L'educazione della donna ai tempi nostri/II
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II.
L’educazione della donna nella scuola
Cominciamo dall’esaminare l’opera educativa delle scuola.
Per l’istruzione e l’educazione della donna abbiamo fra noi, le scuole elementari, le complementari e le normali, oltre alle scuole professionali femminili e alla scuole secondarie e universitarie, frequentate anche dalle donne. Delle prime faremo parola in particolare, perchè mirano o, meglio, possono mirare, direttamente all’educazione della donna; delle scuole professionali diremo qualche cosa a luogo opportuno; delle scuole secondarie e universitarie non faremo parola, perchè esse sono frequentate solamente da quelle giovani che vogliono darsi alle stesse professioni liberali degli uomini: ma non mancheremo di esaminare le conseguenze di questo fatto importantissimo, che ha una stretta relazione con la vita e l’avvenire della società. Non parleremo neppure delle scuole superiori femminili di magistero, perchè esse sono una specie di scuole universitarie, che non hanno per fine l’educazione della donna, ma di fornire alle giovani che vogliono dedicarsi all’insegnamento secondario, complementare e normale, la coltura adatta per tale ufficio.
La scuola elementare.
L’indirizzo educativo delle nostre scuole elementari è comune a maschi e a femmine. I programmi governativi prescrivono le stesse cose per le classi maschili e per le femminili, e neppure nelle pregevoli istruzioni che li accompagnano si fa parola di una speciale educazione conveniente a ciascun sesso e specialmente a quello femminile. Da che dipende questa omissione?
Non certamente da dimenticanza, perchè le autorevoli persone che attesero alla compilazione dei vigenti programmi non potevano ignorare che la donna, benchè formata, come l’uomo, di anima e corpo, ha carattere e indole diversa, oltre ad avere una speciale missione da compiere. Il suo sistema nervoso è più irritabile di quello dell’uomo, più squisiti ne sono i sensi, più delicate le fibre, più impressionabile lo stato emozionale, che la rende più accessibile al dolore, più vivace e più attiva l’immaginazione, più analitico che sintetico il lavoro della mente, più mite e più arrendevole l’animo, più docile la volontà, più prepotente la forza del sentimento su quella della ragione, ciò che può essere un grave difetto. E poichè è principio pedagogico indiscutibile che l’educazione deve conformarsi ai caratteri speciali della psiche dell’educando è chiaro che essa non può essere simile pei due sessi che hanno pregi e difetti ingeniti diversi.
Forse la mancanza nei programmi delle nostra scuole elementari di uno speciale indirizzo per l’educazione delle fanciulle, dipende dal concetto che la prima istruzione debba essere comune a maschi è a femmine. Ma credo che questo sia un errore.
È giusto che la donna, fin dalla tenera età, sia istruita come l'uomo, perchè è finito per lei il tempo di quella barbara schiavitù, a cui abbiamo innanzi accennato, nel quale essa era condannata a filare e a custodire la casa. Ma, come è noto a tutti, l’istruzione e l’educazione devono essere utili per la vita; perciò la coltura e l’indirizzo educativo devono essere un po’ diversi pei due sessi fin dalle prime scuole.
La donna ha, come si è detto, una speciale missione da compiere, per l’ufficio della maternità assegnatole dalla natura, e mostra fin dalla infanzia il suo istinto per questo ufficio. Ho io bisogno di ricordare l’amore e la passione delle fanciulle per le bambole! Non si deve tener conto dell’indole e delle speciali tendenze dell’individuo per educare con efficacia? Non bisogna cominciare dalla tenera infanzia a destare e a tener vivi i buoni sentimenti, perchè si trasformino per tempo in abiti e esercitino la loro benefica influenza sulle azioni della vita? E tutti sappiamo che i sentimenti destati dell’infanzia si conservano molto a lungo, perchè impressionano animi vergini, che perciò sono facilmente plasmabili.
Ci sono, è vero, molte cognizioni che bisogna far apprendere, nelle scuole elementari, tanto ai fanciulli che alle fanciulle; ma ve ne sono molte altre che sono più adatte o più necessarie per gli uni o per le altre. E, facendo un breve esame dei vigenti programmi per tali scuole, noto che se non v’è nulla a ridire su quelli riguardanti l’insegnamento della lingua, v’è da osservare parecchie cose su quelli dell’aritmetica, della storia e delle scienze fisiche e naturali.
Per esempio, non sono necessarie per le fanciulle le nozioni riguardanti i rapporti e le proporzioni, quelle per la misurazione di tutte le figure piane e di tutti i solidi geometrici, e il calcolo sulle misure quadrate e cubiche. Se l’istruzione deve servire per la vita, quali occasioni avrà la donna, che generalmente deve attendere all’amministrazione domestica, di servirsi delle suddette nozioni?
Per la storia patria il programma governativo prescrive in 3* classe: «racconti storici riguardanti i fatti e gli uomini più notevoli dell’Italia dal 1848 al 1870». E delle donne che contribuirono efficacemente alla nostra libertà, unità e indipendenza neppure una parola. Forse non ce ne furono? E Anita Garibaldi, Giuditta Arquati-Tavani, Adelaide Cairoli, ecc.?
Nel programma di storia per le altre classi è da notarsi la stessa omissione, e alle donne più notevoli non si fa un accenno neppure nelle istruzioni che si dànno agl’insegnanti, mentre di donne illustri per amor patrio, virtù civili, grandezza d’animo e di mente è molto ricca la storia della nostra patria. Eppure è l’esempio delle altre donne che può influire più efficacemente sull’animo delle fanciulle e delle giovanette, affinchè l’insegnamento della storia patria ispiri, secondo il suo fine, il sentimento del dovere, la devozione al bene pubblico e il vivo amor di patria.
Per l’insegnamento delle scienze fisiche e naturali sembrano superflue per le fanciulle le nozioni riguardanti la pesca, l’industria mineraria, manifatturiera, ecc. prescritte per la 6a classe, perchè potrebbero bastare per esse pochi cenni adatti nei libri di lettura.
Insomma i programmi delle scuole elementari hanno bisogno di essere ristretti in più angusti limiti per le scuole femminili e di essere, in alcuni punti, diversi da quelli delle maschili.
Sfrondandoli di tutto ciò che è superfluo all’istruzione e all’educazione delle fanciulle, è possibile ottenere che le maestre diano maggior importanza all’insegnamento dei lavori donneschi, che molte trascurano del tutto, perchè preoccupate dal fatto di dover svolgere lo stesso programma delle scuole maschili e in tempo relativamente minore, avendo un insegnamento di più, quello appunto dei lavori donneschi.
A diminuire l’importanza di questo insegnamento contribuiva prima anche il fatto che non era prescritto nessun saggio d’esame, e fu perciò molto opportuna la pubblicazione dei programmi di lavori donneschi del 10 aprile 1899, con l’obbligo degli esami.
Sfrondando del superfluo i programmi delle scuole elementari femminili, determinando bene quelle nozioni che per esse debbono essere diverse dalle altre prescritte per le maschili, bisogna pure mettere in evidenza il particolare fine educativo dell’istruzione femminile. Si sa, la buona maestra deve saper prendere occasione da tutti gl’insegnamenti per fare acquistare alle alunne buone abitudini mentali e per migliorarne continuamente l’animo. Ma quante sono le maestre, che si ricordano di questo fine principale dell’insegnamento elementare? La preoccupazione di dover svolgere lo stesso programma didattico delle scuole maschili, in un tempo relativamente più breve, e lo spauracchio dei risultati finali, da cui molti sogliono ancora giudicare in modo assoluto l’opera degl’insegnanti, pesano come un incubo sull’animo di molte maestre, e le spingono a non andar tanto pel sottile nell’insegnamento e a contentarsi che le alunne apprendano alla meglio le nozioni prescritte. Ed esse finiscono col dare alle scolare una verniciata di quell’erudizione pappagallesca di cui molte ragazze fanno sfoggio nella vita; ma qual è stata l’opera educativa compiuta?...
Or bene, sarebbe utile prescrivere nelle istruzioni che dovrebbero accompagnare i programmi speciali per le scuole femminili, che l’opera della maestra non consisterà solo nell’insegnare con profitto delle alunne e nel rendere educative per la loro mente le nozioni prescritte, ma anche nel migliorare sempre più il loro animo.
Migliorare sempre più l’animo delle scolare: ecco il compito principale di una maestra, al quale non v’è tempo che basti, perchè il suo sguardo acuto deve saper penetrare nel fondo dell’anima di ciascuna allieva, scrutarne l’indole, rilevarne i pregi e i difetti, studiar le cause di questi e correggerli con perseveranza, destando e fecondando specialmente i buoni sentimenti adatti, che si trasformeranno in buone azioni, le quali, ripetute, costituiranno le buone abitudini a cui deve
mirare una savia educazione morale. Nè questo e tutto, perchè la maestra deve saper amare le alunne e farsi amare da esse, deve esercitare su di loro, con la sua virtù serena e modesta, una specie di fascino, una specie di suggestione, quella suggestione psicologica, benefica, che deriva dalla forza dell’esempio.
E di questo studio delle alunne1 e di questo suo lavoro per migliorarne continuamente l’animo, la maestra deve dar prova nelle ispezioni che si compiono alla sua scuola, se vuol dimostrare che ha compiuto coi fatti, e non a parole, il suo dovere riguardo all’educazione morale delle scolare. E lo dimostrerà presentando al suo ispettore il diario compilato accuratamente e le note biografiche delle sue alunne, di cui deve saper dire i pregi e i difetti specialmente dell’animo, indicando in qual modo ha sviluppato i primi e corretti i secondi. Fino a quando l’educazione non sarà considerata come fine da raggiungere e l’istruzione come mezzo, la scuola non potrà dirsi veramente educativa.
Ma, generalmente parlando, nelle scuole femminili non si dà all’istruzione che s’impartisce l’indirizzo educativo richiesto dalla missione speciale della donna. I temi dei componimenti che si svolgono nelle classi 4a, 5a e 6a non hanno sempre di mira l’educazione della mente e del cuore delle fanciulle: essi debbono essere, è vero, per lo più occasionali e tratti dalla vita delle alunne per essere adatti alla loro intelligenza; ma bisogna saperli scegliere, affinchè giovino ad abituarle a comporre con la propria testa e ad educarne veramente l’animo. Perciò i temi debbono ora esercitare ad osservare, riflettere e ragionare, ora coltivare l’immaginazione, ed ora, anzi spesso, sempre, destare buoni sentimenti.
Anche i quesiti che si dànno a risolvere alle alunne delle scuole elementari non hanno sempre di mira la vita pratica, l’economia domestica e le speciali occupazioni delle donne. Eppure bisogna saper trar partito da ogni insegnamento per educare con efficacia, secondo la particolare natura delle fanciulle e le loro attitudini di mente e di animo.
Ma chi dà la giusta importanza a queste cose? E non è raro il caso che si adottino nelle scuole femminili gli stessi libri di lettura delle scuole maschili, mentre essi, fra gli altri pregi, debbono avere quello importantissimo di rispecchiare le buone abitudini e i buoni sentimenti dei ragazzi e di svilupparli maggiormente. Le abitudini dei fanciulli non sono tutte simili a quelle delle fanciulle, come non ne sono simili tutt’i sentimenti, e gli uni e gli altri debbono essere educati, dalla adolescenza, secondo la speciale missione dell’uomo e della donna; e poiché il libro di lettura deve ritrarre la vita dei fanciulli, cui è destinato, e l’ambiente in cui vivono, per dare all’insegnante occasioni propizie per educarli e istruirli e formare la loro esperienza per la vita, è chiaro che lo stesso libro non può servire utilmente per maschi e femmine almeno nelle classi del corso popolare.
Un ottimo libro per le scuole maschili può essere un libro mediocrissimo per le femminili; e ricordo sempre la disillusione provata da una brava maestra, che aveva adottato per le sue alunne di 5° classe il Cuore di Edmondo De Amicis, dei libri del quale era ammiratrice, quando s’accorse che non le dava le desiderate occasioni per fecondare certi sentimenti importanti per l’educazione delle fanciulle. Allora, riflettendo che l’autore aveva destinato il suo libro ai ragazzi, lo sostituì con un altro, scritto appositamente per le ragazze.
Per me, credo che, anche per le letture da farsi in famiglia, bisognerebbe consigliare libri differenti per maschi e per femmine; poiché, se è vero che vi sono letture che possono tornare egualmente istruttive ed educative ai due sessi, è vero altresì che il particolare fine istruttivo e educativo da raggiungersi non è lo stesso per i maschi e per le femmine. Quando l’istruzione non è saviamente diretta a educare la mente e l’animo degli alunni, secondo lo scopo di ciascuna scuola, l’opera dell’insegnante non può avere tutta l’efficacia educativa.
La scuola complementare.
La scuola complementare ebbe vita legale dalla legge 12 luglio 1896 e sostituì la vecchia scuola preparatoria alla scuola normale femminile; ma il legislatore le volle dare anche vita indipendente, facendone «una scuola di coltura generale adatta alle giovinette», ciò che nulla toglie alla necessaria preparazione per gli studî normali. Perciò la scuola complementare ha carattere proprio e può essere molto utile all’educazione della donna.
Il suo fine è di completare l’istruzione che le giovinette hanno ricevuto nelle scuole elementari e di dar loro una coltura sufficiente per gli uffici a cui la donna potrà dedicarsi nella famiglia o nell’amministrazione domestica e privata; ma potrebbe anche avere, come scuola femminile, un particolare carattere educativo.
Certamente l’istruzione che s’impartisce nella scuola ha per iscopo la coltura della mente ed è per sè stessa educativa. «La mente più è illuminata e più comprende l’utilità del vivere onesto e del retto operare»; più è atta a formare nell’individuo convinzioni profonde, che destano forti sentimenti e dalle quali derivano il forte e costante volere, che genera il carattere; più è atta con la ragione a dirigere i sentimenti, a regolare la condotta morale e a frenare le emozioni pericolose. La coltura scientifica poi eleva i sentimenti e migliora l’animo, e, per le donne specialmente, è di grande importanza, perchè esse, per l’ambiente in cui vivono e per l’indole naturale arrendevole, aprono facilmente l’animo a ogni sorta di pregiudizî.2
Ma per le donne la coltura della mente potrebbe essere ancora più educativa, se in ogni insegnamento si avesse di mira la particolare missione che esse devono compiere nella famiglia e nella società. Perciò mi pare che sarebbe stato utile che la legge, fissando le materie di studio per la scuola
complementare, avesse dichiarato che le nozioni da impartirsi debbono essere sempre dirette a preparare buone figlie e buone madri, ciò che la scuola deve curare con tutti i mezzi che sono in suo potere.
