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stetti fermo a guardare quei due, che riprendevano a parlare. La zia ogni tanto tendeva la mano verso di me e pareva ripetesse la sua ultima frase scritta; ma l’ometto oramai era sicuro che, giunto il momento ella mi avrebbe aiutato. Finalmente egli si alzò, appoggiando forte le mani al bastone.

Allora mi accorsi che era quasi un nano; ma con le mani e i piedi così grandi che non sembravano suoi. E su quei grossi piedi egli si teneva come su un piedestallo, mentre in quelle sue mani ossute, pietrose, doveva concentrare una forza enorme: ed io pensavo che il progetto di liberarsi della creatura, senza noie, doveva essere tutto suo: forse Fiora non voleva, non doveva volere; ma egli la costringeva a tanto: forse Fiora non mi odiava, com’egli diceva, forse era una vittima più sua che mia.

Decisi subito di andare a cercarla; dopo tutto ne avevo il diritto: ma mi guardai bene di farlo sapere. Mi sentivo anch’io furbo: forse perché pensavo che la zia e l’ometto lo erano tanto.

Anche la zia si alzò, rimise a posto la sua sedia, accompagnò l’uomo fino alla porta: e nell’andarsene egli mi salutò con un solo cenno del capo; ma il suo sguardo fu così vivo e penetrante che mi si