perciò con accorgimento lo ridurrò a tale ch’egli vada in altro paese. — E disse: Amico, tu hai parlato giustamente. Ma che è mai una battaglia tra signore e servitore? Perchè è stato detto:
E ancora:
Sangivaca disse: Come ciò? — Damanaca incominciò a raccontare:
Racconto. — In una terra vicina al mare abitava già una coppia di picchi. Con l’andar del tempo, la femmina, venuta al suo tempo opportuno, concepì. Come poi venne al momento di deporre le ova, essa disse al maschio: Caro mio, omai è tempo che io deponga le ova. Si pensi adunque a qualche luogo sicuro, laddove io possa deporle. — Il picchio disse: O cara, è dilettoso questo luogo vicino al mare. Qui adunque le deponi. — E quella disse: Nei giorni della luna piena, il flusso del mare giunge fin qui. Esso strascina con sè anche gli elefanti più furiosi. Cerchisi perciò altrove e lontano un altro luogo. — Ciò udendo, il picchio disse udendo: O cara, tu non hai detto bene. Qual potere ha il mare perchè egli possa recar danno alla mia prole? Non hai tu udito cotesto?
D’amore il capo madido d’umori144,
Qual uom destar vorrìa, se non chi brama
Del re dei morti di veder la chiostra?
Però tu, senza alcun timore, fa di deporre le ova. Perchè è stato detto:
Dai saggi è detta sterile la madre, Ben che feconda, quando il figlio suo, |
E poi:
Vive pur anco, punto non vivendo145,
E chi lo partorì viene affliggendo! —
Mentre il picchio così parlava, la femmina, che conosceva il vero, parlando secondo capacità, diceva: Oh! cotesto è molto giusto, cioè:
Il picchio disse: Che se ne fa, del mare? — Il Mare, come udì cotesto, pensò: Vedi superbia di questo verme di uccello! Intanto, si dice a proposito:
Che caschi il cielo sovra lui. Oh! dove,
Dove nel mondo orgoglio non si vede
Nato di sè da troppo alto concetto?147
Ora io per curiosità voglio vedere il valore di costui. Che potrà farmi egli se gli porto via le ova? — Così avendo pensato, stette ad aspettare. Allora, come ebbe deposto le ova, essendo andata la femmina del picchio a cercarsi da mangiare, il mare, approfittando del riflusso, se le portò via. Quando la femmina tornò, vedendo vuoto il luogo dove aveva deposto le ova, piangendo disse al picchio: Oh sciocco! t’era pur già stato detto prima da me che le ova sarebbero andate disperse nel riflusso del mare e che dovevamo andar più lontano! Ma tu, nella tua sciocchezza, per desiderio di far tutto per te, non hai seguito il mio consiglio. Eppure, si suol dire a proposito:
Della sciocca testuggine si perde
Quando dal legno suo si fa divisa. —
Il picchio disse: Come ciò? — E la femmina disse:
Racconto. — Abitava in mio stagno d’acque una testuggine di nome Cambugriva. Erano suoi amici due cigni di nome Sancata e Vicata che, avendo concepito grandissima affezione per lei, continuamente, venendo alla riva dello stagno, stavano con lei a raccontare certe storie di re, di sacerdoti e di sapienti, e poi, al tramonto del sole, se ne ritornavano al loro nido. Ma poi, con l’andar del tempo, quello stagno, per mancanza di pioggia, a poco a poco venne a seccare. Però i due cigni, afflitti di quel tristo caso, dissero alla testuggine: Amica, tutto questo stagno omai è diventato un pantano. Che dunque sarà di te? Noi intanto siam costernati d’animo. — Ciò udendo, la testuggine disse: Oh! noi non possiam più vivere per il manco dell’acqua! Si pensi intanto a qualche espediente! Perchè è stato detto:
Chi ha fermo cor pur giunge. In mar, se infrantoHa il timone il nocchiero, osa pur sempre
Con quel suo legno valicar quel mare.
Perciò si procacci da voi alcuna corda molto forte o un bastone leggero o altro, e si cerchi intanto uno stagno d’acque abbondanti, perchè voi, mentre io mi sarò attaccata a quel bastone leggero coi denti, sollevandomi dall’una e dall’altra estremità, mi portiate a quella palude. — I due cigni dissero: Amica, noi faremo così; soltanto tu devi far voto di non parlare; se no, tu cadrai dal bastone e andrai in pezzi. La testuggine disse: Davvero! che da oggi in poi, finchè andando per l’aria non si raggiunga quello stagno, io terrò il voto del silenzio! In sèguito di ciò, la testuggine, mentre andava per aria, vide giù abbasso una città, mentre gli abitanti, vedendola menata così per l’aria, con meraviglia dicevano: Oh! qualche cosa di simile ad una ruota è portata via da due uccelli! Mirate, mirate! — E la testuggine, udendo quelle grida, rispose: E che è cotesto gridare? — , ma, perchè volle parlare, in mezzo alle parole cadde dall’alto e fu fatta a pezzi dai cittadini. Perciò io dico:
Della sciocca testuggine si perde
Quando dal legno suo si fu divisa. —
La femmina soggiunse:
Il picchio disse: Come ciò? — E quella cominciò a raccontare:
Racconto. — In uno stagno d’acque abitavano già tre pesci, il Previdente, l’Opportunista e il Fatalista. Un giorno, certi pescatori che di là passavano, dissero: Questo stagno abbonda di pesci, nè è stato mai frugato da noi. Intanto, ecco che per oggi ci siam procacciato il desinare. Se non chè è l’ora del tramonto; però domani per tempo s’ha da venir qui. Tale il nostro pensiero. — Il Previdente allora che aveva udito quel loro discorso, simile per lui al cadere d’una folgore, chiamando a raccolta tutti i pesci, disse: Oh! avete udito voi ciò che han detto i pescatori? Andiamo, suvvia! questa notte a qualche altro stagno vicino. Perchè è stato detto:
Da nemico possente fugga via Il debole, e si chiuda in un castello |
I pescatori, venendo qui all’ora dello spuntar del giorno, certamente faran man bassa su tutti i pesci. Questo ho io in mente, e però non conviene che da noi si resti qui soltanto un’ora. Perchè è stato detto:
Non vedono la patria devastata.
Di lor stirpe non vedono la morte. —
Avendo udito ciò, l’Opportunista disse: Oh! tu hai detto il vero! Anch’io voglio far cotesto. Perciò, vadasi altrove. Perchè è stato detto:
Per timore d’andarne in altre parti,
Trovan la morte al lor nativo loco.
E ancora:
Ma il Fatalista, come ebbe inteso tutti quei discorsi, con una gran risata disse: Oh! voi non vi siete ben consigliati! Perchè, come mai ci conviene abbandonare, soltanto per alcune parole di quei pescatori, lo stagno che già fu dei padri e degli avi nostri? Se per noi è giunto il termine della vita, la morte c’incoglierà anche andando altrove. Perchè è stato detto:
Perciò, io non verrò. Voi intanto fate ciò che vi pare. — Avendo così risaputo il divisamento di colui, il Previdente e l’Opportunista uscirono con tutta la loro famiglia. Alla mattina, intanto, i pescatori, frugando con loro reti, disertarono di pesci lutto quello stagno, presovi dentro il Fatalista. Perciò io dico:
Avendo udito tutto questo, il picchio disse: Cara mia, poichè tu mi stimi un fatalista, vedrai ciò che posso fare, perchè io col becco mio farò seccare questo furfante di mare. — La femmina del picchio disse: Oimè! a che una guerra col mare? Tu non puoi far guerra con lui. Perchè è stato detto:
Il presuntuoso che del suo nemico Non conosce il poter, dirittamenteA morte corre come la farfalla |
Il picchio disse: Cara mia, non dir così. Quelli che hanno virtù di potere anche se piccoli, superano i grandi. Perchè è stato detto:
Come oggi ancor contro la luna piena
Dritto sen va Rahù149 di tutta lena.
E poi:
E poi:
E poi:
Però io con questo mio becco farò seccare tutta l’acqua di lui. — La femmina disse: Caro mio, mentre il Gange, raccogliendo novecento fiumi, continuamente va scorrendo, e così fa l’Indo, come mai col tuo becco che non può contenere che una stilla d’acqua, asciugherai il mare che si riempie di ottocento correnti? A che questo tuo parlare, a cui non si può dar fede? — Il picchio disse: Cara mia.
Dal becco mio di ferro, oh! come mai,
I lunghi dì e le notti lavorando,
Non sarà questo mar tutto seccato?