È un errore il credere che solo la famiglia possa dare alla donna l’educazione morale conveniente, secondo la missione che deve compiere, perchè vi sono molte famiglie, così malamente costituite, che o non possono badare all’educazione delle loro figliuole o non possono dar loro buoni e salutari esempi per la vita. Mandandole a scuola, esse si affidano all’opera educativa degl’insegnanti. Facciamo quindi che non venga mai meno questa loro fiducia; e quando ci preoccupa il fatto, pur troppo vero, che l’opera della scuola è, per l’educazione morale, ben poca cosa rispetto a quella grandissima che potrebbe compiere la famiglia, ricordiamoci che, se la famiglia non risponde interamente alla sua missione educatica verso la prole, solo la scuola può sostituirla. È compito quindi della scuola di migliorare la famiglia migliorando l’individuo, ed essa deve saperlo compiere anche senza l’aiuto, certo efficace, della famiglia stessa.
È pure un errore il credere, come fanno molti, che occorrendo per l’educazione morale lungo tempo, affinchè si formi nell’educando l’esperienza della vita, la scuola non possa abbreviarla. La scuola può benissimo, e deve abbreviare tale esperienza, anticipandola con un sano insegnamento su cose e fatti veri o verosimili, scelti con arte. Se è lungo il tempo necessario per l’educazione morale della donna, è utile che sia bene speso, per un sì nobile scopo, quello disponibile nella scuola.
Ma ciò che io avrei desiderato trovare nell’articolo di legge che fissa materie d’insegnamento per la scuola complementare, cioè il particolare indirizzo educativo dell’istruzione da impartirsi alle giovinette che la frequentano, perchè fosse come una solenne affermazione d’un alto principio pedagogico, a cui tutti avrebbero dovuto inchinarsi, non manca nelle istruzioni che accompagnano i vigenti programmi didattici del 1897 per la scuola medesima. Occorrerebbe soltanto che se ne facesse obbligatoriamente l’applicazione in ogni materia d’insegnamento.
Infatti, nelle brevi istruzioni che precedono il programma di lingua italiana è detto saggiamente che le letture da farsi dalle alunne, a scuola e a casa, debbono essere illustrate dall’insegnante in maniera che giovino anche all’educazione del sentimento. È detto pure che le prose e le poesie da far studiare a memoria debbono essere adatte a formare il gusto e a migliorare il cuore, e i temi dei componimenti convenienti a scuola femminile.
Ma qual è l’applicazione che si fa nelle classi complementari della prima di queste tre raccomandazioni? Generalmente parlando, si ordina alle alunne la lettura di antologie che non giovano menomamente all’educazione particolare dei sentimenti da coltivarsi a preferenza nell’animo della donna, e se ne cambia l’autore con grande facilità da un anno all’altro, senza avere nessun riguardo alla spesa che si fa sostenere alle famiglie.3 Io credo che sarebbe bene prescrivere che le antologie da adoperarsi nella scuola complementare, oltre a giovare allo studio della lingua e dello stile, a educare il raziocinio, l’immaginazione, il gusto, ecc., servissero anche all’educazione particolare del cuore della donna.
Nelle istruzioni che precedono il programma di storia si prescrive semplicemente che «le alunne devono, nel corso di tre anni, acquistare conoscenza sicura, esatta, ordinata dei fatti più notevoli attraverso ai quali si è svolta la vita della nazione italiana dei tempi più remoti ai giorni nostri: questo risultato e non altro deve proporsi l’insegnante». E il fine educativo dell’insegnamento della storia, il cui studio deve rendere sempre più intenso l’amor di patria e il sentimento del proprio dovere per il bene pubblico? E la particolare e assennata scelta dei fatti da narrare nella scuola femminile, perchè tale fine educativo sia in armonia con la speciale missione della donna?
Io credo, sì, che le alunne della scuola complementare debbano acquistare conoscenza sicura, esatta, ordinata dei fatti più notevoli della storia italiana dai tempi più remoti ai giorni nostri; ma credo pure che per fatti più notevoli devonsi intendere gli avvenimenti più importanti che hanno avuto influenza sulla vita della nazione e sull’ordinamento politico di essa, e quelli che hanno un particolare carattere educativo per il fine sopra indicato, come sono specialmente le nobili e generose azioni e gli episodi eroici, che influiscono beneficamente nella formazione del carattere morale. Al racconto di tali fatti gli animi s’infiammano, i coraggiosi vorrebbero mettersi alla prova e i timidi si fortificano. E di nobili e generose azioni e di fatti eroici è ben ricca la storia della nostra patria; nè sono rari gli esempi di donne che si sono sacrificate per l’amor di patria e per il bene pubblico, benchè il programma di storia del quale ci occupiamo non accenni neppure all’influenza dell’opera educativa della donna sui costumi dei popoli italiani, sull’ordinamento dei vari governi, sul sorgere o sul decadere delle istituzioni civili, ecc.
Forse il compilatore del programma di storia della scuola complementare pensò che è bene lasciare all’insegnante la scelta dei fatti educativi a cui ho accennato, benchè abbia indicato in modo particolareggiato i fatti notevoli che debbono essere oggetto d’insegnamento; ma dai libri di testo, che generalmente si adottano, si vede se siano veramente educativi per le giovinette tutt’i fatti storici che si narrano e si fanno studiare nelle classi complementari.
Ho davanti a me, mentre scrivo questa pagina, alcuni dei testi più in uso, e se dovessi far la critica ai fatti in essi narrati, dovrei dire cose molto amare per chi li ha compilati. Basti notare che in tali libri si fa perfino menzione di fatti antieducativi, come quelli riguardanti i turpi costumi di Giovanna I e Giovanna II di Napoli, che professori e professoresse fanno, senza sano criterio, apprendere alle proprie alunne.
Ahimè! l’arte didattica e educativa degl’insegnanti delle scuole secondarie, in genere, non è spesso pari all’altezza della loro coltura; e ciò deriva principalmente dalla mancanza di studi pedagogici, i quali, nelle nostre Università, sono obbligatori solo per gli studenti di filosofia. L’arte della scuola è così difficile che ha bisogno di studî e attitudini speciali, e non è ingiusto il chiedere che tutti coloro che si dedicano all’insegnamento, debbano aver dato prima, come i maestri elementari, prove sufficienti di attitudine all’arte insegnativa e educativa, il cui studio dovrebbe essere nelle Università non solo teorico, ma anche pratico con opportune esercitazioni in qualche scuola secondaria.
Se tutti gl’insegnanti di storia delle scuole complementari fossero nello stesso tempo educatori, non lamenteremmo talvolta le narrazioni, fatte in iscuola, di racconti antieducativi, che non giovano a migliorare il cuore delle nostre figliuole per la semplice ragione che non ogni fatto storico può giovare all’educazione dell’animo delle giovinette. Tutto ciò che desta sentimenti cattivi è antieducativo, e se è un fatto importante della storia, il quale ha dato origine ad avvenimenti di cui è necessario far parola, bisogna limitarsi ad accennarlo semplicemente.
La narrazione o la lettura di fatti riprovevoli, che destano disgusto, ribrezzo, orrore, disturba la tranquillità dello spirito, allontana i sentimenti buoni e genera nell’animo dei giovinetti un’agitazione morbosa e dannosa, perchè questi non hanno ancora una direzione costante nella loro condotta. Se la storia dev’essere la maestra della vita, bisogna badar molto alla scelta dei fatti da insegnarsi nelle scuole, e ricordarsi che solo per la mente dei giovani, la cui regola di condotta è stata già formata con l’educazione, può non essere nociva la narrazione (prudente però e non frequente) di fatti cattivi, perchè se ne può mostrare il lato educativo e farli aborrire, mettendoli in contrasto con quelli buoni.
Pigliando ora in esame gli altri programmi didattici della scuola complementare, non si può che dir bene di quelli di geografia, di matematica e computisteria, di scienze fisiche e naturali, d’igiene, di disegno, ecc. Solo è a desiderarsi che gl’insegnanti si attengano strettamente ad essi senza oltrepassarne i limiti, ciò che non è sempre utile alle alunne, perchè si sovraccaricano di lavoro con danno dell’efficacia dello studio e della loro salute.
Per esempio, in molte scuole complementari si esagera negli esercizî cartografici, benchè questi non abbiano altro scopo che di fissare nella mente i luoghi che si studiano, e le alunne finiscono col fare le carte geografiche copiandole da quelle degli atlantini per mezzo del vetro; si esagera negli esercizî di calcolo dando a risolvere problemi che non hanno alcuna attinenza colle necessità della vita della donna; non si bada, nell’insegnamento delle nozioni di fisica, di storia naturale e d’igiene, che la coltura scientifica, secondo è detto molto bene nelle istruzioni governative, deve giovare, per le donne, all’economia domestica e alla prima educazione dei figli, e mentre i programmi stabiliscono che la chimica si deve insegnare senza simboli e formole, molti professori fanno il contrario, trascurando poi le applicazioni della chimica all’economia domestica, ciò che è più indispensabile alla donna. E queste e altre esagerazioni sono generalmente lamentate dai padri di famiglia, che desiderano un’istruzione più pratica e più utile per le loro figliuole.
Non si comprende poi perchè non si sia compilato il programma dei lavori femminili per la scuola complementare. Si fa troppo a fidanza con la buona volontà della maestra e le si raccomanda di studiarsi di rendere le alunne esperte nei lavori che sono più necessari in una famiglia, e di non trascurare, nel preparare il suo programma didattico, i lavori che sono più in uso e in pregio nella provincia o nella regione dove la scuola si trova. Sicchè tutto rimane a discrezione della maestra pei lavori femminili; ma sarebbe stato bene che, pur facendo le suddette raccomandazioni, si fosse prescritto un programma generale di lavori, comuni a tutte le regioni d’Italia.
Ora si fa molto poco nelle scuole complementari per l’insegnamento dei lavori muliebri, e le famiglie se ne lagnano; nè è possibile fare di più in due ore di lezioni settimanali, stabilite per ogni classe. L’insegnamento dei lavori donneschi dovrebbe avere, in una scuola secondaria femminile, la stessa importanza di quello della lingua italiana, per la sua grande utilità nella vita della donna, e bisognerebbe quindi destinare per esso egual numero di ore di lezione per settimana.
Riassumendo quello che si è detto intorno ai programmi della scuola complementare femminile, bisogna riconoscere che essi sono pregevoli in molti punti, ma hanno bisogno di essere indirizzati maggiormente all’educazione speciale della donna, secondo la missione che essa deve compiere nella vita. Bisognerebbe inoltre diminuire il fardello delle nozioni superflue nelle varie materie e accrescere il tempo per l’insegnamento dei lavori donneschi, che sono, come dice la signora Gazzoni Maria «lo scettro della donna», e debbono formare parte integrante del programma didattico di una scuola femminile.
La scuola normale.
Per la scuola normale femminile non vi sono programmi speciali, perchè quelli vigenti sono comuni agli allievi maestri e alle allieve maestre; perciò mi pare che le manchi quel determinato indirizzo educativo, di cui si è innanzi parlato, e che è necessario ad ogni scuola femminile per la speciale missione della donna nella famiglia e nella società. Il fine della scuola normale femminile è propriamente di preparare buone maestre; ma essendo l’ufficio della maestra molto affine a quello della madre di famiglia, credo che gli studi da compiersi nella scuola normale femminile possano avere benissimo uno spiccato carattere educativo per la vita della donna.
In verità, per alcune materie i vigenti programmi governativi del 1897, ancora in vigore, i quali sono ricchi di savi ammaestramenti per gl’insegnanti, accennano a questo speciale carattere educativo della scuola normale femminile. Difatti al programma di pedagogia si sono aggiunte, per le allieve maestre, alcune speciali nozioni sull’allevamento del bambino e sull’andamento normale del suo sviluppo psichico, per la giusta ragione che la donna, come maestra negli asili infantili e come madre di famiglia, deve occuparsi dell’educazione dei bambini; e a proposito dell’insegnamento agrario si sono compilati proprio due programmi (di cui uno speciale per la scuola femminile) volendosi «accennare al diverso modo con cui devonsi trattare gli stessi argomenti, e alla ineguale estensione che loro conviene dare, perchè, in relazione con le attitudini speciali dei due sessi e con i rispettivi loro uffici nella scuola e nella famiglia, sia adoperato col maggior utile il poco tempo concesso». Ma per gli altri insegnamenti non si indicano nozioni speciali da far apprendere alle allieve maestre.
Vediamo, facendo un rapido esame del programmi prescritti per le materie principali, se ciò sarebbe stato utile ed opportuno.
⁂
Per l’insegnamento della lingua e delle lettere italiane le istruzioni dicono che «grammatica stilistica, rettorica, notizie di generi letterarî, biografie dei principali scrittori, tutto dev’essere presentato agli alunni nella sola maniera veramente facile, dilettevole e proficua, cioè per via di letture e di commenti». E vengono additati gli autori da studiarsi in iscuola e da leggersi in casa: i novellieri ei cronisti del duecento e del trecento; l’Alighieri, il Petrarca, il Boccaccio, l’Ariosto, il Tasso (con raffronti con l’Eneide, l’Iliade e l’Odissea, tradotte in italiano), il Machiavelli, il Goldoni, l’Alfieri ecc. Si tratta dei sommi della nostra letteratura classica, le cui opere, studiate con amore, possono formare senza dubbio il gusto estetico della lingua, se non mancasse il tempo, come si vedrà appresso, di assimilare e digerire ciò che si legge.
