La bambina rubata
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LA BAMBINA RUBATA.
Le mie disgrazie cominciarono presto; quando per gli altri la vita è come il crepuscolo di una bella giornata; quando anche il pianto non è che un segno di gioia.
Avevo appena un anno quando caddi di braccio ad una servetta sventata: ferito gravemente alla testa, dopo una lunga infermità rimasi sordo e muto.
La mia mamma morì dal dolore: così almeno mi raccontava una sua sorella che mi prese con sé e mi allevò.
Più tardi entrai in un Istituto di Sordomuti, dove, essendo nel frattempo morto anche mio padre, in vista dell’eredità ch’egli mi lasciò — un terreno incolto — m’insegnarono un po’ di agronomia.
Ma quando uscii dall’Istituto poca voglia avevo di fare l’agricoltore: mi piaceva piuttosto di leggere, di fantasticare, e, perché non dirlo?, di far nulla.
D’altra parte la zia, presso la quale ero tornato ad abitare, non m’incitava al lavoro: mi considerava ancora come un bambino infelice, forse anche un po’ idiota, che si ha l’obbligo di mantenere e di proteggere.
Era una donna un po’ strana anche lei, d’altronde. Non usciva mai di casa se non per fare qualche spesa e non riceveva nessuno: ma possedeva un numero infinito di piccioni, di gatti, di conigli e di pulcini, e chiacchierava continuamente con loro, sottovoce, tenendone sempre qualcuno in grembo o sulla spalla.
E aveva sempre da fare, dalla mattina alla sera. La casa era sua, e si viveva, almeno io credevo, con l’affitto del piano superiore: noi si abitava al piano terreno: un alloggio melanconico, dove all’inverno non batteva mai il sole; e triste anche d’estate perché alle cinque del pomeriggio pareva già di essere al tramonto; si usciva e ci si trovava storditi nel pieno splendore del sole estivo.
Poiché l’ingresso era riserbato agli inquilini del piano superiore, noi si entrava dal salotto, la cui porta a vetri, chiusa da una persiana, dava sulla strada.
Dalla cucina stretta e lunga come un corridoio, tutta luccicante di tavole di marmo e di recipienti di rame che non si adoperavano mai, si usciva in un cortiletto cinto di muri altissimi ricoperti d’edera e di luppoli.
In quella specie di gabbia la zia teneva le sue bestiole; dalle quali, del resto, traeva una certa rendita, perché dopo averci chiacchierato a lungo e dopo averle accarezzate e bene ingrassate, le vendeva o ne faceva il nostro pasto quotidiano.
E io mangiavo volentieri i bei polli arrosto e i conigli alla cacciatora; ma non bastava questo a sollevarmi dalla tristezza dei primi giorni dopo il mio ritorno.
In quel tempo l’educazione dei sordomuti non era perfezionata come adesso: tuttavia ci si insegnava già a leggere e scrivere, a parlare e capire la parola altrui: io però avevo una insuperabile ripugnanza a parlare: sentivo che la nostra voce doveva avere qualche cosa di anormale, di animalesco: preferivo tenere con me un taccuino sul quale scrivevo quello che volevo dire e domandare.
Avevo diciotto anni e mezzo, ma ero già grande e grosso come un uomo fatto; ero già un uomo, anzi, con tutti i bisogni di una giovinezza tanto più forte quanto più oppressa dalla vita di disciplina fino allora fatta, e dall’infermità che mi costringeva a quella vita.
Nell’Istituto, almeno, si viveva in grandi camere ariose, in compagnia di altri simili a me; spesso ci si conduceva all’aperto, nei parchi e nei giardini di una grande villa; qui in casa della zia mi sembrava di essere in prigione. Temevo sempre di urtare contro qualche cosa, e di romperla: sentivo l’odore dell’umido e delle bestie fin sotto le lenzuola del mio letto, e tutto mi faceva soffrire.
Così passarono dei mesi; tornò la primavera. Io non avevo nulla da leggere, tranne qualche libro di devozione, non conoscevo nessuno, non mi rendevo utile se non con l’andare a far la spesa la mattina per conto della zia; le lunghe giornate inutili mi avvilivano; incominciai a odiare la casa, a pensare sul serio di occuparmi.
Allora andai a vedere il mio terreno. Non dimenticherò mai quel giorno. La zia mi aveva dato un cestino pieno di provviste, come s’io dovessi fare un lungo viaggio, mentre per andare al paese vicino, di là del quale era il terreno, bastavano venti minuti di treno.
Appena sceso alla stazione, mi avviai senza chiedere notizie a nessuno. Avevo indicazioni precise e non potevo sbagliarmi: si andava dritti per la strada provinciale; c’era una grande casa colonica subito prima di arrivare al terreno, e in mezzo a questo, proprio nel centro un po’ elevato, un platano secolare, dal quale appunto la località prendeva il nome: "Il Platano".
"Il Platano": non potevo sbagliarmi. E andavo andavo, nel sole di primavera, lungo la strada provinciale, col mio cestino colmo, pensando a questo grande platano, al quale del resto avevo spesso pensato durante quegli ultimi anni: alla sua ombra mi sarei sdraiato dopo aver visitato bene il terreno, studiando il modo di cominciare la coltivazione.
Mi pareva di andare alla conquista di un continente nuovo, da civilizzare e sfruttare: mi avevano insegnato come si innestano le piante e quando si semina l’orzo e il trifoglio; e l’apicoltura e la composizione dei concimi. Ero certo che in breve, con l’aiuto di un buon contadino, avrei ridotto il terreno in un fertile podere.
Mancava la casa, è vero; ma in principio bastava una capanna. Meglio una capanna che la casa della zia.
Per quel giorno, poi, mi bastava l’ombra del platano. Cammina, cammina; attraversavo una regione perfettamente incolta e deserta, con prati ondulati, di qua e di là della strada, e terreni paludosi che non mi confortavano punto: se anche il mio fosse così?
Ma poi cominciò una zona coltivata a vigne e a frumento, e finalmente vidi una casa e sentii l’odore del letame e del fieno tagliato; segno che c’era gente: ma non poteva essere la casa colonica, che sapevo bianca mentre questa era rossa; e d’altronde, per quanto andassi avanti guardando attentamente non vedevo il mio platano.
Dopo i campi della casa rossa ricominciavano prati e sterpaglie: il sole batteva caldo sulle mie spalle e i piedi mi dolevano.
Fortunatamente la strada s’insinuò d’un tratto in un bosco ceduo; mi fermai; le fronde dei faggi e degli ontani scherzavano col sole e col vento; e il vento, anzi, pareva nascesse lì, dalla cima agitata e argentata di ogni pioppo.
L’odore della menta aggiungeva freschezza all’aria, e le ombre delle foglie sull’erba si rincorrevano come farfalle scure, con qualche cosa di vivo che mi divertiva e mi commoveva. Fosse stato lì il mio terreno! Lo avrei amato subito; mi sarei sdraiato sulla terra con l’amore e l’abbandono di un amante, facendomi accarezzare da quelle ombre danzanti! Invece bisognava proseguire: e più mi attardavo peggio era: correvo il rischio di non far poi a tempo a riprendere il treno per il ritorno.
Cammina, dunque, cammina, col cestino che passava da una mano all’alta e che mi sorrideva e tentava con gli occhi della bottiglia luccicanti attraverso la paglia. Ma io volevo far baldoria proprio sotto il mio platano, e andavo oltre. Desideravo che il bosco finisse, per orizzontarmi meglio: e il bosco finì: ma come finiscono le città, in una specie di grande cimitero; un cimitero d’alberi, una vasta estensione ove era stato di recente eseguito un taglio: i ceppi inghirlandati di campanule parevano tombe. E subito un dubbio mi attraversò la mente: andai ancora avanti, ma poiché non vedevo più che una distesa di macchie tornai indietro fino alla casa rossa.
Sì, doveva esser proprio quella la casa colonica, ritinta di recente: anche i due grandi portoni verdi che davano sulla strada odoravano di vernice: ed erano chiusi. Ma più in là vedo un cancelletto aperto nella siepe dell’aia: lo spingo, senza pensarci più che tanto; ed ecco venirmi incontro circondata da una corte di anatre e di oche, una ragazza così piccola che sembra una bambina; ha la gonna corta, il grembiale pieno di erba, un fazzoletto rosso intorno al bel viso la cui pelle scura fa brillare più vivi gli occhi turchini e i denti bianchissimi: questi denti, però, e questi occhi, hanno qualche cosa di felino, di crudele.
Le domando a cenni e come meglio posso se il terreno attiguo è "Il Platano": la ragazza si ritrae un po’ spaventata e diffidente, forse credendomi un sordomuto finto e vagabondo.
Allora deposi il cestino per terra, non curandomi della curiosità delle anatre che subito mi circondarono; e trassi di tasca il taccuino di cui mi servivo spesso, ripetendo la domanda in iscritto e dicendo chi ero. Staccai il foglietto e lo porsi alla ragazza; ella parve ricordarsi: certo aveva sentito parlare di me; mi guardò meglio, arrossì e rise.
I suoi denti stretti nel ridere, parevano un anello d’avorio: mi restituì il foglietto e con la mano fece atto di falciare, poi, per essere più espressiva, con ambe le mani di battere la scure. Io intendevo fin troppo: il platano era stato tagliato.
“Da chi e quando è stato tagliato?”.
Questa volta porsi l’intero taccuino alla ragazza, col lapis attaccato.
“Credo per ordine di vostro padre, da anni” ella scrisse svelta svelta e con caratteri chiari, appoggiando il taccuino alla mano che stringeva le cocche del grembiale.
Poi vedendomi impallidire mi guardò con pietà; e con un cenno della testa mi invitò ad entrare. Ma io non volevo entrare, non potevo fermarmi. La delusione era già tanto forte che il mio primo pensiero fu di tornarmene in casa della zia senza neppure aver visitato il terreno: d’un tratto però il dolore stesso che provavo mi fece apparire ancora più triste nel ricordo la casa della zia. Per un attimo ebbi l’impressione di uno che non ha più un punto di appoggio sulla terra; uno senza casa e senza nessuno al mondo e che non sa dove andare.
Scrissi sul taccuino alcune domande che volevo presentare alla ragazza e con le quali le chiedevo se era sola in casa, se poteva darmi qualche ragguaglio preciso circa i confini del mio terreno, ed altre cose; ma una dopo l’altra le cancellavo e infine strappai i foglietti e ne sparsi i pezzetti per terra all’avidità curiosa dei volatili che tentavano di beccarli; infine ripresi il cestino, ringraziai la ragazza con un inchino e me ne andai.
Il mio inchino la fece di nuovo ridere, ma volgendomi prima di allontanarmi vidi che mi seguiva con gli occhi, con un viso serio nel quale la bocca rimasta aperta esprimeva un disappunto infantile. Forse aveva sperato di trattenersi e divagarsi un po’ con me nella sua solitudine: ma io in quel momento l’odiavo.
Eppure sentivo che avevo torto; sentivo in fondo che ella aveva pietà di me perché ero diverso dagli altri uomini; ed io non potevo trattenermi con lei appunto per questa sua pietà.
Mi buttai all’ombra di una siepe, sul ciglio della strada, fra la polvere, come un vagabondo: le ginocchia mi tremavano, per la stanchezza, per il dolore, per la fame.
Allora squartai il cestino, proprio lo squartai, allargando le sue anse come si allargano le gambe di un animale morto per estrarne i visceri: e divorai ferocemente ogni cosa e bevetti la bottiglia sino in fondo; poi buttai via tutto, di là dalla siepe, come si buttano i rimasugli di un pasto di viaggio dal finestrino del treno.
Mi pareva davvero di viaggiare: tutto correva intorno a me. Era la mia testa che girava per l’effetto del vino!
Piano piano mi lasciai andare in fondo al ciglione e mi ci sdraiai come in una culla: ma non dormivo; anzi tutte le facoltà erano sveglie, in me, e sentivo un dolore infinito sotto quel piacere animale della sazietà, dell’ubriachezza, dell’ abbandono sulla terra. E sentivo che questo dolore non era per il platano tagliato, ma per tutte le altre tristezze della mia vita, per la mia disgrazia che d’un tratto mi si era rivelata con tutto il suo peso, per l’ingiustizia che la natura e la sorte mi facevano subire.
"Io non potevo amare", pensavo questo. Non potevo amare, né avere una vita come tutti gli altri, e sopratutto non potevo essere amato!
Tutt’al più potevo destare pietà, ed io, a mia volta, provare dell’odio.
E già lo provavo: ed era questo che mi faceva soffrire.
Pensavo a tutti i delitti misteriosi che vengono commessi nelle strade solitarie, nei boschi, e anche nelle grandi città, e di cui l’autore quasi sempre rimane sconosciuto: e in quel momento mi sembrava una rivelazione l’immaginare che questi assassini ignoti fossero tutti dei disgraziati come me. Poi a poco a poco l’indigestione mi cominciò a passare e l’ubriachezza si fece tenera. Sentivo voglia di ridere e piangere nello stesso tempo. Dopo tutto, il mio passato non era stato tanto nero come pensavo. Tutti mi avevano amato e protetto nella sventura, cominciando dalla zia e continuando nei miei istitutori e nei compagni.
E con questi eravamo stati sempre allegri e spensierati: mi sembrava di giocare ancora con loro nei prati e nel giardino della villa dove quasi ogni pomeriggio un giovane istitutore ci conduceva.
Di primavera i muri erano tutti rivestiti di rose e l’aria ad aspirarla forte pareva un liquore aromatico. Io gustavo gli odori con una potente sensualità: mi davano brividi, sapori, visioni di cose e di luoghi fantastici.
In quel giardino ebbi la prima rivelazione dell’amore.
Avevo tredici anni; ero felice e spensierato, o per meglio dire incosciente e beato come un animaletto domestico ben tenuto. Tutti, del resto, eravamo così: allegri e anche un po’ crudeli. La nostra vittima era l’istitutore che ci conduceva a spasso: un giovane serio, melanconico, che pareva accogliere lui solo, che era sano e bello, tutto il peso della sventura nostra. Tutti i dispetti gli facevamo, appena si distraeva; non ci parve quindi vero, un pomeriggio, nella villa, quando egli come ubriacato dal profumo del giardino che odorava tutto come una grande rosa, ci lasciò soli nel prato ove si giocava. In un attimo, appena fu notata la sua assenza, quasi tutti i ragazzi si arrampicarono sugli alberi e sui muri staccando da questi le rose che cadevano giù pesanti e sanguinanti come brani di carne; e alcuni, rimasti nel prato, cominciarono a lottare fa di loro, stringendosi alla vita e molinando sull’erba in una danza pazza e feroce.
Solo io ero rimasto in disparte, preso ad un tratto da un senso di responsabilità che mi spinse in cerca dell’istitutore. E lo trovai in fondo al parco, in un tempietto dalle colonnine rivestite di edera; ma non era solo; stava con lui una fanciulla vestita di bianco; e si baciavano.
La fanciulla vestita di bianco teneva gli occhi chiusi, e il viso dell’istitutore era più triste del solito. Così la rivelazione dell’amore ebbe per me qualche cosa di religioso.
Per anni continuai a sognare l’amore così, in un tempio, distaccato da ogni cosa terrena; ed ecco d’un tratto mi si rivelava, adesso, terribilmente diverso.
Mi accorgevo che desideravo la ragazza dal fazzoletto rosso: la sua testa mi stava davanti agli occhi come quella del serpente tentatore.
Ancora a ricordare quei momenti vedo tutta la mia vita ricoperta di un velo rosso.
Nulla forse sarebbe accaduto, io me ne sarei tornato triste e inquieto ma ancora innocente a casa della zia, se il diavolo stesso non avesse spinto la ragazza sui miei passi.
Io m’ero alzato, ancora stordito dal vino e dai mali sogni, e andavo lungo la siepe, guardando dal di fuori il mio terreno. Era una vera sterpaglia, e i cespugli fioriti della ginestra e i rovi coperti di rose canine non confortavano col loro colore e il loro profumo la mia disillusione: arrivato all’angolo ove la siepe svoltava vidi che era stato aperto un varco, richiuso poi con dei rami che si potevano smuovere. Qualcuno doveva entrare ed uscire liberamente nella mia possessione: a che farci non sapevo; non c’era nulla da prendere; tuttavia l’istinto della proprietà si risvegliò in me, e con esso il dubbio che il platano fosse stato tagliato non per ordine, ma ad insaputa di mio padre, da qualcuno che profittava dell’abbandono in cui il luogo era lasciato.
La rabbia mi riprendeva; scostai i rami ed entrai. Ma forse m’ingannavo. L’erba cresceva folta dovunque, non calpestata; in alcuni punti così alta che pareva frumento; le ortiche arrivavano a pungermi le mani, e le spighe selvatiche mi si attaccavano alle vesti. Tutto questo cominciò a darmi un senso confuso di piacere: mi pareva che tutte quelle cose mie si facessero vive in quel modo per salutarmi; prendevano possesso di me come io prendevo possesso di loro: con dolore, con amore selvaggio.
E d’un tratto quell’istinto primitivo di proprietà che solo mi aveva deciso ad entrare, si accese e si addolcì in me. Mio, quel pezzo di terra era mio; il sole che vi batteva era mio; potevo fare quello che volevo, là dentro.
Non mi sentivo più solo nel mondo. Feci tutto il giro della siepe: varchi rattoppati con rami, come quello dove ero entrato, si ripetevano qua e là; tutta la siepe, del resto, era malandata, vecchia di chi sa quanti anni: neppure dove confinava coi campi della casa colonica era stata rinnovata, anzi era più bassa e cadente che dagli altri lati.
Arrivato là davanti mi fermai a guardare i campi del mio vicino osservando che erano mal coltivati; la terra era magra, le viti parevano malate e il frumento cresceva rado: inoltre mi stupivo di non vedere nessuno a lavorare, e pensavo: — Come potrei coltivarli meglio io questi campi, se quella ragazza è la figlia del padrone e volesse sposarmi!
Ed ecco subito, quasi cercata dal mio desiderio, la ragazza sollevarsi dietro la siepe come una serpe sbucata dall’erba. Mi par di vederla ancora, coi suoi occhi turchini che hanno una fissità pungente; lo splendore del suo fazzoletto rosso mi fa come per riflesso arrossire.
Cominciai, nonostante il mio turbamento, a farle dei cenni perché si avvicinasse di più: non sapevo ancora cosa volevo da lei; avevo bisogno di vederla meglio, di starle accanto: mi sentivo deciso a rincorrerla se non si avvicinava spontaneamente.
Ma come a sua volta affascinata, ella si accosta alla siepe; per qualche momento ci sorridiamo, ci parliamo con gli occhi; ella non ha più paura né pietà di me, lo sento, ma solo un piacere istintivo di guardare come son fatto, di osservare le mie vesti, la mia cravatta, il taccuino che io ho di nuovo tirato fuori e dove scrivo pregandola di dirmi il suo nome.
Ed ella mi prende il taccuino di mano e scrive senza esitare:
“Fiora”.
Guardai a lungo quel nome: poi tornai a guardai lei; sì, non poteva avere altro nome che quello.
“Fiora! Sei sola in casa?”.
“No, c’è la mamma e il capoccia che si sente male: mio padre è andato in paese”.
“Il campo è tuo?”.
— Sì, sì — ella accennò subito, voltandosi a guardare la sua terra e poi fissandomi di nuovo con una lieve aria di superbia come per farmi sentire meglio la sua condizione.
Infatti io mi sentii un po’ intimorito; ma tosto ne provai umiliazione e rabbia. Eppure se mi riesce ti voglio baciare pensai: e quasi senza accorgermene tolsi i rami dalla siepe ed allargai il varco.
“Vuoi venire a vedere il mio terreno?” Le feci cenno di entrare, tesi la mano in giro indicandole anch’io la mia proprietà; e come lei esitava le presi il lembo della manica e la tirai dolcemente; bastò questo per farle varcare la siepe.
Si camminò un po’ assieme sull’erba; lei guardava attorno curiosa, sebbene non ci fosse nulla di particolare da vedere; passando accanto ai cespugli coglieva istintivamente le chioccioline che ne guarnivano le fronde e quando ne ebbe il pugno pieno le versò in un mucchietto per terra e le schiacciò col piede.
“Dov’era il platano?” le domandai.
Guardò davanti a sé, poi mi accennò il punto più alto del terreno: dove un giorno sorgeva l’albero adesso fioriva un grande cespuglio di ginestra: e come attirati da quella macchia d’oro, ci si diresse lassù, attraverso l’erba alta e i roveti in fiore.
Ella andava avanti; a volte spariva fa i cespugli, tanto questi erano alti, poi la sua testa rossa ricompariva tra le fronde come un grande fiore. Quel punto rosso mi affascinava selvaggiamente: e la sua vista, il sole, il profumo e la poesia del luogo accendevano il mio sangue.
D’un tratto ella si volse a me col viso luminoso, facendomi cenno con l’indice verso terra che l’albero era stato lì. Ma a me parve dicesse: vieni, mettiamoci qui tra i fiori, confondiamoci con essi.
La raggiunsi e mi buttai a sedere sull’erba, all’ombra delle ginestre. Ella mi guardava, in piedi davanti a me, un po’ diffidente, un po’ vogliosa d’imitarmi. Invano io battevo la mano sull’erba per invitarla a sedere: — No, bisogna andare; àlzati, vieni con me a casa mia — ella accennava con la testa e con la mano.
Allora scrissi una specie di dichiarazione d’amore:
“Fammi il piacere di stare un po’ qui con me. Fra poco io devo andarmene; ma ritornerò, perché di questo terreno voglio farne un bel podere, per poi sposarti, o Fiora!”.
Fiora lesse e si mise a ridere.
Quel riso tornò a irritarmi: io sentivo di scherzare, certamente, ma lei con quel riso non ammetteva neppure lo scherzo.
Eppure mi piaceva anche così, sopratutto così, e mi accorgevo benissimo che anche io piacevo a lei.
Divenni melanconico: chinai la testa e rimisi in saccoccia il taccuino, senza più guardarla. Essa allora, piano piano, come senza volerlo ma spinta da un desiderio superiore alla sua volontà, si mise in ginocchio poi si accovacciò vicino a me. I suoi occhi attiravano i miei. Si stette a guardarci così, tristi, senza saper perché. Ma io ricordavo il bacio dei due amanti nel tempietto della villa, e in fondo all’anima sentivo una gioia infinita.