La femmina disse: Se di necessità tu hai da far guerra col mare, ti ci metti almeno accompagnato dai tuoi amici, chiamando a raccolta gli altri uccelli. Perchè è stato detto:
E poi:
Il picchio disse: Come ciò? — E quella disse:
Racconto. — Abitava già in una selva una coppia di passeri che aveva fatto il suo nido sopra un albero di tamala151. Con l’andar del tempo era venuta loro speranza di prole, quando, un giorno, un elefante selvatico e furioso, tormentato dal caldo, se ne venne, per goder dell’ombra, sotto quell’albero di tamala, anzi, per il soverchio del furore, traendo a sè con l’estremità della proboscide quel ramo dell’albero su cui stavano i passeri, lo spezzò, per la qual rottura tutte andaron disperse le ova della passera; soltanto, perchè era destino che dovessero vivere ancora, il passero e la passera non vi perdettero la vita. Ma la passera, che aveva patito la rottura delle sue ova, intanto, pur facendone gran lamenti, non poteva consolarsene. Allora un uccello, di nome il picchio, che ne ebbe uditi i pianti, essendo molto amico di lei, afflitto di quel suo dolore, accostandosele le disse: O signora, a che questo inutile lamentare? Perchè è stato detto:
Però si estima che in cotesto appunto
Dai saggi son gli stolti differenti.
E poi:
Ei da un malanno altro malanno pigliasi,
Egli a goder di due fastidi acconciasi.
E ancora:
Ove per esso non si deve piangere,
Opre, giusta il poter, pietose facciansi. —
La passera rispose: Cotesto è pur vero, ma intanto da quel malvagio di elefante, preso da furore, è stata distrutta tutta la mia figliuolanza! Che se tu mi sei veramente amico, pensa tu alcun modo per dar morte a quello scellerato, perchè almeno, fatto ciò, possa cancellarsi questo mio dolore della perdita della prole. Perchè è stato detto:
Il picchio disse: Tu hai detto il vero, perchè è stato detto:
Ciascun, quando propizia è la ventura,
Dicesi amico a ogni mortal vivente.
E poi:
Servo è quei che conosce il suo dovere;
Sposo è colui che appaga la mogliere.
Vedi tu intanto la potenza dell’ingegno mio! Io ho per amica una mosca che si chiama Vinarava. Chiamando costei con me, andrò e farò in modo che quel malvagio e scellerato di elefante resti ucciso. — Egli adunque, recatosi dalla mosca insieme alla passera, disse: Amica, questa passera amica mia è stata offesa da un malvagio di elefante col farle rompere le ova. Intanto, tu devi darmi aiuto mentre io cerco il modo di ammazzarlo. — La mosca disse: Caro mio, e che si dice mai a questo proposito? perchè è stato detto:
Questo è pur vero. Ma io ho per mia grande amica una rana di nome Meganada. Come avrem chiamata anche lei, faremo ciò che s’ha da fare. Perchè è stato detto:
Così questi tre, andando presso di Meganada, le raccontarono tutto quanto l’accaduto, e quella disse: Oh! che può mai un miserabile elefante contro una gran schiera di gente indignata? Seguasi intanto questo mio consiglio! Tu, mosca, nell’ora del mezzogiorno entrando in un orecchio all’elefante infuriato, farai come un suono di liuto, per il quale egli starà con gli occhi chiusi per desiderio d’ascoltar quel dolce suono. Allora egli, come gli saran stati cavati gli occhi dal becco del picchio, fatto cieco e tormentato dalla sete, quando udrà la voce mia e delle mie compagne che sarem sull’orlo d’un burrone senza fondo, pensandosi che là sia uno stagno d’acqua, ci verrà dietro. Accostandosi al burrone, vi cadrà e morrà. Così deve farsi in società perchè il nemico resti disfatto. — Essendo pertanto ordinata ogni cosa in questa maniera, il furioso elefante, come ebbe socchiuso gli occhi per il piacere del ronzio della mosca, e gli ebbe poi perduti per il becco del picchio, nell’ora del mezzogiorno errando qua e là tormentato dalla sete, poichè si fu messo a camminare seguitando la voce della rana, accostatosi a un gran burrone, vi precipitò e morì. Perciò io dico:
Il picchio disse: O cara, sia adunque così! Io con tutta una turba di amici farò seccare il mare. — Così avendo deliberato, radunando intorno a sè anitre, gru, cigni, pavoni e altri uccelli, disse: Oimè! ch’io son stato ingiuriato dal mare col portarmi via le mie ova! Perciò si cerchi modo di farlo asciugare! — Ma gli uccelli tutti, preso consiglio, risposero: Noi non possiamo far asciugare il mare! Perchè è stato detto:
Ma nostra signora è l’aquila Garuda152. Però le si faccia conoscere il nostro misero stato, perchè, crucciata per la distretta de’ suoi consanguinei, si sdebiti col nemico; ovvero, se per sentimento della propria dignità non si prenderà cura di noi, non sarà male in ciò, perchè è stato detto:
Vadasi adunque da Garuda che è la nostra signora. — Fatto ciò, tutti quegli uccelli, con volti turbati, con occhi pieni di lagrime, con voci piagnolose, accostatisi a Garuda, incominciarono questo lamento: Oh delitto! oh delitto! Ecco che, pure essendo tu la nostra signora, il mare si ha portato via le ova di questo buon picchio! Intanto, ecco rovinata tutta la famiglia degli uccelli, perchè altri ancora, ad arbitrio, saranno uccisi dal mare. Perchè è stato detto:
E poi:
Che il buono stato e la famiglia, ancora
Dell’oppressor la vita ha consumato.
Rendono al tempo debito
I frutti lor con cura custodite,
Così lor frutti rendono
Le genti ben guardate e ben nutrite.
L’aquila Garuda allora, avendo udito tutto ciò, afflitta per la sventura del picchio e presa dall’ira, pensò: Oh! questi uccelli hanno detto il vero! Perciò noi oggi andremo e farem seccare il mare. — Intanto ch’essa così pensava, sopraggiunse un messo di Vistiti e disse: O divino augello, io son stato mandato presso di te dal beato Narayana154, il quale, per faccende degli Dei, devo oggi andare alla città di Amaravati155. Però tu vieni tosto. — L’aquila Garuda, come ebbe inteso, rispose al messo con alterigia: O messaggiero, e che vuol farsi il beato Vistiti d’un miserabile servo come me? Ma tu ritorna e digli che si procacci in luogo mio un altro servitore per trasportarlo. Fàgli intanto il mio saluto. Perchè è stato detto:
Non serve il sapiente a quei che ignora Le sue virtù, nè frutto alcun produceSterile campo, bene arato ancora. — |
Il messaggiero disse: O Garuda, nulla di simile è mai stato detto da te contro il beato Visnù! Però dimmi quale ingiuria egli l’ha fatto. — Garuda disse: Il mare per la protezione che ha del beato Visnù, ha portato via le ova del nostro servitore il picchio. Perciò, se egli non punisce il mare, io non sarò mai più il suo servitore. Tale è il mio divisamento, e tu devi manifestarlo a lui. Vanne adunque tosto presso il beato Visnù. — E Visnù allora, come intese dalla bocca del messo che Garuda era adirata per amor proprio offeso, pensò: È giusta l’ira di Garuda! Ma io andrò da lei e con ammonimenti e con segni d’onore la menerò con me. Perchè è stato detto:
Mai non offenderà;
Anzi mai sempre, come il figlio suo,
Con sè il tenendo l’accarezzerà.
E ancora:
Così adunque avendo pensato, se ne venne in gran fretta presso di Garuda in Rucmapura156, e Garuda, come vide il beato Visnù entrar nella sua casa, col volto dimesso per la vergogna e inchinandosi, disse: Vedi, o beato, che il mare, inorgoglito della tua protezione, mi ha fatto ingiuria portando via le ova di un mio servitore. Io mi son trattenuta per il rispetto del beato mio signore; se no, io oggi stesso l’avrei ridotto a terra secca. Perchè è stato detto:
Il beato Visnù, come ebbe udito, disse: O Garuda, tu hai detto il vero. Perchè è stato detto:
Punir per alcun fallo un servitore Al signor s’appartien, chè la vergognaNon è del servo, ma del suo signore. |
Però tu va perchè, togliendo le ova al mare, le rendiamo al picchio per recarci poi ad Amaravati. — Essendo seguito cotesto, il beato Visnù, come ebbe minacciato il mare ponendo una saetta infuocata sull’arco, gli disse: Rendansi, o malvagio, le ova del picchio, se no, io ti ridurrò a terra secca. — Allora, dal mare intimorito furon date indietro quelle ova che poi il picchio portò alla femmina sua. Perciò io dico:
Perciò, l’uomo non deve mai perdersi di coraggio. — Avendo udito ciò, Sangivaca continuò a domandare: Amico, come mai si può conoscere che colui è crucciato con me? Io son pur stato veduto da lui per tutto questo tempo con favore e con affetto sempre crescente, nè mi son mai avveduto d’alcun mutamento in lui. Ma pure, cerchisi modo perchè io per la salvezza mia, possa ammazzarlo. — Damanaca disse: Amico, che c’è qui da conoscere? Questi sono i segni. Se egli stara a guardarti con occhi rossi, aggrottando le ciglia in modo che le rughe gli faccian triangolo sulla fronte, leccandosi le basette, allora sarà segno ch’egli è crucciato con te. Ma, se egli ti guarda in altra maniera, allora tu hai ancora il suo favore. Tu intanto fammi sapere tutto cotesto, io torno a casa. Tu pensa a non tradire il segreto. Però, se al cader della notte tu potrai andare, lascia questo paese. Perchè è stato detto:
Guardi alcun le sue ricchezze Per riparo alla sventura;Le ricchezze adoperando, |
Chi è oppresso da un potente, o deve lasciare il suo paese o deve sottomettersi. Tale è la regola. Però tu devi lasciar questo paese o salvarti adoperando i diversi modi a ciò. Perchè è stato detto:
Il savio anche perdendo moglie e figli Sua vita salvi, chè d’umani corpi,Salva la vita, ei può aver copia ancora157. |
E poi:
Così avendo parlato, Damanaca se ne venne da Carataca, e Carataca, come l’ebbe veduto, gli domandò: Andando là, che hai tu fatto, amico. — Damanaca disse: Da me è stato gettato il seme della sapienza. Il resto dipende da ciò che dispone il destino. Perchè è stato detto:
Carataca disse: Dimmi adunque qual seme di sapienza hai tu gettato! — E l’altro disse: Io, con le mie parole, ho posto tal divisione fra que’ due che tu non li vedrai mai più starsi a consiglio insieme in un medesimo luogo. — Carataca disse: Oh! tu non hai fatto bene sospingendo in un mare di corrucci questi due che erano felici e avevano il cuore tocco da scambievole affetto. Perchè è stato detto:
Misero è fin dal principiar degli anni
Del viver suo, nè in ciò dubbio si dura.