Ma non mi pare che il solo studio di questi classici possa giovare all’educazione della donna, alla qual cosa debbono mirare le buone letture. Occorrono per questo scopo libri speciali di autori e autrici che abbian diretta l’arte al fine educativo suddetto, di migliorare cioè l’animo della donna, ed io mi maraviglio che non si leggano nelle scuole normali femminili, nè come opere di lingua nè come opere pedagogiche, gli aurei libri della Franceschi-Ferrucci (Della educazione morale della donna), della Molino-Colombini (Sulla educazione della donna); della Cordelia (Il regno della donna), ecc.
Mi pare poi che quello che deve fare in classe l’insegnante di lingua italiana, in ciascun anno della scuola normale, sia di gran lunga superiore al tempo disponibile, Senza parlare di altro, il solo studio della Divina Commedia esige la massima parte delle lezioni dell’anno scolastico.
Veramente il programma prescrive: lettura e commento dei più importanti e più bei canti dell’Inferno, con notizie di tutta la cantica, pel primo anno, del Purgatorio, con notizie di tutta la cantica, pel secondo, e del Paradiso, anche con notizie di tutta la cantica, pel terzo. Ma gl’insegnanti, sia perchè trascinati dall’amore per gli studi danteschi, oggi giustamente in onore, sia per dare un concetto esatto e completo del maggior capolavoro della nostra letteratura, illustrano e commentano in iscuola, l’uno dopo l’altro, tutti i canti di ciascuna cantica, ciò che assorbe quasi tutto il tempo delle loro lezioni, e non rende possibile assegnare agli alunni e correggere almeno un lavoro di composizione per settimana, secondo è prescritto dai programmi governativi. Nè rende possibili le composizioni in comune, che le istruzioni governative saggiamente raccomandano fin dalla scuola complementare, e a cui molti non dànno nessuna importanza, mentre servono mirabilmente ad addestrare a ben comporre.
E così si spiega facilmente perchè molti licenziati dalle scuole normali, mentre sanno a menadito tutti gli episodi della Divina Commedia e vi fanno a perfezione il disegno dei cerchi e dei gironi dell’Inferno, della montagna del Purgatorio, ecc., non sanno scrivere senza errori di lingua una relazione scolastica.
Ora io voglio fare, a proposito dello studio della Divina Commedia nella scuola normale, una osservazione che non mi pare senza fondamento. Una volta del libro immortale del nostro più grande poeta si parlava solo nei licei, a giovani che avevano messo i baffi, e se ne studiavano solo i più bei canti. Ora se ne è generalizzato lo studio in tutte le nostre scuole secondarie di secondo grado, e si vuole che conoscano Dante anche le giovanette di quindici anni che frequentano il primo corso normale, per le quali mi sembra un po’ troppo prematuro lo studio del grande poeta.
Ma non si potrebbe almeno fare questo studio sopra un buon manuale di letteratura, come quello dell’illustre Francesco Torraca, libro col quale possibile dare un concetto esatto delle opere e della vita di tutti i nostri scrittori classici, farne gustare i migliori passi, specialmente i più educativi, e innamorare i giovani a sapere di più intorno alla nostra letteratura, leggendo o studiando da sè, anche dopo aver conseguito la brava licenza? Per me ritengo che, in un anno scolastico, non si possa fare in nessuna scuola secondaria lo studio completo, con le illustrazioni e i commenti necessari, di un’intera opera importante di un autore classico, dato il tempo disponibile all’insegnante, il quale non deve trascurare di assicurarsi se gli alunni abbiano ben compreso quello che si legge o si commenta e di esercitarli a gustare le bellezze della lingua e a ben comporre con la propria testa.
Perciò nella scuola si dovrebbero leggere e commentare solo i migliori passi delle maggiori opere dei nostri classici, e dare di esse notizie sommarie, eccitando i giovani a studiarle a casa e chiedendo loro conto in iscuola delle letture fatte da sè. Insomma con le letture in iscuola l’insegnante dovrebbe formare negli alunni il gusto estetico-educativo della lingua; con quelle in casa guidarli a formarsi una coltura letteraria.
⁂
Dando uno sguardo al programma di storia ne appare subito la bontà. Nella scuola complementare e nella scuola tecnica — dicono le rispettive istruzioni — «gli alunni hanno imparato i fatti della storia nazionale, nel corso normale impareranno le idee, che informano la storia della civiltà. La storia del popolo italiano, inquadrata nella storia degli altri popoli del mondo civile, studiata al confronto delle vicende e della civiltà loro e, oltrechè nelle guerre e nelle paci o nelle altre azioni esteriori più evidenti degli uomini e dei governi, anche nelle istituzioni civili, politiche e religiose, nei costumi, nelle manifestazioni del pensiero scientifico, letterario e artistico, si allargherà in una storia dell’incivilimento umano. Tale studio aprirà nuovi orizzonti all’allievo maestro, il quale non solo acquisterà svariate cognizioni intorno alle relazioni sociali e al graduale e progressivo svolgimento di ciascuna di esse e di tutto il viver civile, ma potrà formarsi altresì un più sicuro criterio storico onde trarrà lume e forza per meglio esaminare e comprendere il problema educativo, pensiero maggiore e costante della sua mente, mèta verso cui devono dirigersi tutti gli studi suoi e tutti gl’insegnamenti che riceve nella scuola normale». E i programmi corrisponderebbero a maraviglia a queste sagge istruzioni, se non fossero troppo estesi e, in alcuni punti, un po’ superiori alle forze intellettuali di giovani di sedici o diciassette anni.
Certi fatti si potrebbero restringere benissimo in limiti più giusti dando di essi notizie sommarie. Per esempio il programma del primo corso prescrive la storia politica degli Egiziani, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Fenici, degli Ebrei, dei Medi, dei Persiani, degli Indiani e del popolo greco; e sebbene si raccomandi all’insegnante di narrare i fatti senza soverchia abbondanza di particolari, pure per la vastità della tela da svolgere, il tempo disponibile nell’anno scolastico vien assorbito quasi interamente dai fatti politici, e dei monumenti che ci restano di quei popoli, delle loro istituzioni, delle credenze religiose, dei principi morali, dei costumi, delle arti, dell’ordinamento della famiglia, dei principi da cui era governata l’educazione della gioventù, ecc., non v’è tempo di parlare in modo da darne un’idea esatta.
Dando un’occhiata ai libri di storia che si adottano nella scuola normale, si vedrà chiaramente che si obbligano le alunne ad apprendere date, nomi e fatti che a nulla giovano, e che la storia dell’umano incivilimento, la quale deve illuminare il maestro nella sua missione educativa, viene trascurata per mancanza di tempo; e spesso avviene che egli rimane a bocca aperta alla vista d’un monumento o di altra opera d’arte dell’antichità.
Per le scuole femminili, è necessario poi restringere la storia dell’umano incivilimento in limiti più ristretti delle scuole maschili, per potervi aggiungere le notizie necessarie riguardo alle condizioni della donna presso i diversi popoli e alla sua influenza sulla loro civiltà e sulle istituzioni sociali.
Non bisogna mai dimenticare che lo studio della storia, nella scuola normale, ha un fine educativo, e a questo bisogna subordinare i fatti da farsi apprendere alle alunne. Le cose non importanti o superflue o troppo minute non servono a chi nella vita non deve fare della conoscenza della storia la sua professione, e ciò che non serve a un determinato fine e non alletta la mente, produce noia e stanchezza.
Da ciò dipende che molti fatti storici si dimenticano appena superati gli esami. Chi, compiuti gli studi normali, si ricorda più delle vicende politiche dei Fenici, del Medi, dei Persiani e degli altri popoli dell’antichità? A che la fatica di apprendere tanti nomi e tante date? Sarebbe meglio quindi limitare lo studio della storia di quei popoli ai fatti più importanti, che giovano ad intendere la storia della civiltà e dell’educazione umana e a comprendere le opere d’arte che si riferiscono a quei tempi, come monumenti, quadri, statue, lavori letterari. E per far cosa utile si potrebbe aggiungere al programma, in sostituzione del fatti superflui o inutili, la storia delle invenzioni e delle scoperte, la quale è sempre interessante e spesso eroica, fortifica l’animo e lo riempie d’ammirazione per i grandi a cui dobbiamo il progresso scientifico moderno.
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Del programma di geografia non si può dire che bene, ma è da augurarsi che le savie istruzioni che li accompagnano siano pienamente attuate dagl’insegnanti, i quali spesso esagerano nel volere dagli scolari cose diverse e meno importanti di quelle prescritte. Ho conosciuto una volta un professore che pretendeva dagli alunni una perfezione impossibile negli schizzi e nelle carte geografiche, e agli esami finali bocciava bruscamente e inesorabilmente quelli che non sapevano disegnare bene alla lavagna le contrade, fra le meno importanti e le meno conosciute, da lui indicate, anche se avessero sbagliato solo nel tracciare il corso di un fiume.
Si sa, gli esercizî cartografici giovano molto a fissare nella mente degli alunni i luoghi che si studiano, e gli schizzi che si pretendono dai candidati negli esami servono a vedere se essi hanno un concetto esatto delle varie regioni della terra, ciò che non è fuori del possibile, perchè chi ha bene studiato sulle carte geografiche una contrada, si è formata nella mente un’idea della configurazione dei luoghi e può manifestarla con disegni o schizzi. Ma non bisogna pretendere mai lavori perfetti, perchè, per farne, bisogna aver dedicato al disegno cartografico lunghi e pazienti esercizi e molto tempo, e di questo non mi pare che ne abbiano disponibile gli alunni delle scuole normali. Nè tutta la geografia, e la parte più importante di essa, sta negli schizzi e negli esercizî cartografici.
Se intanto non v’è nulla da osservare sul programma di geografia, v’è da dire parecchie cose su quello di matematica e di scienze fisiche, naturali, ecc. Si è prescritto per le scuole normali il calcolo algebrico e letterale (anche prima dello svolgimento del programma di aritmetica e di geometria); ma non è facile vedere a che cosa esso possa servire per le giovani alunne, che saranno, in massima parte, maestre o madri di famiglia. Tale calcolo è utile alla risoluzione dei problemi algebrici, come quelli delle equazioni di primo grado; ma sono forse questi i problemi che si devono abituare a risolvere le donne o non piuttosto quelli dell’amministrazione e dell’economia domestica?
Qualcuno potrà osservare che la risoluzione dei problemi algebrici educa la mente abituandola a riflettere e a ragionare. Ma si forma solo in tal modo l’abitudine alla riflessione e al ragionamento. A questo scopo possono servir bene, e forse meglio dell’algebra, gli altri insegnamenti, specie quelli della lingua, del comporre, della storia, ecc.
Nè è facile vedere a che possano servire per le donne le estese nozioni geometriche, che s’impartiscono nella scuola normale. A leggere il programma pare che si debba trattare di brevi e facili nozioni, ma dai libri che si adottano si rileva che si fa un corso regolare di geometria; e le alunne delle scuole normali parlano di angolo piatto, di angolo giro e di altri nuovi termini geometrici, mentre ignorano molte cose necessarie ai bisogni della vita.
A me pare che il programma di geometria si debba limitare ai teoremi tipici e che giovi dirigere tutto l’insegnamento scientifico della scuola a un fine essenzialmente pratico e utile per la vita.
Ho già detto come possa essere educativa per la donna la coltura scientifica, se ben indirizzata; ma bisogna guardarsi dalle esagerazioni. A che cosa serve l’apprendimento delle formole chimiche? Ne domandai un giorno a un mio amico, insegnante di scienze nelle scuole normali; ed egli mi rispose: — A ricordare facilmente la composizione dei corpi, la quale nelle formole è espressa in modo breve ed efficace. — Ma quale è più utile nella vita, il sapere per esempio, le formole dell’acido cloridico HCl, dell’acido solforico H2SO4, e dell’ammoniaca H3N, oppure l’uso dell’acido cloridrico, dell’acido solforico e dell’ammoniaca?
I programmi governativi parlano, è vero, delle applicazioni della chimica all’economia domestica, all’igiene, alle professioni e alle industrie; ma in questo principalmente dovrebbe consistere l’insegnamento della chimica nelle scuole normali. Sulle altre cose necessarie ad intendere i fenomeni chimici (proprietà della materia e dei corpi, leggi fondamentali, corpi semplici e composti, ecc.) bastano poche e semplici nozioni. Per le donne però è necessario aggiungere le applicazioni della chimica all’arte della cucina. «La fisica e la chimica applicate all’economia domestica — dice la Molino-Colombini nel suo libro Sulla educazione della donna — rendono le donne esperte nell’usar bene delle forze della natura e nell’apprestare le vivande con salubrità e risparmio».
Anche per la fisica bastano poche nozioni e molte applicazioni all’economia domestica, all’igiene, alle professioni e alle industrie, senza dimenticare mai, come per la chimica, la spiegazione dei fenomeni che hanno guidato alle principali scoperte, delle quali è utile dare una breve storia, secondo si è detto poco prima, aggiungendovi le biografie degli autori di esse. A che vale, per esempio, il sapere la teoria dell’elettricità e ignorare l’applicazione di essa alla luce, che oggi serve per l’illuminazione delle vie e delle case e alla forza motrice delle macchine e delle vetture elettriche? A che vale sapere la teoria del suono e ignorare come funzionano il fonografo, il grammografo, ecc.?
L’insegnamento scientifico deve dare agli scolari un’idea esatta del mondo che li circonda, della struttura della terra che abitiamo e dei fenomeni della vita. Perciò nella storia naturale, senza perdere il tempo in troppe minute classificazioni di animali, vegetali e minerali, è bene parlare a preferenza della fauna e della flora locale, dei prodotti naturali della regione e, in generale, di tutte le piante, di tutti gli animali e i minerali utili all’industria, al commercio ed ai bisogni della vita sociale, Con queste utili applicazioni si desta negli scolari l’amore degli studî scientifici e la voglia di continuarli da sè e di approfondirli.