Lo giuro, adesso, s’ella fosse rimasta così un po’ con me, a saziarmi del solo suo sguardo, non le avrei recato male. Ma io dovetti far qualche movimento, stendere la mano per prendere la sua o per toccarle il lembo della veste, perché ella si alzò di botto e si mise a fuggire.
E io le corsi appresso: mi sembrava che ella ridesse, ridesse: e il suo riso mi pungeva più delle ortiche.
La raggiunsi subito; l’afferrai per le gonne svolazzanti, la presi fa le braccia: ella continuava a trascinarmi con sé nella sua corsa; mi parve di molinare con lei fa l’erba, in un giuoco di lotta selvaggio come quello che si faceva coi compagni nel prato della villa; finché vinsi io: l’atterrai ed essa fu mia.
Mi sembra di vederla con i capelli che nella lotta le si erano sciolti e sgorgavano a ondate nere dal fazzoletto rosso, e gli occhi spauriti, ove la grande pupilla nera nuotava come in un velo di lagrime azzurre.
— Fiora, perdonami! Per il lungo castigo che ho accettato, per il dolore che è nato dal mio delitto, e sopratutto per il bene che ha accompagnato questo dolore, perdonami.
Ma ella non perdonava. Era bella, nel suo dolore e nel suo sdegno feroce, ed io sentivo di amarla per tutta la vita.
Ma lei non perdonava. Invano mi ero inginocchiato davanti a lei e le baciavo la veste: appena poté liberarsi di me fuggì.
Dapprima credetti che andasse a denunciarmi alla sua famiglia: a farmi prendere e uccidere; e non mi mossi; ero pronto a tutto e accettavo già il castigo; ma in fondo speravo che la cosa potesse aggiustarsi con un matrimonio.
M’ero buttato di nuovo sull’erba e aspettavo. Soffrivo profondamente, ma un dolore ben diverso dal passato: d’un tratto mi sentivo uomo, anzi uomo appunto perché colpevole.
Aspettavo. Che cosa? Il castigo, la felicità? Forse tutti e due assieme Ma nulla, nessuno veniva.
Vedevo il cielo sopra di me infuocarsi: poi dopo il tramonto si fece di un azzurro cupo. Era già sera ed io aspettavo ancora. Le lucciole passavano sopra di me con i loro fili di zaffiro, tante che illuminavano l’ombra.
Allora mi sollevai, e mi misi a piangere come un bambino fuggito di casa e smarrito nella notte. Un senso angoscioso di abbandono mi vinceva. Dunque, neppure il delitto valeva ad avvicinarmi, a mescolarmi agli uomini: dunque ero destinato a vivere come le lucciole, in silenzio, nell’ombra, spandendo invano la muta luce del mio amore.
Mi alzai; mi parve di rivedere la testa di Fiora; era un punto rosso, una finestra illuminata della sua casa.
Subito mi diressi a quella volta: inciampavo fra l’erba, più ubriaco di quando m’ero sollevato dal ciglio della strada: ma giunto alla siepe mi accorsi che qualcuno aveva rimesso a posto i rami e chiuso il varco con dei rovi.
Allora fui ripreso da un senso di rabbia, però misto a dolore e a un desiderio morboso di castigo. Strappai di nuovo i rami, i rovi, riaprii il varco e penetrai nei campi di lei. Mi ero tutto graffiato: sentivo le mani umide di sangue.
Attraversai il campo di frumento, il campo di fave. Non cercavo di nascondermi: anzi di tanto in tanto mi fermavo, aspettando che qualcuno mi vedesse e credendomi un ladro mi sparasse contro una fucilata.
Sarei morto felice quella notte. Ma nessuno appariva; neppure la morte mi voleva.
Attraversai la vigna. La vigna era in fiore: e tutta vibrante di lucciole. Oh solo con la musica si potrebbe esprimere la dolcezza e lo spasimo di quell’ attimo quando io mi fermai in mezzo ai filari e d’un tratto mi trovai avvolto come da una rete di fili luminosi.
Erano le lucciole; e il profumo della vigna pareva emanasse da loro.
Mi passò il desiderio di morire; guardai in su e mi parve che gli occhi delle stelle rispondessero al mio sguardo. Qualche cosa si slanciava dall’anima mia in alto, in alto, come uno zampillo di fontana, e ricadeva su di me rinfrescando l’arsura del mio cuore selvaggio.
Desiderai di vivere, di amare, di soffrire, di darmi tutto, di diventare un uomo pur io davvero, di parlare senza parole e di ringraziare Dio di avermi fatto nascere, di farmi soffrire.
Allora continuai ad andare verso il punto illuminato, ma a misura che mi avvicinavo, il chiarore pareva alzarsi sopra di me per sfuggirmi anch’esso e non lasciarsi raggiungere. Era una finestra alta, munita di inferriata: forse la finestra della cucina, forse della camera di lei. Io non sapevo.
Forse là dentro si chiacchierava, forse un cane nell’aia abbaiava. Io non sentivo nulla. Tutto era buio nel resto della casa e la porticina dell’aia era chiusa.
Rimasi alcuni momenti immobile attaccato al muro sotto la finestra: sentivo il cuore battermi, ma null’altro.
Poi mi prese il pazzo desiderio di afferrare quel lembo di luce, come una bandiera da una vetta: mi slanciai, una, due volte; d’un tratto la luce si spense, e mi parve di averla spenta io.
Tornai indietro, nella vigna; e anche laggiù non trovai più la luminosità di prima. Tutto era diverso, tutto scuro.
Camminai fino a trovarmi davanti alla casa colonica.
Dalla parte della facciata le piccole finestre dell’unico piano sopra il terreno, e i due grandi portoni, tutto era chiuso: l’odore del fieno, del letame, delle bestie, si mescolava al profumo della notte.
Toccai tutti e due i portoni, sempre più meravigliato che nessuno apparisse: mi sembrava di sognare, di essere morto e che fosse la mia anima a errare in cerca di un rifugio.
E mi dispongo ad allontanarmi, quando nel prato a fianco della casa vedo un quadrato di luce, come una finestra aperta sull’erba: un’ombra vi si disegna: è la testa di lei! Oramai la riconosco così bene, anche nella sua ombra.
Di volo sono là: e vedo una piccola finestra illuminata, e la figura di lei che vi si affaccia immobile, più scura della sua ombra.
Dapprima non parve badare a me. Mai come in quel momento avevo sentito lo spasimo di non poter gridare.
Mi misi sul quadrato di luce sull’erba, in modo ch’ella potesse vedermi: ella restava immobile. Allora mi slanciai fin sotto la sua finestra, con l’intenzione di andare a sbattermi, a sfracellarmi contro il muro; ma io non avevo toccato questo, ch’ella, d’un botto, certamente spaventata, chiuse la finestra.
Di nuovo tutto fu buio.
Ma io non potevo andarmene così.
Mi buttai a terra, trassi il taccuino, trassi i fiammiferi: scrissi alcune righe pazze, dove confessavo il mio delitto, il mio pentimento, il mio desiderio di perdono; e sotto il mio nome.
Staccai il foglietto e l’avvolsi intorno a un sassolino che lanciai alla finestra. Il vetro si ruppe; parve ingoiarlo.
Io aspettai ancora, ma nessuno apparve.
Allora me ne tornai al paese e di là in casa della zia, alla quale feci conoscere la mia volontà ma anche la difficoltà di coltivare il terreno. Occorrevano dei denari: dove trovarne se lei non ne aveva?
Lei non ne aveva, né era donna capace di procurarsene.
Invano io la lusingavo.
“È un bel posto, con aria buona, con acqua buona. Venite a vederlo: vi piacerà. Verrete a stare con me: là potrete allevare tutte le bestie che vorrete. Saremo come in paradiso. Fabbricheremo una casetta e sarà piena di sole, di aria. Vendete questa casa, per procurarci i soldi”.
Ella si mise a ridere, lei che non rideva mai. E il suo riso mi ricordò quello di Fiora, quando le avevo proposto di sposarla.
Mi venne desiderio di ammazzare la zia. D’altronde riconoscevo ch’era un’idea ingiusta, la mia, a pretendere che ella vendesse la sua vecchia casa alla quale era attaccata come un’anima al suo corpo. Può essere brutto e vecchio quanto volete, questo corpo; la sua anima non lo abbandona volentieri! Questa ragione non mi impediva di serbare astio alla zia e alla sua casa.
Eppure questa parve cominciare ad esercitare un triste fascino anche su di me. Nei tempi dopo il ritorno dal "Platano” non uscivo mai: tutto al più continuavo ad andare a fare qualche spesa, per conto della zia, in una drogheria all’angolo della strada, dove questa s’incrocia con un’altra più larga tutta bianca di sole e di polvere con gli sfondi perduti uno nell’azzurro dei monti l’altro nell’azzurro del mare.
Rientravo a casa stordito da quell’attimo di luce, di calore; e mi sembrava di rientrare in una grotta, tanto la nostra abitazione era diaccia e ombrosa. Solo nel cortiletto cadeva il sole, a picco, ma spariva presto, lasciandovi un tepore chiuso, fermo: i muri rivestiti di verde odoravano di musco, e a questo profumo un po’ triste e voluttuoso si mischiava l’odore bestiale dei conigli.
Io me ne stavo là, seduto su una cassa rovesciata, e pensavo continuamente alla mia avventura. A volte chiudevo gli occhi e mi pareva di essere ancora nella vigna in fiore: un misterioso senso di attesa mi si risvegliava nel cuore e lagrime di tenerezza mi bagnavano gli occhi.
No, tutto non poteva essere finito così. Allora riaprivo gli occhi e prendevo il taccuino per scrivere ancora a Fiora; ma non potevo: non potevo più neppure scrivere il suo nome.
Mi pareva di essere diventato muto anche dentro di me: non potevo esprimere la mia angoscia, la mia stessa impotenza.
Eppure aspettavo sempre; non sapevo che cosa, ma aspettavo.
E io che avevo commesso il delitto avevo l’impressione di subire un’ingiustizia, perché mi si negava il diritto, il modo di ripararlo, o almeno d’espiarlo con un castigo qualsiasi.
Solo per amore di Fiora ed anche per quel senso di attesa che mi faceva sperare mio malgrado, non andavo a denunziarmi.
Ma a giorni si ridestava in me una sensualità feroce: mi pareva di aver diritto alla donna ch’era stata mia, che doveva essere ancora e solamente mia. Era come se fossi stato io il violentato e pretendevo una riparazione.
Ma tutte queste tempeste si sbattevano entro di me, inutilmente, come in un vulcano chiuso: fuori dovevo sembrare un po’ idiota, e nessuno si curava di me, neppure la zia, che pensava solo al mio benessere materiale come a quello delle sue bestie.
Eppure bastava che una foglia, un fiore, una piuma calda di sole cadessero dal muro, davanti a me, per commuovermi: li prendevo fra le dita, li esaminavo, ne sentivo l’odore, il colore: le bestie, no, non le toccavo e non le amavo; ma quelle piccole cose mute e vagabonde mi piacevano; si rassomigliavano a me: e odoravo a lungo i fiori, fino ad appassirli, e li baciavo pensando a Fiora.
Una cosa sola mi aiutava a vivere, fra tanta desolata solitudine: il sonno.
Dormivo a lungo: e mi abbandonavo al sonno come ad un vizio, non perché mi portasse l’oblìo, ma perché mi gettava in una esistenza fantastica che si univa in qualche modo alla mia avventura. Nell’addormentarmi mi pareva di essere ancora davanti ai portoni chiusi della casa colonica: li toccavo uno dopo l’altro, poi andavo a mettermi sotto la finestra di Fiora. Inciampavo e mi svegliavo di soprassalto.
Ma poi mi riaddormentavo e sognavo. Invariabilmente, i sogni mescolavano la mia vita nell’Istituto con la mia avventura. Mi ritrovavo nel giardino della villa coi compagni: andavo in cerca dell’istitutore e lo trovavo con Fiora: ma questa mi sorrideva, di sopra la spalla di lui, e bastava tanto per farmi svegliare tutto in sudore e singhiozzante.
Quell’angoscia notturna era la mia salvezza; poiché mi costringeva a piangere e nel pianto si scioglieva il mio dolore
Così passavano i giorni e le notti, tutti eguali, monotoni eppure dolci in fondo, irradiati dalla luce del mio segreto.
Ancora mi pare di vedere la zia col suo vestito grigio, i suoi capelli grigi, il viso grigio, muoversi leggera e rigida, come fatta di stagno, con un piccione violaceo in mano e l’altro sulla spalla. Lavora tutto il giorno senza concludere niente: ha la manìa dell’ordine, degli oggetti messi al loro posto, della pulizia, del silenzio.
Dio mi perdoni, ma credo ch’ella mi preferisse e mi mantenesse più che per pietà perché non parlavo: perché me ne stavo nel cortiletto e facevo parte dei suoi animali domestici.
Ma al sopraggiungere dell’estate, coi primi calori, sentii qualche cosa ribollire in me, come se il sangue intorpidito mi si sciogliesse d’un tratto nelle vene, e la mia volontà si risvegliasse.
Non potevo più dormire. Un giorno mi guardai nello specchio dell’armadio della zia, per vedermi indosso un vestito nuovo di tela ch’ella mi aveva fatto fare per l’estate: mi vidi grande e grosso più del solito, col viso grasso e colorito, le mani bianche, ed ebbi vergogna di me stesso.
Quella sera uscii; andai verso il mare. Era una notte di luna, d’una chiarezza inesprimibile: il paese era pieno di gente venuta per i bagni di mare; tutti sedevano fuori delle porte, e lungo i marciapiedi chiari di luna passeggiavano coppie di ragazze vestite di bianco, che si stringevano alla vita e si facevano delle confidenze; così bianche, così morbide che parevano le coppie dei colombi bianchi della zia.
I giardinetti lungo la strada odoravano di oleandri, e la luna era così vivida che si distingueva il colore dei fiori.
Giunto in fondo mi fermai, stordito. Davanti a me sul mare immobile il lungo riflesso della luna pareva una strada luminosa in proseguimento della mia.
Andai, andai, fino a toccare l’acqua col piede: no, non si poteva andare oltre; bisognava o affogare o tornare in casa della zia.
Mi buttai sulla sabbia, disperato, come mi ero buttato sull’orlo della strada davanti al mio terreno. Ma a poco a poco anche qui una specie di ubriachezza mi prese. Vedevo delle figure d’uomini passare sull’orlo del mare, scomposte dal lampeggiante splendore dell’acqua: se si fermavano, però, nere sull’azzurro e sull’argento, parevano quelle figure di statue che campeggiano sulle terrazze delle cattedrali, ferme di contro all’infinito.
Come dovevano essere felici questi uomini! Ciascuno di essi aveva il suo posto nel mondo, la casa dove tornare, la donna da amare. Io solo vivevo in un sogno vergognoso.
Trassi il taccuino e scrissi alla zia: “Io voglio lavorare, voglio vivere: lascio la vostra casa e me ne vado per il mondo in cerca di un posto”.
Dove, non sapevo; ma ero deciso a tutto, a fare il manovale, il mietitore, il facchino; pur di guadagnarmi la vita e potermi ancora presentare a Fiora non come un vagabondo ma come un lavoratore.
Tornai a casa con l’intenzione di lasciare il foglietto sulla tavola e di andarmene di nascosto quella notte stessa.
La lunetta della porta a vetri era illuminata; segno che la zia mi aspettava, forse inquieta per la mia assenza insolita: ma ciò non mi commosse: non volevo commuovermi più, volevo essere un uomo.
Spinsi bruscamente la porta: e subito mi fermai con un misterioso senso di terrore e di gioia nel cuore.
Un uomo vestito di fustagno turchino, con le grandi mani ossute appoggiate a un grosso bastone, sedeva sul divano del salottino: pareva stanco, col viso scuro tutto righe reclinato sulla spalla destra.
Appena mi guardò mi accorsi che i suoi occhi turchini rassomigliavano a quelli di Fiora: lo sguardo pareva mite, umile, quasi supplichevole, eppure io ci sentii subito qualche cosa di crudele, di freddo, che m’impaurì più che lo sguardo alterato della zia.
La zia sedeva accanto al tavolino rotondo posto davanti al divano, ed era rossa in viso come non l’avevo mai veduta.
— Sa già tutto, — pensai, — ebbene, meglio così.
E andai dritto, con l’impressione che una mano mi spingesse violentemente davanti a quei due, come un accusato davanti ai giudici: non potevo difendermi con la voce, ma tutta la mia persona si tendeva in atto di protesta; e vedevo delle scintille, che mi sembravano il riflesso dei miei occhi splendenti di passione.
L’uomo mi fissava senza salutarmi: la zia tese la mano verso di me, guardandolo e dicendogli qualche cosa.
Nonostante questa presentazione egli non mi salutò, non si mosse. La zia allora mi accennò di sedermi. Sedetti, in faccia a lei, davanti al tavolino. Mi pare ancora di vederci, tutti e tre, intorno a quel tavolino in mezzo al quale ardeva una lampada a petrolio che fumava: l’ombra mia e quella della zia si stendevano dietro di noi, atterrate, sul pavimento, mentre quella dell’uomo si disegnava sulla spalliera del divano e sulla parete, grande e minacciosa.
Eppure io non avevo più paura: anzi d’un tratto mi ero rinfrancato, sollevato. Ecco che finalmente qualcuno era venuto: il mio presentimento d’attesa si era avverato.
— Sai di che ti accusa quest’uomo? — chiese la zia.
Mi guardò fisso, scuotendo lievemente la testa: pareva mi consigliasse a rispondere di no.
Io accennai con la testa di sì.
L’uomo guardò la zia, ergendo d’un tratto la piccola testa serpentina: la zia abbassò la sua, abbandonando le mani sui fianchi.
Pareva l’avessero colpita, ferita, e dovesse stramazzare. Eppure mi sembrò che fingesse un poco, o almeno esagerasse.
Speranze e gioie confuse mi attraversavano il cuore. Ecco che anch’io ero diventato uomo; qualcuno mi accusava di una colpa, ed io ero pronto a confessare, a riparare, a ricevere il castigo.
La zia a poco a poco si riebbe: l’uomo non cessava di guardarla, in apparenza mansueto e un po’ afflitto: ma io lo vedevo sorridere fra le sue rughe, e mi accorgevo che egli non badava più che tanto a me: la zia era la vera responsabile, davanti a lui: quella che doveva rispondere per me e pagare per me.
Questo m’irritava. Stringevo i pugni, sotto il tavolino: — Secondo quello che accade, ti accorgerai chi sono io — dicevo con gli occhi al piccolo uomo.
La zia mi chiese il taccuino, con un gesto teatrale. Esitai a trarlo: e quando glielo diedi non ritirai la mano per essere più pronto a riprenderlo.
Le parole che lessi tornarono a turbarmi fino al profondo delle viscere; mi sembrò che fossero scritte in rosso.
“La ragazza è incinta”.
Io scrissi lentamente, con caratteri chiari e fermi:
“Sono pronto a sposarla”.
E feci leggere il foglietto alla zia; poi mi rimisi in tasca il taccuino deciso a non trarlo più. Secondo me la parola definitiva era detta
Vidi la zia rivolgersi all’uomo, riferendogli la mia risposta. E mi parve di accorgermi di qualche cosa di orribile, che subito volli credere solo una mia maligna allucinazione, e che tuttavia mi fece tanto male: mi sembrò che quei due si guardassero con un sorriso di beffa.
Si beffavano di me.
La zia però riprese subito un aspetto tragico, pur continuando a parlare: apriva le mani e scuoteva la testa sul collo come per dire che lei non aveva nessuna colpa e non accettava nessuna responsabilità. L’uomo insisteva, senza scuotersi, appoggiato al suo bastone come ad una colonna: non ho mai più veduto in vita mia un uomo così deciso ad ottenere quello che vuole.
E doveva fare delle proposte e delle minacce precise, irrevocabili, perché la zia perdeva la sua rigidità ed anche il suo incosciente istinto di commedia; il viso le si deformava, si faceva bianco, con due solchi di dolore infantile intorno alla bocca.
D’un tratto parve appigliarsi a un nuovo metodo di difesa: si rianimò, e indicandomi col dito, sempre però rivolta all’uomo, cominciò a fare dei segni maliziosi con la testa.
Intesi quello che diceva: che non ero tanto colpevole come l’uomo affermava; che forse la ragazza mi aveva dato ascolto volentieri. Allora l’uomo trasse dalla tasca interna della giacca un grosso portafoglio nero legato con uno spago; l’apri, ne tolse un foglietto piegato in quattro, che spiegò, e lesse. Riconobbi subito il biglietto che avevo buttato alla finestra di Fiora: mi sembrava di sentire le parole che avevo scritto con tanta passione, e non mi pentivo, anzi un’onda di tenerezza mi saliva dal cuore, al ricordo del martirio di quell’ora: solo mi dispiaceva di vedere il foglietto fra le mani adunche dell’uomo, e pensavo che Fiora dovesse essersene valsa per difendersi, per dimostrare che il suo fallo era involontario.
La zia ascoltava, con gli occhi aperti, di nuovo triste e vinta: si volse a guardarmi e io le accennai di sì: sì, il biglietto era mio.
Allora, mentre l’uomo tornava a legare e rimettere il portafoglio nella tasca che ebbe cura di abbottonare bene, ella mi accennò di ridarle il taccuino.
Ma io non glielo diedi: non c’era più nulla da scrivere, per conto mio. Ella si alzò e andò a prendere il calamaio e un quaderno; era il quaderno dei suoi conti, poiché ella non aveva altra carta, e lo rivolse dalla parte inversa ancora intatta; poi si mise a scrivere.
Scriveva, scriveva, con la testa reclinata, i poveri capelli grigi irradiati dalla luce della lampada. Io vedevo l’ombra del pennino correre e battere sulla carta come un becco nero; e aspettavo che ella finisse, ma non avevo curiosità di leggere.
Per me tutto era detto: non c’era che una soluzione sola, davanti alla mia coscienza, ed io l’avevo proposta.