Con questo, che tu ti compiaccia dell’aver divisi così due amici, nemmeno ciò ti sta bene, perchè chiunque è buono a fare il male, ma non a fare il bene. Perchè è stato detto:
Damanaca disse: Oh! poichè tu parli così, tu non sai le regole della sapienza, perchè è stato detto:
Se l’uno o l’altro crescere potrà,
Ben che valente, morto ne sarà.
Ora, egli è nostro nemico da che ci è stato tolto il nostro grado di ministro, intanto, è stato detto:
Nemico natural da toglier via,
Anche se teco ei s’è mostrato amico.
Con ciò, mentre in tutta fiducia l’ho tratto qui con un salvacondotto, io poi sono stato rimosso per colpa sua dal mio ufficio di ministro. Perchè giustamente si suol dire:
Ora, io perciò appunto ho ordito contro di lui tal disegno, che o lascierà questo paese o avrà la morte. Di questo, nessun altro fuor di te ha conoscenza. Intanto, io ho ordinato tutto ciò per mio bene. Perchè è stato detto:
Fe’ Ciaturaca un dì, non mangia il savio,
Egli ha perduto il ben dell’intelletto.
Carataca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — C’era una volta in una selva un leone di nome Vagiradanstra. Abitavano con lui in quella medesima selva, essendo suoi servitori che andavano sempre con lui, uno sciacallo e un lupo, uno di nome Ciaturaca, l’altro Craviamuca. Un giorno, in un recesso della selva, il leone uccise una cammella che, vicina al parto, appunto per la doglia del partorire, là si era accovacciata, dilungatasi dalla sua carovana. Così avendola uccisa, nel momento ch’egli ne apriva il ventre, ecco uscirne vivo e baldo un piccolo cammello. Il leone, che ornai s’era saziato con le carni della cantinella, menato a casa con amore quel piccolo cammello derelitto, gli disse: O caro, tu non hai da temere nè da me nè da alcun altro; perciò vanne tu ora a diporto, come più ti piace, per questa selva insieme a Ciaturaca e a Craviamuca. Intanto, poichè tu hai gli orecchi simili a pali aguzzi, il nome tuo sarà l’Orecchiaguzzi. — Dopo cotesto, tutti e quattro, abitando in un solo luogo, godendosi a vicenda e in maniere diverse della felicità dello stare insieme, là si restarono, intanto che l’Orecchiaguzzi, giunto all’età giovanile, non abbandonava mai il leone. Ma poi, un giorno, Vagiradanstra ebbe battaglia con un furioso elefante, dal quale egli, nell’impeto del furore, fu ferito di tal maniera per tutto il corpo con colpi di zanne, che, soltanto per voler del destino, non ne restò ucciso. Allora, perchè, rotto il corpo da quei colpi, non poteva muoversi, tormentato nella strozza dalla fame, così parlò a que’ suoi servitori: Cerchisi alcun animale, col quale io, come l’abbia ucciso benchè in questo stato, possa scacciar la mia e la vostra fame. — Inteso ciò, tutti e tre andarono qua e là per la selva fino all’ora del tramonto, ma non incontrarono alcun animale. Ciaturaca allora pensò: Se quest’Orecchiaguzzi si ammazzasse, noi tutti potremmo satollarci per alcuni giorni. Ma nostro signore, e per l’amicizia e per avere egli ricorso alla sua protezione, non l’ammazzerà. Io però con tale accortezza ammonirò nostro signore ch’io farò in modo ch’egli l’ucciderà. Perchè è stato detto:
Nulla è quaggiù che de’ savi la mente Far non possa, o disfare, o conseguire;Ciascun però l’adopri acconciamente. — |
Così avendo pensato, disse all’Orecchiaguzzi: O l’Orecchiaguzzi, poichè nostro signore, privo del necessario, è crucciato dalla fame, egli e noi tutti indubbiamente dovrem morire. Ma io voglio dire una parola in vantaggio di nostro signore. Ascolta adunque. — L’Orecchiaguzzi disse: Dilla subito, amico, perchè io senz’alcun dubbio l’eseguirò. Fatto il bene di nostro signore, sarà per me come se io avessi fatto cento opere buone, Ciaturaca disse: Offrigli, amico, la tua persona per riaverla poi due volte, sì che tu abbi una doppia persona e nostro signore abbia modo di sostentar la sua. — Udendo ciò, l’Orecchiaguzzi disse: Se così è, dicasi pur questo per mio vantaggio e facciasi intanto il desiderio di nostro signore, ma si cerchi, a tal fine, il testimonio della Giustizia divina. — Così avendo deliberato, tutti e tre se n’andarono dal leone. Ciaturaca allora disse: O signore, oggi non abbiamo incontrato alcun animale. Intanto, il divino sole è disceso al tramonto. Però, se nostro signore gli offre doppia persona, l’Orecchiaguzzi, per tale doppio accrescimento, gli offre la sua persona, pur col testimonio della Giustizia divina158. — Il leone disse: Se così è, così sta molto bene; a tal fine, facciasi in testimonio la Giustizia divina. — Come il leone ebbe dello queste parole, l’Orecchiaguzzi ebbe squarciato il ventre dal lupo e dallo sciacallo e fu ucciso, Vagiradanstra allora disse a Ciaturaca: O Ciaturaca, finchè io non ritorni dopo essere andato al fiume e dopo aver fatto l’abluzione di rito e adorato gli Dei, tu resta qui con attenzione. — Così avendo detto, entrò nel fiume. Andato via il leone, Ciaturaca pensò: In qual modo potrei io mangiarmi da solo questo cammello? — Così avendo pensato, disse a Craviamuca: O Craviamuca, tu hai fame; perciò, finchè nostro signore non torni, tu mangi della carne del cammello. Io poi, nel cospetto di nostro signore, ti discolperò. — Così, intanto che Craviamuca, avendo udito ciò, potè mangiarsi un cotal poco di carne, Ciaturaca si mise a gridare! Oh! oh! Craviamuca, nostro signore ritorna! Cascia il cammello e va lontano, ch’egli non sospetti che tu n’hai mangiato! — Dopo questo, il leone ritornò. Stando egli ad osservare il cammello, ecco che il cammello aveva strappato il cuore. Perciò, aggrottando le ciglia, disse con fiero cipiglio: Ohè! chi dunque ha fatto di questo cammello un avanzo qualunque? Suvvia! ch’io l’ammazzi perciò! — Intanto ch’egli così parlava, Craviamuca guardava in faccia a Ciaturaca come per dire: Suvvia! di’ qualche cosa perch’io sia salvo! — Ma Ciaturaca ridendo disse: Oh! dunque tu che sotto i miei occhi hai divorato il cuore del cammello, ora mi stai guardando in viso? Cogli ora il frutto d’una trista pianta! — Udendo ciò, Craviamuca, per timor della vita, fuggi lontano e il leone restò sul luogo. Intanto, per voler del destino, venne a passare per quella via una gran carovana di cammelli carica di merci. Al collo del cammello che era a capo della carovana, era legata una grossa campana, della quale udendo il suono fin da lontano, il leone disse a Ciaturaca: Si cerchi, o caro, che sia questo terribile suono che ora si ode e non si è mai udito innanzi. — Inteso ciò, Ciaturaca, come fu andato alcun poco per la selva, ritornando da lui subitamente, gli disse tutto conturbato: O signore, si parta, si parta, se pure tu vuoi partire! — E il leone disse: A che, amico, mi fai paura? Parla! che è mai cotesto? — Ciaturaca disse: O signore, il Re della giustizia è crucciato con te e dice: «Da colui che pur mi chiamò in testimonio, mi è stato ucciso inopportunamente il mio cammellino. Perciò io mille volte mi ripiglierò da lui il mio cammello». Così avendo divisato, egli facendo gran conto del suo cammello, legata al collo del cammello che è capo della carovana, una campana, raccolta una turba di cammelli, padri e nonni, crucciati dell’uccisione del cammellino, è venuto qui per punire il suo nemico. — Il leone allora, quand’ebbe veduto tutto ciò da lontano, abbandonato il cammello morto, per timor della vita fuggì lontano, e Ciaturaca adagio adagio si mangiò la carne del cammello. Perciò io dico:
Fe’ Ciaturaca un dì, non mangia il savio,
Egli ha perduto il ben dell’intelletto. —
Partito così Damanaca, Sangivaca incominciò a pensare: Oimè che ho fatto io, per cui s’è potuto fare amicizia tra un erbivoro e un carnivoro! Perchè anche questo si dice bene a proposito:
Come la mula che divenne gravida,
Di morir presto è reso suscettibile.
