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tempo. Dopo tutto, il mio passato non era stato tanto nero come pensavo. Tutti mi avevano amato e protetto nella sventura, cominciando dalla zia e continuando nei miei istitutori e nei compagni.

E con questi eravamo stati sempre allegri e spensierati: mi sembrava di giocare ancora con loro nei prati e nel giardino della villa dove quasi ogni pomeriggio un giovane istitutore ci conduceva.

Di primavera i muri erano tutti rivestiti di rose e l’aria ad aspirarla forte pareva un liquore aromatico. Io gustavo gli odori con una potente sensualità: mi davano brividi, sapori, visioni di cose e di luoghi fantastici.

In quel giardino ebbi la prima rivelazione dell’amore.

Avevo tredici anni; ero felice e spensierato, o per meglio dire incosciente e beato come un animaletto domestico ben tenuto. Tutti, del resto, eravamo così: allegri e anche un po’ crudeli. La nostra vittima era l’istitutore che ci conduceva a spasso: un giovane serio, melanconico, che pareva accogliere lui solo, che era sano e bello, tutto il peso della sventura nostra. Tutti i dispetti gli facevamo, appena si distraeva; non ci parve quindi vero, un pomeriggio, nella villa,