Se non l’accettavano, che cosa volevano da me? Mi mandassero pure in carcere; ero pronto a tutto.
L’uomo aveva rimesso la mano sul bastone e seguiva anche lui con gli occhi la mano della zia: finalmente ella ebbe finito la paginetta; ma non quello che aveva ancora da dire: scosse il quaderno per asciugare ancora lo scritto, lo avvicinò alla lampada, volse poi il foglio e continuò.
La cosa era lunga!
E quando tutto fu detto, io dovetti aspettare ancora, perché la zia lesse dapprima all’uomo quello che aveva scritto: e l’uomo approvava con la testa; in ultimo dovette fare qualche osservazione perché qualche riga fu aggiunta a quelle già scritte, poi il quaderno passò in mani mie. Lessi con calma: mi pareva non si trattasse più di me.
“Si tratta di una cosa grave, ed io non credevo che tu potessi macchiarti di un delitto così vile. Hai rovinato una fanciulla innocente, laboriosa e onorata: la ragazza è fidanzata ad un suo giovane cugino che fortunatamente non la vede spesso, perché sta in Romagna.
Essa dice che troverà il modo di rompere questa promessa di matrimonio, perché non vuole ingannare il giovane: però di te non vuole saperne. Ti odia. Le hai destato tanto terrore che, dopo il tuo delitto, è rimasta parecchio tempo malata. Non ha però rivelato nulla alla sua famiglia finché i segni della sua sciagura non si sono palesati. Per fortuna aveva il tuo biglietto per difendersi, altrimenti il padre l’avrebbe uccisa.
Adesso si tratta di questo: d’incaricarci noi della creatura, quando nascerà. La famiglia della ragazza farà di tutto per occultarne la disgrazia: ma alle conseguenze dobbiamo pensare noi.
Io sono povera, lo sai: fintanto che si trattava di aiutare te solo, mi riusciva facile; ma adesso non saprei come fare e declino ogni responsabilità”.
Io scrissi sotto le parole della zia:
“Non inquietatevi. Mi incaricherò io della creatura”.
La zia lesse e mi guardò, di sotto in su, senza più nascondere una vaga espressione di compatimento e di derisione; ma dovette scorgere sul mio viso qualche cosa di mutato, di grave, perché anche lei si rifece seria; e porse all’uomo il quaderno, con una certa soddisfazione, come se la promessa che era sgorgata spontanea dalla mia coscienza me l’avesse strappata lei con le sue parole.
E l’uomo lesse, senza mutare aspetto, poi lestamente strappò il foglio dal quaderno, lo piegò in quattro e lo mise in tasca.
L’atto fu così rapido e naturale che non mi diede tempo d’impedirlo e neppure di protestare.
Del resto io non avevo intenzione di ingannare nessuno: e stetti fermo a guardare quei due, che riprendevano a parlare. La zia ogni tanto tendeva la mano verso di me e pareva ripetesse la sua ultima frase scritta; ma l’ometto oramai era sicuro che, giunto il momento ella mi avrebbe aiutato. Finalmente egli si alzò, appoggiando forte le mani al bastone.
Allora mi accorsi che era quasi un nano; ma con le mani e i piedi così grandi che non sembravano suoi. E su quei grossi piedi egli si teneva come su un piedestallo, mentre in quelle sue mani ossute, pietrose, doveva concentrare una forza enorme: ed io pensavo che il progetto di liberarsi della creatura, senza noie, doveva essere tutto suo: forse Fiora non voleva, non doveva volere; ma egli la costringeva a tanto: forse Fiora non mi odiava, com’egli diceva, forse era una vittima più sua che mia.
Decisi subito di andare a cercarla; dopo tutto ne avevo il diritto: ma mi guardai bene di farlo sapere. Mi sentivo anch’io furbo: forse perché pensavo che la zia e l’ometto lo erano tanto.
Anche la zia si alzò, rimise a posto la sua sedia, accompagnò l’uomo fino alla porta: e nell’andarsene egli mi salutò con un solo cenno del capo; ma il suo sguardo fu così vivo e penetrante che mi si cacciò fin dentro l’anima: sguardo d’odio e tuttavia di fiducia in me.
Alla mia volta io pensavo di vincerli tutti e due; con l’astuzia, ma vincerli.
Intanto rimanevo fermo al mio posto.
— Vattene, gnomo, — gli dicevo con gli occhi, — vattene, immagine viva della mia disgrazia; torna nella notte donde sei venuto: io ti porterò via la creatura, ma ti porterò via anche tua figlia; sono mie tutte e due, e voglio averle e le avrò: non so come, ma le avrò, a dispetto tuo e della mia disgrazia. Domani...
Il riavvicinarsi della zia mi ruppe in mente i propositi per il domani. Cauta, come se l’ometto fosse ancora lì, si chinò sul tavolino e scrisse sul quaderno:
“Hai fatto bene a promettere: ma come manterrai? E se non manterrai ti metteranno in carcere. L’unico rimedio è di andartene in America: io ti aiuterò”.
Mi fece leggere; poi a imitazione dell’ometto ridusse a pezzi il foglio.
Io non risposi, e forse ella credette che prendessi tempo a pensare, ad accettare la sua proposta.
Io non risposi, perché non avevo nulla da cambiare alla risposta già data.
Però quando sollevai gli occhi a guardare in viso la zia, essa mi sembrò brutta e deforme; più dello gnomo che se n’era andato.
Perché non voleva ch’io facessi il mio dovere, che era anche il mio piacere? Era una cosa tanto semplice, il farlo! Anche se io non riuscivo a trovare da lavorare e guadagnare, si poteva prendere con noi la creatura. Che cosa costava? Coi denari che ella voleva darmi per fuggire in America, si poteva allevarla. E perché mai la zia, che amava le sue bestie, che aveva preso me in pura perdita, non voleva la mia povera creatura?
Ma ella forse voleva combattere d’astuzia con l’ometto; e voleva anche vincerlo.
Bisognava dunque più che mai procurarmi un posto; non lontano, però; anzi lì vicino, il più vicino possibile.
Il domani mattina andai dal droghiere, per le solite spese. Era presto; lungo la strada ancora deserta s’allineavano le casse delle immondezze; eppure l’aria odorava di fiori, di mare, di resina.
Mi sentivo felice, come ci si sente nei primi giorni tiepidi dopo il raggrinzamento invernale.
Mi sentivo capace di chiedere lavoro al primo che incontravo per la strada, e per dimostrare la mia forza fisica pronto a svellere le cancellate di ferro dei giardinetti, e le pietre dei muri.
Ecco il mare in fondo alla strada: mi sembra uno specchio che riflette la luce inquieta dei miei occhi e con essa la mia fede e la mia speranza.
Attraverso le due porte d’angolo della drogheria si vedevano alcune donne davanti al banco servite da un uomo secco, nero, col labbro inferiore della bocca beffarda e dolorosa penzolante.
Era il droghiere in persona. Si chiamava di nome e di cognome Tobia, e doveva aver sangue ebreo nelle vene; stava sempre lui al banco, sebbene fosse ricco: possedeva una fila di case mobiliate che affittava ai bagnanti, e barche da pesca e uno stabilimento balneare dove era sorvegliante il suocero.
Ed ecco la prima persona che, prima d’entrare nella drogheria, vedo nella strada, è appunto questo sorvegliante, antico marinaio; ma più che di marinaio, ha l’aria d’un pescatore, alto, pesante, scalzo, con pantaloni turchini rimboccati sulle gambe possenti e una maglia gialliccia che gli disegna il petto grasso e il ventre prominente.
Ha sulle spalle una rete, gonfia come una vela, e in mano una specie di tridente: un cappellone di paglia copre i suoi capelli bianchi e arruffati come un’onda di spuma. Se ne va calmo, forte sui suoi piedi d’elefante e tuttavia con un’andatura un poco ondeggiante che pare imiti il movimento d’una barca.
Spinto da un’idea confusa io gli vado appresso finché gli sono alle spalle e lo costringo a voltarsi, a vedermi. Gli stavo così addosso ch’egli sulle prime credette che l’avessi fatto per sbadataggine. Ma io lo abbracciai: allora il suo viso d’un rosso scuro, tutto rugoso, si coprì come di una patina lucente: sorrideva.
Aveva tutti i denti intatti, di vecchio lupo, e gli occhi del colore del mare. E comincio a farmi dei cenni con la testa domandandomi dove andavo e che cosa volevo.
Gli accennai che cercavo di lui. Di lui? Si fermò, fermandomi per il braccio.
Trassi il taccuino e scrissi:
“Ho bisogno di lavorare”.
Ma egli non sapeva leggere; e me lo fece sapere in modo grottesco, chiudendo gli occhi e battendo il dito sul taccuino per indicarmi che non vedeva la scrittura.
Allora io feci atto di chi conta monete e mi battei la mano sul petto per significargli che avevo bisogno di guadagnare.
Egli si fece pensieroso, poi mi guardò con sorpresa, infine con una cert’aria di derisione, che però sfumò subito: si rifece pensieroso: forse vedeva l’ombra di tristezza che passava nei miei occhi nell’accorgermi che anche lui mi credeva incapace di lavorare.
Riprese a camminare ed io gli andai a fianco: egli aveva rivoltato la fiocina e la ficcava per terra; e scuoteva la testa: che lavoro poteva darmi? Se fosse stato in lui mi avrebbe subito nominato capitano di porto o qualche cosa di simile: ma egli non poteva niente ed era difficile darmi un posto, con la mia disgrazia!
D’un tratto si volse, tornò indietro accennandomi di seguirlo: e mi condusse dal droghiere.
Il droghiere stava sempre al banco a servire le donne, col suo solito modo di prendere e pesar la roba con evidente dispiacere: poiché amava di vendere, ma avrebbe voluto pigliare i quattrini e non far diminuire la merce negli scaffali.
Nel vederci entrare guardò il suocero con inquietudine, pauroso che qualche cosa d’insolito fosse accaduto nello stabilimento: il vecchio stava vicino a me, in atto di protezione: appena disse quello che io desideravo le donne si volsero a guardarmi, qualcuna con pietà, qualche altra con curiosità e anche con benevola derisione.
Forse pensavano che la zia mi avesse cacciato di casa: mi fece dispiacere quel modo di trattare i miei affari, ma in fondo ero disposto a tutto, pur di trovare lavoro.
Il droghiere aveva ripreso a servire le donne e a segnare i conti su pezzi di carta straccia: io già provavo un senso di umiliazione credendo ch’egli neppure desse risposta alla raccomandazione del suocero, quando uno di quei brani di cartaccia gialla fu dato anche a me come un conto: c’era scritto: “Torna da me verso la una”.
*
Verso la una ero davanti alla drogheria deserta, accecato dal sole della strada, dal barbaglio del mare che pareva uno specchio mosso, e dai miei folli sogni per l’avvenire.
Il vento gonfiava la tenda sopra la porta; un odore di pepe e di caffè usciva dal negozio come da una scatola di droghe.
Guardo dalla porta; non c’è nessuno; certo, son venuto troppo presto; ma il vento apre anche una tendina rossa in fondo alla drogheria e lascia vedere un giardinetto verde pieno di fiori gialli e rossi.
Tobia era lì; in maniche di camicia, abbandonato su una sedia con la spalliera inclinata verso il muro; e dormiva, stanco.
Chiunque avrebbe potuto saccheggiargli il negozio: egli dormiva, stanco di aver venduto a caro prezzo la sua roba diletta.
Ma appena io misi piede nel negozio si svegliò di soprassalto e mi venne incontro quasi spaventato. Dapprima parve non ricordarsi, poi si mise al banco come per vendere, e io davanti come per comprare: e mi interrogò coi piccoli occhi porcini, di solito sfuggenti allo sguardo che li cercava. Io avevo preparato una specie di breve memoriale dove raccontavo quello che avevo imparato nell’Istituto, e come non volendo più vivere alle spalle della zia desideravo ardentemente di lavorare e di guadagnare.
L’ebreo lesse attentamente, anzi con una certa curiosità; poi mi restituì il foglio. E così fece in seguito per tutti i foglietti sui quali io gli scrivevo qualche cosa.
Al contrario del padre di Fiora, non amava far raccolta di documenti e scritture a meno che non fossero di un valore serio e indiscutibile!
Ecco dunque la conversazione scritta fra me e lui:
Tobia: “Tutto questo va bene; ma, caro, è difficile trovare un posto d’agronomo, nelle tue condizioni”.
Io: “Ma io posso accettare di lavorare anche come contadino”.
Tobia: “Non ti conviene, caro, dimmi, piuttosto, perché non pensi a coltivare il tuo terreno?”.
Io: “Ci penso, sì, ma non ho denari”.
Tobia: “Quanto ti occorrerebbe?”.
Io: “Per adesso duemila lire”.
Tobia: “Il tuo terreno quanto vale?”.
Io: “Cinque o sei mila lire, com’è adesso”.
Tobia: “Se qualcuno ti offre le duemila lire in prestito, saresti tu disposto a firmare una cambiale ed a lasciar accendere un’ipoteca sul tuo terreno?”.
Io ero disposto a tutto, anche a lasciare accendere un’ipoteca dal diavolo sull’anima mia.
Il droghiere Tobia mi significò essere lui medesimo in persona che dava i denari: prima però doveva informarsi se davvero il mio terreno era coltivabile, e volle sapere da me come intendevo disporre di quelle prime due mila lire.
Io avevo fatto tante volte i miei conti; mi bastava in principio una capanna, degli strumenti per dissodare la terra, e piante e sementi. L’acqua c’era: bastava incanalarla.
Tobia leggeva i miei foglietti e mano mano me li restituiva, pensieroso. Pareva studiasse sul serio il modo di aiutarmi, senza però farsene merito: infine, siccome qualcuno entrava nella drogheria, mi accennò di andarmene. Quando mi ritrovai nel sole della strada, lo splendore del mare mi parve dentro l’anima mia. La vita si spalancava davanti a me luminosa.
L’istinto non m’ingannava, circa Tobia: sentivo ch’egli mi dava i denari a usura, con la sicurezza di riaverli, ma più sicuro ero io, di restituirglieli.
Ed egli mi diede i denari e io firmai la cambiale.
Questa, sì, egli la mise ben dentro il suo portafoglio, come il contadino aveva messo il mio biglietto disperato a Fiora.
Solo che invece di duemila lire, togliendone gl’interessi anticipati e le spese per l’inscrizione ipotecaria, mi diede millesettecento lire: e la cambiale era a sei mesi di scadenza.
Che importa? Che importa? Anche Dio spesso ci dà la felicità a usura: tutto è a usura nella vita: basta sapere anche noi sfruttare bene l’anima e le forze nostre, per poter pagare gl’interessi e profittare anche noi.
Io penso così adesso. Allora non pensavo che a godermi la mia felicità, fatta di speranza, di sogno, di amore: ricetta della vera felicità.
Con quei denari in tasca amavo tutti, anche Tobia, anche il padre di Fiora, anche la zia.
A questa, però, non dicevo ancora nulla. E anche Tobia si guardava bene dal dir nulla del nostro affare.
La vita in casa, continuava come prima: la zia non accennava mai alla cosa che era in fondo a tutti i nostri pensieri, e io pure non mi confidavo con lei: ma la vedevo più seria del solito, preoccupata, e avevo rimorso di darle dispiacere: mi faceva pena, ma non potevo confidarmi con lei. Avevo l’impressione che di noi due la sordomuta fosse lei.
Un giorno le feci sapere che andavo di nuovo a visitare il terreno perché intendevo di mettermi a coltivarlo. Ella si scosse tutta, e mi sembrò sulle prime si rallegrasse all’idea di liberarsi di me: poi le vidi gli occhi pieni di lagrime. In quel momento mi accorsi che mi voleva bene: come alle sue bestiole, forse, ma insomma mi voleva bene.
Mi preparò il cestino per il viaggio, come l’altra volta, e mi offrì del denaro: presi il primo, ma non accettai altro. Più tardi la zia mi disse che aveva sempre creduto che viaggiassi a piedi.
Ed eccomi di nuovo sulla strada dritta interminabile che all’orizzonte pare si ficchi nel cielo: ma adesso è tutta d’un bianco che fa male a guardarlo, e le macchie e i cespugli da una parte e dall’altra sembrano coperti d’un nevischio sporco, tanto son polverosi.
Una tristezza e un’arsura da deserto: e in tanta desolazione la casa e i campi di Fiora appaiono davvero come un’oasi.
Io passo a testa bassa, rasentando i muri e le siepi per non farmi vedere, avviato dritto al mio terreno; i portoni della casa sono aperti e con la coda dell’occhio vedo gente: una donna che scopa, un ragazzo che gioca con un cane. Sfuggo alla loro attenzione, ma più in là incontro dei mietitori con falci in mano, e anche nei campi vedo uomini che lavorano.
Gran parte del campo era mietuto: i covoni del grano stavano al sole, e i mucchi del fieno al confine del prato parevano, sull’azzurro dello sfondo, piramidi dorate. Fra tutto quel giallo la vigna spiccava più verde, ed in alcuni filari le viti piegate ad arco s’inseguivano l’una intrecciata all’altra come una pianta sola: e i grappoli pendevano gravi, con gli acini già tinti di viola.
Per la prima volta pensai che Fiora era ricca; eppure lei stessa me lo aveva fatto ben capire, quel giorno! Mi feci triste, vergognoso; una specie di timor panico mi prese: avevo paura che il nano mi vedesse e mi rincorresse come un ladro: tanto che andai oltre, fino al bosco.
Lassù tutto era ancora frescura e solitudine. Mi gettai sull’erba, all’ombra ridente dei pioppi; il venticello del pomeriggio cominciò a scaturire di lassù, dalle cime argentee, come per farmi piacere, e andò nel prato di Fiora: ritornò con l’odore del fieno, mi avvolse, mi confortò.
Questa volta sentii che proprio ero nato per vivere all’aperto, foglia tra le foglie, granellino di terra nella terra. Perché aver paura degli uomini? Il terreno mio era mio, e nessuno poteva proibirmi di entrarvi e di restarci. Se mi facevano del male peggio per loro: male più male di quello che mi facevano col destarmi paura non poteva essere.
Il vento mi diceva tutte queste cose, col suo alito e il suo profumo: e quando mi fui ben riposato e rifocillato (questa volta però non bevetti) tornai indietro sicuro ed entrai nel mio terreno.
Eppure il cuore mi batteva, nell’avvicinarmi al punto dove avevo preso Fiora; il cuore mi batteva, e il desiderio di rivedere la ragazza, il rimorso, la stessa vergogna di aver peccato bestialmente mentre tutto in me era sogno e bisogno di elevazione, mi facevano di nuovo vedere rosso.
Di nuovo sono a terra: la rabbia della mia impotenza mi riprende, e con essa la vergogna di aver paura di tutto e di tutti.
Mi pareva che il cielo sopra di me s’iniettasse di sangue, come un grande mite occhio azzurro d’un tratto divenuto feroce. Quando mi alzai mi parve di essere alto, sempre più alto, sino a dominare ogni cosa intorno a me, dall’altura del mio terreno, come dalla cima di una montagna.
Il sole tramontava: nel campo gli uomini lavoravano ancora, curvi, piccoli piccoli: anche la casa colonica coi suoi vetri scintillanti mi pareva una casetta di cartone e di perline: mi sentivo così alto e forte da stritolare ogni cosa sotto il mio piede.
In questo stato di furore tornai nella casa di Fiora: ma invece di passare per l’aia come l’altra volta entrai dal portone laterale che metteva nella stalla.
Grandi vacche grigiastre e un bel toro ricciuto vi sonnecchiavano, immobili come idoli di pietra: la donna che avevo notato nel passare poco prima buttava secchie d’acqua per terra; nel vedermi sulla soglia mi venne incontro domandandomi qualche cosa: era piccola coi capelli grigi e gli occhi azzurri; doveva essere la madre di Fiora. E poiché io non le rispondevo si fece a un tratto pallidissima e spalancò gli occhi spaventati: mi riconosceva.
La sua paura fece cadere la mia rabbia; non solo, ma accrebbe in me il senso della vergogna e del rimorso: feci quasi per inginocchiarmi sulla soglia, domandando perdono alla madre per il male che avevo fatto alla figlia; ma dall’aia rientrava il ragazzetto col cane e mi irrigidii. Anche la donna stava immobile come le sue vacche, impietrita dallo spavento e dalla sorpresa. Le porsi un foglietto dove avevo scritto: “Desidero parlare con Fiora”.
Anche lei non sapeva leggere: guardò il foglietto da una parte e dall’altra, poi lo diede al ragazzo; e questo lo decifrò, mentre il cane gli si rizzava addosso come volesse leggere anche lui.
Poi vi fu una lunga spiegazione fra la donna e il ragazzo: infine questi mi tolse il lapis che avevo fra le dita, si piegò, e appoggiò il foglietto sul dorso del cane. Non dimentico questa scena. Il cane, un tozzo e terroso cane da guardia, stava fermo, quasi compiacendosi dell’uso che si faceva di lui, ma mi guardava di sottecchi, con uno sguardo malizioso e buono, fisso e attento: pareva volesse dirmi: sappiamo chi sei e adesso ti serviremo noi a dovere.
Infatti quando il foglietto tornò in mie mani lessi a stento queste parole: “Fiora è andata con la sua mamma dagli zii in Maremma”.
Dunque la donnetta non era la mamma? No, era la nonna, e il ragazzetto era figlio di uno dei mietitori che lavoravano nel campo. Tutto questo mi fu spiegato a cenni e con qualche parola scritta: ma di Fiora non mi riusciva di saper altro tranne che era in Maremma.
La Maremma è grande, ed io guardavo l’orizzonte attraverso la finestra come cercando il punto ignoto dove Fiora stava nascosta. Allora mi tornò la rabbia; non potevo però sfogarmi con la povera donnina e col ragazzo: mi venne un’idea; scrissi: “Io sono il proprietario del terreno qui accanto e sono venuto perché voglio coltivarlo e stabilirmi qui. Desidero parlare con vostro figlio”.
Nel trarre e riporre il taccuino ebbi cura di tirar fuori anche il portafoglio e di aprirlo, in modo che quei due videro i denari dentro riposti.