Che fo io intanto? Dove vado? Come potrò star tranquillo? Tornerò io ancora presso di Pingalaca? Forse egli mi salverà, avendo ricorso alla sua proiezione, nè mi ucciderà. Perchè è stato detto:
Per rimediarvi da chi è saggio ed abile
Espedïente adoprisi valevole,
Giacchè per tutto il mondo è reso celebre
Questo proverbio: «A chi col luoco scottasi
Molto giova le fiamme d’olio aspergere159,
Anche se il fuoco allor più forte levasi».
E poi:
Dell’opre il frutto, quale, o lieto o tristo,
All’uom procaccia il suo stesso costume.
Ciò ch’essere dovea, così s’avvera,
Nè luogo è dato a dubitar di tanto.
E poi, s’io vado altrove, ecco ch’io avrò la morte da qualche cattiva bestia carnivora. Meglio dunque averla dal leone. Perchè è stato detto:
Così avendo divisato, egli adagio adagio, andando a balzelloni, venuto presso la dimora del leone, intanto che guardava, andava mormorando fra sè: Oh! anche questo è stato detto a proposito:
Qual stagno ombrato di loti fiorenti,
Tutto infestato dagli alligatori,
Entrano con terror timide genti,
Sì come il mar, la casa de’ signori
Che piena è tutta d’uomini codardi,
Di vili d’ogni risma e bugiardi. —
Mentre così andava mormorando, avendo veduto Pingalaca in quell’aspetto che Damanaca gli aveva detto, egli, insospettito, raggruppatosi del corpo, senza inchinarglisi, si pose giù in un luogo alquanto discosto. Pingalaca allora, come vide ciò, credendo alle parole di Damanaca, con ira gli saltò addosso. Ma Sangivaca, lacerato alla schiena dalle dure unghie di Pingalaca, come l’ebbe ferito al ventre con le corna, potè discostarsene alcun poco; e poi, desideroso di ferirlo con le corna, si avanzò per far battaglia. Vedendo allora quei due che, desiderosi di ammazzarsi l’un l’altro, parevano, per il molto sangue, due alberi fioriti di palasa162, Carataca, con accento di rimprovero, così disse a Damanca: O stolto, poichè tu hai gettato la discordia fra questi due, tu non hai fatto bene! Tutta questa selva ora per te se n’andrà in iscompiglio. Però tu non sai la regola vera del costume, perchè da quelli che la sanno, così appunto è stato detto:
Cose difficili
Che aspri, gravissimi
Castighi adducono,
Nè senza incomodo
Curar si possono,
Ma sì v’attendono
Con fare affabile,
Amico e docile,
Quei son ministri che han da stare in corte.
Che poco fruttano
E nulla valgono,
Con sforzi ed impeti
Che pena mertano,
Essi, adoprandosi
In riprovevole
Guisa, d’un principe
In gran periglio adducono la sorte.
Intanto, se nostro signore sarà ucciso, che si fa di questa tua sapienza da ministro? Se poi Sangivaca non resta ucciso, anche questo è un male, perchè, oltre il periodo della vita di nostro signore, c’è la rovina di tutti noi163. A che dunque, o sciocco, desideri tu l’ufficio di ministro? Tu non sai guidar le faccende in via d’amicizia, perciò è inconsulta questa tua voglia che ti fa scegliere gli espedienti della violenza. Perchè è stato detto:
Ultima vïolenza è collocata.
Di tutto vïolenza è la peggiore,
Vuolsi però che sempre sia evitata.
E poi:
E poi:
E poi:
Non è poi degna cosa che tu desideri l’ufficio di ministro, perchè tu non sai quali vie si debbano seguire dai ministri. Ora, l’ufficio di ministro è di cinque maniere, cioè comprende i mezzi per intraprendere gli affati, l’abilità nel trattar uomini e cose, l’arte di conoscere i tempi e i luoghi, il modo di ovviare ai possibili danni, la buona riuscita negli affari. In questi casi c’è consuetamente pericolo di rovina per il principe o per il consigliere, ovvero di tutt’e due insieme. Perciò, se ancora è possibile, si pensi qualche modo per impedire il danno minacciato. Nell’aggiustar cose difficili, si fa conoscere appunto il senno dei ministri. Ma tu, o sciocco, non sai far nulla di ciò, perchè il tuo senno se n’è ito via. Ora, è stato detto:
E poi:
Ora, se tu diventerai suo ministro, nessuna persona onesta vorrà starsi con lui. Perchè è stato detto:
A lui le genti non ricorron più,
Che ha dolci l’acque, ma nido si fea
Com’a un lago tranquillo non si va
D’alligatori di natura rea.
Nostro signore intanto, abbandonato da ogni persona onesta, presto sarà perduto. Perchè è stato detto:
Varie piacenti, e un arco non san tendere,
Fan tripudio i nemici e sono in giubilo.
Ma a che cercar d’istruirti, sciocco come sei? Sarebbe tutta una pazzia, non un’opera utile. Perchè è stato detto:
Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — Era già in un paese montuoso una brigata di scimie. Una volta, nella stagione dell’inverno, esse, col corpo che tremava tocco da un vento impetuoso, vessate da una pioggia fredda, noiate dallo stillar di nuvole piovose, non potevano aver pace in alcun modo. Ma poi, alcune fra loro, avendo raccolto certi frutti di gungia166 che luccicavano come scintille di fuoco, nel loro desiderio d’averne, si posero tutte intorno a soffiarvi sopra. Allora, un uccello di nome Sucimuca, vedendo quel loro inutile affaticarsi, disse: Oh! sciocche tutte voi! Non son scintille di fuoco, ma si frutti di gungia. A che cotesto inutile affaccendarsi? Non ve ne verrà alcun riparo al freddo! Cerchisi piuttosto qualche luogo della selva dove non sia vento, o qualche spelonca, o qualche luogo riparato nel monte! Oggi si vedono in cielo troppe grosse nuvole! — Una vecchia scimia gli rispose: A che questo tuo sbracciarti, o sciocco? Sta zitto piuttosto! Perchè è stato detto:
Se stoltamente alcun rivolge un motto,
Veracemente egli è bell’e spacciato. —
Ma colui, non badando punto a ciò, senza restarsi mai andava dicendo alle scimie: Oh! perchè faticate voi inutilmente? — Perchè egli non cessava dal cicalare, una scimia adirata per l’inutile fatica, afferratolo per le ali, lo sbattè contro una rupe ed egli morì. Perciò io dico:
E poi:
E ancora:
Vedi! per colpa d’una scimia stolta,
Senza nido è rimasa
La passera che bella avea la casa! —
Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — C’era una volta in un paese selvoso una pianta di sami167, dove abitava una coppia di passeri selvatici che avevan fatto il loro nido, sospesolo al vertice della pianta. Un giorno, nell’ora ch’essi due si stavano là tanto bene, un nembo di nuvole d’inverno cominciò lungamente a piovere. Allora una scimia, noiata dal vento e dalla pioggia, col corpo fradicio, battendo i denti e tutta tremante, accostatasi alla radice di quella pianta, là si accoccolò. Vedendola starsi così, la femmina del passero gridò: O amico,
Udendo cotesto, la scimia le rispose con ira: Oh vil creatura! E perchè non fai tu silenzio? Oh impudenza di costei! Perchè ha una casa, si ride di me. Intanto,
Va cicalando e non teme di male.
