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giardino pareva grande perché confinava con altri giardini; si aveva l’illusione che il vialetto che s’insinuava nell’ombra, fra arbusti e canne d’India, conducesse ad un bosco. La porta della cucina e quella della drogheria erano coperte di tende rosse: da quella della cucina usciva un odore di pesce arrostito, di frutta cotte: odore di benessere che si mischiava al profumo di poesia del giardino.

I piccioni violacei si posavano sul marmo della tavola, battendovi il becco quasi volessero piluccare i grappoli d’ombra: ricordo tutti i particolari di quella mia visita involontaria che doveva tanto influire sulla mia sorte.

Il vecchio tornò verso di noi, ma non sedette. Con le dita calcate sulle braccia incrociate, riprese a parlare con la figliuola, finché questa tirò a sé il paniere da lavoro che stava sopra la tavola, vi frugò un poco e da un miscuglio di cartoline illustrate e di altre carte trasse il mio foglio.

Lo riconobbi subito e vibrai di nuovo; non più per rabbia, adesso, ma per vergogna.

Vergogna di averlo richiesto con ingratitudine al vecchio: vergogna sopratutto di apparire alla donna quello che non ero: un ingrato.