E subito alla vecchia brillarono li occhi: a misura che le veniva spiegato lo scritto mi si avvicinava e mi faceva dei cenni di sì, di sì, con la testa: anche il cane addossato al ragazzo stava ad ascoltare curioso, movendo lentamente la coda.
Tutto si metteva bene. La donna mi accennò di seguirla: mi fece entrare nella stanza da pranzo, dove, mi ricordo, c’era solo una grande tavola di noce circondata di sedie e sulla parete un quadro ad olio col ritratto a vivi colori del padre di Fiora. Sul viso del ritratto, rosso e lucido come una mela, gli occhietti azzurri parvero guardarmi dall’alto con un sorriso beffardo; ma quando la vecchietta mi lasciò solo, io sedetti di faccia a lui e lo fissai sfidandolo. Ed ecco l’originale del ritratto venir rapido dalla parte dell’aia, in maniche di camicia, con una roncola in mano: ma non era rosso in viso, no; anzi era pallido; e non sorrideva come nel ritratto; anzi vedendomi ed accertandosi ch’ero proprio io, e che il mio aspetto non era del tutto rassicurante, mi guardò diffidente, poi si avvicinò a me esitando, e come io mi ero alzato in piedi mi accennò di rimettermi a sedere.
La donna lo seguiva; egli le disse qualche cosa ed ella si avvicinò alla finestra che dava sull’orto e chiamò qualcuno: ebbi l’impressione ch’essi avessero paura di me: tanto meglio.
L’uomo intanto si era seduto dall’altro lato della tavola, senza abbandonare la sua roncola. Allora io trassi il taccuino e ne strappai alcuni foglietti bianchi. Sul primo scrissi:
“Sono venuto a chiedervi la mano di Fiora. Voglio coltivare il mio terreno, e fabbricarci una casa”.
Spinsi il foglietto attraverso la tavola: l’uomo lesse; parve rassicurarsi; sollevò il viso e mi guardò. Ah, adesso, sì, i suoi occhi rassomigliavano a quelli del ritratto. Egli si rideva di me. Ma io tornai ad alzarmi, come sull’altura del mio terreno, e il mio aspetto e i miei occhi avevano certo qualche cosa di minaccioso perché l’uomo ripiegò tosto il capo e rilesse il foglietto. Io feci il giro della tavola, mi misi accanto a lui, dominandolo con la mia persona; gli posi il lapis davanti. Egli ne bagnò la punta con la saliva, scrisse:
“Fiora è fidanzata: lei sola deve scegliere il suo stato”.
Io mi chinai e scrissi:
“Voglio sapere subito dov’è”.
E con mia gioia e sorpresa l’uomo mi diede l’indirizzo di lei.
Potevo dunque cercarla, scriverle, dirle tutta la mia pena e le mie speranze, farmi intendere da lei. Fu tanto il mio sollievo, che non mi impressionò il vedere d’un tratto alcune figure d’uomini aggrapparsi alla finestra alla quale si era affacciata la vecchia. C’era anche il ragazzo col cane: e tutti mi guardavano attraverso le sbarre dell’inferriata come una bestia rara e pericolosa in gabbia. Lo stesso cane aveva una diversa disposizione verso di me: abbaiava, e il ragazzo doveva tenerlo fermo per impedirgli di entrare nella casa.
Io non avevo più paura di nulla, di nessuno: mi sentivo la forza di lottare anche coi cani arrabbiati. Misi il foglietto con l’indirizzo nel portafoglio e anche questa volta lasciai intravedere il denaro che avevo là dentro. Vidi il ragazzetto che si volgeva agli uomini come per dire: vedete che non sono stato bugiardo, e subito mi pentii del mio atto. I mietitori erano tutti dei poveri diavoli, tristi, bruciati dal sole e dalla fatica: mi pareva di averli insultati col far loro vedere il mio denaro e la mia speranza. Se ci fosse stata un’osteria lì accanto, li avrei invitati a bere: non potevo domandare del vino a quell’uomo che non cessava di tenermi d’occhio, con la sua roncola in mano: però mi venne una delle solite idee: salutai, e nell’andarmene feci segno al ragazzetto che mi venisse incontro nella strada. Ci arrivò lui prima di me. E io gli diedi una moneta, accennandogli di comprare del vino e distribuirlo a mio nome ai mietitori.
Avevo fatto qualche centinaio di passi quando due di essi mi raggiunsero e mi si misero uno per fianco, cercando subito di farmi intendere qualche cosa: mi proponevano, a quanto ho potuto capire, di farli lavorare nel mio terreno. Erano tutti e due scalzi, coi piedi enormi di vagabondi, coi capelli rossicci e il petto nudo che pareva scorticato. Al tramonto le loro ombre si allungavano come due pali davanti a me ai fianchi della mia ombra tozza; e le loro falci scintillavano. Mi destarono dapprima un senso di diffidenza: mi sembrava, guardando le nostre tre ombre sul bianco della strada, di essere Cristo fra i due ladroni. Ma gli occhi dei due uomini erano buoni, dolci, e mi rassicuravano.
Si arrivò al paese che era già sera. Il mio treno partiva alle dieci e io mi fermai per mangiare qualche cosa in una piccola trattoria popolare vicina alla stazione, ove di solito cenavano i ferrovieri, gli operai, i carrettieri e i facchini.
Anche i miei due compagni entrarono poco dopo di me e presero posto a una tavola accanto alla mia. Ma ordinarono solo del vino. Avevano con loro del pane e pomidoro; ed uno di essi mi accennò scherzosamente se volevo partecipare al loro pasto.
Il locale costruito in legno, cucina e sala da mangiare assieme, era rischiarato da lumi ad acetilene che spandevano un odore soffocante e una luce cruda velata dal fumo dei fornelli. Uomini in camiciotto azzurro, soldati e ferrovieri entravano ed uscivano. Non si vedeva una donna, tranne quelle che stavano nella cucina.
Io ordinai uova e frutta e del vino bianco che subito mi diede una leggera ubriachezza. Alcuni soldati vennero a sedersi alla mia tavola; erano giovani allegri e si urtavano ridendo e offrendosi il vino con tale insistenza che se lo versavano addosso. Mi venivano in mente i miei compagni d’Istituto, i giuochi e gli spintoni con loro.
Una grave tenerezza mi vinceva: quel movimento, quelle luci attorno, mi davano un piacevole capogiro; pensavo di prendere il treno, ma di non fermarmi presso la zia: potevo proseguire in cerca di Fiora: consultai l’orario: quando sollevai gli occhi non vidi più i due mietitori. Il locale era pieno di gente; il padrone con tre bottiglie e tre piatti per mano non faceva a tempo a servire tutti.
Suonai più volte perché mi portasse il conto: egli sembrava più sordo di me. Stanco di aspettare, mi alzo e vado in fondo, verso la cucina: urto contro qualcuno; finalmente riesco a farmi capire: ma quando cerco i denari per pagare mi accorgo che non ho più il portafoglio.
Conservo un ricordo confuso come quello che si ha dei sogni, di quanto avvenne dopo. Mi colse una forte vertigine. Tanto che dovettero sostenermi e farmi sedere: tutti mi si affollarono attorno. Quando riuscii a riprendermi e a far intendere di che si trattava, vidi qualcuno sorridere come se io facessi per finzione.
Poi fui condotto dal Commissario di polizia.
Camminavo come un ubriaco: sebbene convinto che il portafoglio mi era stato rubato dai mietitori, non osavo affermarlo neppure a me stesso. E se mi ingannavo? Avevo un rispetto della giustizia così forte, per la stessa ingiustizia che mi perseguitava, che non volevo accusare nessuno.
Eppoi, passato il primo stordimento, a misura che camminavo in quella strada di paese sconosciuto, accompagnato da una guardia come fossi io il colpevole, provavo un senso di rimorso, ed anche un oscuro timore di cose peggiori: sentivo che con la perdita del denaro non mio, con quell’umiliazione e quel danno, scontavo anch’io qualche cosa.
E il lungo e comico peregrinare mio e della guardia prima di ritrovar giustizia mi richiamò a me stesso. In questura il Commissario non c’era, e neppure nella trattoria dove di solito mangiava, e neppure al caffè.
Finalmente lo si trovò che passeggiava solitario con le mani intrecciate sulla schiena, lungo la stessa strada che conduceva al mio terreno. Mio? Non più mio perché il droghiere me lo avrebbe preso. A questo pensiero l’angoscia mi serrò forte il cuore: e il mio aspetto doveva rivelare tutto il mio avvilimento, perché il Commissario ascoltava la guardia che gli raccontava il fatto ma fissava su di me i suoi occhi lucenti alla luna. Era giovane, distratto: doveva essere innamorato. Eppure quegli occhi m’impaurivano: mi pareva che egli indovinasse già tutto il mio dramma; il segreto che di cosa in cosa triste mi aveva condotto fino a lui.
Allora decisi di dire che nel portafoglio avevo solo qualche diecina di lire, e di tacere della mia visita alla casa colonica e del viaggio coi mietitori; non accusavo nessuno: forse avevo perduto il portafoglio.
Fermi al chiaro di luna in quella strada bianca che conduceva al luogo del mio sogno e del mio dolore, il Commissario ed io gesticolavamo parlando secondo il metodo che m’avevano insegnato nell’Istituto e che egli conosceva benissimo: e le nostre ombre ripetevano i nostri gesti come monelli che si beffassero di noi.
Così non riebbi il denaro. Forse se dicevo la verità si ricercavano i mietitori o l’uomo che mi aveva urtato nell’osteria, e i denari si ritrovavano. Ma io avevo dentro di me il mio segreto e questo di giorno in giorno si faceva più grave e mi tirava giù e mi atterrava. V’erano dei giorni in cui veramente mi sembrava di non potermi più sollevare di terra. Me ne andavo sulla riva del mare, poiché in casa della zia soffocavo, e stavo giornate intiere buttato sulla sabbia, istupidito dal sole e dalla disperazione.
Non avevo neppure scritto a Fiora: che cosa dovevo scriverle? Non avevo più nulla da offrirle.
Non avevo neppure parlato del furto al mio creditore: che gliene importava? Egli mi avrebbe preso il terreno, con grande suo vantaggio.
Non volevo più pensare all’avvenire: accada quel che vuole accadere: facciano di me quel che vogliono: mi prendano tutto, mi mettano in carcere. Adesso sono davvero sordomuto, sono il vagabondo errante lungo la riva del mare; festuca fra le festuche rigettate dalle onde.
La spiaggia a volte si pienava di gente. I bambini s’affollavano intorno a me come intorno ad un annegato: io restavo indifferente. Chiudevo gli occhi, li riaprivo: ero di nuovo solo, accanto a una barca capovolta coperta da un drappo, che mi dava l’idea di una barca morta: un’altra, più in là, verde e rossa, sembrava un grande frutto strano caduto sulla sabbia.
Se chiudo gli occhi mi sembra di essere ancora là.
I bambini si sono tutti buttati in mare come una torma di diavoletti di tutti i colori: l’onda spumosa si precipita contro di essi e pare voglia travolgerli, poi a misura che si avvicina si placa, s’insinua fra le loro gambe con furia bonaria e pare solo un po’ annoiata della loro lieve resistenza e della libertà ch’essi si prendono di scherzare con lei.
La folla dei bagnanti ripassa: sembra una interminabile mascherata, una festa in riva al mare. Donne coi capelli sciolti, seminude o vestite di veli svolazzanti sull’azzurro: bambini rossi che sembrano di corallo, uomini in maglia con tutte le loro brutte forme in mostra, bei giovanetti agili che volano fra cielo e mare.
La processione continua ore ed ore, dalla mattina alla sera, accompagnata dall’andare e venire dell’acqua luminosa.
Al tramonto la spiaggia si spopolava: allora vedevo il sole cadere davanti a me, rosso sul cielo rosso; e avevo l’impressione che si schiacciasse contro la lastra metallica del mare. Le paranze tornavano dalla pesca, a due a due, bianche come colombe: nulla mi commoveva.
Solo una volta mentre me ne tornavo a casa disfatto, uscii dalla mia apatia. Un bambino di pochi mesi, nudo, con una cuffietta rossa, mi si era aggrappato alle gambe, sfuggendo alle mani di una giovane donna.
Io mi fermai di botto come preso da un laccio: e qualcosa di misterioso, un flutto di gioia e di angoscia, mi salì dal profondo delle viscere. Pensavo alla creatura mia che doveva nascere.
Allora scrissi a Fiora: ma dopo qualche giorno la lettera mi fu respinta: "Destinataria sconosciuta al portalettere" . L’indirizzo che il nano mi aveva dato era falso.
Passavano i giorni, le settimane. In fondo io li contavo, come a volte meccanicamente si contano i passi che ci conducono al termine di una strada. Eravamo già alla fine di ottobre; quattro mesi ancora, e qualche cosa di nuovo, d’inevitabile, doveva accadere. Sarei andato io a prendere la creatura o ce l’avrebbero portata? E la zia che pensava? La zia non aveva più riparlato del nostro triste segreto, ma era sempre pensierosa, preoccupata. Un giorno rientrando sul tardi a casa, la vidi seduta nel cortiletto senza far niente, cosa che non le accadeva mai. Aveva le mani in grembo, la testa bassa: e quelle mani scarne e stanche di vecchia zitella, e quei capelli grigi e tristi mi turbarono. I gatti e i piccioni la circondavano, le si posavano sulle falde del vestito, sull’omero, sul ginocchio: ella non se ne accorgeva.
Al mio avvicinarsi trasalì; e le bestiole volarono e scapparono via da lei come da un nido.
Le sedetti accanto e la guardai: e anch’essa mi guardò: e ci si sentì finalmente un po’ vicini, nella penombra della nostra tristezza e del cortiletto coperchiato dalla lastra vitrea del cielo crepuscolare.
Sentivo ch’ella doveva sapere qualche cosa del mio debito e se ne affliggeva. Dovevo ormai rappresentare per lei qualche cosa di mostruoso; uno di quei degenerati che sono il martirio delle famiglie: eppure non mi scacciava, non mi rimproverava neppure: perché? Mi venne in mente il dubbio che ella avesse paura di me: e infatti, sì, qualche volta avevo avuto impeti di odio e male idee contro di lei. Un brivido mi fece tremare l’anima al pensiero che forse ero capace davvero di farle del male.
Ancora una volta mi vergognai di vivere a carico suo, di non riuscire a procurarmi neppure il pane. E volevo gravarla anche del peso della mia creatura?
Una disperazione ardente mi morse, ma a fondo questa volta: non più la disperazione vile di quelle settimane d’inerzia, ma un desiderio vivo di finir di soffrire e di far soffrire.
Morire.
Poiché non avevo la capacità di saper vivere, non mi restava che morire.
Ed ecco che me ne torno sulla spiaggia, adesso completamente deserta. Come è bella, la spiaggia, in questi giorni di ottobre dolci e colorati! Al tramonto il cielo da l’impressione di un fiore che si sfoglia, con le sue nuvole rosse e gialle che cadono sul mare e dietro i monti; e la sabbia levigata, appianata dal vento, sembra il limite di un deserto, con appena qualche orma umana.
E dentro il mare arde un incendio: le fiamme, che sembrano vere, tentano di arrivare a terra, ma le onde le travolgono, a poco a poco le smorzano: il sole tramonta prima di raggiungere il mare, ingoiato da una montagna di vapori violetti. Le paranze passano su questo sfondo misterioso, con le vele nere, come di ritorno da un incendio che le ha bruciate.
Io guardo su e giù per la spiaggia; nessuno. Sono solo nel mondo. Mi spoglio; ho indosso i vestiti compra ti dalla zia, e non voglio portar via con me nulla di non mio: il mio corpo solo, nudo, corpo caldo e forte, ben fatto e odoroso di giovinezza, eppure già da tanto tempo cadavere.
Adesso però, ricordandomi, mi pare che anche nel gettarmi in acqua, e nell’avanzare e nel vedere le mie membra deformarsi e come sciogliersi nella trasparenza tremula delle onde, non avessi l’angoscia della morte.
Dentro di me speravo ancora. Pensavo d’aver sentito dire che gli annegati in punto di morte ricordano d’un tratto tutte le cose più belle e angosciose della loro vita: e io ricordavo il giardino e il tempietto dove avevo veduto i due amanti baciarsi, e gli occhi di Fiora, e la vigna illuminata dalle lucciole e quando Tobia mi aveva dato i denari, e infine il momento in cui mi accorsi d’esser derubato; ma non mi commovevo troppo; mi pareva di fare semplicemente un bagno; mi attardavo, cercavo ancora di toccar la sabbia coi piedi. Poi mi prese un senso di rabbia contro la mia incertezza: mi avanzo, sento l’acqua penetrarmi nelle orecchie, negli occhi, nelle narici; mi abbandono e apro la bocca e bevo come se bevessi del veleno.
L’istinto mi portava su; sentivo le mie membra agitarsi tutte, e bevevo e gemevo; finché mi sembrò che tutto l’interno del mio corpo si riempisse di un liquido nero e amaro, e un’ombra mostruosa mi travolse.
Mi svegliai sulla sabbia: sopra di me il cielo era tutto cremisi, e una figura che mi pareva sospesa su questo sfondo come una nuvola dalle strane forme umane, mi guardava dall’alto, con gli occhi azzurri lagrimanti d’acqua.
Era il suocero del mio creditore.
Confesso che nel ritrovarmi salvo la mia prima impressione fu di gioia: però sentivo ancora tutto il corpo pesante e non potevo muovermi.
L’uomo mi fregava con un panno: e ogni tanto mi guardava scuotendo la testa come per dirmi: l’hai scampata bella!
Io lo sentivo sopra di me con tutto il peso del suo corpo umido e grasso; mi pareva che il suo calore, il suo ansito, il suo sudore e sopratutto la sua volontà di lottare contro la morte, mi penetrassero fino al cuore e me lo ravvivassero.
A poco a poco mi riebbi completamente. Era già quasi sera; una sera rossa, luminosa: l’uomo mi tirò su e mi trovai sulla spiaggia nudo come appena nato.
Egli mi dava dei colpi con la mano aperta; io mi misi a ridere.
Egli mi aiutò a rivestirmi; poi mi condusse nel suo casotto, in cima a una fila di capanne di legno per bagnanti, e mi diede da bere del rum che finì di rianimarmi; allora riebbi il senso della triste realtà della mia vita.
— Perché, vecchio marinaio, mi hai salvato? Ecco la seconda volta che credi di aiutarmi e mi rovini — pensavo: ma non osavo dirglielo.
Mentre stavo accasciato sulla panca accanto al tavolino ch’era l’unico mobile del casotto, lo vedevo levarsi la maglia bagnata, tirandosela sulla testa come una pelle che si staccava intera dal suo corpo rossastro; ed era tranquillo come se invece di un uomo avesse pescato un pesce. Per cambiarsi anche i calzoni mi volse semplicemente le spalle, poi tornò verso di me legandoseli con una cordicella; e dovette accorgersi della mia tristezza perché mi guardò fisso, sospettoso.
Anch’io lo guardavo; li feci cenno ch’era stato lui la causa prima della mia disgrazia; egli intese, non del tutto, però. Doveva sospettare del mio debito ma non sapere completamente come stavano le cose: aprì sul tavolino un avanzo di registro dove venivano segnati gli abbonamenti alle capanne dei bagnanti, e mi accennò di scrivere.
E io mi misi a scrivere, sotto il chiarore esasperato di un lume ad acetilene che mi ricordava il luogo orribile dove mi ero accorto del furto.
Dissi come il droghiere mi aveva prestato i denari, a usura, e come mi erano stati rubati. E accennavo, senza spiegarmi bene, all’altra mia disgrazia, e al mio dolore di vivere a carico della zia e di non essere buono a nulla, di non aver aiuto da nessuno. Per questo volevo morire.
Era una specie di atto d’accusa che facevo contro gli uomini. Il vecchio mi guardava, aspettando che finissi di scrivere.
Quando ebbi finito strappò il foglio dal registro, lo piegò e se lo mise sul petto sotto la maglia: allora ricordai che egli non sapeva leggere.
Mi ricondusse a casa e si mise a discorrere con la zia: l’aspetto tranquillo di lei mi assicurava ch’egli non le diceva nulla del mio triste tentativo.
Si cenò come le altre sere, come se io tornassi dal mio solito vagabondare: la zia mi riempiva il piatto, mi accennava sempre se ne volevo dell’altro: io mangiavo, ma sempre più avvilito; avevo vergogna di tutto, oramai, vergogna di non aver neppure saputo morire.
E il mio rancore si riversava adesso tutto contro la zia. Perché la zia non mi scacciava di casa? Se mi scacciava, forse riuscivo a trovare da vivere o da morire sul serio.
E quello che più mi agitava, in fondo, era l’accorgermi che i suoi sentimenti a mio riguardo erano mutati: i suoi occhi mi guardavano con un’espressione nuova, furtivi, inquieti, d’un’inquietudine che ella però cercava di nascondere: solo gli occhi di una madre possono guardare così.
E io sentivo quell’atmosfera gelida che prima gravava su di me sciogliersi, intiepidirsi come l’aria a primavera.
La zia aveva pietà di me. Pietà, luce dell’anima nostra: la vita sarebbe così dolce e facile se gli uomini fossero disposti a riceverne tanta quanto son capaci di darne.
Ma no: la pietà della zia, per esempio, m’irritava, mentre io stesso, in fondo, ne sentivo tanta per lei.
Quando si finì di mangiare, quella sera, ella si alzò e andò in cucina, ma ogni tanto rientrava e mi si aggirava attorno, cercando sempre di non attirare la mia attenzione. Io leggevo, coi gomiti sulla tavola sparecchiata, ma pensavo anche ai casi miei. Pensavo che forse il vecchio marinaio aveva avvertito la zia di vigilarmi: lei mi vigilava: io mi nascondevo sotto le mie palpebre abbassate, ma lei doveva finalmente vedere tutto il mio dolore: ed io mi vergognavo come se lei mi vedesse nudo.
Come mi dava noia! Dio, Dio, perché non moriva, la zia? Sarei rimasto solo nella casetta umida e scura, solo come la fiera nella sua tana: a suo tempo mi avrei portato là dentro la mia creatura, l’avrei allevata io, senza l’aiuto di nessuno; io, io solo con lei nel mondo come in un’isola deserta.