Ucciderla perchè non dovre’ io? —
Ma a che tante parole? Mentre la passera, orgogliosa per la sua casa, così andava parlando alla scimia, la scimia, montata sull’albero, le mandò in cento pezzi il nido. Perciò io dico:
Vedi! per colpa d’una scimia stolta,
Senza nido è rimasa
La passera che bella avea la casa. —
Tu intanto, o sciocco, sebbene stato istruito dai maestri, non hai imparato nulla. Ma la colpa non è tua, perchè la dottrina serve soltanto a crescer pregio nei buoni, non negli stolti. Perchè è stato detto:
Tu perciò, avendo acquistato una sapienza falsa, non avendo dato ascolto alle mie parole, non sai nemmeno ciò che fa per te. Tu sei adunque un aborto. Perchè è stato detto:
O è nato in più, come quaggiù si dice
Dai saggi, od è un aborto veramente.
S’egli in virtù pareggia la sua madre,
Nato è soltanto, ma se ugual si mostra
Al padre, ha ugual valor; di più169, se nato
È in più. L’aborto è tra le cose ladre170.
Anche è stato detto: «Rama non conosce la gazzella dorata171». E poi:
Oh! anche questo si suol dire bene a proposito!
Fe’ il poco senno che nel fumo il padre
Dal proprio figlio a soffocar fu tratto. —
Damanca disse: Come ciò? — E l’altro disse:
Racconto. — Avvenne già che in un certo paese abitavano due amici, il Savio e il Matto. Un giorno, il Matto così pensò: Io, baggiano, son sempre qui oppresso dalla povertà. Prendendo adunque con me il Savio e andando in altro paese, quando avrò fatto un bel guadagno con l’aiuto di lui, poichè l’avrò truffato del suo, vivrò felice. — Però all’altro giorno così disse al Savio: O amico, quando sarai vecchio, quale opera bella li ricorderai di te? Non avendo veduto paese straniero, qual cosa racconterai ai tuoi figli e ai tuoi nipoti? Perchè è stato detto:
E poi:
Fin che di terra in terra per il mondo,
Volenteroso in core, ei non andrà. —
Il Savio, udendo quel discorso, con animo tutto lieto, salutato dai genitori e dai congiunti, in un giorno fausto, parti col Matto per un altro paese. Là, con l’aiuto del Savio, cacciandosi di qua e di là, dal Matto fu acquistata una gran ricchezza. Allora, i due amici che avevan fatto gran guadagno, con desiderio pensarono di ritornarsi a casa. Perchè è stato detto:
Di cento miglia alla distanza è pari
Quella donde il vociar d’alcun s’intese173.
Come si vide vicino al suo paese, il Matto così disse al Savio: Amico, non conviene che portiamo a casa tutto questo denaro, perchè ce ne domanderanno i famigliari e i parenti. Perciò, come l’avremo sotterrato qui in alcun luogo nascosto della selva, presone soltanto un poco, potremo entrare in casa nostra. Quando poi ce ne sarà bisogno, venendo qui, potrem levare il denaro dal luogo. Perchè è stato detto:
E poi:
Avendo udito ciò, il Savio disse: Ebbene, amico, si faccia così! — Fatto, i due, tornati alle loro case, vissero contenti e felici. Ma poi il Matto, andato di notte nella selva, quand’ebbe ripreso lutto il denaro e ricolmato la buca, ritornò a casa sua, e al mattino, portatosi dal Savio, gli disse: O sozio, noi abbiamo una famiglia numerosa e siamo in angustie per manco di denaro. Andando adunque a quel posto, togliamcene un poco. — E l’altro disse: Così si faccia, amico. — Ma, quand’ebbero scavato in quel posto, ecco che essi videro vuota l’olla dei denari, perchè subito il Matto, battendosi il capo, gridò: Da te, o Savio, e non da altri è stata portata via la nostra sostanza, tanto più che la fossa è stata ricolmata! Rendimi ora la metà dell’avere, o io ne renderò informata la famiglia reale. — L’altro disse: Oh! non dir così, o malvagio. Io son veramente savio, nè io faccio di questi ladronecci. Perchè è stato detto:
Come zolle di terra e gli altri tutti
Riguarda sì come gli eguali sui. —
Così disputando se ne vennero al tribunale, e gridavano ingiuriandosi l’un l’altro. Ma quando i giudici ordinarono un giudizio di Dio, il Matto cominciò a gridare: Oh! questa maniera di processo io non l’ho mai veduta, perchè è stato detto:
Se mancano, si cercan testimoni;
Se mancan testimoni, appella a Dio
E al suo giudizio l’uom ch’è saggio e pio.
Intanto, in questa faccenda mia, stanno in testimonio gli Dei della selva che dichiareranno quale di noi due è il ladro e quale l’onesto. — Dissero allora i giudici: Oh! tu hai parlato a proposito! Perchè è stato detto:
Con ciò noi abbiamo per questa faccenda una curiosità grande. Domani adunque, all’alba, si deve andar da voi due con noi insieme a quel luogo della selva. — Il Matto allora, venuto a casa sua, così parlò a suo padre: Babbo, tutta quella bella somma di denari è stata rubata da me al Savio ed essa diverrà del tutto nostra soltanto per una tua parola, altrimenti ne va la vita. — E l’altro disse: Figlio mio, di’ sùbito quella parola perchè io, pronunciandola, ti assicuri i denari. — Il Matto disse: Babbo, in quella selva c’è un albero di sami che ha una gran cavità nel mezzo. Tu ora devi cacciarviti dentro; domani mattina poi, quand’io farò l’attestazione della verità, tu griderai: «Il Savio è il ladro!» — Dopo cotesto, il Matto, fatte di gran mattino le abluzioni di rito, preceduto dal Savio e dai giudici, venuto ai piedi di quell’albero di sami, gridò ad alta voce:
Crepuscoli, col giorno e con la notte,
Con la Giustizia ancor, sanno dell’uomo
La condotta che sia nell’opre sue.
O beata divinità della selva, quello che di noi due è il ladro, tu lo manifesta!
— Allora il padre del Matto che si stava nel cavo dell’albero, gridò: Udite! udite! Quella somma di denaro è stata portata via dal Savio! — Avendo inteso ciò, mentre tutti i giudici, con occhi spalancati per la meraviglia, andavano cercando nei loro libri la pena dovuta al Savio per aver rubato i denari, il Savio, ricinta quella cavità dell’albero di sami con materie atte ad alimentare il fuoco, vi appiccò la fiamma. Divampando il fuoco, ecco balzar fuori dalla cavità dell’albero, col corpo mezzo abbruciato, con gli occhi strabuzzati, cacciando dolorosi lamenti, il padre del Matto. Tutti allora l’interrogarono: Oh! che è questo? — Così dimandato, egli, come ebbe loro raccontato ciò che il Matto aveva fatto, mori, e i giudici, fatto impiccare il Matto ad un ramo dell’albero di sami, lodando molto il Savio, gli dissero: Oh! quanto giustamente si suol dire:
Sotto gli occhi all’airone imprevidente
Dalla faina fu sua stirpe morta. —
Il Savio disse: Come ciò? — E quelli dissero:
Racconto. — C’era una volta in una selva un albero di fico abitato da molti aironi, in una cavità del quale abitava un nero serpente che si manteneva col divorare i piccini dell’airone ancora implumi. L’airone, vedendosi divorare i suoi piccini, disperato di aver discendenza, venne alla sponda d’uno stagno e là si stette con gli occhi pieni di lagrime e col capo chinato in giù. Allora, un granchio, vedutolo in quell’atteggiamento, gli disse: Babbo, perchè piangi tu? — E l’airone disse: Che ho da fare, caro mio? Io sono uno sventurato. I miei piccini e tutta la mia famiglia mi son divorati da un serpe che abita nella cavità di un fico, e io qui sto piangendo, addolorato di questa mia sventura. Dimmi ora tu se c’è qualche rimedio per impedir tutto cotesto. — Il granchio, quand’ebbe inteso, pensò: Costui è nemico nato di tutti noi e però gli darò io tal consiglio che sia vero e falso nello stesso tempo, onde poi anche tutti gli altri aironi vadano in malora. Perchè è stato detto:
E disse poi: Babbo, se così è, tu fa di spargere alcuni pezzetti di carne di pesci dalla porta della tana della faina fino al buco dove sta il serpe. La faina, andando dietro a quella traccia, ammazzerà quello scellerato. — Fatto ciò, la faina, andando dietro a quei pezzetti di carne di pesce, quand’ebbe ammazzato il serpente nero, a tutto suo agio si mangiò anche tutti gli aironi che erano sull’albero. Perciò noi diciamo:
Sotto gli occhi all’airone imprevidente
Dalla faina fu sua stirpe morta. —
Così dal Matto si era pensato a ciò che giova, non a ciò che fa danno, ed egli n’ebbe il frutto. Perciò io dico:
Fe’ il poco senno che nel fumo il padre
Dal proprio figlio a soffocar fu tratto.