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Ed ora, prima di terminare questo rapido esame dei programmi della scuola normale, vorrei dire il più gran bene possibile di quelli prescritti pei lavori donneschi, che sono molto pregevoli. Ma, pensando che essi non hanno ancora avuto la loro piena attuazione, è opportuno rilevare che il tempo destinato a questo insegnamento è insufficiente. Non ripeterò quello che ho detto su questo stesso proposito, nel capitolo riguardante la scuola complementare, che cioè l’insegnamento dei lavori muliebri deve avere, in ogni scuola femminile, la stessa importanza dell’insegnamento della lingua; ma noto soltanto che, in tre ore di lezioni per settimana, non è possibile insegnar bene, nella scuola normale, taglio, ricamo, lavori a maglia, rattoppi, rammendi, lavori a macchina, ecc.
Se la brevità del tempo destinato a quest’insegnamento importantissimo dipende dal soverchio lavoro che pesa sulle spalle della maestra, a cui spesso viene affidata l’assistenza, è bene che i due uffici di maestra assistente e di lavori donneschi siano sempre separati. Nella scuola normale femminile è necessaria l’opera della maestra assistente, ma è necessaria pure una maestra speciale che possa insegnare, almeno per tre ore al giorno, una per ciascuna classe, i lavori donneschi.
Se poi, come pare più probabile, la brevità del tempo destinato all’insegnamento dei lavori suddetti dipende dal fatto che circa sei ore quotidiane sono destinate agli altri insegnamenti, è necessario sfollare i programmi delle nozioni superflue o poco importanti, che vi sono in parecchie discipline, per diminuire le ore di lezione destinate per esse, e aumentare, raddoppiare quelle prescritte pei lavori donneschi.
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Riassumendo le precedenti osservazioni sui vigenti programmi della scuola normale, a me pare che essi, pregevoli sotto molti riguardi, non abbiano sempre di mira, per le scuole femminili, il fine particolare dell’educazione della donna, del quale si è discorso. Nè ciò dipende da difetto di coordinazione fra le diverse parti di essi, essendo stati compilati in modo ben diverso da quello, molto curioso, che si praticava qualche volta, molti anni fa, per le scuole secondarie, quando, per ogni materia, si sceglieva uno speciale compilatore, persona molto competente, e si mettevano insieme i diversi programmi senza guardare se armonizzassero bene fra loro. No, i vigenti programmi della scuola normale formano un tutto organico, sia pei limiti segnati, sia per l’ordine indicato, sia per le pregevoli istruzioni che li accompagnano; e si vede chiaramente che un’alta mente direttiva li ha coordinati e armonizzati tra loro.
Ma il fine che essi si propongono è di accrescere, allargare, compiere la coltura generale di coloro che si dedicano all’insegnamento elementare. Essendo generalmente molto bassa la coltura dei maestri, si è voluto rialzarla, e si è formata della scuola normale una specie di liceo o, meglio, d’istituto tecnico, prescrivendo, anche per essa, programmi didattici molto densi, a svolgere i quali occorrono circa sei ore di lezioni giornaliere, senza aver neppure, in fin d’anno, il tempo necessario per fare ordinate ed efficaci ripetizioni, utili a preparare gli scolari agli esami finali.
Così avviene che si dà una coltura affrettata, la quale diventa pesante e confusa, perchè agli scolari manca il tempo di assimilare quello che loro s’insegna e di diventarne padroni. Sei ore di lezioni a scuola, esigono almeno altre sei ore di studio a casa; e qual tempo rimane per sodisfare i principali bisogni della vita? — Non v’è neppure il tempo di respirare — ho sentito spesso esclamare anche alle migliori alunne della scuola normale — per poter contentare tutti i professori! —
Così avviene pure che, presa la licenza normale, molti mettono da parte i libri come un pesante fardello. Quanti giovani maestri conosco io, che hanno dimenticato la maggior parte di quello che fu loro insegnato a scuola e che pur dovettero imparare per essere approvati! E perchè? Perchè non si fece acquistar loro, con la bontà dell’insegnamento, l’amore allo studio, che, invece, diventò per essi una dura e noiosa fatica, resa necessaria dalle esigenze degli insegnanti, giustificate dalla quantità eccessiva delle nozioni da impartire.
Per me credo che il fine vero di qualunque scuola di coltura generale non debba consistere nè nell’obbligare i giovani a studiare il maggior numero di discipline, quasi si volesse dar fondo a tutto lo scibile, nè nel far loro apprendere la maggior quantità di nozioni su ciascuna di esse; ma nell’innamorarli dello studio, in modo che, lasciata la scuola, possano continuare da sè la propria istruzione.
Oh i miracoli dell’autodidattica! Ciò che si apprende a scuola dalla bocca dell’insegnante presto si dimentica, se, col proprio lavoro, non viene assimilato in modo da diventar sangue del proprio sangue. Se invece trattasi di cosa appresa da sè, col proprio studio, con la propria esperienza, a forza di assiduo lavoro, di prove e riprove, essa si fissa indelebilmente nella testa e accresce l’amore ad apprendere nuove cose. Le grandi scoperte, le grandi invenzioni, tutte le opere dell’umano intelletto sono frutto dell’autodidattica.
Nè la scuola si può, con l’insegnamento, sostituire al lavoro particolare dell’individuo, che ama progredire nella via del sapere; e se essa ha di mira la coltura generale degli alunni, ancorchè fosse di più lunga durata, non giungerebbe a dare una soda coltura in nessuna disciplina, come è provato dal fatto che, in un anno scolastico, in nessuna classe delle scuole secondarie si giunge a completare lo studio di un’opera sola di un autore classico.
Perciò la scuola di coltura generale deve principalmente innamorare i giovani dello studio, in modo che possano continuarlo da sè e completare la loro istruzione. Studi più completi, più profondi su ciascuna materia d’insegnamento si debbono fare in iscuole speciali, come le universitarie e le professionali.
Perciò pure i programmi della scuola normale debbono essere subordinati al fine di essa, che è quello di preparare buoni maestri. Tutto ciò che serve direttamente a raggiungere questo fine deve avere la maggiore importanza, e tutto ciò che serve a dare al maestro quel minimo di coltura generale utile per la sua professione, deve avere un’importanza secondaria, deve stare nei programmi didattici come un riempitivo che giova e che non toglie il tempo necessario alle discipline indispensabili.
Applicando questo concetto alla scuola normale femminile, che deve preparare contemporaneamente buone maestre e buone madri di famiglia, cose che stanno molto bene insieme, come si è già detto, vien voglia di domandare a che può servire per la donna, sia essa maestra, sia madre di famiglia, la eccessiva coltura storica, letteraria e scientifica, acquistata nella scuola normale... Meno male se tale coltura servisse per l’iscrizione senza esami alla scuola superiore di magistero, dove si compiono però solo gli studi pedagogici, letterari, storici, geografici e di scienze fisiche e naturali.
Ma alla scuola di magistero si accede dopo aver superato regolari esami d’ammissione, ai quali si possono presentare anche le giovani fornite di sola licenza ginnasiale, il che significa che tali esami non sono difficili (mentre dovrebbero essere difficilissimi per diminuire la pletora delle professoresse disoccupate), e che la coltura acquistata nella scuola normale non serve direttamente per la scuola di magistero.
E allora bisogna dire che la maggior coltura, fornita dall’odierna scuola normale non serve ad altro che ad elevare la dignità della maestra. Ma v’è un proverbio che dice: «guardati dalla donna che sa di latino», e significa che quando la donna è molto istruita, deve, per conseguenza, ignorare altre cose, utili per lei e per la famiglia, come sarebbero quelle necessarie per il governo della casa.
Lungi da me l’idea di voler restringere la coltura della donna a ciò che le può servire per l’amministrazione domestica. E passato giustamente il tempo in cui si diceva:
Esser mestier di donna |
Ma io dico che la coltura che la scuola deve far acquistare a chi la frequenta, dev’essere in diretta relazione col fine cui la scuola stessa tende. La donna che si sente chiamata a maggiori studi, può farli da sè o frequentando le scuole secondarie, che aprono le porte dell’Università, le quali sono chiuse per le allieve, come per gli allievi delle scuole normali.
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A me pare che sia oramai tempo di dare alla scuola normale un indirizzo più positivo e più in armonia col fine che deve raggiungere: la preparazione dei buoni maestri. Che cosa occorre a un buon maestro? Una coltura generale sufficiente per il posto che deve occupare, una coltura speciale larga, necessaria per disimpegnare con intelligenza e coscienza l’ufficio suo, e molta arte insegnativa e educativa. E a raggiungere questo fine siano diretti i programmi d’insegnamento, i quali debbono avere le convenienti modificazioni per le donne, avuto riguardo alla missione naturale che queste debbono compiere nella famiglia e nella società, missione che armonizza molto bene con quella della maestra.
La coltura generale richiesta per l’ammissione alla scuola normale è sufficiente, perchè bisogna presentare la licenza della scuola complementare o della scuola tecnica, oppure il certificato di ammissione alla prima classe dell’istituto tecnico o di promozione alla quarta classe ginnasiale, e superare i necessarî esami d’integramento. Ebbene, bisognerebbe completare questa coltura, aggiungendo quel poco che può servire al fine della scuola normale, e dare molta importanza e molto sviluppo alle materie d’insegnamento che mirano direttamente al fine medesimo.
Occorrono quindi molti studî di pedagogia e di didattica; studî accurati della lingua italiana per conoscerla bene, parlarla, scriverla meglio, e per poterla insegnare con coscienza ed efficacia; pochi studî di storia per ricordare i fatti appresi nelle scuole precedenti e per poter apprendere la storia della civiltà e dell’educazione presso i diversi popoli, dai tempi antichi ai moderni; pochi studî di geografia in ciò che hanno rapporto con la civiltà dei popoli, con la cosmografia e con il fine della scuola; sufficienti studî scientifici, diretti però principalmente al fine di dare un concetto esatto delle cose che ci circondano, del mondo in cui viviamo, dell’universo di cui siamo atomi impercettibili, dei fenomeni della vita e dei principî su cui si fondano le più importanti scoperte, che hanno avuto una sì larga applicazione alle industrie e al commercio: e bando assoluto alle nozioni e alle materie superflue, per non affaticare inutilmente la mente dei giovani e per destinare il tempo agl’insegnamenti indispensabili.
C’è, per esempio, nei vigenti programmi per la scuola normale, l’insegnamento teorico-pratico del canto, che, introdotto da parecchi anni, vi rimane ancora, nonostante che l’esperienza ne abbia dimostrata l’inefficacia. Come è possibile, in un’ora o poco più di lezione per settimana, insegnare in tre anni tutta la teoria musicale prescritta, e insegnarla in modo efficace, a scolaresche numerose, come sono quelle delle classi normali femminili, facendo i necessarî esercizî pratici vocali, con e senza il meloplasto, e le necessarie applicazioni ai canti, per giungere, alla fine del corso, alle esercitazioni individuali sull’interpretazione, a prima vista, di brevi canti scritti alla lavagna, della qual cosa si deve dar saggio all’esame di licenza?
Ho affermato essere inefficace l’insegnamento teorico-pratico del canto nella scuola normale, e perchè non sembri la mia un’affermazione gratuita, racconterò un fatto. Una volta un mio amico fece parte, come esaminatore di pedagogia e morale, di una commissione per gli esami di patente superiore di una scuola normale. Nel formare le sottocommissioni il signor Provveditore agli Studi, presidente, volle che egli facesse compagnia al professore di canto negli esami di questa disciplina. Niuno sapeva che l’amico mio s’intendesse un pochino di musica, e non lo sospettano nemmeno il suddetto professore, il quale si pose tranquillamente a chiamare e ad esaminare, l’uno dopo l’altro, i giovani allievi maestri. L’esame si faceva per tutti allo stesso modo: il professore scriveva alla lavagna una frase musicale e invitava il candidato a leggerla, a solfeggiarla e a cantarla.
Ogni alunno leggeva stentatamente, solfeggiava a mala pena e non intonava bene il canto; e il professore tirava sempre avanti, senza correggere mai, segnando, volta per volta, buoni punti di approvazione sovra un taccuino, mentre il suo compagno di commissione sorrideva. A un certo punto tale sorriso lo indispettì, e gli domandò sottovoce: — Conosce la musica lei? — Un pochino — rispose l’altro. E allora — soggiunse il professore — non si maravigli del cattivo esame de’ miei scolari: con un’ora di lezione per settimana, in tre anni scolastici, di otto mesi ciascuno, non è possibile condurre gli alunni al punto di interpretare, all’improvviso, un breve canto scritto alla lavagna. — Queste parole non hanno bisogno di commento.
A questo fatto, che potrà sembrare eccezionale, potrei aggiungerne altri, e parlare anche di tanti giovani maestri, che, usciti dalla scuola normale, non ricordano più un’acca di musica e insegnano ai proprî alunni facili e brevi canti educativi ad orecchio, come si è fatto sempre e come prescrivono le istruzioni governative. Ora, perchè l’insegnamento della musica agli allievi maestri non si limita a far loro apprendere nello stesso modo, ad orecchio, quei canti che potranno insegnare a loro volta agli scolari delle classi elementari nella maniera più facile e più adatta, che bisogna pure indicar loro? E a far ciò credo che non sia necessario uno speciale professore di musica; potendosi affidare l’insegnamento del canto, da darsi nel modo ora indicato, al maestro di ginnastica, che un po’ di musica, pei canti educativi, dovette certamente apprendere nell’istituto di educazione fisica da lui frequentato.
Così facendo, si risparmierebbero per ogni classe una o due ore di lezioni settimanali, che richiedono altrettante ore di studio a casa, e si eviterebbe l’inconveniente di far cadere in ridicolo un insegnamento nobile, come quello della musica, alla cui efficacia occorrono pure speciali attitudini negli scolari.
Riducendo intanto i programmi didattici della scuola normale nei giusti confini sopra indicati, dando cioè la maggiore importanza agl’insegnamenti che mirano direttamente al fine che si deve raggiungere e che si è più volte indicato, sarebbe possibile dedicare un tempo maggiore a qualche materia, che pare molto modesta, come l’igiene, specialmente scolastica, la quale è limitata all’ultimo anno di scuola, mentre, per la sua importanza nei bisogni della vita e nell’ufficio del maestro, meriterebbe di essere insegnata fin dal primo anno. Sarebbe possibile, per le donne, dare maggior importanza ai lavori muliebri, all’economia domestica, allo studio della fisiologia, tanto necessario per l’allevamento dei bambini, e ad altre cose utili a raggiungere il fine dell’educazione della donna, secondo la sua missione naturale; e sarebbe anche possibile dare alla scuola normale il carattere che dovrebbe avere qualunque scuola secondaria, quello cioè di far acquistare a chi la frequenta le cognizioni di cui avrà bisogno nella vita, senza il pericolo di poterle dimenticare, finiti gli studî, e l’attitudine a continuare da sè e a completare la sua coltura.