Ed ecco d’un tratto la zia, finite le sue faccende, si mette a sedere davanti a me, col calamaio e il suo quaderno dei conti. Era destino che la mia sorte venisse sempre segnata fra conti di piccole spese giornaliere.
La zia apre il quaderno alla rovescia e scrive: poi me lo fa leggere. È una cosa grande quella che leggo, eppure mi lascia freddo, anzi con un senso di ironia nel cuore: “Penso di andare a trovare Fiora, per vedere come sta e prendere gli accordi per la creatura che porteremo e alleveremo qui: diremo che è l’orfana di una nostra parente. Che ne pensi, tu?”.
Risposi:
“È meglio non andare. A suo tempo penserò e provvederò io a tutto”.
Che sguardo mi rivolse la zia! Di rimprovero e di compassione, sdegnato e beffardo assieme. Come provvederai tu, povero idiota, buono neppure a procurarti un bicchier d’acqua?
Ella teneva il quaderno fra le dita che le tremavano un poco: frenava il suo sdegno: scrisse poi qualche cosa, poi la cancellò.
Io la fissavo, e mi sentivo duro come un macigno. – Troppo tardi, — le dicevo con gli occhi: — se tu non avessi giocato la creatura col nano, buttandovela l’uno con l’altra come una pall a, adesso non ti umilierei così. Adesso è tardi: se soffri peggio per te.
Anche lei mi rispondeva con lo sguardo: — Va bene: ne riparleremo
Il fatto è che quel mio bagno straordinario aveva peggiorato le condizioni dell’anima mia. E non mi sentivo neppure capace di ricominciare. Una tristezza infinita mi avvolgeva: adesso sì, ero davvero sordo e muto anche dentro. Poi, a tratti, balzavo con furore, come una fiamma sospinta dal vento, e pensavo di andare a cercare Fiora, ma per odio adesso, e d’incendiare la casa colonica, di ammazzare il nano; di fare insomma qualche cosa che mi portasse fuori da quella mia arida disperazione.
Poi non ne facevo niente.
Eccomi di nuovo in riva al mare, sdraiato come un cane sulla sabbia umida.
Nel mattino vaporoso cielo e mare si confondono sotto un velo latteo che fa apparire verdi le vele bianche e rosse le vele gialle; più in qua il mare ha strisce verdi che sembrano prati, e nell’insieme da l’idea di una regione coltivata, con campi di lino in fiore, vigne, e quei prati e laghi vaporosi: poi col salire del sole si rischiara, si fa tutto lucido, così lucido e fermo che le paranzelle ferme anch’esse qua e là a pescare sembrano insetti sopra uno specchio.
Ed ecco il vecchio marinaio che di ritorno dalla pesca alla fiocina, con un cestino sgocciolante argento, lascia le sue orme di elefante sulla sabbia molle, e mi sorveglia.
La sua figura davanti al mare ha qualche cosa di maestoso, di enorme: il mare stesso non è che una strisciolina verdastra ai suoi piedi: la sua testa arriva a coprire e oscurare il sole: se stende la mano può pigliare ad una ad una come farfalle le paranze ferme a pescare.
La sua figura mi destava un senso di soggezione: ma null’altro. Non amavo più nessuno, non potevo più amare, più confidarmi con nessuno: anzi provavo rabbia se qualcuno mi dimostrava premura.
Un giorno, poiché il vecchio mi si aggirava intorno, gli feci cenno di restituirmi quel foglio sul quale avevo versato le mie pene.
Egli non l’aveva più.
Gli domandai, sempre con cenni che rivelavano il mio dispetto, se l’aveva dato da leggere a qualcuno. Sì, egli l’aveva dato da leggere a qualcuno.
Vibrai di collera; egli restava calmo, con le mani possenti posate sulle braccia nude.
E la cosa pareva finita lì, quando sul tardi, nel tornarmene a casa, m’accorsi ch’egli mi seguiva. Aveva la fiocina, il cestino e la rete, come quella malaugurata mattina in cui mi ero rivolto a lui per aiuto.
Mi raggiunse davanti alla drogheria e mi prese per il braccio: e prima che avessi capito che cosa voleva, mi fece entrare: non nella drogheria, però, ma in uno strettissimo corridoio che conduceva al giardinetto della casa: un giardinetto che sembrava un cestino di fiori, tutto fronde lievi intrecciate a reticolati di canne.
Sotto il pergolato ancora carico d’uva stava una tavola di marmo sulla quale si disegnavano le ombre delle foglie e dei grappoli; e accanto si sedeva, lavorando a maglia una sciarpa di lana, una donna bionda grassoccia, con gli occhi grigi sognanti; vestiva un camice turchino scollato in quadratura che le dava un’aria di Madonna un po’ anziana ma ancora piacente.
Ma quello che più mi sorprese fu il vedere che anche là dentro c’erano gatti, conigli, piccioni. La donna però non se ne curava; né pareva curarsi d’altro.
Vedendomi entrare seguìto e quasi spinto dal vecchio, mi fissò coi suoi occhi un po’ vaghi; poi subito parve ricordarsi di qualche cosa e riconoscermi: il suo bel viso in colore di pesca si illuminò di un sorriso che subito si spense.
Il vecchio me la presentò; era sua figlia, la moglie del droghiere.
Io non l’avevo mai veduta, né fuori per strada né nella bottega; non usciva mai anche lei, doveva avere qualche guaio.
Infatti vidi il vecchio che per dirle qualche cosa le faceva dei cenni e le gridava le parole all’orecchio.
Era sorda anche lei!
Mentre il vecchio andava a rimettere i suoi arnesi, ella mi accennò di sedermi. Sedetti. Non so perché provavo d’un tratto una sensazione di pace, di dolcezza, come se mi addormentassi.
Intorno alla donna quieta, che subito immaginai dovesse passare la sua vita intera seduta a quel posto, tutto era placido, pulito, ordinato. Il giardino pareva grande perché confinava con altri giardini; si aveva l’illusione che il vialetto che s’insinuava nell’ombra, fra arbusti e canne d’India, conducesse ad un bosco. La porta della cucina e quella della drogheria erano coperte di tende rosse: da quella della cucina usciva un odore di pesce arrostito, di frutta cotte: odore di benessere che si mischiava al profumo di poesia del giardino.
I piccioni violacei si posavano sul marmo della tavola, battendovi il becco quasi volessero piluccare i grappoli d’ombra: ricordo tutti i particolari di quella mia visita involontaria che doveva tanto influire sulla mia sorte.
Il vecchio tornò verso di noi, ma non sedette. Con le dita calcate sulle braccia incrociate, riprese a parlare con la figliuola, finché questa tirò a sé il paniere da lavoro che stava sopra la tavola, vi frugò un poco e da un miscuglio di cartoline illustrate e di altre carte trasse il mio foglio.
Lo riconobbi subito e vibrai di nuovo; non più per rabbia, adesso, ma per vergogna.
Vergogna di averlo richiesto con ingratitudine al vecchio: vergogna sopratutto di apparire alla donna quello che non ero: un ingrato.
Ma lei non pareva molto sorpresa; si assicurò che il foglio era veramente quello, poi me lo offrì.
Io feci cenno di no: no, non lo volevo. Ella guardò il padre; il padre prese il foglio, lo aprì, parve leggerlo: doveva saperne a mente tutte le parole, perché scuoteva la testa, con cenni di rimprovero e di sdegno: infine se lo rimise in seno e accennò alla figlia che mi dicesse qualche cosa di lei.
E lei arrotolò lentamente, accuratamente, la maglia intorno ai ferri, ficcò questi nel gomitolo e ripose tutto nel paniere.
Poi si volse, colle braccia sulla tavola, e mi guardò: e subito i suoi occhi mi sembrarono diversi.
Di sognanti s’erano fatti acuti, trasparenti; con dentro tanto verde e tanto azzurro come il mare in quelle mattine di autunno.
Anche la bocca era, dirò così, luminosa; le labbra strette e grasse, d’un rosso lucido di ciliegia, non lasciavano vedere i denti.
Nell’insieme ella rassomigliava a una bella gatta, con un fondo di passione sotto la sua aria placida.
Tentò di parlarmi: forse credeva che io arrivassi a sentire qualche parola come lei: ma il padre le accennò che bisognava scrivere. E io trassi il taccuino e il lapis. Ero come sotto un fascino: facevo tutto quello che mi si chiedeva di fare. Così porsi alla donna il mio libretto: ella poteva anche leggervi quello che c’era scritto: non avrei protestato: ella lo aprì, e sulla prima paginetta bianca che capitò scrisse qualche parola, rapidamente, con una scrittura chiara.
“Mi dispiace di quanto ti è accaduto. Ma se tu permetti parlerò io con mio marito e aggiusteremo le cose alla meglio”.
Mentre io leggevo, ella ripeteva le parole al padre, che approvava con la testa.
Io leggevo e rileggevo con un profondo turbamento.
Mai nessuno mi aveva parlato così, o almeno mi pareva che mai nessuno mi avesse parlato così. E non potevo, non potevo rispondere. Un tumulto di passione s’alzava, dentro di me, come un turbine improvviso: qualcosa si scioglieva, dentro di me; il groppo di odio, di rancore, di disperazione e d’amore che mi teneva da tanto tempo infermo: si scioglieva, eppure non mi permetteva di piangere, di sollevarmi, di rispondere.
Finché sentii la mano pesante del vecchio posarsi sulla mia testa: mi parve di svegliarmi da un sogno: guardai stordito e davanti a me vidi il viso della donna che s’era fatto pallido e i suoi occhi, divenuti quasi neri, che mi guardavano attraverso un velo di lagrime.
Ma il vecchio mi batteva la mano sulla spalla come si fa coi bambini ingozzati; e ciò riprese a irritarmi. Scrissi su un foglietto: “Io spero di pagare il mio debito: ad ogni modo c’è l’ipoteca sul terreno. Vi ringrazio. Ne riparleremo”.
Quei due non insistettero. E io mi alzai per andarmene. In quel momento si affacciò dietro la tenda rossa il viso un po’ diabolico del droghiere; mi accorsi che la moglie nascondeva cautamente sotto la mano il mio foglietto, e giudicai prudente di salutare e di andarmene.
Ma ero un altro uomo oramai; non che sperassi davvero di pagare il debito, o avessi altre speranze concrete, ma perché la speranza in sé stessa era rinata in me. Sentivo che bastava domandare aiuto per ottenerlo: e qualche altra cosa di più profondo, di più misterioso, che ancora non confessavo a me stesso, mi faceva camminare agile e dritto e rivedere chiaro intorno a me.
Tornato a casa, mi metto naturalmente a scrivere subito una lettera alla moglie del mio creditore; la ringrazio e le domando scusa se ho risposto quasi male alla sua offerta.
Le confesso che no, non ho speranza di pagare il mio debito, ma che il marito può tenere o vendere il mio terreno, se crede, senza farmi il torto e l’onta di metterlo all’asta. Io avrei lavorato: qualunque mestiere, fosse anche quello del calzolaio o del pescatore, era buono per me, oramai; e volevo lavorare perché volevo vivere. E tante altre cose.
Andai io stesso a portare la lettera: intravidi la drogheria piena di donne che compravano il pane e passai oltre. Il mio pensiero era di consegnare la lettera al vecchio: ma d’un tratto mi fermo turbato; la porticina del corridoio è aperta e in fondo appare il quadro del giardino, un po’ arrossato dal tramonto.
Entro, sfiorando la parete come per appoggiarmi, tanto sono turbato: ed ecco la donna è lì, al suo posto, con la sua sciarpa che s’è allungata di qualche palmo: pareva avesse fretta di terminarla prima di notte. Nella luce quieta, rosea, senz’ombre, mi sembrò meno grassa; il collo liscio e tornito usciva dalla squadratura dell’abito turchino con una linea giovanile.
Non si accorse di me se non quando le fui davanti; allora sollevò gli occhi e parve rallegrarsi della mia presenza. Le misi davanti la lettera e mossi per andarmene. Ma a un suo cenno sedetti all’altro lato della tavola, mentre lei apriva la lettera e la leggeva!
Così cominciai a frequentare la casa del mio creditore.
Del resto non ero io solo a sedere intorno alla tavola di marmo che formava come un altare davanti alla bella padrona di casa: per lo più erano uomini, ma uomini piuttosto invalidi, vecchi parenti, un capitano di porto a riposo, un prete, un uomo con una gamba di legno.
Li vedevo parlare, agitarsi, ridere, e capivo tutte le cose che dicevano; cose semplici perfettamente inutili. La padrona di casa sorrideva sempre e faceva cenno di sì, per significare che, sì, aveva capito; ma a volte mi guardava d’improvviso, con uno sguardo serio, come per dirmi qualche cosa che gli altri non potevano sentire; e quello sguardo mi rimescolava tutto. Era come se noi due fossimo complici in qualche impresa oscura e c’intendessimo col solo guardarci: complici d’una cosa che non si poteva esprimere a parole.
E quasi ogni volta che andavo da lei le portavo una lettera e gliela deponevo di nascosto nel paniere da lavoro; e lei non mi rispondeva, ma non leggeva più le mie confidenze davanti a me. Erano lettere innocenti, dove le raccontavo la mia pena, senza rivelargliene la vera causa: mai più in vita mia proverò la gioia e il conforto che mi dava lo scrivere quei fogli, nella melanconica casa della zia; mi pareva di scrivere lettere d’amore e come tali le portavo alla donna, e come tali essa pareva riceverle.
Non si parlava più del debito, del modo di sistemare la mia vita; io mi lasciavo portare così, dall’onda dei giorni, pensando sempre a un domani che mi sfuggiva nel seguente domani appena diventava oggi.
Si era intanto di novembre, cominciava a piovere, a far freddo: acquazzoni furibondi si abbattevano sul paese con una rabbia distruggitrice, come se volessero punirlo di aver troppo goduto del bel tempo: il nostro cortiletto diventava una vera cisterna; una fiumana di fango giallo allagava la strada. Rabbrividisco ancora al ricordo.
Bimbi ricoperti di sacchi, scalzi, passano diguazzando nell’acqua fangosa, come piccoli selvaggi venuti dal bosco; topi morti galleggiano qua e là, e la donna col carrettino del pesce torna indietro urlando per la paura: la sola nota comica è il carro con la botte per l’innaffiamento delle strade; la botte verdissima e fresca come un gran frutto acerbo si dondola un po’ sul carro, a pancia in su, e pare si compiaccia di tutta quell’abbondanza d’acqua per terra come l’abbia sparsa lei.
Io scrivo, nella mia triste cameretta: è così buia che devo avvicinare il tavolino alla finestra.
Scrivo, scrivo: una vera pioggia di parole, anche la mia, dall’anima torbida alla carta bianca; ma dopo che ho finito sento che neppure questo sfogo oramai mi basta più. Ci vuol altro! Mi riprende la smania di uscire, di andarmene lungo il mare, di mescolare il mio al suo tormento: esco, attraverso la strada allagata, vado giù verso il mare accompagnato dai rigagnoli dell’acqua sporca che pare voglia anch’essa tornare al suo luogo d’origine dopo il suo triste viaggio per cielo e per terra.
Il mare è più grande del solito, oggi, coi suoi cavalloni verdi lanciati di furia contro la spiaggia; finalmente la figura del vecchio marinaio che guarda dalla riva come un padrone guarda il suo podere, è piccola in quello sfondo tumultuoso, sotto il cielo ancora nero in alto, ma già chiaro all’orizzonte, dove il sole lotta con un drago di nuvole nere dalle cento lingue di fuoco.
Io scendo lungo l’arenile, affondando i piedi nella sabbia bagnata; e mi pare di avere un peso addosso che non mi permette di camminare svelto: la lettera.
Allora mi viene l’idea di darla al vecchio: gliela consegno, poi mi allontano lasciandolo un po’ sorpreso a guardare la busta.
E vado, vado, osservando i giuochi dell’acqua sulla rena; in alcuni punti l’onda si slancia lontana e subito ritorna verso il mare descrivendo dei cerchi perfetti, tremuli di uno scintillìo argenteo: sembrano grandi pesci che si ritorcono su sé stessi, con le scaglie brillanti al sole.
Ed è strano il divertirsi delle onde a riva, mentre pare che il mare le mandi gonfie e feroci per divorarsi la terra.
— Così — pensavo — finiscono le nostre passioni! — Ecco che io, in quella lettera, avevo raccontato alla moglie del droghiere la mia avventura con Fiora, senza nominare la fanciulla, e l’impegno che m’ero preso di ritirare la creatura; e mi pareva che la mia disgrazia e le sue conseguenze non solo non mi facessero più soffrire, dopo avermi condotto fino alla morte, ma mi procurassero la soddisfazione di avere anch’io qualche cosa da dire, di rendermi interessante presso una persona che m’interessava.
Così camminando e pensando mi distraggo anch’io, finché si fa quasi sera. Il sole è andato giù senza riuscire a vincere il drago, il quale però, lasciato solo, si divora e si sbrana da sé stesso; il cielo pallido è sparso di code, di zanne, di piume che piano piano se ne vanno anch’esse. E ad un tratto pare che qualcuno accenda un lume: le ultime nuvolette si tingono d’oro, la spuma le imita: e il vento di tramontana ricaccia di là dal mare il libeccio e abbatte i cavalloni verdi. È il sorgere della luna.
D’un tratto fui preso da una grande timidezza. Non osavo più tornare dalla moglie del mio creditore, e ne davo la colpa al mio orgoglio, alla paura che ella mi giudicasse male per il male che avevo fatto, e credesse che io le confidavo le mie pene per farmi rimettere il debito, mentre in fondo sentivo che era ben altra la mia passione.
Me ne stavo di nuovo a casa, di nuovo con un senso misterioso d’attesa: solo la mattina presto andavo a far le spese per la zia, ma adesso sgusciavo di qua dalla strada per non passare neppure davanti alla drogheria. Non senza un gusto ironico tradivo il mio creditore anche col togliergli il guadagno delle nostre piccole compere; ma osservavo che la roba era più buona e a buon patto negli altri posti, e d’altronde la zia pareva contenta ch’io facessi così.
Non era certo lei a incoraggiarmi ad uscire e a mantenere le mie relazioni!
Dopo quel tentativo di avvicinamento, mi aveva di nuovo abbandonato a me stesso, senza trascurare nulla per il mio benessere materiale. Mi aveva comprato maglie e vestiti nuovi, e caricato il letto di coperte di lana; accendeva il fuoco per me nella tetra stanzetta da pranzo che s’illuminava tutta e diventava quasi allegra.
Fuori imperversava il mal tempo: io andavo dalla porta di strada alla porta sul cortiletto, entravo in cucina, entravo nella stanzetta da pranzo, tornavo nell’ingresso: ma non uscivo: la noia e la tristezza mi divoravano.
Ed ecco finalmente venne a trovarmi il vecchio marinaio: aveva un enorme ombrello verde che lasciò a sgocciolare sullo scalino esterno della porta. Io non mi sorpresi della sua venuta; l’aspettavo; non mi sorpresi, eppure il cuore mi batteva come quando avevo veduto il padre di Fiora in casa nostra.
Il vecchio veniva a domandare come stavo: credeva fossi malato.
Lo si invitò a sedere accanto al camino, ma egli volle andare di là, in cucina. Non aveva freddo, lui: dalla sua bocca usciva un abbondante vapore; e si passò la mano sulla fronte perché sudava. Con meraviglia vidi che aveva le scarpe; due scarponi che sembravano barche.
Mentre discorreva con la zia, che lo ascoltava un po’ diffidente, un gattino gli si arrampicò sulla gamba: egli lo prese e lo tenne dentro il suo pugno, se lo accostò al viso quasi volesse baciarlo, e per tutto il tempo che stette da noi non finì di accarezzarlo: intanto però doveva domandare alla zia qualche cosa di molto grave e serio perché lei si faceva sempre più scura in viso; finalmente gli rispose accennando me con la testa: e io intesi benissimo il senso delle sue parole: — Tocca a lui decidere.
Subito il vecchio mi invitò ad andare con lui: ma non era solo questo che dovevo decidere: qualche altra cosa ben più grave e profonda dovevo decidere, o era già decisa per me dal destino.
Esitavo quindi a muovermi: d’altronde il restare ancora lì dentro mi soffocava.
Mi lasciai portare via, sotto l’ombrello che pareva un pino: ma quando si fu davanti alla drogheria afferrai il braccio del vecchio per tirarlo verso il mare; egli mi guardò; io arrossii e ripresi a seguirlo docilmente.
Nel mio turbamento immaginavo di trovare ancora la donna sotto il pergolato, e mi sorpresi nel vederla accanto a un alto braciere di ottone, in una stanza le cui pareti erano tutte ricoperte di quadri e di fotografie in cornice. E anche qui, come nella casa colonica, dominava dalla parete il ritratto ad olio del padrone di casa: pareva anzi fatto dallo stesso pittore, perché aveva le medesime tinte accese: solo che era di profilo, e aveva una curiosa rassomiglianza coi ritratti di Dante quali si vedono nelle illustrazioni dei libri di scuola.
La stanza era piuttosto tetra, quasi come la nostra; dalla finestra penetrava l’acqua, che la serva asciugava con uno straccio: e anche la donna era immelanconita, con uno scialletto nero che le nascondeva il bel collo e la invecchiava.
Ma d’un tratto ecco che mi ritrovo solo con lei, perché la serva s’è ritirata chiudendo dietro di sé l’uscio di cucina e il vecchio è anch’esso sparito quasi furtivamente: ella solleva la testa dal lavoro e mi guarda: mi guarda arrossendo e poi reclina di nuovo il viso.
Quello sguardo chiaro, vivo, quel rossore, mi penetrano l’anima, ne illuminano gli angoli più neri, come lampi in una notte oscura. Mi sento tutto bruciare, dentro: e la verità mi percuote finalmente il cuore.
Sentivo che desideravo la donna: e che le piacevo: che bastava stendere solo la mano per prenderla, se io volevo.
Ma io non volevo. Ero un uomo adesso, maturato dal dolore: tutto potevo fare, ma non commettere più una colpa d’amore. Eppure mi arrabbiavo contro me stesso per questa mia onestà: e la rabbia aumentava il mio desiderio, ma la mia volontà lo vinceva.
