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e dall’infermità che mi costringeva a quella vita.

Nell’Istituto, almeno, si viveva in grandi camere ariose, in compagnia di altri simili a me; spesso ci si conduceva all’aperto, nei parchi e nei giardini di una grande villa; qui in casa della zia mi sembrava di essere in prigione. Temevo sempre di urtare contro qualche cosa, e di romperla: sentivo l’odore dell’umido e delle bestie fin sotto le lenzuola del mio letto, e tutto mi faceva soffrire.

Così passarono dei mesi; tornò la primavera. Io non avevo nulla da leggere, tranne qualche libro di devozione, non conoscevo nessuno, non mi rendevo utile se non con l’andare a far la spesa la mattina per conto della zia; le lunghe giornate inutili mi avvilivano; incominciai a odiare la casa, a pensare sul serio di occuparmi.

Allora andai a vedere il mio terreno. Non dimenticherò mai quel giorno. La zia mi aveva dato un cestino pieno di provviste, come s’io dovessi fare un lungo viaggio, mentre per andare al paese vicino, di là del quale era il terreno, bastavano venti minuti di treno.

Appena sceso alla stazione, mi avviai senza chiedere notizie a nessuno. Avevo indicazioni precise