Così da te, o sciocco, si pensò a ciò che giova, non a ciò che fa danno; però non sei un galantuomo, ma soltanto ti sei comportato qui da malvagio. Tale mi ti sei fatto conoscere dall’aver messo in pericolo la vita di nostro signore; in ciò si è fatta veder manifesta la tua malvagità e la tua falsità. Ora, si suol dire egregiamente:
Finchè, lieti all’udir nube che tuoni,
Non muovono a danzar con gaudio insano?174.
Intanto, poichè tu hai condotto a questo punto nostro signore, qual conto farai tu d’un nostro pari? Perciò, non è punto bello che tu stia con me. Perchè è stato detto:
Damanaca disse: Come ciò? — E Carataca cominciò a raccontare:
Racconto. — C’era una volta in una città il figlio d’un mercante, di nome Nanduca, e v’abitava anche un altro mercante di nome Lacsmana. Costui un giorno, avendo perduto il suo avere, divisò di passare in altro paese. Perchè è stato detto:
E poi:
Per sua devozïone?175
O per altra cagione.
E poi:
Molto si dee temer, chè poi procura
Qualche vantaggio alfin quella paura.
Intanto, il figliuolo di Nanduca, tolti con sè gli arnesi del bagno, tutto contento se n’andò con Lacsmana. Dopo ciò, Lacsmana, quand’ebbe fatto il bagno, pose Danadeva, il figliuolo di Nanduca, in una grotta sulla sponda del fiume, chiuse l’entrala con una gran pietra, indi in gran fretta se ne venne alla casa di Nanduca. Il mercante allora così lo domandò: O Lacsmana, dimmi subilo dov’è il mio piccino che è venuto con te al fiume. — E l’altro disse: Un falco l’ha portato via dalla riva del fiume. — Il mercante disse: Oh bugiardo! come mai un falco può portar via un ragazzetto? Rendimi adunque il mio bambino o io ne informerò la famiglia del re. — Lacsmana disse: Oh dicitor di verità! un falco non può portar via un ragazzetto, ma nemmeno i topi possono mangiare una stadera che può sostenere un gran peso di metallo. Rendimi adunque la mia stadera se tu vuoi il tuo piccino. — Così disputando, vennero tutt’e due alla corte, dove Nanduca ad alta voce si mise a gridare: Oh delitto! oh delitto! Il mio piccino m’è stato portato via da questo ladro! — I giudici allora dissero a Lacsmana: Rendi il figlio del mercante. — E Lacsmana disse: Che ho da fare? Sotto a’ miei occhi un falco l’ha portalo via dalla riva del fiume. — Udendo cotesto, quelli dissero: Oh! tu non dici il vero. Come mai un falco potrebbe portar via un fanciullo di quindici anni? Lacsmana allora disse ridendo: Oh! ascoltate una mia
parola!
E quelli dissero: Come ciò? — Lacsmana allora raccontò tutta l’avventura della stadera sino alla fine. Come dai giudici, che ne risero, fu intesa tutta la faccenda di Nanduca e di Lacsmana, ambedue, riconciliatisi a vicenda con la restituzione della stadera e del piccino, restarono appagati. Perciò io dico:
Carataca ripigliò a dire: Tutto questo, o sciocco, è stato fatto da te perchè non potevi sopportare che a Sangivaca fosse stato dato da Pingalaca il suo favore. Oh! quanto a proposito questo si suol dire:
E poi:
E tu, o baggiano, hai guastato ciò che molto bene era stato ordinato. Intanto, è stato detto:
Un prence intanto dalla scimia uccidasi.
Con l’aita d’un ladro i preti salvatisi. —
Damanaca disse: Come ciò? — E l’altro disse176:
Racconto. — Un re aveva sempre con sè una scimia per la molta fedeltà addetta al servizio della sua persona, non essendole nemmeno impedito di potere entrare nel gineceo di lui, tanto era venuta nella sua fiducia. Un giorno, essendo il re entrato nel sonno, mentre la scimia agitando il ventaglio gli faceva vento, una mosca venne a posarsi sul petto di lui, la quale, benchè scacciata più e più volte col ventaglio, sempre e sempre vi ritornava. La sciocca scimia allora, impetuosa per natura, montata in ira, afferrò una spada acuta e con quella le menò un gran colpo. Ma la mosca volò via e il re, aperto il petto da quella spada di taglio acuto, morì. Perciò, da quel principe che vuol avere vita lunga, non si deve mai tenere un servo che sia balordo. Intanto, in una città dimorava un Bramino molto sapiente, il quale, in una vita precedente177, era stato ladro. Costui, avendo veduto quattro preti che erano venuti da un altro paese a quella città e vi avevano venduto molte loro derrate, cominciò a pensare: Oh! con qual arte mai potrei io pigliarmi quel loro denaro? — Mentre egli così pensava, recitando in loro presenza alcuni detti piacevoli, di soave pronuncia, molto gradevoli, trovati già in libri dottrinali, ispirò fiducia di sé nella loro mente e cominciò a far con loro amicizia. Intanto, bene a proposito si suol dire:
Avendo adunque fatto l’amicizia, quei preti che avevano venduto quelle loro derrate, compraron gemme di gran prezzo, le quali quand’essi ebbero nascoste, sotto agli occhi dell’altro, dentro la polpa delle gambe178, si prepararono a ritornare al loro paese. Allora il Bramino malvagio, vedendo ch’essi si apprestavano a partire, restò turbato di molti pensieri nella mente. Oh! cotesti denari non si lasciano acciuffar da me! pensava. Ma io andrò con costoro, a un certo punto della strada darò loro del veleno, e come li avrò fatti morire, mi piglierò tutte le gemme. — Così avendo divisato, messosi a lamentar dolorosamente in loro presenza, disse: Voi dunque, amici miei, avete intenzione di partire e mi lasciate qui solo! L’anima mia che era legata a voi con la catena dell’affetto, tanto si è turbata al solo sentir parlare di separazione che non le è data pace in alcun luogo. Ma voi fatemi grazia e menatemi con voi come vostro compagno. — Avendo udito qulle sue parole, essi, tocchi nell’anima di pietà, partirono con lui per il loro paese. Lungo la via, mentre tutt’e cinque passavano per un villaggio, ecco che certi corvi cominciarono a gridare: Oh! oh! Chirati179, accorrete, accorrete! Giungono viandanti con gran ricchezze! Ammazzateli e togliete loro l’avere! — E i Chirati, come ebbero udito il gridar dei corvi, venendo in gran furia, tempestaron di bastonate i preti, tolsero loro le vesti e le frugarono, ma non vi trovarono alcun denaro. Allroa dissero: O viandanti, i corvi, prima d’ora, non hanno mai detto il falso, perciò presso di voi in qualche modo si deve trovare del denaro. Mettetelo adunque fuori, ovvero noi, come vi avremo ammazzati tutti, vi scorticheremo e cercandovi membro a membro, piglieremo il denaro. — Il prete ladro, quand’ebbe inteso così fatto discorso, così fatto discorso, così diviso nella sua mente: Se costoro, come avranno ammazzati questi preti e frugandoli nel corpo, si piglieranno le gemme, essi uccideranno me ancora. Perciò, facendomi loro veder per il primo a non avere alcuna gemma, io salverò i miei compagni. Perchè è stato detto:
O in questo giorno o al finir di cent’anni,
D’ogni vivo quaggiù morte è sicura.
E poi:
Chi per Bramini e per giovenche180 muore, Di questo sole il disco oltrepassandoGrado ha su in ciel d’altissimo splendore. — |
Un prence intanto dalla scimia uccidesi,
Con l’aita d’un ladro i preti salvansi. —
Mentre questi due così parlavano fra loro, Sangivaca, come ebbe combattuto un’ora con Pingalaca, ferito dai poderosi artigli di costui, cadde morto a terra. Guardando allora quel morto, Pingalaca, tocco nel cuore dalla memoria delle sue virtù, disse: Oimè! come ho fatto male, io malvagio, ammazzando Sangivaca, perchè non v’è opera più trista del mancar di fede! Però è stato detto:
Intanto costui, nell’assemblea, è pur stato sempre lodato da me. Che dirò io ora nel cospetto degli altri? Però è stato detto:
Lamentandosi egli così, gli si accostò tutto contento Damanaca e gli disse: O signore, questo tuo costume è ben vile se ti addolori per avere ammazzato questo roditor d’erbaggi che ti tradiva! Ciò non si conviene punto ai monarchi, perchè è stato detto:
La vita ti minacciano con dolo,
Mandali pur, chè non è colpa, a morte.
E poi:
Ancora:
Che ora dicono il vero, or falso parlano,
Ora son aspre, or dolce ti favellano,
Or son pietose, or sono inesorabili,
Or sono avare ed or spendono e spandono,
Ora son larghe, or gran denari ammucchiano
E poi:
I sapïenti non fan pianti e omei
Per chi è vivo o per chi da morte è colto. —
Così, allora, confortato da colui, Pingalaca, scordatosi il dolore di Sangivaca, creato suo ministro Damanaca, regnò felicemente. Così è finito il primo libro del Panciatantra, opera dell’inclito Visnusarma, che ha il titolo della scissione degli amici.