Eppoi, perché mi avevano lasciato solo con lei? Il pensiero che il vecchio fosse lontanamente complice della figlia, mi rimescolò il sangue. Feci per alzarmi ed andarmene; ma la donna sollevò di nuovo gli occhi e accorgendosi della mia aria cattiva mi domandò se il padre non mi aveva detto nulla.
Non mi aveva detto nulla, il padre: ma ripensai al discorso suo con la zia. Che cosa volevano da me? Allora la donna mi diede una lettera: l’ho ancora qui.
“Ti ringrazio tanto, caro ragazzo mio, di esserti confidato con me come con tua madre stessa: tu devi sentire che io ti voglio sinceramente bene e che la nostra comune disgrazia ci unisce come una parentela. Io vivevo qui e mi pareva di essere già morta quando mio padre mi diede da leggere quel tuo foglio: m’è parso allora di sentire una voce lontana che mi chiamasse, e dissi a me stessa: voglio far del bene a questo ragazzo così solo nella vita. Allora ho creduto di rivivere. Poi tu sei venuto: ho imparato a conoscerti, ad apprezzarti, e adesso sono felice della tua amicizia.
Ma perché dopo la tua ultima lettera tu non ti sei fatto più vivo?
Sei malato e ti sei pentito della tua confidenza? Manderò mio padre a prendere tue notizie; anche lui ti vuol bene e approva il mio desiderio di aiutarti.
Ascoltami, caro ragazzo; ti chiamo così perché posso esserti madre, e tu dunque ascoltami attento. Anch’io non sono una donna felice come sembro all’apparenza: e non è la mia infermità che mi tormenta, perché oramai ci sono abituata; ho tutto, ma mi manca la miglior cosa. Mio padre, poveretto, è buono, è come un fanciullo, ma la sua compagnia non mi può bastare; eppoi lui ha anche il bisogno di stare molto all’aperto, sta poco in casa, ed è vecchio: morto lui sarò completamente sola. Questa è la confidenza che volevo farti: mi sento sola, ho paura della vecchiaia. Mio marito non è cattivo; ma anche lui ha bisogno di una vita che lo separa tutto il giorno da me: vuol fare i suoi affari; vuol guadagnare molto, — per chi poi non lo so, — perché infine non abbiamo che dei parenti vecchi, tutti benestanti, grazie a Dio, che non hanno bisogno del nostro. Ma mio marito è fatto così: non che sia interessato, in fondo: ha preso me, che ero povera, e non mi ha lasciato mai mancar nulla: anzi ti confiderò una cosa, che egli consegna a me tutti i suoi denari, e se gli chiedo un favore me lo concede subito. Ma è un uomo melanconico, non l’ho mai veduto ridere, e parla poco: la sua compagnia non è un conforto, per me: è come se lui in casa non ci fosse.
Il mio sogno è stato sempre quello di avere un figlio: il Signore non ha voluto; e sia fatta la sua volontà. Tante volte ho pensato di adottarne uno, e mio marito non disapprova la mia idea; ma non è facile prendere un bambino altrui: ci sono tanti pericoli; se è un trovatello possono un giorno farsi avanti i genitori e riprenderselo; se è un bambino legittimo c’è sempre la noia dei parenti: e poi è anche difficile ottenerlo.
In questi giorni ho pensato tanto a quello che mi hai confidato: ebbene ti prego di concedermi la creatura che deve nascere: le daremo il nostro nome, le nostre sostanze: sarò la madre più appassionata che sia mai stata al mondo.
Ma io non posso proseguire: il sogno mi sembra tanto bello che mi spaventa e mi gonfia il cuore. Le lagrime mi offuscano gli occhi... Caro ragazzo mio...”.
Anch’io non ci vedevo più. Quando intravidi fra le lagrime le ultime parole "caro ragazzo, mio" mi sembrò che la donna si fosse alzata e mi accarezzasse i capelli, mi baciasse come si bacia il proprio sposo.
Un tremito mi agitava tanto da far tremare anche la lettera fra le mie dita: ella se ne accorse; piano piano si tolse lo scialle, come un velo nero: piano piano si alzò, mi venne davanti: e mi pareva alta, sempre più alta, come il padre suo davanti al mare: dominava, nascondeva tutto il mondo davanti a me; e i suoi occhi chiari, alti, come il cielo, attiravano i miei, bevevano l’anima mia.
Mi fu davanti, mi accarezzò i capelli, mi baciò come si bacia il proprio sposo: io le dicevo col mio gemito, affondando il viso sul suo collo dolce e caldo: — Prendimi pure tutto: prenditi pure quello che non è mio, l’anima mia, la mia creatura.
Ancora non sono certo di non aver sognato. So che d’un tratto gli usci si riaprirono: riapparve il vecchio, che s’era tolto le scarpe per non sporcare il pavimento; apparve la figura arcigna del marito. La donna sedeva al suo posto, accanto al braciere, di nuovo con lo scialle chiuso sul collo voluttuoso.
E i suoi occhi erano tanto innocenti nel guardare il padre e il marito, e nel far loro segno che io acconsentivo!
Sì, io acconsentivo. A che cosa? A cedere la mia creatura? A diventare l’amante di quella donna? Acconsentivo a tutto, ma solo alla superficie: in fondo già la coscienza mi tumultuava e qualche cosa ghignava in me, di faccia al mio creditore: eppure sentivo pietà di lui.
Fui invitato a colazione. Accettai: accettavo tutto, quel giorno. Il pasto era buono: c’era un grosso pesce dalla polpa lievemente rosea che sembrava carne, e il vecchio me lo additò, poi si toccò il petto, per accennarmi che lo aveva pescato lui: eppure il padrone di casa mi offriva il piatto, ritirandolo un po’ a sé istintivamente, come faceva nel vendere la sua merce: come fosse cosa esclusivamente sua.
Il vecchio non ne mangiò: non mangiava mai pesce. E stava un po’ discosto dalla tavola, come fosse anche lui un invitato, ma un invitato per forza. Infatti mi accorsi, dopo, ch’egli usava mangiare in cucina, quando il tempo cattivo lo costringeva a stare a casa.
Del resto io mi sentivo felice, sollevato di un gran peso all’idea che l’avvenire della mia creatura era assicurato: e mi piaceva, anche, di vendicarmi così di tutti quelli che non avevano voluto né saputo amarmi: di Fiora, della sua famiglia, della zia. Il giorno della vendetta era dunque giunto per me.
E mi vendicavo anche del mio creditore, della sua astuzia e della sua usura: mangiando alla sua tavola il pane del tradimento.
Ma in fondo la coscienza mi tumultuava. E bevevo per farla tacere: un vino bianco frizzante, dolce e amarognolo assieme che dava allegria al solo guardarlo.
Al solo guardare attraverso il bicchiere pieno pare che i vetri della finestra siano gialli di sole, e tutte le cose intorno dorate. La donna seduta di fronte a me è bella su quello sfondo, dolce e succosa come un frutto maturo: e basta che io la tocchi con la punta del piede per farla tremare tutta e farmi promettere dai suoi occhi tutto quello che invano fino a questo momento ho chiesto alla vita: amore, protezione, denaro...
Ma vuotato il bicchiere tutto riappare grigio: e mi ritorna in mente l’attimo di ebbrezza – oh, come diverso! — nella vigna in fiore. Chi è che picchia alla porta del mio cuore? La donna che mi disprezza, la donna che non mi vuole; che mi odia anche nel figliol suo.
Lei sola è giusta: perché io sono indegno di amare: lei sola è quella che mi fa del bene, perché mi richiama a me stesso.
Così cominciò per me una lotta profonda.
Riamavo Fiora solo perché l’altra mi tentava. E il vero peccato mi sembrava questo: mi sembrava che Fiora fosse mia moglie, incinta di un nostro figlio legittimo, e che io la tradissi.
Ma appunto per questo il peccato mi attirava di più.
Bisogna dire però che la moglie del mio creditore non faceva nulla per favorire la nostra passione. Era una donna timida, casta e buona. Mi voleva perché ero giovane e disgraziato, perché il marito la trascurava o le ripugnava: o forse anche per distrazione, nella noia senza riparo della sua vita.
Io andavo tutti i giorni a trovarla: mi mettevo a sedere in un canto e stavo lì, fermo, quieto come il gatto sullo spigolo della tavola. A volte mi veniva anche a me da dormire.
La stanza era di passaggio, dalla cucina al corridoio, e al salotto che dava sulla strada: passava di continuo la serva, con due lievi ciabatte che parevano la pelle che le si staccasse dai calcagni: passava e ogni volta mi sorrideva con gli occhi, con pietà non priva di malizia: passava il vecchio, scalzo per non sporcare il pavimento, e mi batteva la mano sulla spalla: passava il marito triste e arcigno, e pareva non accorgersi di me, tutto chiuso in una interna speculazione: passavano donne che portavano qualche cosa in cucina, e mi guardavano con curiosità benevola; infine la mia presenza era accettata e sopportata da tutti come quella di un essere perfettamente innocuo.
E io stavo fermo, quieto, come stava ferma e quieta a lavorare le sue maglie la donna presso il braciere. A volte la sua figura si disegnava così immobile sullo sfondo della finestra che pareva dipinta sui vetri. Solo le punte dei ferri del suo lavoro avevano uno scintillìo come di insetti luminosi volteggianti intorno alle sue dita Io stavo fermo, quieto; simile all’animale da preda in agguato: aspettavo sempre: uno sguardo di lei ed ero felice; ma aspettavo di meglio; di trovarci soli, finalmente.
Eppure non mi disperavo se questo momento non veniva mai: perché in fondo avevo paura, di questo momento: sentivo tanta poesia, tanta bellezza nella lotta per vincere il peccato, e mi piaceva che la donna fosse così, come un sogno lì vivo a me davanti, vivo ma inafferrabile, e che non si umiliasse né si avvilisse davanti a me.
Eppoi un calcolo era fitto tra i miei vari pensieri:
— Se la nostra passione ci travolgesse e noi avessimo un figlio, lei non vorrebbe più l’altro.
Eppure non ero ancora persuaso a darglielo, quest’altro.
Una domenica mattina, ai primi di febbraio, mi svegliai con l’impressione che quel giorno qualche cosa di nuovo doveva accadere.
Sapevo che nel pomeriggio c’era probabilità di trovarci soli. La serva aveva libertà, il droghiere chiudeva bottega e andava al paese vicino a trovare certi suoi parenti.
Un senso di gioia mi prese tutto, nel riaprire gli occhi, come nelle mattine di festa nell’Istituto quando non c’era scuola e si doveva andare a fare qualche gita in piena campagna.
È che oltre a quella torbida speranza di peccato, sentivo intorno a me un’aria nuova; un filo di sole penetrava per la prima volta dopo mesi e mesi nella mia cameretta e attraversava il mio letto.
M’alzai e corsi subito fuori, col desiderio di lasciare il paese, di andare pei campi, laggiù, verso la casa di Fiora. Ma il cielo si copriva di nuvole, si ricopriva e scopriva, tornava ad annuvolarsi; pareva si divertisse a dare e poi subito a togliere la speranza d’una bella giornata. Tornai a casa e cominciai a contare le ore che mi separavano dalla visita alla mia amica.
La zia preparava la colazione: nel vedere che io mi indugiavo a casa mi rivolse qualche sguardo inquieto. Io avevo il dubbio ch’ella sapesse tutto, che accettasse la mia amicizia con la famiglia Tobia ed anzi s’inquietasse perché quest’amicizia minacciava di rompersi: invece d’un tratto mi si avvicinò e mi diede un biglietto, allontanandosi subito senza aspettare la risposta.
E nel biglietto mi domandava perché non profittavo della bella giornata per andare a prendere notizie laggiù.
Mi alzai, un po’ smarrito; non era una voce misteriosa che mi ordinava di andare laggiù?
Troppo tardi, però. La speranza torbida del peccato mi annebbiava la mente: ed era davvero come una nebbia, che saliva dalla profondità del mio cuore e mi avvolgeva tutto: e non vedevo che un punto solo, in questa caligine, e verso il quale andavo ciecamente.
Ed ecco il tempo che sembrava interminabile passa: è un’ora, due ore: il sole è scomparso dalla nostra casa e sembra già cada la sera da quel cielo tristemente lucido di febbraio: i gatti rabbrividiscono di freddo e vengono ad aggrupparsi tutti gli uni sugli altri sulla pietra del focolare: anche i piccioni stanno sui mattoni tiepidi dei fornelli; la zia è nella sua camera a leggere, con gli occhiali, un libro di orazioni: io apro quasi furtivo la porta: è l’ora in cui le donne cominciano a uscire a spasso, cercando la parte soleggiata della strada: arriva di lontano già un odore di erba, di violette, di amore...
Mentre stavo per varcare la soglia ecco un’ombra mi si spezzò ai piedi, parve ricacciarmi dentro.
Ricordai la notte in cui avevo trovato il nano seduto davanti al tavolino del nostro salotto.
Adesso era il mio creditore che veniva a farci visita.
Non l’avevo mai veduto in casa nostra. E neppure per un momento sperai nulla di buono dalla sua visita. Anzi i miei timori andavano oltre... Ecco, pensavo, viene per impormi di non frequentare più la sua casa.
Lo feci sedere presso il tavolino, al posto dove s’era seduto il nano.
Era tutto vestito di nero, con la cravatta rossa, ed ebbe cura di tirarsi su i pantaloni sulle ginocchia, lasciando vedere le calze gialle sugli scarpini gialli bene annodati.
Lo guardai bene in viso; era quasi un bell’uomo: arcigno e nero, ma quasi bello: sì, di profilo, col suo gran labbro sdegnoso rassomigliava a Dante.
Non so perché mi venne da ridere: non so perché; dopo il primo impulso di terrore, l’uomo mi destava un senso di allegria.
Egli se ne accorse; non si sdegnò; lo era già tanto! Però mi parve che dentro i suoi occhi foschi passasse come il riflesso ridente dei miei: e mi tornò in mente il proverbio: ride bene chi ride l’ultimo.
Intanto al rumore dei passi era venuta fuori la zia; pareva si fosse preparata per questa visita, aggiustata com’era, come del resto si aggiustava nei giorni di festa, sebbene non uscisse fuori di casa, coi capelli lisciati e le scarpette lucide.
Fece cenno all’uomo di star comodo, poiché egli si alzava per salutarla, e sedette all’opposto lato del tavolino: proprio come l’altra volta col nano.
E il Tobia si mise a parlare con lei, rigido sulla sedia, rigido in viso: mi faceva l’effetto di un uomo di legno, montato pezzo per pezzo: e che non fosse in sua facoltà lo smontarsi.
La zia lo ascoltava e mi guardava: quando quello finì, stette pensierosa, infine a cenni e per iscritto mi fece sapere che qualcuno voleva comprare il mio terreno e che il Tobia era incaricato della mediazione.
Domandai subito quanto offrivano.
Allora la zia si fece rossa di sorpresa e di dolore: mi domandò:
— Ma perché? Lo vorresti vendere?
Giudicai giunto il momento di dirle tutto: momento più opportuno non si poteva trovare. In fondo era sempre un desiderio di vendetta che mi spingeva contro di lei che con la sua grettezza d’animo mi aveva condotto a quel punto; e contro l’usuraio che aveva profittato del mio cuore semplice.
Ripresi i miei foglietti: porsi il suo quaderno alla zia. Tornavano così in campo le carte; e mi pareva infatti un giuoco, quello, come tanti altri della vita. Scrissi:
“È necessario che io venda il terreno perché sono debitore qui al signor Tobia di lire duemila; la cambiale che gli ho rilasciato scade a giorni e non ho la possibilità di pagare”.
La zia mi guardò come l’altra volta quando il nano le aveva rivelato la mia colpa: ma c’era meno sorpresa nei suoi occhi, adesso: ebbi l’impressione ch’ella fosse preparata a ricevere da me i maggiori dispiaceri: ma per quanto si sia preparati si soffre lo stesso.
Senza rispondermi ella si rivolse al Tobia e lo interrogò: l’uomo di legno non si smuoveva. Gli fece leggere il mio foglietto, ed egli allora sporse un po’ di più il labbro come per dirmi:
— Giacché sei tu a volerlo, parlo.
Forse era venuto con quella sola intenzione, ma voleva salvare le apparenze, conservare intatta la sua compostezza.
Parlò, ma brevemente. Oramai capivo quel che diceva: stavo a guardare come l’altra volta, come si trattasse di cosa non mia.
Ed era forse mio, il terreno? No, non era più mio. La zia lo difendeva, l’altro lo voleva, o, per essere più giusti, voleva i suoi denari, nonostante ciò che s’era stabilito con la moglie a proposito dell’adozione della mia creatura.
Voleva i suoi denari perché infine erano suoi, e poiché se ne presentava l’occasione.
E l’occasione era questa: che realmente qualcuno, sapendo dell’ipoteca che egli aveva preso sul mio terreno, s’era rivolto a lui per la mediazione. L’offerta era superiore al valore del terreno: perché non accettarla?
Messo al Corrente di tutto, io scrissi queste parole al mio creditore:
“Perché, giacché vale tanto, non si tiene lei il terreno? A me basta il riavere la cambiale”.
Egli mi guardò fisso, in fondo agli occhi: uno sguardo che mi rimescolò tutto: e mi rispose brevemente:
“Sono un uomo onesto”.
Quel colloquio mi faceva più male di quello col nano. Cominciai a umiliarmi, a irritarmi. E sopratutto m’irritava la zia: perché s’immischiava nei fatti miei? Perché si opponeva alla vendita del terreno? E perché non mi domandava neppure la ragione per la quale avevo preso i danari dall’usuraio e come li avevo sciupati?
Sapeva tutto, o non voleva saper niente? Perché voleva proteggermi? No, io non volevo la sua protezione: ch’ella mi desse da mangiare e da dormire, ma non pensasse ad altro.
Per sfogare tutto il mio malanimo pensai di farle sapere subito ogni cosa.
Le feci dunque sapere che avevo deciso di cedere la mia creatura ai Tobia: ecco perché volevo loro cedere, che la tenessero o la vendessero, anche la mia miserabile proprietà. Poi mi rivolsi all’uomo e gli domandai se non era vero ch’egli acconsentiva a prendere la mia creatura.
Ed egli parve ricordarsi di qualche cosa che aveva dimenticato: qualche cosa di buono, di bello, che poteva persino raddolcire il cruccio inguaribile della sua anima. Sorrise e fece cenno di sì.
Sì; egli acconsentiva.
Allora fu la zia a farsi cattiva. Il suo viso parve seccarsi d’un tratto, diventare tutto punte, col mento aguzzo, il naso sottile, gli zigomi sporgenti. Io leggevo il suo pensiero nei suoi occhi che a stento trattenevano le lagrime e volevano parere freddi, indifferenti.
Più tardi ella mi disse che aveva sognato tanto, in quei tempi, di aver la mia creatura; le preparava di nascosto il corredino, aveva pronta la balia, contava i giorni. Ed ecco che io gliela prendevo e la buttavo fuori di casa, in casa dei vicini, come un oggetto di cui ci si vuole sbarazzare.
E la mia piccola proprietà, ella la difendeva per lei. Adesso riprese a difenderla per rancore, per vendetta. Mi disse:
— Sai chi è che vuole comprare il tuo terreno, a qualunque costo? Il padre di Fiora.
L’uomo guardò il suo grosso orologio d’oro: poi s’alzò tutto d’un pezzo.
Aveva fretta di partire: e io adesso sapevo il perché della sua insolita gita al paese vicino; non era per visitare i parenti ch’egli andava, ma per conferire col nano; forse per dargli la mia risposta affermativa.
Mi alzai anch’io e feci cenno di no. No, il terreno io non lo vendevo più; mi sarei venduto l’anima, se occorreva, ma il terreno no.
La zia non aveva cessato un momento di guardarmi; il suo viso ritornava triste e calmo a misura che io mi agitavo per far meglio intendere la mia decisione al mio creditore. E mentre questi stava davanti a me perplesso, stringendo nel pugno l’orologio quasi per fermarne l’ora, i più diabolici progetti passavano nella mia mente. Sarei andato a rubare, sarei andato a chiedere i denari alla moglie di lui: tutto, fuorché lasciar entrare il nano nella mia terra.
D’un tratto vidi la zia alzarsi anche lei, composta, con le povere mani strette l’una con l’altra come per aiutarsi e promettersi qualche cosa a vicenda: sollevò il viso verso l’uomo; gli disse poche parole guardandolo di sotto le palpebre che le si sbattevano rapide come due alette spaurite.
Il viso dell’uomo si illuminò: ed io intesi tutto. La zia assumeva il mio debito.
Dopo non so bene cosa accadde. So che passai due volte davanti alla porta del mio creditore. La rabbia, o qualche cosa di più cieco della rabbia mi portava. La prima volta vidi la porticina aperta e in fondo al corridoio il quadro verde del giardino; e quel passaggio stretto, con quella luminosità in fondo mi attirava come una gola di montagna.
La seconda volta vidi la donna stessa che si affacciava a quello sfondo e pareva in una lontananza di sogno.
Ebbi l’impressione che mi aspettasse. Allora fuggii, andai verso la spiaggia, e mi buttai per terra e morsicai la rena: il cuore mi rombava, dentro, come se contenesse tutto il mare, ma non era disperazione; no, era anzi un senso di potenza, un eccesso di forza che mi turbinava dentro poiché non poteva risolversi di fuori. A poco a poco mi calmai, mi stesi in faccia al mare. Ero stanco come dopo una lotta: vincitore e vinto nel medesimo tempo.
In quei giorni la zia cadde malata.
Era una semplice pleurite, la sua, ma io mi misi in mente che ella fosse malata di crepacuore per i dispiaceri che io le davo. Mi pare di vederla ancora nella sua cameretta semplice e stretta come una cella, sul suo lettuccio duro, con la sua camicia lunga e accollata e un fazzoletto bianco intorno alla testa. Tutto era bianco e duro e freddo intorno: tutto puro e ghiacciato.
