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Dalla cucina stretta e lunga come un corridoio, tutta luccicante di tavole di marmo e di recipienti di rame che non si adoperavano mai, si usciva in un cortiletto cinto di muri altissimi ricoperti d’edera e di luppoli.

In quella specie di gabbia la zia teneva le sue bestiole; dalle quali, del resto, traeva una certa rendita, perché dopo averci chiacchierato a lungo e dopo averle accarezzate e bene ingrassate, le vendeva o ne faceva il nostro pasto quotidiano.

E io mangiavo volentieri i bei polli arrosto e i conigli alla cacciatora; ma non bastava questo a sollevarmi dalla tristezza dei primi giorni dopo il mio ritorno.

In quel tempo l’educazione dei sordomuti non era perfezionata come adesso: tuttavia ci si insegnava già a leggere e scrivere, a parlare e capire la parola altrui: io però avevo una insuperabile ripugnanza a parlare: sentivo che la nostra voce doveva avere qualche cosa di anormale, di animalesco: preferivo tenere con me un taccuino sul quale scrivevo quello che volevo dire e domandare.

Avevo diciotto anni e mezzo, ma ero già grande e grosso come un uomo fatto; ero già un uomo, anzi, con tutti i bisogni di una giovinezza tanto più forte quanto più oppressa dalla vita di disciplina fino allora fatta,