Ma oggi si ritiene generalmente, fra noi, che la scuola secondaria, per dare una coltura generale, debba avere carattere enciclopedico, debba abbracciare, sia pure in limitate proporzioni, tutto lo scibile, senza badare che alcune materie d’insegnamento, come la matematica, il disegno, la calligrafia, ecc., hanno bisogno di particolari attitudini negli scolari. E quindi avviene che si accrescono, senza frutto proporzionato, le ore quotidiane di lezione e si rende improduttivo lo studio casalingo, facendo apprendere cose che si dimenticheranno appena superati gli esami di licenza.
Bisogna quindi semplificare i programmi della scuola normale, subordinarli, come ho detto, al fine che essa deve raggiungere, restringere le cognizioni secondarie a quelle strettamente necessarie alla coltura del maestro, mettere da parte quelle che hanno carattere, dirò così, decorativo, come coltura ornamentale della mente, e far acquistare agli scolari l’amore allo studio, la capacità mentale di continuare da sè la propria istruzione e l’abilità pratica di esercitare l’ufficio didattico ed educativo al quale si preparano.
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Solo con questa riforma la scuola normale potrà diventare quell’istituto di magistero che è nei voti di tutti, perchè, diminuendo il pesante fardello della molteplicità e dell’estensione delle materie d’insegnamento, l’alunno avrà il tempo di assimilare, con lo studio casalingo, le cose apprese a scuola e d’acquistare l’abitudine ad apprendere da sè, e gl’insegnanti avranno pure a scuola il tempo necessario per rendere efficace il tirocinio magistrale, che, come ora è regolato, non fa acquistare, nemmeno in minima parte, la difficile arte insegnativa e educativa.
L’assistere, per due anni, alle lezioni che si fanno dagl’insegnanti delle scuole elementari, il fare ogni tanto una lezione sopra un argomento dato, il far la critica delle lezioni fatte dai propri compagni di classe, può giovare per avere un’idea dell’arte didattica, ma non certo per acquistare quest’arte nè quella educativa; e quando l’allievo maestro è uscito dalla scuola normale, si trova davanti tutte le difficoltà del suo ministero, con l’obbligo di risolverle da sè, a forza di buona volontà, di studi, di prove, di vittorie, di sconfitte.
Sarebbe molto facilitato il suo compito, se, frequentando la scuola normale, egli potesse insegnare, molti giorni di seguito, nelle scuole di tirocinio per acquistar la pratica dell’arte insegnativa ed educativa. Nè la cosa sarebbe impossibile, perocchè, semplificandosi i programmi didattici, diminuirebbero le ore di lezione, e un paio d’ore quotidiane si potrebbero destinare al tirocinio. Questo dovrebbe poi essere regolato in modo che ogni alunno potesse insegnare effettivamente, alla presenza dei compagni e sotto la guida del maestro della classe e del professore di pedagogia (per molti giorni di seguito, come ho detto) dalla 1ª alla 6ª classe, e talvolta nella scuola di due classi abbinate. Cosi egli potrebbe svolgere una parte del programma didattico delle scuole elementari, e fare degli studi sulle qualità intellettuali e morali degli scolari per correggerne i difetti e svilupparne i pregi.
In due anni di tirocinio tutti gli allievi maestri dovrebbero, insegnando, acquistare un po’ d’arte della scuola; e nell’ultimo anno il corso degli studi si potrebbe chiudere verso il mese d’aprile per dare agli alunni un tempo maggiore da dedicare al tirocinio (da farsi nel modo ora detto), affinchè acquistino la maggior attitudine didattico-educativa possibile, della quale dovranno dar prova dopo gli esami, dirigendo da sè una scuola elementare.
Per le ragioni ora esposte si può ritenere che sia ben ordinato il tirocinio nei Corsi magistrali, annessi ai Ginnasi isolati, istituiti con la legge del 21 luglio 1911, n. 861, allo scopo di provvedere alla lamentata mancanza dei maestri per le nuove scuole da aprirsi. Questi Corsi hanno il fine di dare ai futuri insegnanti elementari una coltura esclusivamente professionale; perciò si è apportato «nella selva dei programmi della scuola normale una coraggiosa sfrondatura, stendendoli senz’altro sul telaio della scuola elementare e gettandoli in un solo stampo: il pedagogico», e si è dato invece la maggiore importanza possibile al tirocinio. Questo non si limita alle due ore giornaliere prescritte, ma è multiforme e si estende all’assistenza e sorveglianza all’entrata, all’uscita, alla ricreazione e alle passeggiate degli alunni delle scuole elementari, affinchè gli allievi-maestri abbiano una conoscenza completa e s’impratichiscono di tutte le funzioni della scuola medesima.
I programmi didattici dei Corsi magistrali sono stati convenientemente sfrondati, e la coltura generale è continuata in limiti modesti «sempre mirando alla pratica preparazione professionale»; ma la- riduzione di essi da due anni ad uno solo per chi abbia il voto favorevole dell’attitudine didattica, non può certo essere sufficiente alla preparazione dei buoni maestri elementari, perchè tale attitudine non si può acquistare in un anno, specialmente se non si ha una disposizione naturale all’insegnamento. E non possono averla gli uomini che, già in età avanzata, frequentano in massima parte i Corsi magistrali, dopo non aver potuto, con la licenza ginnasiale, continuare gli studî o occupare un ufficio.
Il non aver poi mantenuto il limite d’età, prima stabilito non superiore ai vent’anni, per l’ammissione ai Corsi magistrali, è stato un grave errore, perchè essi sono diventati il rifugio di molti spostati, che nessuna vocazione possono avere per la difficile arte insegnativa e educativa, mentre tali Corsi potevano realmente preparare buoni maestri sulle basi della licenza ginnasiale, la quale è superiore senza dubbio alla licenza tecnica o complementare e alla promozione alla 4ª classe del ginnasio, prescritte per l’ammissione alla scuola normale, perchè comprova una cultura letteraria relativamente superiore.
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L’accennata riforma degli studi della scuola normale apporterebbe un altro beneficio importante: quello di poter diminuire il soverchio numero degl’insegnanti, il quale, secondo il mio modo di vedere, nuoce all’efficacia degli studi medesimi, e di poter riunire le discipline affini, da affidarsi a uno stesso professore.
Non è mio compito di dire in che modo si potrebbero aggruppare i varî insegnamenti, quando i programmi venissero ridotti nei limiti di cui ho parlato; ma credo opportuno far parola degl’inconvenienti che si verificano presentemente, destinando, quasi per ogni materia, un professore, il quale è per lo più uno speciasta.
L’insegnante specialista, generalmente parlando, non sa adattarsi allo stato mentale de’ suoi alunni delle scuole secondarie e fa la lezione come un professore dell’Università. Siede alla cattedra, espone, spiega, commenta quello che deve insegnare; e gli scolari rimangono passivi ad ascoltarlo. Non vuole interruzioni di sorta; spesso è il campanello del finis che interrompe la sua lezione, e allora egli va via senza aver finito di dire quello che s’era proposto e senza mai assicurarsi che gli alunni abbiano capito quello che ha esposto: qui vult capere capiat. Per turno chiama, una o più volte ogni trimestre, i suoi alunni a conferire sulle lezioni fatte, e allora giudica e manda secondo le loro risposte, e non di rado avviene che sono state così poche le chiamate, che l’anno finisce senza che egli abbia potuto conoscere bene le forze intellettuali e l’amore allo studio di tutti i suoi alunni.
Qualche professore ha pure l’abitudine di non seguire il libro di testo adottato, perchè non lo ritiene interamente conforme al suo modo di vedere, e obbliga gli alunni a prendere appunti durante la lezione per fare a casa i sunti di quello che ha insegnato. E allora avviene che gli alunni si caricano di un nuovo e improbo lavoro, che non dà buoni frutti, perchè, costretti a star attenti alla lezione e a prendere nello stesso tempo gli appunti necessarî, capiscono spesso una cosa per un’altra, e non essendo i sunti corretti dall’insegnante, le nozioni mal apprese sono per essi, non di rado, causa di riprovazione. Quando poi il professore giudica gli alunni con punti scadenti, si domanda egli mai se tutta la colpa è da attribuirsi ad essi, che non hanno studiato, o in parte anche a lui, che non ha saputo adattarsi alle loro intelligenze e farsi comprendere?
Con questa domanda non intendo gettare il discredito sui nostri insegnanti delle scuole secondarie, tutte persone colte e rispettabili, ma constato un fatto, che ognuno può verificare. Aggiungo che conosco non pochi bravi professori, i quali, innamorati del loro nobile ministerio, si sono formati, con la pratica dell’insegnamento, un metodo didattico eccellente; ed essi fanno consistere il loro merito maggiore non tanto nel giudicare e classificare gli alunni, quanto nel curare che tutti progrediscano, anche quelli che hanno mediocre ingegno. Ma nelle scuole secondarie s’insegna generalmente nel modo suddetto, e la colpa non è neppure dei professori. Che colpa hanno essi, di fatti, se nelle nostre scuole normali universitarie o nelle scuole di magistero femminili non si è fatto acquistar loro l’arte insegnativa, ma si è chiesto loro soltanto qualche conferenza per giudicarne l’attitudine all’insegnamento? La conferenza! Ma questa è la lezione che il futuro professore dovrà fare nelle nostre scuole secondarie, e specialmente nelle complementari, nelle tecniche, nelle ginnasiali e nelle normali?
Gl’insegnanti delle scuole secondarie sono troppo istruiti, troppo colti, e provano difficoltà ad abbassarsi ad un insegnamento semplice, che deve andare, a passo a passo, dal noto all’ignoto, dall’esempio alla regola, conducendo gli alunni ad apprendere da sè stessi, con acconce conversazioni. Par loro che questa sia opera da maestri elementari, che han da fare con fanciulli, e molti credono che nelle scuole secondarie basti l’esporre chiaramente la lezione, come se si trattasse di scuole universitarie.
Essi s’ingannano. L’età dei giovanetti delle nostre scuole secondarie, fatta eccezione dei licei e degl’istituti tecnici, varia dai dodici ai diciasette anni, è a quell’età la niente non è sviluppata e educata a segno da non avere bisogno di aiuti per apprendere, nè è quindi sufficiente, per far profitto a scuola, l’ascoltare la lezione del professore. Oh quanti buoni giovani conosco io che, per progredire negli studî, hanno bisogno di quotidiane ripetizioni, a casa, sulle lezioni degl’insegnanti!
Intanto avviene che il professore specialista e dotto, appassionato della scienza e dell’arte che professa, si spinge spesso oltre i limiti segnati dai programmi governativi, esagera le sue pretensioni verso gli alunni, nei quali vorrebbe trasfondere tutto il suo amore per la materia che insegna, ed è, come dicesi generalmente, troppo esigente. E poichè ora gl’insegnanti delle scuole secondarie sono quasi tutti specialisti, avviene che ognuno carica lo scolaro come se questi non avesse altro da fare, ognuno vuole in iscuola tutta l’attenzione e il profitto per la propria materia, ognuno dimentica quello che fa l’altro professore e ognuno assegna lezioni e compiti per casa, senza badare a ciò che ha assegnato l’altro; e lo scolaro, caricato come una bestia da soma, spesso si getta per terra, avvilito e sfinito. Non è in questo modo che la scuola può far acquistare il maggior potere di resistenza mentale, oggi tanto necessario per la vita moderna, sì varia e complessa, che una persona che voglia vivere in un mondo intellettuale ristretto non può resistere agli eccitamenti che gli vengono da ogni parte; ma regolando gli studi in modo da non stancare la mente. - Quindi bisogna scegliere tra ciò che affatica e stanca ciò che accresce il potere di durare senza disagio nel lavoro mentale.
Ma, dato che le forze intellettuali degli alunni resistano a qualunque fatica, è possibile che i giovani appaghino le esigenze di tutti i professori, in modo da contentarli tutti? Possono essi diventar in ogni materia specialisti e quindi matematici, disegnatori e perfino calligrafi, come i loro insegnanti? Potrà invece avvenire che un giovane, forzato in questa maniera ad ogni sorta di lavoro improbo, senz’alcuna vocazione, non sappia poi trovare la sua via, dedicarsi ad una sola materia di studio, diventare a sua volta uno specialista e risolvere così il problema del proprio avvenire.
Come rimediare intanto a questo grave inconveniente per la scuola normale femminile, della quale mi occupo?
Una volta si proponeva di nominare professori d scuole normali i maestri elementari abilitati all’insegnamento secondario, per aprir loro una carriera e per dare a quelle scuole insegnanti pratici dell’arte didattica, e coloro che poterono entrarvi si sono tutti distinti e fatti apprezzare, dando buona prova di sève aprendosi un lieto avvenire. Ma ora riproporre la stessa cosa, dopo aver elevati gli studi della scuola normale, alla quale precede un altro corso di studî secondarî, e dopo il gran numero dei laureati che sono senza posto, sarebbe un’idea strana.
Ai posti vacanti nelle scuole secondarie, in generale, si preferiscono i laureati, perchè comunemente si crede che la laurea sia il titolo comprovante la maggior coltura. Eppure spesso essa prova il contrario, che cioè chi l’ha ottenuta non è un vero specialista, perchè ha fatto studi affrettati, incompleti, preparandosi per gli esami su brevi manuali, che vanno per le mani degli studenti universitarî.
Nè le prove superate assicurano che si sia compiuto un corso regolare di studi speciali superiori; perchè gli esami si fanno sulle poche lezioni impartite durante l’anno dai professori dell’Università, fra i quali ve ne sono molti che ne fanno pochissime. Ho visto molti giovani laurearsi senza frequentare l’Università: si presentavano a sostenere i diversi esami annuali, dopo essersi preparati, da sè stessi, sulle poche tesi svolte dal professore e inviate loro da qualche amico. Perciò mi sono convinto che oggi è diventata una cosa molto facile ottenere una laurea.