Cominciai ad assisterla, dapprima per un rigido sentimento di dovere, di sacrifizio, poi perché mi pareva ch’ella si abbandonasse al suo male con un nascosto desiderio di morte. In fondo ero contento della sua malattia, che m’impediva di tornare in casa del nostro creditore: un odio sordo mi vinceva per quella gente, compresa la donna: mi pareva avessero tutti fatto lega contro di me, la famiglia del nano con la famiglia del gigante, per togliermi quanto avevo, proprietà, onore, sangue.
“Zia, — scrissi un giorno in cui ella mi pareva un po’ sollevata, — s’avvicina il tempo... Ho sognato stanotte ch’era venuto il nano con un involto. Ho pensato bene, e vorrei che la creatura si allevasse da noi”.
La zia lesse, poi volse la testa sul guanciale, con un atto stanco indifferente.
Bastò questo per farmi risovvenire di tante cose, e sopratutto della mia incapacità a provvedere a me stesso nonché ad altri. Ma quell’indifferenza della zia ricominciò ad irritarmi, poi mi impensierì sul serio, perché oramai si stendeva a tutte le cose. Nei primi giorni della malattia ella si preoccupava ancora per la casa, per gli animali, e si faceva venire in camera i gatti e i piccioni: adesso non si curava più di nulla. Mi aveva dato la chiave del cassetto dove teneva i denari ed io prendevo e spendevo: è vero che prendevo e spendevo con un certo timore, senza neppure osare di contare quanti denari ci fossero ancora, ma avrei potuto prendere e spendere tutto senza ch’ella se ne curasse.
E intanto vivevo in un’attesa che di giorno in giorno si faceva più ansiosa e impaziente: qualche cosa doveva pur arrivare: una lettera, una chiamata, una visita: andavo sempre ad aprire la porta come se là fuori mi aspettasse un essere misterioso che portasse un messaggio al destino.
E un giorno, finalmente, mentre la zia stava peggio del solito, vedo davanti alla nostra porta una donna di campagna, secca, nera come un’araba, con una gonna larghissima, un grosso nodo di capelli neri sulla nuca e due grandi cerchi d’oro alle orecchie. Teneva in mano una lettera e guardava il numero della nostra casa. Vedendomi domandò qualche cosa, e non ottenendo risposta non si sorprese: doveva essere bene avvertita di tutto.
La feci entrare e lessi la lettera ch’ella mi porgeva. Era del nano: mi diceva che in seguito alla mia necessità di procurarmi una balia forte e sana mi mandava quella. Aggiungeva le condizioni: tanto al mese, buon trattamento, regali e mancie. Infine avvertiva che potevo trattenerla, se credevo, perché la bambina mi verrebbe portata verso sera.
Una bambina! Era dunque una bambina. Era già nata!
Di tutto il messaggio non capivo che questo.
Stetti a lungo con gli occhi fissi sul foglietto, come sprofondato in un sogno. Quando li sollevai vidi lì davanti a me la donna, con un viso avido, con gli occhi scuri che guardavano attorno fissando ogni oggetto come per impossessarsene.
Come dire alla zia tutto questo?
Avevo paura di aggravare il suo male: ma in fondo la mia incertezza aveva un’altra causa.
Feci capire alla donna che c’era in casa una persona malata: che avesse quindi pazienza di aspettare un poco prima di avere la risposta: e l’introdussi nella cucina.
Rientrai dalla zia: aveva la febbre, era un po’ agitata: pareva sentisse che qualche cosa di nuovo, d’inquietante accadeva. Per tre, quattro volte, andai da una camera all’altra, dall’ingresso alla cucina: mi pareva di cercare qualche oggetto che non riuscivo a trovare. La balia stava in cucina, col suo fagotto per terra, seduta con la gonna tesa e gonfia come un pallone, coi lunghi orecchini che le pendevano fin sul petto, le mani incrociate sul grembo come chi è deciso a non far niente, né durante quella giornata né poi.
Pensai che bisognava offrirle da mangiare: c’era del latte preparato per la zia, un po’ di pane e d’altro per me. Le indicai di prendersi, di prepararsi un po’ di caffè e latte, e tornai di là in camera: quando rientro in cucina mi accorgo con terrore che la balia s’è bevuto tutto il latte, e mangiato tutto il resto. E non aveva neppure rimesso a posto le tazze!
Fuggii disperato: avevo l’impressione che quel castigo di donna ingombrasse tutta la casa, che fosse lì pronta a divorarsi tutto. E noi avevamo lo stretto necessario: i denari del cassetto della zia diminuivano di giorno in giorno, e c’era da pagare il medico, le medicine. Senza contare una cosa che cercavo sempre di dimenticare ma che più scacciavo più tornava insistente al mio pensiero: il debito...
Però non potevo, non volevo rimandare la balia. Finché più tardi venne, come usava spesso, a domandare notizie della zia, il vecchio marinaio Mi parve d’essere nuovamente salvato da lui.
Lo feci entrare dov’era la donna e vidi che parlavano, ch’ella gli raccontava il perché della sua presenza. Egli si mise a ridere; l’unica volta che l’ho veduto ridere senza freno; un riso che pareva spandersi a tutta la sua persona e faceva financo vibrare i suoi piedi di bronzo.
E quando riuscii a capirne il perché, risi anch’io, sebbene così triste e inquieto: la balia credeva fosse la donna giacente nella camera attigua, a partorire.
Poi il vecchio si rifece grave; mi si mise davanti con le braccia incrociate e mi interrogò con gli occhi.
Sì, io intendevo: egli mi ricordava la promessa.
E io tenni la promessa.
Mandai col vecchio la lettera del nano alla moglie del mio creditore e ricevetti subito la risposta: la balia andasse pure in casa di Tobia, ad aspettare l’arrivo della bambina: mi si pregava però di non farmi poi veder io, con la bambina: potevo consegnarla al vecchio.
E il vecchio condusse via la balia col suo fagotto. Eppure mi venne da piangere quando vidi la casa sgombra e vuota. Sentivo di commettere un’ignominia, di mostrarmi vile davanti alla vita: vile come tutti gli altri, come la madre e i parenti della bambina, come la zia che pure avevo tanto condannato. E andai nella camera di lei per soffocare il mio rimorso: ma ogni mia cura riusciva inutile: ella aveva la febbre sempre più alta ed era agitata, con gli occhi lucidi e fissi: s’era tolto il fazzoletto e coi capelli grigi scarmigliati e quella espressione inquietante degli occhi mi destava paura.
Sentivo ch’ella si accorgeva di tutto e non voleva parlare per lasciarmi arbitro delle mie azioni: o era un’illusione anche questa? Ad ogni modo anch’io non volevo, non potevo farle sapere nulla; e il nostro silenzio accresceva la nostra pena.
La sera intanto scendeva, con un crepuscolo verdognolo, triste, che mi ricordava le sere d’autunno in riva al mare. E pensavo al piccolo bambino nudo che mi si era aggrappato alle gambe, un giorno, e aveva destato il mio amore paterno. Oh’ avere la mia bambina nuda così fra le braccia come un fiore, come l’immagine stessa della vita! Questo desiderio fisico, come quello delle madri, un po’ morboso, accresceva la mia vera angoscia, che era, in fondo, la coscienza di mancare al mio dovere.
La sera scendeva, e io avevo l’impressione che l’ombra veramente si addensasse, si ammucchiasse intorno a me, fino ad accecarmi, a soffocarmi.
Perché, infine, avevo riconfermato la mia promessa, ma non ero deciso in cuor mio a mantenerla.
Ecco, nei momenti in cui la zia mi sembrava assopita, mi scuotevo da quel cumulo d’ombra che mi stringeva, uscivo in punta di piedi fuor della porta e guardavo in fondo alla strada.
La strada era già deserta, con le case nere, con su una striscia di cielo ancora verdastro; solo il crocevia era illuminato da un fanale giallo che sotto di sé faceva ombra come un albero. E in quest’ombra vedo un uomo che sembra anche lui spiare e aspettare qualche cosa.
È il vecchio Tobia: ed io mi ritraggo, poi balzo fuori in mezzo alla strada con un senso di rabbia come quello che mi prese nel trovare il varco nella siepe del mio terreno. È lo stesso istinto di proprietà, la stessa ira di vedermi menomato in un mio sacrosanto diritto.
E corro verso il vecchio, ma la mia collera si placa a misura che cammino, come quella delle onde contro la spiaggia.
— Infine, — pensavo, — la creatura sarà consegnata solo a me, e se io non voglio, nessuno me la prende.
Il guaio era che il vecchio esercitava su di me una specie di fascino: appena mi trovavo accanto a lui mi sentivo più calmo, come protetto dalla sua bontà, dalla sua rettitudine. Ricordo che quella notte, mentre mi avvicinavo a lui, vedevo la mia ombra, deforme come quella di un essere mostruoso, e pensavo che dentro di me io ero veramente così, d’animo contorto e malfatto, che pagavo male per bene e non conoscevo che il sentimento dell’ingratitudine.
Il vecchio mi guardò negli occhi e bastò questo per placarmi del tutto. Si stette qualche momento ad aspettare insieme, poi io tornai verso la mia porta.
La notte si faceva nebbiosa: un vapore biancastro veniva dal mare, dai campi, e la luce del fanale non riusciva che a spandere un’aureola dorata intorno al crocevia.
Andai a vedere la zia: era assopita, ma nella camera gravava un’atmosfera calda e odorante di febbre.
Tornai sulla porta; non avevo pace. La nebbia si addensava; le case da una parte e dall’altra della strada mi sembravano dei muri, con un fiume di vapori in mezzo: solo punto chiaro il fanale che adesso pareva una stella giallastra bassa sulla terra.
Fu in quell’atmosfera di sogno che qualcuno arrivò. Di dove veniva? Era un uomo o una donna o un essere fantastico?
Io mi ero seduto, stanco di aspettare, sullo scalino della porta, e avevo l’impressione che quella notte, quell’attesa, non dovessero finir mai. D’un tratto vidi una massa nera rompere l’aureola gialla sotto il fanale e venire verso di me: dapprima credetti fosse il vecchio, anche lui stanco di spiare: poi mi alzai, con un brivido nella schiena. Era qualche cosa di misterioso che si avanzava verso di me: un essere tutto nero, più largo che alto, con la testa a punta; un po’ più grande e fermo sarebbe parso una capanna. In fondo lo riconoscevo bene e sapevo che era il nano, avvolto in un mantello sotto il quale nascondeva la bambina; ma ero come ubriaco e mi compiacevo ad esagerare la fantasticheria dell’avventura.
Ho detto "come ubriaco", ma ero anche peggio, con la mente sconvolta, invaso da una crisi di pazzia ragionante. Così e non in altro modo si spiega tutto quello che avvenne da quel momento in poi.
Il nano si fermò per un attimo in mezzo alla strada, forse per assicurarsi meglio, attraverso la nebbia, che ero proprio io ad aspettarlo davanti alla mia porta: sì; ero proprio io; e palpitavo di sincera commozione al pensiero che dentro quell’involucro misterioso mi veniva portata la mia creatura.
Eppure ecco che un desiderio grottesco mi vince: balzo indietro dentro casa e chiudo la porta. — Se io non apro – penso — il nano è ben costretto a riprendersi la bambina: e se la lascia lì io posso con testimonianze accusarlo del suo abbandono: quindi se la riprenderà.
Ma fu un momento: riaprii subito: però non feci entrare l’uomo.
Mentre riaccostavo dal di fuori la porta gli accennai di tacere, di seguirmi; egli stava incerto; io lo presi per un lembo del mantello e lo trassi con me fino alla porta del mio creditore.
Il vecchio marinaio non faceva più la guardia sotto il fanale; all’avvicinarsi dell’uomo s’era ritirato, forse per avvertire in casa che la creatura arrivava.
Infatti la porticina del corridoio era aperta, con un barlume di luce in fondo: io picchiai, senza abbandonare il mantello dell’uomo, che sembrava un po’ impaurito ma non cercava di allontanarsi; e subito riapparve il vecchio: ci venne incontro, disse qualche cosa.
Qualche cosa che doveva essere molto rassicurante perché il nano non esitò ad aprire il suo mantello e a dare al vecchio un involto bianco...
Mi ritrovai solo nella strada, appoggiato al muro della casa del mio creditore.
Mi pare che piangessi. Non so, ero tutto agitato; mi pareva di dovermi spaccare e cadere a pezzi per terra.
Ecco, dunque, che avevo dato via la mia bambina, senza neppure vederla, senza neppure toccarla.
Il nano era sparito fra la nebbia, il vecchio aveva chiuso la porticina: io ero solo e maledetto in mezzo al mondo.
Poi fui riassalito dalla rabbia: ecco che adesso ricominciavo a invertire le parti, a credermi vittima e non colpevole. Me l’avevano presa, la bimba, come mi avevano preso i denari, come mi avrebbero preso il terreno, come volevano prendermi l’onore. E io stavo lì a piangere contro il muro come un bambino a cui sia stata strappata una cosa dal pugno.
Ma una fiamma mi illuminava già la mente: un’idea che appena nata diventò fissa: riprendermi la bambina, a qualunque costo.
Volevo battere alla porticina, farmela riaprire, entrare e portar via l’involto bianco: se non mi lasciavano fare rompevo ogni cosa intorno: ma un filo di ragione mi guidava ancora. — Adesso rientro in casa e dico tutto alla zia, — pensavo, — provvediamo assieme, ci riprendiamo senza violenze la creatura.
E rientrai; la zia era ancora immersa nel suo sopore ardente, col viso grigio fra i capelli grigi, gli occhi che si aprivano e chiudevano con un moto incosciente, come quelli di un neonato: e io non osai farle sapere nulla.
E non osai neppure l’indomani e neppure nei giorni seguenti, sebbene ella andasse migliorando e di tanto in tanto m’interrogasse con gli occhi.
Doveva aver fatto i suoi calcoli, lei, e sapere che la creatura a quell’ora era nata: e mi spiava in viso i segni della verità, ma non mi diceva nulla: forse anche lei non osava o non aveva la forza di parlare; o aspettava per orgoglio che ricorressi io a lei per aiuto. O forse erano tutte illusioni mie: chi sa mai niente di vero dei pensieri altrui?
Se non sappiamo mai nulla di preciso neppure dei nostri!
Il fatto è che io continuavo ad assisterla con pazienza, col desiderio che guarisse presto, e nello stesso tempo le auguravo la morte. Adesso mi sembrava d’essere legato a lei e di non potermi più muovere per riguardo suo: o almeno alla superficie la incolpavo di questo, mentre veramente desideravo ch’ella morisse per restar solo nella casa e prendermi la bambina. Null’altro oramai esisteva per me: non pensavo più alle donne, all’amore, al mio avvenire: volevo la bambina perché era mia, perché era giustizia che l’avessi. Il pensiero di riprenderla non mi abbandonava un momento.
Un giorno andai a vederla. Entrai senza picchiare, avanzandomi fino all’uscio della stanza che ben conoscevo. E dapprima mi parve di sognare, o di aver sognato, perché nulla era mutato in quella stanza: la moglie del mio creditore lavorava seduta accanto al braciere, la sua fisionomia era la solita, e solo si alterò al vedermi, ma di un turbamento che mi parve più di sdegno che di affetto. Subito però si dominò, mi accennò di avanzare.
Al rumore dei miei passi l’uscio della cucina si socchiuse e subito intravidi la balia con una grande scodella in mano: mi guardò con l’avidità con cui mangiava: avidità di sapere perché ero lì.
La padrona la chiamò, le disse di farmi vedere la bambina, poi si volse a me accennandomi di seguire la balia: si entrò nel salotto attiguo, e la prima cosa che distinsi, nella penombra, fu la porta finestra difesa da una semplice persiana che dava sulla strada.
Tante volte passando di fuori avevo veduto quella persiana socchiusa e l’interno del salotto, col solito arredamento paesano: tavola rotonda in mezzo con un mazzo di fiori finti, uno specchio pur esso ornato di fiori a smalto, divano e sedili ricoperti di goffi merletti. Adesso c’era anche una grande culla di vimini: la balia sollevò un lembo della stoffa che la copriva, e non ostante la penombra e sebbene guardassi rigido dall’alto senza troppo avvicinarmi né chinarmi vidi distintamente il piccolo viso, non più grande di una grande rosa, ma già vivo, balzante verso di me da una profondità che era quella dell’anima mia stessa. Gli occhi erano aperti, placidi, nuotanti come in un velo di piacere, le labbra strette succhiavano l’aria.
Subito mi preoccupai perché la balia la ricoprì tutta: non poteva soffocarsi, così?
E rientrando di là vidi che la donna continuava a lavorare la sua maglia, in fretta, come per riacquistare il minuto perduto. Ma perché aveva voluto la bambina se era per continuare la sua vita inerte? Io invece mi sentivo tutto sconvolto solo per averne intraveduto il viso. Accennai ad andarmene. Volevo portarmi via intatta quell’impressione indefinibile che non era di gioia, né di dolore perché trascendeva l’una e l’altro; ma la donna mi guardò rapida col suo sguardo glauco, supplicandomi di restare.
E io restai: anche perché la balia mi osservava; e i suoi occhi così lucidi che non lasciavano distinguerne il colore, mi ricordavano quelli di una biscia che avevo veduto una volta fra l’erba.
Poi tornai altre volte.
La zia non aveva più febbre, ma era così debole che non poteva reggersi in piedi: per la debolezza sonnecchiava sempre, e la sua atonia diventava sempre più grave: mangiava se gliene davo, non si lamentava di nulla ma non chiedeva mai nulla.
Il medico che la curava non venne più; ed io, che in fatto di piccoli debiti ero orgoglioso e volevo non se ne avesse, feci notare alla zia che bisognava pagargli le visite: ella non rispose, ma quando rientrai un’altra volta nella camera mi diede una busta con dentro del denaro.
E io andai dal dottore.
Il dottore abitava piuttosto lontano da noi in un villino fra la spiaggia e la pineta a metà strada dal paese vicino: per arrivare più presto attraversai la pineta: ed ero quasi felice quel giorno, non so perché; forse perché pensavo che la zia doveva avere dei denari nascosti e quindi non eravamo così bisognosi come credevo, forse perché lei era quasi guarita ed io mi toglievo da quell’oscuro dubbio che fossi io con le mie pazzie e i miei errori a farle del male, o forse era semplicemente il bel tempo, con quell’aria tiepida, con la solitudine della pineta a farmi correre e respirare con gioia.
La sotto era primavera: i tronchi dei pini tutti piegati verso nord, con le radici a fior di terra simili a grandi artigli, pareva corressero anch’essi, attraversandomi il passo, sul terreno molle tutto violaceo di foglie secche, o in qualche punto già ricoperto d’erba così fina che si aveva timore a passarci sopra, come sopra un tappeto nuovo. E che toni di verde giallino luminoso nelle chiome dei pini e in certi ciuffi di cespugli contorti che avevano appena cessato di combattere col vento marino e si abbandonavano ad una dolcezza stanca di convalescenti!
Nuvole bianche e dure come grandi uova si posavano qua e là sulle cime dei pini: così basse che pareva bastasse arrampicarsi sugli alberi per toccarle e tirarle giù; mentre il cielo invece era alto e d’un azzurro brillante che quasi non si lasciava fissare. Ricordo tutto, di quel giorno, come di tanti altri giorni della mia vita: giorni che sono come i quadri meglio riusciti nella lunga monotona serie dei quadri dei nostri giorni, quando la nostra figura si stacca gigantesca sul paesaggio che la circonda, per dominarlo meglio e immedesimarlo nel suo dramma.
Ed ecco che mentre sto per arrivare alla casa del dottore vedo una donna, una contadina piccola ma forte: ha in braccio una bimba di circa tre anni che pare morta, tanto s’abbandona, con le manine gialle pendenti e la testolina bionda scarmigliata, sull’omero della madre.
La raggiungo, nel sentiero sabbioso che va allargandosi sempre più, e mi metto a camminare con lei. La donna era a testa nuda coi capelli neri corti e con un aspetto quasi di zingara.
Cominciò subito a guardarmi con diffidenza, poiché io le facevo dei cenni per domandarle che male aveva la bambina, poi accortasi della mia infermità s’illuminò d’un tratto in viso quasi avesse ritrovato un fratello, e toccò la testa e la nuca della bimba per indicarmi che il male era lì: in ultimo mi accennò col capo la casa del dottore. Si proseguì dunque assieme, e si continuò, dirò così, a parlare. Sì, a parlare, perché la donna mi capiva dal solo moto delle labbra, ed io capivo lei, come fossimo stati educati assieme. I suoi occhi brillavano di una certa intelligenza, il suo viso esprimeva con straordinaria mobilità i più intimi moti del suo animo, e sopratutto la sua curiosità e la sua pietà per me.
La casa del dottore non era distante da noi più di un centinaio di metri, e già prima di arrivare alla porta io avevo fatto sapere alla donna che ero padre anch’io di una bambina orfana di madre, e di lei sapevo che era la moglie del guardiano della pineta: abitava in una casa laggiù in fondo verso il fiume; e oltre la bimba malata ne aveva una più piccola che stava a svezzare.
Particolari piccoli che pure mi interessavano come quelli di un dramma. La mia serenità precedente s’era oscurata: un pensiero per poco dimenticato mi tornava più vivo di prima nella mente, mi faceva battere il cuore.
Perché palpo nella mia tasca la busta col denaro e la sento riscaldarsi al contatto delle mie dita palpitanti? Perché mi sembra l’esaudimento di un mio oscuro desiderio, che il dottore non sia in casa?
La donna voleva aspettarlo: la serva dapprima parve contrariata, disse che il padrone tornava tardi, poi si lasciò intenerire per la bambina e ci fece entrare e sedere nell’ingresso arioso.
Per qualche tempo stetti immobile come mi avessero inchiodato sul sedile, con quel pensiero che mi si attortigliava per ogni vena. No, non era il dottore che aspettavo per consegnarli il denaro: era quel pensiero che mi fermava.
Passano i minuti, passano i quarti d’ora. La donna andava su e giù con la sua creatura febbricitante sempre buttata sulla spalla: d’un tratto balzo anch’io e mi rimetto al suo fianco: della donna: avevo preso la mia decisione! Le domando se vuol prendere a balia la mia bambina, le propongo di darle i denari anticipati. Ella stava incerta, ma tentata fortemente. I tempi sono così difficili per tutti e specialmente per i poveri!