Note
- ↑ Cioè dà meno di quel che dovrebbe dare.
- ↑ Col nome di Chirati (kirâtâs) si designano genti barbare e non ariane.
- ↑ Alla sua divinità tutelare.
- ↑ Il proprietario della cosa impegnata.
- ↑ Cioè offerte, doni, al dio tutelare per ammenda.
- ↑ Alla lettera: oro e altro.
- ↑ Nel suo paese natio.
- ↑ Città sulle sponde della Yamuna.
- ↑ Gl’Indiani, in certe occasioni solenni, avevano in uso di liberar certi animali dalla servitù e di lasciarli andar sciolti dove più volevano.
- ↑ Il dio Siva si rappresenta nell’atto di cavalcare un toro.
- ↑ Mucchi di terra sgretolata dalle formiche.
- ↑ Per farsene difesa.
- ↑ Passo molto oscuro. Il Benfey traduce: Il seguito del leone è vile e pigro. Traduzione giusta, ma a senso. Il Fritze fa delle due parola sanscrite kâkarukâh (Ed. Cale, kâkaravâh) e kimvrittâç-ca due nomi propri. Sembra, come si vede in altri luoghi di queste favole, che qui si riferiscano due detti caratteristici di certa gente. Certa gente vile e dappoco ha timore se un corvo gracchia, e, spaventata per nulla, domanda a ciascuno che incontra, che è stato? Donde i due soprannomi (che importano viltà) dati dal leone al suo seguito: Gracchia il corvo! e Che è avvenuto? — Se pure ho inteso bene.
- ↑ Sorta d’albero indiano.
- ↑ Nome d’un albero indiano.
- ↑ S’intende per un giorno e una notte.
- ↑ Nutrendoli, proteggendoli.
- ↑ Gli avanzi delle offerte sacrificali.
- ↑ Dottrina indiana del rinascere dopo morte. Chi è stato infingardo, potrebbe rimediare, rinascendo, al suo diletto; ma è meglio esser buono e operatore in questa vita in cui ora si è.
- ↑ Perchè sollevano, con la pioggia, dagli ardori della stagione estiva.
- ↑ Perchè è sempre visibile sul bianco.
- ↑ Il Malaya, alta montagna dell’India.
- ↑ L’ombrello bianco, segno di dignità.
- ↑ Cioè intendono la voce del padrone.
- ↑ Servendo al principe.
- ↑ Albero indiano, arka, adoperato in medicina, ma pericoloso per certe sue qualità.
- ↑ Chi va a servire in corte.
- ↑ Il sacerdote domestico di corte e il ciambellano.
- ↑ Il comando ricevuto.
- ↑ Cioè ha in orrore il giuoco.
- ↑ Per difenderlo.
- ↑ In segno di ossequio.
- ↑ Dalla nostra educazione buona o cattiva.
- ↑ Perchè il serpente ha le scaglie e il re porta le maglie per la difesa del corpo.
- ↑ Perchè i serpenti si lasciano incantare e i re si lasciano infinocchiare, ovvero credono nella magia.
- ↑ Insegna del regio portinaio per impedire che alcuno entri o s’accosti.
- ↑ Il ciandrakânta (amante della luna) è una pietra favolosa, preziosissima, che risplende soltanto al chiaror della luna.
- ↑ Gli Abiri (Abhirâs) popoli dispregiati e rozzi.
- ↑ Cioè non se ne conosce la differenza.
- ↑ Cioè di quelli che potrebbero occupare alti uffici.
- ↑ Cioè fa loro soltanto donativi d’oro o di uffici o di titoli d’onore.
- ↑ Avendo o godendo il favore del re.
- ↑ Nei primi quindici giorni del novilunio.
- ↑ Dûrvâ, panicum dactylon, erba volgare (De Gubernatis, Piccola Enciclopedia indiana). Per pelo di giovenchi pare si debba intendere, secondo il Benfey (nota 90), una specia d’erba dei prati.
- ↑ Credenza superstiziosa indiana.
- ↑ Nomi indiani di erbe.
- ↑ Cioè non possono aver resistenza, anche se riunite, come un tronco di legno.
- ↑ Il dio o genio della preghiera e della eloquenza.
- ↑ Il muggito del loro Sangivaca. Vedi sopra.
- ↑ Vedi sopra.
- ↑ Il demone Vritra desiderava il regno del mondo, ma il dio Indra, venuto a patti con lui, dopo avergli giurata la fede, lo mise a morte per ragoini sofistiche desunte da quei medesimi patti.
- ↑ Diti fu la madre dei demoni Daitya che, ingannati dal re degli Dei Indra, furono poi disfatti da lui.
- ↑ Quando gli elefanti sono in amore, cola loro per le guancie un umore particolare di cui le vespe sono avide.
- ↑ Nome della sposa di Siva.
- ↑ Uno dei sette Rishi o sapienti divini, messaggero degli Dei.
- ↑ Vuol dire che la donna è virtuosa soltanto quando non ha occasione di darsi al male.
- ↑ Perchè si cibano di cadaveri.
- ↑ Il giogo o asta che sostiene la bilancia, e che per poco si muove.
- ↑ Andando a caccia per far preda e cibarsi.
- ↑ Cioè tradimento, corruzione, violenza.
- ↑ Vedi la nota di sopra.
- ↑ Il serpente è sacro al dio Siva, il topo è sacro a Ganesa che è il dio del sapere, il pavone è sacro a Cumara dio della guerra, e il leone è sacro a Durga moglie di Siva, nata sui monti. Questi quattro animali che pur stanno in casa di Siva, sono inimicissimi fra loro, e però qui sono assunti a rendere immagine del modo, in cui l’uno insidia l’altro.
- ↑ Nel mondo.
- ↑ Il figlio di Ambica è il re Dritarastra, uno dei principali eroi del Mahabharata.
- ↑ La parola del testo mahâmâtra significa ministro, consigliere, e anche guardiano d’elefanti.
- ↑ Nel senso di avvenuti per colpa di chi ne ha avuto il danno.
- ↑ Sillaba mistica, espressione di profonda meditazione e di devozione verso gli Dei, le persone e le cose sante.
- ↑ Con la fronte, col petto, con le spalle, con le mani, con le gambe.
- ↑ Secondo certe dottrine indiane, l’uomo rinasce più volte; soltanto per meriti grandi si può troncare la serie dolorosa delle diverse esistenze e tornar nel nulla.
- ↑ È gran merito essere indifferenti per le cose di quaggiù quando si è ancor giovani. L’essere indifferenti quando si è vecchi, non è gran merito.
- ↑ Il saggio mostra calma di vecchio, pure essendo giovane.
- ↑ I Sudra e i Ciandala, caste infime indiane.
- ↑ Cioè della casta bramanica.
- ↑ Cioè: Om! venerazione a Siva! che in sanscrito consta di sei sillabe. Vedi sopra.
- ↑ Il Linga, cioè il phallus.
- ↑ S’intende che un ospite, capitato in quell’ora, non può essere respinto.
- ↑ Strame e paglia per dormire.
- ↑ In senso di stanza.
- ↑ I valentuomini, cioè i padroni di casa.
- ↑ I Fuochi sono i santi fuochi sacrificali; Indra è il signore degli Dei; i Padri, le anime sante degli antenati; l’Autor dell’essere, il Creatore, Brama.
- ↑ Nome dell’amante.
- ↑ Cioè nell’assenza dei loro mariti.
- ↑ Cioè non curano punto.
- ↑ Cioè per il marito.
- ↑ Qui è un giuoco di parole intraducibile. Vâruni-samgagiâvasthâ significa lo stato di chi troppo s’accosta ai liquori inebrianti, se si prende vâruni nel senso di bevanda; e significa lo stato del sole venuto al tramonto, se si prende vâruni nel senso di Occidente. Allora, il sole somiglia ad un ubriaco, perchè le mani gli tremano (kara significa nello stesso tempo mano e raggio), getta via le vesti (abbandona il padiglione del cielo), perde forza e diventa rosso, che son tutti i segni dell’ubriachezza.
- ↑ Perchè mangiano erbe e rami spinosi e duri e li colgono in luoghi difficili, e non ne temono e non ne soffron danno.
- ↑ Il dio dei morti.
- ↑ Antico saggio, maestro dei demoni e reggente del pianeta Venere.
- ↑ Vedi sopra.
- ↑ Si baciano alle donne le labbra, ma il cuore, per la sua durezza e ferità, si comprime dagli uomini coi pugni.
- ↑ I poeti sogliono dire che le donne hanno occhi di gazzelle. Qui è detto con ironia e per ischerno.
- ↑ Per intendere questo passo, bisogna notare che le parole del testo possono avere e hanno senso doppio. Così durezza del petto che, nel senso materiale, è pregio della donna giovane e fresca, significa anche durezza di cuore; lo stesso dicasi delle altre qualità donnesche qui enumerate. Il poeta poi conclude che la turba dei vizi delle donne si crede turba di virtù, facendo un giuoco di parole con gana, turba, e guna, virtù.