Un mio amico ebbe una volta alla propria dipendenza, per ragioni del suo ufficio di ispettore scolastico, un giovane maestro che io conoscevo e a cui venne voglia di laurearsi, senza lasciar mai l’insegnamento. Aveva più di venti anni, aveva fatto studi affrettati e spropositava molto quando scriveva. Non aveva la licenza ginnasiale e la prese dopo un anno di lezioni di latino e greco. L’anno seguente superò anche gli esami di licenza liceale, ai quali fu ammesso con dispensa per la sua età, e, dopo quattro anni, diventò dottore in legge senza frequentare mai l’Università, ma recandosi solo a superare gli esami, per i quali si preparava nel modo ora accennato.
Credete voi che la sua coltura fosse considerevolmente migliorata con la laurea? V’ingannate. Sentite questo aneddoto, raccontatomi dal mio amico suddetto. Passeggiavano un giorno insieme e, incontratisi con alcuni amici, venne voglia al maestro, che già aveva conseguito la licenza liceale e studiava per la laurea, di dare un saggio del suo sapere nella lingua latina, passò una grande vettura, che portava scritto a grossi caratteri la parola omnibus nella parte posteriore. Egli lesse la parola e disse ad alta voce: — Voglio pregare il padrone della vettura di correggere una buona volta quell’errore. — Quale? — gli domandò il mio amico. — Alla parola omnibus occorre un’acca innanzi all’o. — Ma no! — esclamò l’altro, senza potersi frenare: — omnibus deriva da omnis omne e non da homo hominis. — Egli non replicò, ma rimase mortificato dalla osservazione fattagli, che sarebbe scappata anche dalla bocca di un San Francesco. Oh quante lauree valgono, come titoli, meno di una pubblicazione seria, di un’opera d’ingegno! Ma torniamo al nostro soggetto.
Come rimediare, per la scuola normale femminile, al grave inconveniente indicato? mi torno a domandare.
Alcuni credono che possano giovare delle istruzioni brevi a precise, alle quali dovrebbe attenersi ogni professore nell’esporre la sua lezione per riparare alla mancanza di studi pedagogici (compiuti solamente da quello di pedagogia) e alla conoscenza pratica dell’arte insegnativa, ciò che gli fa spesso ottenere frutti relativamente inferiori a quelli che ottiene un modesto maestro elementare, e prova ad evidenza che sovente il professore più dotto non è il miglior insegnante.
E allori bisognerebbe prescrivere chiaramente: 1° che il professore, dopo aver fatto una lezione, deve assicurarsi, con acconce interrogazioni, che gli scolari l’abbiano ben compresa e chiarire i dubbî sorti in coloro che sono più tardi nell'apprendere; 2° che prima di fare una nuova lezione deve ripetere quella precedente, rivolgendo poche, ma opportune interrogazioni agli alunni; 3" che deve chiamare, almeno ogni quindici giorni, ciascun alunno a conferire sulle lezioni fatte, per giudicarlo e anche per aiutarlo a comprendere ciò che non gli è entrato bene in testa; 4° che deve fare ogni tanto qualche saggio scritto in classe, se la materia che insegna lo richiede, non per giudicare gli alunni, ma per collaborare con loro, aiutando i deboli a superare le difficoltà che incontrano, rispondendo alle domande che gli vengono fatte, dando un'occhiata a ciò che gli alunni scrivono, correggendo immediatamente i pensieri errati, lodando i bravi, incoraggiando i timidi e gl'incerti e spronando i pigri. Questo è un buon metodo d'insegnamento per le scuole secondarie, perchè con esso le teste degli alunni si limano, si educano, si formano; non quello che li obbliga ad ascoltare soltanto la lezione, come se assistessero a uno spettacolo pubblico.
Forse queste ed altre istruzioni pedagogiche umili, ma efficacissime, parranno non convenienti. per insegnanti forniti di laurea dottorale, benchè i vigenti programmi della scuola normale ne abbiamo delle simili, come la seguente pregevolissima, e forse inascoltata; a proposito dell'insegnamento della lingua: «la lezione non sia esposizione soltanto, ma esposizione e dialogo, e meno esposizione che dialogo». Ma, senza la conoscenza di buoni principî pratici di didattica, come si può, insegnando, acquistar presto la difficile arte insegnativa?
Nè basterebbero le buone istruzioni, senza la certezza che esse vengano attuate. Perciò sarebbe ben fatto che i direttori delle scuole normali assistessero frequentemente alle lezioni dei professori, posti alla loro dipendenza, e li riunissero di tanto in tanto per discutere sull’esatta applicazione dei programmi e delle istruzioni ministeriali.
Intanto, pur facendo tutto questo, io credo che non si potrà mantenere in giusti confini l’insegnamento dei professori specialisti e accrescerne l’efficacia, per il loro generale difetto di adattamento all’intelligenza degli alunni. Le nostre scuole secondarie ginnasiali, tecniche, complementari e normali sono troppo inferiori all’alta coltura dei professori laureati specialisti, perchè in esse, più che il profondo sapere, occorre il buon metodo che renda efficace l’insegnamento. Credo quindi necessario che si aggruppino le materie di studio.
Il professore, a cui ne sono affidate parecchie, rimane per più ore di seguito nella stessa classe, ha l’agio di studiare maggiormente i propri alunni, di conoscerne le attitudini e di vedere che, se non hanno inclinazione a qualche materia di studio, ne hanno a qualche altra e che sono meritevoli d’incoraggiamenti e di aiuti. Egli stesso può proporzionare meglio il tempo disponibile alle diverse discipline e dare maggior importanza a quella che la merita, secondo il fine della scuola.
E perchè questa non sembri una mia idea peregrina, ricorderò che negl’istituti secondarî inglesi si richiedono professori per sei e più materie d’insegnamento, non per lo scopo di risparmiare sulla spesa degli stipendî, perchè gl’insegnanti sono pagati lautamente, ma per quello educativo a cui ho accennato4.
Certamente professori che abbiano attitudine ad insegnare parecchie discipline, devono aver ricevuto una buona istruzione ed educazione; ma uomini così fatti non sono rari, nè in Italia è una novità la riunione di più materie d’insegnamento sotto uno stesso professore di scuole secondarie. Nei nostri ginnasi sono affidati allo stesso insegnante la lingua italiana, il latino, il greco, la storia e la geografia, e in essi il profitto dei giovani, il profitto vero, quello che educa la mente e la mette in grado di continuare da sè gli studî, non quello apparente degli esami di promozione o di licenza, è relativamente maggiore che nelle altre scuole secondarie, per le ragioni dette più sopra, che cioè il professore può conoscere bene gli alunni, correggerne i difetti mentali e svilupparne i pregi.
L’aggruppamento delle discipline, che io ho sempre vagheggiato specialmente per le scuole medie di primo grado, ha trovato finalmente autorevoli sostenitori, fra cui l’onorevole senatore prof. Luigi Credaro, insegnante di pedagogia nella R. Università di Roma, il quale, essendo ministro della pubblica istruzione, propose l’abbinamento di parecchie cattedre nel progetto di riforma della scuola normale, come quelle dell’italiano e della storia e geografia, della matematica e delle scienze naturali, del disegno e della calligrafia. Tale progetto, che il ministro Berenini, successore del Credaro, fece suo, ebbe l’approvazione del Senato, ma non entrò in porto, perchè non fu discusso nella Camera dei Deputati, e l’aggruppamento delle materie d’insegnamento da impartirsi da uno stesso professore, o, come vuol dirsi, l’abbinamento delle cattedre, e di là da venire, al pari della riforma della scuola normale, ritenuta necessaria e promessa da molti anni.
C’è chi pensa che la dorata della scuola normale debba essere di quattro anni per dedicarne l’ultimo al tirocinio e allo studio delle materie di carattere professionale; ma a me pare che per il tirocinio, fatto nel modo efficace, del quale ho parlato, occorrano non meno di due anni, affinchè gli allievi maestri possano imparare ad insegnare con efficacia prima di assumere la direzione di una scuola, e che per completare l’istruzione generale del futuro maestro siano sufficienti i primi due anni dei quattro che vi vorrebbero stabilire per la scuola normale, dovendosi, come ho già detto, sfrondare i programmi in vigore delle parti non assolutamente necessarie alla coltura magistrale.
Una nuova disciplina si dovrebbe però insegnare al primo biennio della futura scuola normale, il latino, il quale è necessario sia al maestro, per l’insegnamento efficace della lingua italiana, sia a chi, dopo i primi due anni della scuola normale, non desidera compiere l’altro biennio professionale e vuol passare ad altra scuola secondaria.
Non è nuova l’idea dell’insegnamento del latino nella scuola normale, e tutti dovrebbero ricordare lo strenuo e dotto sostenitore di esso, il compianto prof. Nicola Fornelli, della R. Università di Napoli; ma, checché se ne pensi, è fuor di dubbio che per l’insegnamento efficace della lingua italiana è utilissima la conoscenza del latino, da cui essa deriva. E forse a questo concetto s’ispirò il Credaro, quando stabilì come base dei Corsi Magistrali la licenza ginnasiale.
Non occorre poi dire che l’insegnamento del latino nelle scuole normali vorrebbe impartirsi dallo stesso professore d’italiano, il quale dovrebbe essere, a preferenza, un laureato in lettere, sebbene ora non manchino professoresse diplomate, che sappiano il latino, da esse appreso nelle Scuole di Magistero frequentate.
È stata una buona idea quella di rendere obbligatorio l’insegnamento del latino nelle Scuole di Magistero femminile di Firenze, di Roma e di Napoli, nelle quali era prima facoltativo; ma non si comprende perchè non si consenta che queste Scuole siano frequentate anche dai maestri. L’Istituto di Magistero aperto ai maestri, per l’insegnamento secondario, è una delle più vive aspirazioni della classe magistrale, e non sarebbe utile secondarla per poter preparare abili insegnanti di gruppi di materie affini per le scuole medie di primo grado (scuole tecniche e complementari) nelle quali occorre più perizia didattica che dottrina per insegnare con efficacia? In tal caso, si potrà riservare l’insegnamento letterario nei ginnasi e l’insegnamento di tutta le discipline nelle scuole medie di secondo grado soltanto ai laureati, salvi i diritti acquisiti dagl’insegnanti in servizio.
Il femminismo e la professione delle donne.
Ho detto innanzi che non avrei fatto parola dell’educazione che le donne ricevono nelle scuole secondarie e universitarie, perchè queste non sono scuole speciali per esse, che le frequentano unicamente per compiere gli studî necessari per esercitare certe professioni alle quali si dedicavano, fino ad alcuni anni fa, solo gli uomini. Ancorché ne volessi parlare, non potrei dire cose migliori di quelle dette a proposito delle scuole complementari e normali femminili, perchè tali scuole non hanno, nè possono avere, di mira la particolare educazione della donna, essendo dirette a dare la coltura generale e quella tecnica necessaria all’esercizio di una professione liberale.
Ma il fatto che la donna invade il campo delle professioni finora esercitate solo dagli uomini, ha tale importanza sociale e tale influenza sull’avvenire di lei, che credo necessario parlarne in un libro come questo, che si occupa di proposito dell’educazione della donna.
Come si vede, io accenno qui alla quistione detta del femminismo, che oggi preoccupa molto la società ed è largamente discussa in vario senso. È un bene o un male il femminismo? Lo vedremo fra poco.
Due, a mio credere, sono le cause che hanno dato origine al femminismo: un falso diritto di volere una perfetta eguaglianza di fatto fra il sesso maschile e il sesso femminile, e il disagio economico, che rende più difficili i matrimoni e preoccupa i padri di famiglia e le loro figliuole atte a marito.
Ho detto appositamente un falso diritto, perchè può esistere una perfetta eguaglianza di fatto tra l’uomo e la donna? Sì, ragionando astrattamente, non v’è, nè vi può essere alcuna disuguaglianza fra l’uomo e la donna nella famiglia e nella società, specialmente rispetto ai diritti individuali, perchè l’uno vale l’altra, anzi l’uno completa l’altra. Le leggi garantiscono, in ogni Stato civile, anche alla donna la libertà individuale, e possiamo affermare che uomini e donne sono tutti eguali dinanzi alla legge; ma questa eguaglianza non si può spingere fino al punto che la donna possa esercitare, indifferentemente, qualunque professione esertata dall’uomo. In altri termini l’uguaglianza di diritto fra l’uomo e la donna si tramuta in disuguaglianza di fatto per la differenza esistente fra l’organismo dei due sessi.
L’organismo della donna non è simile a quello dell’uomo per le funzioni della maternità, per le quali la natura l’ha preferita, e da questa differenza essenzialissima, che genera speciali funzioni fisiologiche, deriva la differenza delle attività fisiche e psichiche fra l’uomo e la donna, e quindi la diversa attitudine all’esercizio di non poche professioni.
Si è detto innanzi che la donna ha fibra più delicata, più sensibile e più impressionabile di quella dell’uomo; si è detto che ha natura più mite e arrendevole, e che ha più potente la forza del sentimento che quella della ragione. E qui aggiungiamo che essa è fisicamente più debole dell’uomo. Le espressioni sesso forte, riferita a quello maschile, e sesso debole, riferita a quello femminile, non sono state inventate, per vanagloria o per disprezzo, dall’uomo, che chiama anche il sesso femminile sesso gentile, ma sono nate spontaneamente, perchè corrispondono allo stato reale delle cose. La donna è debole, perchè tale è il suo organismo, per la speciale funzione della maternità, la quale fa invecchiare la madre di famiglia anche ai quarant’anni. Si può forzar la natura e cambiar l’organismo della donna in maniera che essa possa dedicarsi a qualunque professione adatta al sesso forte, compresa quella della milizia?