Piano piano traggo dalla busta, senza levarla dalla tasca, uno dei biglietti; e glielo faccio vedere; se vuole posso darglielo subito.
Ella guardava il denaro quasi con meraviglia, come non ne avesse mai veduto. Il denaro è una grande forza: col denaro si può far venire anche il medico a casa quando i bambini sono malati, invece di trarseli così, peso ardente come un castigo, in cerca della loro salute.
Ella mi accennò di sì: accettava: e mi promise anche, con la luce appassionata degli occhi, che avrebbe trattato bene l’orfana, e infine, per rassicurarmi del tutto, trasse dalla camicetta una mammella bruna e violacea come un fico maturo e ne fece con due dita schizzare il latte.
Andai via, naturalmente senza aspettare il ritorno del dottore e senza lasciare i denari. Questi bisognavano a me, adesso, per ogni occorrenza, e non volevo rubarne alla zia. — Quando tutto sarà sistemato, — pensavo, — quando sarò riuscito a portar via la bimba da quella casa e metterla a balia per conto mio, le dirò ogni cosa, alla zia, e lei sarà contenta.
Intanto ero contento anch’io, d’una contentezza strana, grottesca, da folle: oltre alla liberazione della mia coscienza da quel peso che me la schiacciava notte e giorno, di aver venduto la mia creatura, pensavo alla rabbia, alla sorpresa, al dispetto dei miei creditori nel vedersi derubati della bimba, ch’essi avevano già adottato con tutti i mezzi legali. Mi veniva da ridere.
Adesso bisognava però saperla davvero portar via, senza lasciar traccia: la cosa non mi sembrava difficile; solo che non volevo esser veduto, volevo operare di sera, e questo mi dava da pensare.
Cammino, cammino nella pineta: bisogna dire che io non ero molto pratico del luogo perchè avevo sempre preferito passare le mie giornate in riva al mare. La pineta è grande, in qualche punto ridotta, per poca cura, allo stato selvaggio, con folte macchie di tamerici, di rovi, di ontani: una rete di piccoli sentieri l’attraversa in tutti i lati; ma sono tutti eguali, questi sentieri, e la stessa uniformità del paesaggio, coi pini regolari inclinati, a file come un esercito un po’ stanco in marcia, con l’orizzonte sempre il medesimo, con quell’atmosfera che appunto per effetto di quella pioggia monotona di tronchi pare un po’ nebbiosa, rende difficile l’orizzontarsi.
Infine, mi accorsi che, forse anche per effetto dei pensieri che mi distraevano, andavo verso i monti invece che tornare a casa. E dapprima credetti di far, senza saperlo, bene, e di ritrovarmi vicino al corso d’acqua del quale mi aveva parlato la donna, e di assicurarmi così del punto preciso dov’era la sua casa; ma poi, per quanto mi avanzassi e guardassi, non vidi che le lontananze di una pianura coltivata: il grano cominciava a spuntare, le vigne arate circondavano piccole case rosse i cui vetri brillavano come fiamme al tramonto.
Torno indietro, seguo un sentiero, mi ritrovo davanti alla casa del dottore! Il sole è basso sul mare, una luminosità come di ceri penetra nella pineta, accende i tronchi, dà al luogo una pace religiosa.
Mi passa in mente un pensiero superstizioso. Se entrassi ancora e consegnassi i denari, e poi tornassi dalla zia che forse mi aspetta già inquieta? Se lasciassi che il destino compia la sua opera? Mi torna al fianco la figura della donna incontrata per caso, con la sua bimba malata sulla spalla, con la sua mammella nera e tutto il suo aspetto di zingara. Chi sa chi è?
E se è una zingara davvero? Chi sa com’è povero e sporco il suo tugurio! Tratterà bene la mia creatura? E se la malattia della sua bambina è contagiosa? Perché togliere la mia creatura dal suo nido caldo e pulito, al suo avvenire di benessere, e buttarla come uno straccio in una capanna, fra gente sconosciuta? Tutto questo per una mia idea folle, per la mia disposizione alle cose cattive, colpevoli.
Forse Dio mi ha ricondotto sui miei passi per farmi ravvedere: ma intanto faccio il giro della casa del dottore, e arrivato alla parte del mare seguo la strada lungo la spiaggia per arrivare con più sicurezza al paese, prima di sera.
Il diavolo mi aiutava e mi spingeva. Passando davanti alla casa di Tobia vidi che la persiana e la porta a vetri del salottino erano socchiuse.
Era una sera tiepida, quasi estiva, con un cielo glauco ove già qualche stella appariva, lontana, come attraverso un velo d’acqua: nella strada deserta, oltre il chiarore del fanale si spandeva la luce dei lumi della drogheria ancora aperta.
Mi fermai, deciso a fare il colpo subito. Aprii metà della persiana, spinsi metà della porta; ma subito richiusi e andai oltre. La bambina non c’era.
Ma conoscevo bene le abitudini della casa. La balia dava il latte alla bambina a quell’ora, poi cenava alla tavola coi padroni, e infine riprendeva la bimba dal salotto e la portava con sé a letto in una camera al piano superiore.
Io camminavo guardando davanti a me senza vedere nulla: pensavo che rimettendo la bimba nella culla la balia avrebbe chiuso la persiana... Non mi restava che nascondermi dentro il salotto: ma questo mi ripugnava. Eppoi potevo venire scoperto. Arrivato all’angolo della strada tornai indietro, tirai le imposte della porta finestra, accostai le persiane: tutto pareva chiuso. Bisognava però che la balia non ci badasse molto.
Ma il diavolo mi aiutava, e mi spingeva, quella sera.
La zia s’era già messa a letto, quando rientrai. Era pallida pallida, e spalancò gli occhi come svegliandosi da un sogno, sebbene non dormisse.
Io avevo il lume in mano. Vidi la fiammella riflettersi in quei grandi occhi vitrei ed ebbi un senso misterioso di paura.
Mi sembrò che la zia stesse male: forse s’era inquietata nel non vedermi tornare, forse sentiva quello che io facevo, quello che pensavo di fare... Ma no! Sono sempre illusioni della mia coscienza, vani scrupoli del mio cuore La zia ha richiuso gli occhi e sta tranquilla nel suo lettuccio, nella sua cameretta bianca e umida come una tomba.
Tornai di là, contento ch’ella non mi avesse chiesto nulla della mia gita: così ero sempre a tempo a dirle la verità.
— Domani mattina... — pensavo, tornando nell’ingresso e cercando di uscire senza far rumore. — Tutto sarà chiaro finalmente: entreremo nella verità, in una vita che sarà tutta limpida, fino alla morte.
Intanto era notte e non abbastanza scura per me che invocavo tanta luce. Il cielo s’incupiva, ma le stelle s’avvicinavano alla terra, e laggiù, in fondo alla strada, una pareva sorgere dal mare.
La drogheria era deserta, con le sue scatole rosse, i cestini vuoti, i sacchi che parevano addormentati pesantemente: io ero calmo, o almeno mi pareva: tanto calmo che vedevo e notavo ogni cosa; così vidi che anche la porticina del corridoio era aperta; e nel quadrato di luce, in fondo, si movevano delle ombre.
Forse i Tobia non erano ancora a tavola: bisognava aspettare qualche momento. E io ebbi il coraggio, la calma di aspettare, lì davanti alla loro porta, finché il movimento delle ombre cessò. Dopo tutto non andavo a fare nessun male: perché aver paura?
Eppure perché desideravo che la persiana fosse stata chiusa? All’ultimo momento mi tornavano in mente tutte le difficoltà a cui andavo incontro con l’incaricarmi della bambina: avevo anche paura di farle del male, avevo l’impressione che ella dovesse pesarmi... Ero stanco per la corsa già fatta: nulla avevo mangiato da tante ore; ero attirato laggiù verso il mare dalla frescura notturna, dall’occhio smeraldino della stella... Andar laggiù... Buttarmi sulla rena; dormire, lasciar dormire... Tutte cose superficiali, pensieri inutili, ombre vane; qualche cosa di più forte mi tiene, in fondo: il proposito di riuscire nel mio intento.
E faccio alcuni passi: rasento il muro: tocco la persiana: la persiana cede, viene a me; ho l’impressione che abbia tenuto il segreto, che voglia aiutarmi: spingo l’imposta, l’imposta cede, va in là, come scostandosi per farmi largo: e i vetri hanno un vago bagliore misterioso: riflettono la mia ombra, hanno qualche cosa di vivo, come occhi che vedono ma capiscono il perché delle cose e compatiscono; il diavolo mi aiuta e mi spinge: la stanza è chiusa, illuminata solo dal chiarore della strada, dal biancore della culla. Io ho un’ultima esitazione; mi chino, sento l’odore tiepido del latte, delle piume calde; mi viene da piangere, ho paura di rompere la bambina col solo toccarla...
Poi la presi quasi con violenza, strappando con lei la coperta e avvolgendola rapidamente perché non sentissero se si metteva a piangere. E fuggii.
Ebbi subito l’impressione di essere inseguito. Forse non lo ero ancora, ma bastò l’impressione per farmi camminare più rapido stringendo a me il misterioso fagotto: e mi pareva sempre che la bambina piangesse: sentivo i suoi lamenti dentro di me, ed erano invece i gridi del mio cuore, i battiti del mio sangue sconvolto.
Seguivo senza voltarmi la strada verso la pineta: una strada polverosa fiancheggiata di casette già a quell’ora chiuse e scure; ma da ogni finestra mi pareva uscisse una testa per spiarmi; la luce del fanale del crocevia e poi di un altro più in là mi accompagnava; io però desideravo il buio, ed ecco raggiunsi il buio, mi ci buttai dentro come in un luogo ormai sicuro... La pineta m’accoglieva. Mi pareva di esser salvo, come il bandito nel bosco.
Guardo finalmente indietro: non uno, ma cento uomini m’inseguono, più alti di me, tutti piegati a cercarmi. Niente paura, sono i tronchi dei pini, e uno è tanto vicino a me che posso appoggiarmi ad esso per riprendere respiro.
E finalmente oso svolgere la bambina, lasciare che si agiti, se vuole. Può anche piangere, se vuole: il suo grido adesso può confondersi con le altre voci della notte, col mormorio degli alberi, con tutti i lamenti e i canti che salgono dalla profondità della mia anima; ma a dire il vero la bambina non si agitava né piangeva; era tutta dura dentro la fascia, con le manine in dentro, tutta tiepida e un po’ umida come un fiore notturno, nell’involucro della coperta; e abbandonava la testina in avanti, profondamente addormentata. Le passai timidamente un dito sul visetto, sulle palpebre chiuse, sulla bocca dalla quale colava il latte: poi la ricoprii e ripresi a camminare.
Ed ecco di nuovo sentii, dentro di me, l’eco di un passo che mi seguiva: ma questa volta mi volsi, per togliermi più che altro dall’incertezza. E realmente vidi una forma avanzarsi nell’ombra. Non c’era che aspettarla e assicurarsi che non cercava me; il guaio fu che, nonostante l’oscurità, mi parve di ravvisare il vecchio Tobia: e quasi d’istinto ripresi a correre, ma invece di andar dritto credetti bene di allontanarmi trasversalmente per fargli perdere le mie traccie.
Andavo alla cieca: davanti a me però vedevo uno sfondo meno scuro, grigiastro, e credetti fosse il mare; quindi dopo un certo tratto ripresi a correre nella direzione di prima.
Mi ero abituato al buio e distinguevo le strisce dei sentieri, i cespugli, le macchie: all’ombra nera di una di queste tornai a fermarmi. Ero di nuovo solo, con la mia creatura; il cuore mi batteva, e mi pareva fosse il suo, agitato per la corsa e il vano spavento.
— Ma non sono pazzo? — mi domandavo. — Perché corro così, senza neppure essere certo di essere inseguito? E se davvero lo sono, e se è il vecchio che m’insegue, che può farmi? Neppure Dio può ormai togliermi la mia bambina dalle braccia.
Piuttosto cominciai a impensierirmi per l’immobilità, per l’abbandono di lei: ma che poteva fare, lei povera creatura, povero uccellino nudo appena nato e tolto dal nido? Se piangeva non la sentivo; agitarsi non poteva. La scoprii di nuovo; non la distinguevo bene, nell’ombra, ma tornai a palparla; era tiepida, col visetto molle tutto bagnato di latte, con gli occhi chiusi. Aveva un sonno ben profondo!
L’aggiustai meglio, cercando di metterla in quella posizione che le donne usano dare ai bambini quando li allattano, e le lasciai il viso scoperto. Faceva quasi caldo, o almeno mi sembrava così per il calore che io stesso sentivo: potevo lasciarla respirare: avevo paura di soffocarla: una paura strana che m’era venuta ad un tratto, che saliva da un angolo oscuro del mio essere e m’inseguiva come poco prima la forma minacciosa balzata dall’ombra della pineta.
Ma perché questa paura, incalzante, insistente, se la bambina era tranquilla, e scoperta, adesso?
Vado, vado, non penso più neppure all’uomo che m’insegue; non penso che ad arrivare in fondo alla pineta, nella casa del guardiano; di trovare la balia e farle dare il latte alla bambina.
D’improvviso mi sentivo di nuovo calmo, sicuro di me; mi pentivo e mi vergognavo d’essere fuggito; e anche di aver rubato la bimba, quando con la forza e il mio diritto avrei potuto prendermela un giorno e portarla dove volevo. Ma adesso il fatto è fatto; non pensiamoci più; pensiamo piuttosto a orientarci meglio, ad arrivare alla mèta.
Piuttosto... Ecco una nuova paura mi assale, mentre volgo addirittura le spalle a quello sfondo grigio che mi accompagna di fianco, e cerco di andare verso il fiume. Luci vaghe, lontane, appaiono tra il fitto degli alberi; sono forse i riflessi dei lumi delle casette della collina; la strada che seguo è dunque buona.
Piuttosto... Sì, pensavo che la bambina, una volta abbandonata da me a quella gente sconosciuta, potesse venir di nuovo rubata, o tolta loro con inganno dai miei creditori. No, no, — dicevo a me stesso, — io veglierò; starò in giro intorno alla casetta, o farò venire la donna in casa. La zia acconsentirà: la zia ha denari, adesso ne sono convinto.
E tutto mi sembrava facile, nella fantasia; ma in fondo sentivo bene che tutto era un sogno: sogno anche la calma e la fiducia che credevo di avere: in fondo un’angoscia mortale mi premeva, mi spingeva, e sempre quella paura strana, insistente, che la bambina fosse morta.
Ah, ecco, l’orribile verità l’ho detta.
Quei lumi si avvicinavano, o per meglio dire io andavo verso di loro senza badare ad altro: mi sembrava di sentir l’aria rinfrescarsi; forse ero vicino al fiume. Una casa, infatti, nereggiava dietro i pini, su uno sfondo grigio tempestato di stelle; due finestre erano illuminate e il loro chiarore penetrava fin dentro la pineta.
Io ricordavo la tragica sera in cui m’ero aggirato intorno alla casa di Fiora, col peso del mio amore che invano offrivo a lei, alla vita. Quel peso adesso l’avevo sulle braccia, fatto carne e spirito; ma adesso lo difendevo, lo volevo tutto per me, lo contendevo alla sorte.
Poco prima avevo sfidato lo stesso Dio a togliermelo: adesso andavo verso quel chiarore di casa abitata, per guardar bene in viso la mia creatura; e qualche cosa in fondo a me ghignava. Ma possibile che Dio grande infinito avesse raccolto la sfida dell’ultimo degli uomini qual ero io? Egli che aveva da badare a tanti astri, a tante foreste, a tanti oceani, s’era accorto di me che andavo nell’ombra come un insetto notturno?
Non è vero, non è vero, la bambina non è morta; non l’ho soffocata con la violenza del mio inutile amore; come potevo soffocarla, io che volevo salvarla? È ancora una illusione della mia fantasia; tutto è illusione in me.
Intanto arrivo davanti alla casa; mi sembra di riconoscere il luogo, lo spiazzo sabbioso, gli scalini della porta. È la casa del dottore!
Sulle prime mi assale un senso quasi di gioia, di viva speranza: è Dio che mi ha condotto qui; posso picchiare, far guardare la bimba dal dottore, farla tornare in vita: si può credo: il vecchio marinaio non mi ha ridato il respiro, la volta che mi sono annegato?
Ma tosto ritorno nell’ombra, e mi ritraggo per non essere veduto. Se la bimba è morta l’ho uccisa io, e non devo farla vedere a nessuno. Ma è morta davvero?
Torno in avanti e vado dove c’è il chiarore diretto della finestra...
Ricordavo sempre la notte tragica, la luce della finestra di Fiora, il sasso col biglietto.
Qui la luce era meno chiara perché i vetri erano chiusi: ma abbastanza per lasciarmi scorgere distintamente il viso della bambina. E quel viso era scuro, come coperto di un velo violaceo: dalla piccola bocca continuava ad uscire del latte; gli occhi socchiusi erano duri; bianchicci, come anch’essi annegati nel latte.
Mi sembrò che il cuore mi si sciogliesse in sangue e quel sangue mi riempisse la gola e volesse sgorgarmi dalla bocca come il latte dalla bocca della bambina; e un grido infatti mi uscì: un grido che mi parve la voce di Dio e mi fece fuggire.
Quanto tempo errai nella pineta cercando l’ombra più fitta come per dileguarmi per fondermi, ombra anch’io, nelle tenebre, non so. So che quest’ombra completa non riuscivo a trovarla: una luce, mille luci tremolavano nell’anima mia smarrita, come le stelle nel firmamento scuro. E quell’impressione di aver sentita la voce di Dio nella mia voce stessa non mi abbandonava.
E avevo paura di ritentar la prova. Ma tutto adesso parlava: sentivo il rumore dei miei passi, il fruscìo delle foglie, e un suono lontano che dapprima mi sembrò fosse dentro di me: il mormorio del mare.
Poi d’un tratto mi fermai, pronunziando parole vaghe, confuse, come quelle dei bambini che cominciano a parlare.
La gioia era tale che vinceva il dolore. Per alcuni momenti dimenticai di aver la bambina morta fra le braccia. Eppure ripresi a camminare: e andavo o credevo di andare ancora verso le colline, verso il fiume, in cerca della casa della balia!
Ecco di nuovo infatti l’orizzonte schiarirsi: il cielo si faceva azzurro, le chiome dei pini vi si disegnavano nere come nuvole basse che pur lasciavano trasparire un chiarore sempre più vivo: finché d’un tratto la pineta cessò con una sola fila di pini che pareva si fossero fermati lì protesi a salutare un essere invisibile che passava nella strada bianca illuminata.
Quella strada, quel chiarore, mi fecero paura e nello stesso tempo mi richiamarono alla realtà.
Qualcuno poteva vedermi e fermarmi: d’altronde che cosa cercavo da quella parte? Case non se ne vedevano se non in lontananza fra le vigne: e anche avessi trovato quella che cercavo a che mi serviva?
Rientrai nella pineta: il chiarore della luna si faceva sempre più vivo, illuminava i sentieri, i cespugli, illuminava, a tratti, quando io ci capitavo sotto, l’involto bianco che tenevo con me! E mi gelava tutto, come fosse un getto di ghiaccio, mi penetrava fino al cuore e smorzava la mia gioia.
Non tentavo neppur più di parlare: il suono della mia voce accresceva la mia paura. Tuttavia speravo ancora di essermi ingannato; forse la bimba era viva ancora, forse si poteva ancora salvare. Bisognava portarla dal dottore: ed ecco mi dirigo ancora alla casa del dottore: adesso mi orientavo bene, nella pineta, capivo finalmente dov’era il mare dove il paese, dove il fiume.
Vado di nuovo verso il mare: lo sfondo grigio s’è fatto azzurro; sotto la luna piena sempre più alta e chiara, tutto il paesaggio si colorisce di azzurro e di argento, tutto diventa fresco, lieve, irreale.
Ed anch’io nonostante la stanchezza, l’angoscia, il terrore, ho l’impressione di essere diventato lieve, di camminare rapido, senza sfiorare la terra. Mi sembrava che l’aria attraversasse il mio corpo come la tela d’una vela e mi spingesse.
Ma dove, dove andavo? In casa del dottore no, non volevo più andare: e non più per paura ma perché sentivo ch’era inutile andarci, che la bimba era morta e nessuna forza umana, neppure quella del mio dolore, poteva rianimarla.
Eppure andavo: dove? Non sapevo: arrivato al confine della pineta tornavo indietro. Credo di aver fatto in tutti i sensi, quella notte, tutti i sentieri della pineta; e ancora mi pare adesso ogni notte nell’addormentarmi di essere là e di vagare, col mio carico, col desiderio e la paura di deporlo e di uscire libero da quel labirinto, come si vaga nei sentieri della vita, col carico delle nostre passioni e con un desiderio di liberazione...
Finalmente ebbi l’idea di uscirmene davvero, da questa vita, con la mia creatura in braccio. Non c’era più posto per me nella vita. E andai di nuovo verso il mare...
Ma appena fuori della pineta, attraversando l’arenile tutto bianco di luna, mi sembrò di svegliarmi da un incubo.
Respiravo meglio: ero già libero della parte più gravosa della mia angoscia: della paura.
Deposi l’involto sulla sabbia e mi sdraiai accanto. Così piccolo, quell’involto, fra me e il mare sembrava una montagna candida che mi chiudesse l’orizzonte e m’impedisse il passo verso la morte.
No, non volevo più morire: non volevo e non potevo: il dolore stesso cantava in me, adesso, con una voce potente che mi richiamava alla vita. Lagrime ardenti mi cadevano dagli occhi fino alla rena e le vedevo luccicare alla luna come perle. Perché non devo confessarlo? La morte stessa della bambina mi aiutava nella speranza di vivere. Dio me l’aveva tolta per misericordia, non per vendetta, e mi aveva ridonato la voce per difendermi davanti agli uomini: da lui ero già assolto e ribenedetto.
Così mi trovarono: mi presero e mi condannarono, nonostante la mia difesa, come avessi ucciso io la mia bambina.
In quel frattempo anche la zia morì: aveva pagato il mio debito e mi lasciava erede del terreno, della sua casa e di un fascio di titoli di rendita ch’erano depositati presso un notaio.