- ↑ Traduzione congetturale, perchè la parola del testo, ghatikà o ghatakà, s’interpreta assai diversamente, ora fantasmi (Benfey), ora pentole (Fritze), ora alberi di fico (Commento sanscrito dell’Edizione di Calcutta).
- ↑ Quando sono in amore.
- ↑ Giuoco di parole. Râga, in sanscrito, significa tanto affetto quanto colore.
- ↑ Si può tradurre anche occhi leggiadri, perchè la parola mima significa bello, leggiadro, e anche sinistro in senso materiale e in senso morale. Con questo doppio senso, il poeta vuol accennare alla bellezza funesta delle donne.
- ↑ Frutti e fiori belli da vedere, ma velenosi, e perciò simili alle donne.
- ↑ Vedendosi incolpato ingiustamente.
- ↑ Per arderlo dopo morto.
- ↑ Tumori rigonfi sul capo degli elefanti innamorati, da cui stilla umore.
- ↑ Nome dell’aquila di Visnu.
- ↑ Tutte insegne del dio Visnu.
- ↑ Antico saggio che scrisse di cose d’amore.
- ↑ Moglie di Visnu, dea della felicità.
- ↑ In cui basta, perchè esso sia legale e riconosciuto, il consenso dei due amanti.
- ↑ A chi si darà in isposa.
- ↑ Il sole nell’eclissi si considera dagli Indiani come in battaglia con Rahu che è un mostro aereo. Il sole qui è detto difender la luna, venuta a lui per soccorso, dagli assalti del mostro. Oscurandosi, come avviene nell’eclissi, è segno che ne è restato vinto; ma è bella la sua sconfitta, toccata da lui per difendere chi è debole, cioè la luna.
- ↑ Alla lettera: sulla via di Visnù o d’Indra, cioè del paradiso.
- ↑ Vuol dire che Visnù, per aver presente l’aquila, non fece che ricordarla nel pensiero, senza chiamarla, e l’aquila dovette venire.
- ↑ Nome del quarto asterismo lunare.
- ↑ Celebre astrologo indiano.
- ↑ Saturno
- ↑ Chi ha commesso qualche colpa, per farne la penitenza suol mettersi attorno alla cintura molti teschi di morti, come fanno i seguaci di Siva. Ora, la terra, sparsa di ossa e di cenere dei morti di fame nella siccità, somiglia appunto ad uno di questi rei penitenti.
- ↑ Incerta la traduzione di alcuni di questi nomi. Anche il Benfey (nota 239) dice d’aver tradotto per congettura.
- ↑ Il saggio non tracanna ingordo l’elixir, ma lo beve adagio e a sorsi.
- ↑ Gl’indiani fanno il fuoco soffregando insieme due pezzi di legno.
- ↑ Cioè dei propri meriti computati in cielo.
- ↑ Indra re degli Dei. Il suo maestro è Brihaspati. Hiranyacasipu è un demone. Visvacarma è l’architetto e il fabbro degli Dei.
- ↑ L’umore che cola dalle gote degli elefanti quando sono in amore.
- ↑ Rama, figlio di Giamadagni, discendente da Brigu, sterminatore della casta dei Csatri o re guerrieri.
- ↑ Parole di Brahma agli Dei quand’essi, vessati dal demone Taraca, volevano farlo uccidere.
- ↑ Bisma e Duryodana, due eroi dell’epopea indiana.
- ↑ Siva, avendo trangugiato del veleno, ne ha la gola ancora tinta.
- ↑ Viasa (Vyasa), antico sapiente a cui si attribuisce la composizione del Mahabharata.
- ↑ Cioè sono considerati come morti al mondo.
- ↑ Cioè si alza da letto senza essersi levata la voglia del dormire.
- ↑ Cioè pare non possibile che chi è servo, pur con tanti malanni, tolleri la vita.
- ↑ Il servitore fa e patisce per il sentimento del proprio dovere; il penitente patisce per la sua vita peccaminosa antecedente.
- ↑ Antico sapiente mitico.
- ↑ Il testo dice catushkarnatayô, cioè a quattr’orecchi.
- ↑ In principio del libro è stato detto dei diversi modi con cui si può ammazzare alcuno; tra essi è pur quello dell’usar fintamente dell’amicizia, cioè col tradimento.
- ↑ Ciò si racconta nel Mahabharata.
- ↑ E non sui campi coltivati.
- ↑ Cioè quando sia stato tolto di mezzo.
- ↑ S’intende di più mogli dello stesso marito secondo l’uso orientale.
- ↑ Gente che fa offerte e sacrifici agli Dei.
- ↑ Per dire che fa qualunque pazzia. È questo il costume dei religiosi mendicanti indiani di bere in teschi nudi.
- ↑ Cioè calunnia alcuno presso di un altro.
- ↑ Eguale al serpente nel mordere, ma differente nel modo.
- ↑ Qui si traduce a discrezione una parola difficile. Il testo dice
[testo sanscrito]sûryamandalabhedinau, che vuol dire: due che spaccano il disco del sole. Così traduce anche il Benfey, che ha: Die durbrechen der Sonne Kreis in dieser Welt. - ↑ Sacrifizio fatto agli Dei per render grazie della vittoria.
- ↑ Il Soma, la sacra bevanda sacrificale.
- ↑ Cioè mangiando un boccone di più al giorno fin che la luna cresce, e un boccone meno fin che la luna scema.
- ↑ L’umore che cola dalla fronte agli elefanti in amore. Vedi sopra.
- ↑ Vivendo indegnamente, è come se non vivesse.
- ↑ Pare un proverbio per dire che poco vale lo sputar sentenze e il prometter gran cose e il presumer troppo.
- ↑ Pare voglia dire che il picchio teme di tutto, anche delle cose impossibili, ma è superbo e presume troppo, come, del resto, fanno tutti.
- ↑ Mitico legislatore indiano. Vedi sopra.
- ↑ Il mostro che tenta di afferrar la luna; simbolo degli eclissi. Vedi sopra.
- ↑ Cioè appena ch’è spuntato.
- ↑ Nome di un albero indiano.
- ↑ L’aquila di Visnù. Vedi sopra.
- ↑ Quando la sappia.
- ↑ Visnù.
- ↑ La città degli Dei, sede di Indra.
- ↑ Città dell’oro, sede di Garuda.
- ↑ Cioè può avere altra moglie e altri figli. Sentenza brutale!
- ↑ Passo oscuro nei diversi testi.
- ↑ In omaggio al dio Fuoco.
- ↑ Perchè ha il coraggio di mettersi a grandi imprese.
- ↑ L’umore che cola dalle tempie degli elefanti in amore.
- ↑ Nome di un albero indiano.
- ↑ Se pure va inteso così questo passo alquanto oscuro.
- ↑ Secondo i medici indiani, il mal di fegato, nei casi leggieri, si può curar con lo zucchero, nei gravi col citriolo, anzi col futto della Trichosanthes dioeca (Fritze).
- ↑ Si deve intendere qualche erba che noi non conosciamo. Il Commento indiano spiega con tra-gyotir-latâ, pianta rampicante che ha le foglie (paglie?) lucenti.
- ↑ Albero indiano.
- ↑ Nome indiano d’una pianta.
- ↑ Dove nessuno gli risponde: perciò, opera inutile.
- ↑ Cioè maggior valore.
- ↑ Passo molto oscuro e difficile che non si sa bene cosa voglia dire. Tutt’al più il senso se ne afferra molto confusamente. La traduzione stessa del Benfey non dà molta luce.
- ↑ Allusione al fatto narrato nel Ramayana quando Rama si lasciò ingannare da una gazzella dorata che lo trasse fuor di via, mentre Ravana gli rapiva la moglie Sita.
- ↑ In paese straniero.
- ↑ Cioè la breve distanza da cui si può ancora udire il gridar d’alcuno.
- ↑ Modo proverbiale. Il deretano dei pavoni (cosa brutta in tanta loro bellezza) non si vede se non quando saltellano, e ciò all’avvicinarsi di qualche temporale allorchè si rallegrano per la vicina pioggia. Così la malvagità umana non si fa conoscere che in certe date occasioni.
- ↑ Cioè soltanto perchè sia affezionato a lui.
- ↑ La novella che segue non è nel testo del Kosegarten. Ha un fare differente dalle altre, e forse è spuria. Io l’ho tradotta, trovandola nel testo di Calcutta.
- ↑ Secondo la dottrina indiana della Metempsicosi.
- ↑ Cioè facendovi un taglio per riporvi le gemme e aspettando che la ferita sia rimarginata.
- ↑ Popolazioe selvaggio di cacciatori.
- ↑ Animali sacri.
- ↑ Che non sa cosa si faccia o non si faccia.
- ↑ Si riferisce al culto dei serpenti, venuto forse dal terrore. L’augello che ne fa sterminio, è l’aquila.