Sì, non è difficile vedere, nelle città, delle donne che girano appollaiate come scimmie sulle biciclette, vestite alla foggia maschile, con la giacchetta diritta sui fianchi, il panciotto coi taschini e i calzoni larghi e corti, per darsi l’aria di emancipate (emancipate da chi o da che — si potrebbe domandare — se oggi la donna non è più, come una volta, schiava dell’uomo e se ciò è garantito anche dalla legge?). Ma esse, che vogliono parere uomini, sono sempre donne e sempre fisicamente più deboli.
«La dolcezza del volto — scrisse la Molino-Colombini, che dell’educazione della donna poteva parlare con indiscutibile competenza, — la soavità del sorriso e della voce, le forme graziose, la gentilezza del tratto, e più che altro la meno ferma costituzione del corpo in noi donne, rivelano che non siam fatte per vivere da noi, ma che, come viti al pioppo, la vita nostra deve sostenersi appoggiata alla robustezza maschile».
Alcuni dicono però che la debolezza organica della donna dipende dall’indirizzo dato, da tanti secoli, all’educazione di lei, restringendola alla preparazione alla vita domestica, ciò che si crede abbia influito potentemente sul suo organismo e lo abbia indebolito. Altri aggiungono che un’educazione diversa potrebbe renderla più forte e metterla anche in grado di sostenere le stesse fatiche che ora sono sopportate con facilità dall’organismo dell’uomo.
A questa affermazione si potrebbe osservare che, a parte le esigenze della vita moderna, la bontà dell’indirizzo educativo che prepara la donna principalmente alla vita domestica, alla quale saranno dirette le sue cure migliori, sopravviverà ai secoli, perchè la savia massaia, virtuosa e modesta, dal cui volto traspare la purezza dei sentimenti e dei pensieri, e dai cui atti, di grande rassegnazione e di sacrifizio per il bene della famiglia, si manifesta apertamente tutta la bontà della sua anima angelica, sarà sempre la donna più ammirata e più amata.
Le sante virtù domestiche che ispirano alla donna l’amore e il sacrifizio per le persone della sua famiglia e i più teneri e puri affetti pel bene dell’umanità, formeranno sempre il più bell’ornamento dell’animo suo.
Si potrebbe anche osservare che quelle donne le quali, per le condizioni speciali della propria famiglia, ebbero un’educazione che le preparò, più che alla vita domestica, a quella sociale, non si elevarono al di sopra della propria natura. Negli Stati ove non ha vigore la legge salica, la donna che sale al trono non compie certo tutte le funzioni dei sovrani degli altri Stati, non si mette spesso a capo dell’esercito nazionale, per accompagnarlo al campo di manovra o a quello di battaglia, non divide tutte le fatiche dei suoi soldati, nè lascia ricordi lieti del suo regno.
La storia ci dice che le donne le quali hanno regnato, o si sono affidate all’opera dei loro ministri o hanno dato cattiva prova di sè, per l’impressionabilità e la volubilità del carattere femminile, causate dalla prepotenza del sentimento sulla forza della ragione. E basta per tutte ricordare i nomi di Caterina II di Russia e Elisabetta d’Inghilterra, di cui la storia è ben nota.
Non è da questo secolo che le donne si sono dedicate alla musica; ma niuna donna, pur diventando un’abile artista, ha mai composto un capolavoro musicale. Anche nei secoli passati vi sono state donne (non molte però) che si sono dedicate agli studi per vocazione e per forza d’ingegno, ma niuna donna ha mai scritto un poema epico o inventato una macchina o fatta una grande scoperta.
Ma, pur tralasciando queste e altre osservazioni, è necessario notare che, qualunque sia l’indirizzo che si voglia dare all’educazione femminile, la donna non potrà giammai eguagliare la forza fisica e intellettuale dell’uomo. Abituiamola pure a qualunque esercizio sportivo, avvezziamola a quell’alpinismo salutare che rinforza potentemente i muscoli, gonfia i polmoni, aguzza l’appetito e accresce la salute, essa sarà sempre donna, sempre fisicamente più debole dell’uomo, sempre impotente a certe occupazioni faticose che sono proprie del sesso forte, sempre non completamente libera in tutti i giorni di dedicarsi, pur essendo sana, a qualunque lavoro.
Non è possibile cambiar natura, e dalla debolezza organica della donna, rispetto all’uomo, voluta proprio da madre natura, che ha dato a lei funzioni organiche speciali e per le quali non le è possibile esercitare tutte le professioni, dipende l’Inferiorità del suo ingegno rispetto a quello dell’uomo. Il cervello della donna non si presta a tutti gli studî serî e in fatto di scienza essa deve contentarsi dell’aurea mediocrità. Il genio che crea pare fino ad ora non abbia illuminato della sua divina favilla il cervello femminile.
Insomma la donna non ha la stessa forza d’ingegno e la larghezza di mente dell’uomo, e quando si dedica a studî serî, è animata, per riuscire, da un forte sentimento d’amor proprio e tenacità di volere ed è aiutata da una minor distrazione dell’uomo.
Perciò non occorre spendere altre parole per dimostrare l’impossibilità della completa eguaglianza di fatto tra l’uomo e la donna, checchè ne dicano coloro che sognano un ordinamento diverso della società, dei quali avremo occasione di occuparci in Un altro capitolo di questo libro.
⁂
Parliamo ora della seconda causa accennata che ha dato origine al femminismo, cioè del disagio economico, che rende più rari i matrimoni e preoccupa le famiglie che hanno figliuole da marito.
Il disagio economico esiste, lo sentiamo tutti, perchè le esigenze della vita moderna sono troppe e considerevoli le spese pel mantenimento d’una famiglia; e dipende da ciò se gli uomini sono diventati molto pensierosi e i matrimonî più rari di prima. Non mancherebbero i rimedî a questo stato di cose, ma non è questo il luogo di parlarne; e per il soggetto di cui mi occupo, basta aver constatato l’esistenza di un fatto che è, fino a un certo punto, una causa giusta del femminismo.
I padri di famiglia, preoccupati della sorte delle loro figliuole, cercano di avviarle tutte all’esercizio di una professione, affinchè possano bastare a sè stesse, come dicesi. Così, se una giovane non troverà a maritarsi degnamente, potrà vivere col suo onesto lavoro, anche quando i propri genitori non saranno più a questo mondo. Se, maritata, avrà avuto la sventura di essersi unita a un uomo che non la rispetta, non la ama e la tratta da schiava, potrà separarsi da lui e vivere lavorando onestamente e indipendentemente.
Sicchè bastare a sè stessa significa per la donna risolvere il problema della vita, senza affidarsi troppo alle buone condizioni economiche della sua famiglia e alla speranza di trovare un buon marito. Oh quante oneste giovani conosco io, che, dopo la morte del proprio genitore, si sono ridotte nella miseria, non avendo appreso nessun lavoro lucrativo! Oh quante povere vedove vi sono, a cui la morte del marito ha tolto l’unico sostegno!
«Impara l’arte e mettila da parte», dice un vecchio proverbio, e vale tanto per maschi quanto per femmine. Le cure principali della donna devono essere certamente per la casa e per la famiglia, nella quale si deve compiere in massima parte la sua missione; ma se il bisogno lo richiede, sappia ella lavorare per vivere. Il lavoro della donna di casa, della massaia, vale un tesoro; ma in alcune condizioni della vita, come quando ella rimane nubile, orfana, o vedova, esso può diventare insufficiente. E allora, senza cercar aiuto a chicchessia, può tornar utilissimo per lei l’esercizio d’una professione.
La donna che può vivere lavorando onestamente, può guardare con fiducia l’avvenire e non tremare al pensiero di una sventura della propria famiglia. E poi quale maggior consolazione per lei di poter vivere col frutto del proprio lavoro, che la rende padrona di sè, e col quale può essere di aiuto e non di peso a’ suoi genitori e, esigere, se maritata, il dovuto rispetto dallo sposo che possa aver dimenticato che essa è la sua compagna e consolatrice, la madre, de’ suoi figli e non la sua schiava?
Perciò sono degni di lode i genitori che fanno apprendere una professione alle loro figliuole. Essi fanno del femminismo ragionevole e praticò. Ma quali sono le professioni più convenienti per le donne?
A me pare che siano troppe le donne che si avviano agli studî. Le scuole normali rigurgitano di alunne dappertutto, e ogni anno si accresce il numero delle classi aggiunte; le scuole superiori di magistero sono popolatissime; dovunque alle scuole tecniche e ai ginnasi si trovano, cogli alunni, le alunne; in alcune città vi sono ginnasi e scuole tecniche per le sole donne; e nei licei e negli istituti tecnici aumenta ogni anno il numero delle alunne, che crescono pure nelle Università.
Già sono troppi gli uomini spostati che hanno cercato invano cogli studî il mezzo di assicurarsi un pane per l’avvenire... Abbiamo medici, avvocati e altri professionisti senza affari, ed in ogni concorso per le amministrazioni delle Stato, è facile vedere il gran numero dei laureati, che cercano di guadagnare un posto per poter vivere. Ormai, nei concorsi per gl’impieghi pubblici, la laurea ha preso il posto che avevano una volta la licenza liceale e dell’istituto tecnico; e la licenza tecnica e la ginnasiale, che un tempo bastavano pei piccoli impieghi, ora non servono più, perchè sono molti i giovani forniti di quella liceale o dell’istituto.
Si chiede troppo agli studî, ed essi non possono assicurare il mezzo di vivere a tutti quelli che li coltivano per questo scopo e non unicamente come mezzo di coltura e di educazione. «Torniamo ai campi, innamoriamo dei campi le generazioni novelle» disse saggiamente il compianto ministro Guido Baccelli, perchè l’agricoltura è la fonte inesauribile della ricchezza nazionale; ed io aggiungo: — Innamoriamo anche i nostri figli dell’industria e del commercio e facciamo loro comprendere che le professioni dell’agricoltore, dell’industriante e del commerciante non sono meno nobili e meno utili di quelle del medico, dell’avvocato, dell’ingegnere, del professore, ecc., e che sono anche molto più lucrative.
Sono troppi, ripeto, gli uomini spostati dagli studî e non è utile che ad essi si aggiungano le donne.
Ora quasi tutte le giovani che studiano vogliono diventar maestre e professoresse; come potranno tutte trovar posto? Già non son poche le maestre disoccupate, nonostante che si sia loro permesso d’insegnare anche nelle scuole maschili di qualunque classe, ciò che, secondo me, può essere causa di grave pericolo sociale, non essendo la donna adatta a dare quell’educazione virile, patriottica e nazionale che desideriamo pei nostri figli fin dalla scuola elementare inferiore;5 eppure la produzione annuale delle maestre aumenta tempre più e supera di gran lunga il numero di quelle che lasciano l’insegnamento e il numero delle nuove scuole necessarie.
Nè è piccolo il numero delle professoresse disoccupate, delle quali molte si rassegnano a far le maestre elementari, dopo i lunghi studî compiuti, ed altre aspettano sempre un nuovo concorso per le scuole complementari e normali governative, mentre non sono state ancora nominate tutte quelle che furono approvate nell’ultimo concorso precedente. Sicchè le donne, dandosi all’insegnamento, non risolvono più facilmente, come prima, il problema della vita,, e sentono il bisogno di aprirsi altre vie.
Veramente la professione più adatta per la donna è quella dell’insegnamento. Nata per allevare ed educare la propria prole, può benissimo istruire quella degli altri, diventar maestra e professoressa e dedicarsi all’insegnamento elementare e secondario per l’educazione delle fanciulle e delle giovinette. Sarebbe perciò necessario che tutti i posti d’insegnanti per le scuole complementari e normali femminili fossero dati a donne, e spio in mancanza di esse, ad uomini.
C’è però chi sostiene che, nei concorsi pei posti vacanti in tali scuole, si dovrebbero ammettere solo i laureati e le laureate, dando l’ostracismo alle professoresse, che hanno conseguito il diploma d’abilitazione frequentando una scuola superiore di magistero, perchè esso ha valore inferiore alla laurea. Ma io guardo la questione dal lato della maggior attitudine educativa, non da quello della maggior coltura.
Certamente la donna è più adatta dell’uomo ad educare le altre donne, perchè nelle scuole secondarie non si tratta solamente di istruire, ma anche di educare, e l’insegnante deve educare non solo coi precetti e con gli esempi della storia o con fatti immaginari e verosimili, scelti e narrati ad arte, ma anche con l’esempio proprio, col quale può esercitare sull’animo degli allievi una potente suggestione educativa. Ma quale suggestione educativa può esercitare col proprio esempio un professore sulle allieve d’una scuola complementare o normale, se la vita dell’uomo è diversa da quella della donna e la missione dell’uomo differente da quella della donna nella società?
Dall’esempio della propria insegnante le giovanette delle scuole secondarie femminili possono apprendere la serietà e l’onestà della vita, la correttezza dei costumi, la modestia negli atti e nell’abbigliamento, l’amore al lavoro e alla propria dignità e tante altre belle virtù, che rendono amata e ammirevole la donna e non debbono mai mancare in colei che viene preposta all’educazione delle altre donne. Ed è perciò che io sostengo che i posti d’insegnante per le scuole complementari le normali femminili debbano essere conferiti a professoresse e, solo in mancanza di esse, a professori. Per ragioni analoghe le professoresse non dovrebbero insegnare nelle scuole secondarie maschili, le cui porte sono state loro già aperte, come si sono aperte quelle delle scuole elementari maschili.
In parecchie scuole secondarie maschili ho visto insegnare molto bene, signorine laureate, che serbavano condotta seria e dignitosa; nondimeno qual esempio, per l’esperienza della vita, potevano i loro alunni apprendere da esse, se il modo di vivere della donna, il suo modo di condursi in società, le sue aspirazioni sono diversi da quelli dell’uomo?...
Ma, pur riservando alle professoresse tutti i posti d’insegnanti delle scuole complementari e normali femminili, e alle maestre tutti quelli delle scuole elementari femminili e di una parte delle maschili non occupate da maestri, bisogna aprire nuove vie all’attività femminile, perchè, come ho detto, la produzione annuale delle insegnanti, maestre o professoresse, è superiore al bisogno.
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Non pochi genitori hanno pensato d’avviare le loro figliuole agli studî secondarî classici o a quelli dell’istituto tecnico per far loro frequentare l’Università; e abbiamo già un bel numero di dottoresse, laureate la maggior parte in lettere e filosofia, perchè degli studî superiori questi sono i più adatti all’ingegno femminile. Ma quei padri di famiglia che fanno compiere alle figlie gli studî superiori dell’Università, non lo fanno perchè esse acquistino una maggior coltura, ma perchè sono in condizioni economiche da mantenerle in una sede universitaria, mentre le scuole di magistero femminile esistono solo a Roma, a Firenze e a Napoli. E quelle giovani che, pur dimorando in una di queste città, preferiscono di frequentare l’Università invece della scuola di magistero, vi sono spinte, salvo le eccezioni, più che dall’amore degli studî superiori, dal desiderio di possedere la laurea, invece del diploma d’abilitazione, per aver diritto a preferenza nei concorsi ai posti vacanti.
Nella pratica dell’insegnamento vi sono però laureate che valgono mena delle diplomate dalla scuola di magistero e anche delle insegnanti abilitate nelle sessioni straordinarie per le maestre elementari, perchè nella scuola non vale il maggior titolo, ma la maggior abilità e attitudine didattica educativa, la quale non s’acquista frequentando l’Università o la scuola di magistero, ma col tirocinio magistrale, possedendo la necessaria attitudine all’insegnamento.
Ho detto che la maggior parte delle donne che hanno frequentato l’Università sono laureate in lettere, ma ve ne sono parecchie che hanno compiuto gli studî nelle scienze matematiche, fisiche e naturali, in medicina e in farmacia. Le laureate in matematica e scienze hanno trovato facilmente ad occuparsi nell’insegnamento delle scuole secondarie femminili, perchè professoresse di tali discipline ve ne sono ben poche, forse per le difficoltà che presentano gli studî scientifici per l’ingegno della donna; e le medichesse e le farmiciste esercitano liberamente la loro professione. Ma di esse solo le ultime trovano a vivere, perchè sono o saranno padrone d’una farmacia, la qual cosa le spinse agli studî chimici; le medichesse finiscono col chiedere un posto nell’insegnamento, non venendo preferite dalle famiglie dei malati ai medici e ai chirurghi.
Eppure l’arte della medicina e della chirurgia potrebbe, per mezzo dell’ingegno femminile, recare grandi benefizi all’umanità sofferente. Quante donne, quante madri di famiglia non preferiscono di soffrire e morire, anzichè farsi osservare e operare da un uomo? Vi sono malattie tali per la donna, che essa, per pudore, non ardisce confidare al medico, ma le confiderebbe senza difficoltà a un’altra donna, alla medichessa. Perciò l’ufficio di questa potrebbe essere molto utile alla società; perciò pure gli studî di medicina e chirurgia, per le studentesse universitarie, dovrebbero essere in modo speciale indirizzati alle malattie delle donne, diminuendo anche il fardello degli studî superflui e dell’estesa coltura generale per l’ingresso all’Università.
Non so intanto se vi siano donne laurea in altre facoltà, oltre a quelle poco fa accennate, ma credo che sia bene non spingere troppo la donna per gli studî universitarî, affinchè non si distragga dalla missione che deve compiere nella famiglia e nella società. A che giova, del resto, far delle figlie avvocatesse, il se son tanti gli avvocati a spasso, che accettano la difesa delle più umili cause in conciliazione? Potrebbero forse aver clienti, e le loro difese potrebbero anche essere efficacissime; ma nessuna laureata in legge potrebbe essere ammessa alla carriera della magistratura, perchè la misericordia, la pietà, la carità, affetti vivi dell’animo femminile, non s’addicono alla giustizia, che è la più pura negazione dell’amore. Nè gioverebbe far delle figlie ingegneresse (passi il neologismo), perchè questa e altre,professioni liberali non sono adatte per le donne, le quali, a forza di andare di qua e di là, finiscono col perdere quel sentimento di pudore, che è il più bell’ornamento del loro animo, e sciupano tempo, salute e danaro per conseguire una laurea, che non potrà neppure servire in caso di bisogno.
I genitori, che pensano giustamente a dare una professione alle loro figliuole, non si facciano quindi guidare dall’ambizione di farne delle dottoresse, ma cerchino di conoscere quali disposizioni particolari esse abbiano per gli studî e le secondino incamminandole per le scuole in cui gli studî preferiti vengono coltivati. Una volta, quando le donne non frequentavano qualunque ordine di scuole (e in gran numero, come avviene oggi) e quando non si parlava di femminismo, non mancavano fra esse quelle che gli studî coltivavano per naturale inclinazione. E vi furono delle poetesse, come Lucrezia Tornabuoni, Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Teresa Bandettini, ecc.; delle letterate come Cassandra Fedeli, Laura Bassi, Clotilde Tambroni, ecc.; ed anche qualche dottoressa in matematica, come Gaetana Agnesi. Ma queste ed altre donne celebri, che per brevità non nomino, sentivano per gli studî un vero amore, una vera vocazione, e li seguirono spontaneamente, illustrando il proprio nome.
Perciò io dico: le giovani che hanno una disposizione naturale per gli studî siano avviate per quelli che preferiscono; le giovani che hanno inclinazione per un’arte bella, siano aiutate a essere artiste, e diventano pure pittrici, come Lavinia Fontana, o scultrici, come Properzia dei Rossi; ma quelle che non hanno vocazione nè per gli studî nè per l’arte siano avviate ad altre professioni. Perchè forzar la natura? Per aver delle mediocrità che rimarrano confuse nella folla degl’ingegni e stenteranno a farsi strada per guadagnar da vivere? Perchè contendere così, senza l’ingegno adatto e la vocazione necessaria, le professioni agli uomini? Gli studî esigono speciali attitudini in chi li deve coltivare, per una professione lucrativa, e chi non ha tali attitudini è bene che si dia ad altra professione, dopo aver acquistato il minimo di coltura necessario per la vita.
Ed e perciò che io vedrei con piacere accrescersi il numero delle scuole professionali femminili, che non dovrebbero mancare in ogni città che ha una scuola normale, affinchè diminuisca il gran numero delle donne che studiano per essere maestre, per le quali diventa sempre più difficile il trovar posto. Non sono certamente meno lucrative dell’ufficio di maestra le arti femminili di cucitrici di biancheria, ricamatrici, disegnatrici, sarte, rammendatrici, stiratrici, tessitrici, crestaie, lavoratrici di fiori artificiali, di merletti, busti, calze ed altri oggetti di maglia fatti a mano o a macchina. Forse con l’esercizio di queste arti. adatte per lei, la donna può, con maggior libertà e indipendenza, attendere alle sue occupazioni di famiglia. E quelle giovanette che hanno tendenza agl’impieghi possono benissimo, appena compiuti gli studî della scuola complementare o della tecnica, dedicarsi all’ufficio di segretarie e computiste delle piccole case di commercio o a quello di telegrafiste e telefoniste. Durante l’ultima gloriosa guerra nazionale le donne hanno occupato un gran numero di uffici già occupati dagli uomini, e li hanno disimpegnati con serietà, zelo e efficacia.
Intanto avviene spesso che, a forza di pensar troppo alla scelta di una professione per le proprie figliuole, molti genitori finiscono col non darne loro nessuna, e, preoccupati del disagio economico, si liberano di esse facendole suore di carità, senza sostenere molte spese, giacchè gl’innumerevoli ordini religiosi ricercano le giovanette e le accettano anche gratuitamente se possono essere utili alla Casa, specialmente se hanno il diploma di maestre elementari. Ma ben presto tali genitori si pentono d’essersi privati delle loro figliuole, perchè non le veggono mai più accanto a loro, neppure in casi di gravi malattie, perchè la regola impone alle suore di qualunque ordine religioso di dimenticar tutto, ricchezze, titoli onorifici, vita del mondo, affetti domestici, e di dedicarsi con abnegazione alla missione che l’ordine religioso si propone. Perciò i genitori che vogliono far suore di carità le loro figliuole debbono pensarci prima per non pentirsi poi.
Nè queste parole hanno l’aria del minimo disprezzo per la missione delle suore di carità, la quale, per me, è nobile e grande e risponde a un bisogno sociale. Vi sono tanti infelici al mondo, malati lontani dalle loro famiglie, vecchi senza pane e senza tetto, orfanelli derelitti, abbandonati, deficienti o mancanti del tutto del ben dell’intelletto, e le donne che, animate dalla carità cristiana, dedicano ad essi le loro cure affettuose, per diminuirne le sofferenze, compiono la più nobile missione umanitaria.
Chi non ammira l’opera della suora di carità negli ospedali, nel campo di battaglia, negli orfanotrofi, negli istituti pei ciechi, pei sordomuti e per gl’idioti, nei ricoveri di mendicità, nei manicomî e in altri simili istituti di beneficenza? Chi non l’ammira nella Croce Rossa, sia in tempo di guerra che in tempo di pace? Chi non comprende che la missione delle suore di carità è più apprezzabile di quella della monaca, che consuma la vita nell’ozio del chiostro, dimentica delle sofferenze altrui e paga di rendere sempre più pura l’anima sua con la preghiera? Per me Suor Agostina, che, trafitta dal pugnale d’un forsennato nell’ospedale dei tubercolosi di Roma, muore vittima del suo dovere, è una santa...
Solo è da desiderarsi che siano avviate al nobile ufficio di suora di carità unicamente quelle giovani che hanno una vera vocazione alla vita d’abnegazione pel bene dell’umanità, affinchè diminuisca il numero delle suore che mal sopportano la durezza del sacrifizio che impone la missione assunta e che, non avendo la forza d’animo d’abbandonare l’ordine religioso a cui appartengono, finiscono la vita nella verde età, consunte dal dolore di aver lasciato la propria famiglia e la vita men dura del mondo.
E quelle suore poi che vengono destinate all’istruzione e all’educazione delle fanciulle e delle giovanette compiendo la loro missione in conformità delle leggi dello Stato, potrebbero rendere molto efficace l’opera loro, perchè, unite in associazione, sicure dell’avvenire e non distratte dalle cure della famiglia, sono in grado di dedicar tutte sè stesse alla scuola. Esse potrebbero diventare le migliori educatrici e preparare ottime madri di famiglia, curando interamente l’educazione femminile, compresa, s’intende, l’educazione patriottica, indispensabile alla vita delle istituzioni che ci reggono e all’avvenire dell’Italia.
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Avendo parlato di scuole secondarie frequentate promiscuamente da maschi e da femmine, giova dire qualche cosa della così detta coeducazione, di cui oggi si parla molto. La coeducazione, secondo me, può darsi efficacemente soltanto nelle famiglie, nelle quali si educano contemporaneamente, da secoli, i figli e le figlie con cure speciali per ciascun sesso. Nè essa può essere possibile e completa in altri luoghi d’educazione e specialmente nei convitti.
I vantaggi della coeducazione consistono principalmente nelle relazioni reciproche di simpatia e di rispetto dei due sessi fin dalla tenera età, affinchè con gli anni i giovanetti e le giovanette si stimino a vicenda’ e non si considerino in lotta fra loro nelle aspirazioni della vita, e questi vantaggi si raggiungono senza dubbio nelle nostre scuole, che sono quasi tutte promiscue. Sono misti gli asili e i giardini d’infanzia, miste la maggior parte delle scuole elementari, miste le scuole secondarie, quando il numero delle alunne non rende obbligatoria la divisione dei due sessi, con scuole speciali per maschi e per femmine, e la frequenza delle donne alle Università è consentita liberamente.
In Italia non manca quindi di fatto la coeducazione scolastica possibile, e, ripeto, una coeducazione più completa è opera della famiglia. Ma quando il numero delle alunne che frequentano una scuola ne richiede per esse una speciale, è bene che si apra, affinchè essa possa essere indirizzata, al fine particolare che la scuola deve avere per l’educazione della donna e del quale ho già parlato.
Tutti sanno quanto i genitori sono generalmente contrarii a far frequentare le scuole maschili alle loro figliuole già sviluppate in età, per gl’inconvenienti che facilmente avvengono, specie quando a capo di tali scuole non vi sono persone autorevoli e oculate e quando non vi è un’assidua e seria vigilanza sugli alunni e sulle alunne durante gl’intervalli fra una lezione e l’altra e durante la ricreazione. Perciò è bene che la separazione dei due sessi nelle scuole si effettui tutte le volte che essa è necessaria per il numero considerevole delle alunne.
Si parla oggi anche dell’educazione sessuale ai giovanetti delle scuole secondarie; ma essa mi sembra compito esclusivo delle famiglie. Debbono i genitori, e specialmente le madri, parlare prudentemente ai loro figliuoli di certe cose delicate, come quelle riguardanti il sesso, additando loro i pericoli possibili e consigliando l’igiene necessaria per la sanità del corpo e della mente.
La parola dell’insegnante, per quanto corretta e riguardosa, può nella scuola, trattandosi di un argomento delicatissimo, recare, non volendo, offese al pudore delle giovanette e destare pensieri e desiderii pericolosi.
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Riepilogando quello che abbiamo detto a proposito dell’indirizzo didattico-educativo delle nostre scuole femminili, sia elementari che complementari e normali, secondo risulta dai programmi d’insegnamento prescritti e dell’attuazione che gli insegnanti ne fanno, crediamo di poter affermare che sia necessario migliorarlo in maniera da poter dare alle fanciulle e alle giovanette che le frequentano un’educazione conforme alla missione della donna nella famiglia e nella società.
Se la scuola deve preparare alla vita, quella destinata per la donna non deve dimenticare la missione che a questa è assegnata dalla natura. Perciò una riforma dei programmi vigenti delle scuole elementari, complementari e normali femminili, subordinata a questo fine, è un’imperiosa necessità, la quale risulta evidente anche dal fatto che nessuna delle donne che studiano per l’apprendimento di una professione, rinunzia alla sua missione naturale. Presto o tardi essa potrà maritarsi e diventare regina di quel regno domestico, così ricco di pace e di sante gioie, nel quale si deve compiere principalmente la sua missione. «Educare la fanciulla a esser madre — dice il Tommaseo — è educarla a sostenere la vita, anco senz’essere madre».
Tale riforma dei programmi, perchè raggiunga il fine indicato, deve essere accompagnata, come ho detto, da una riduzione nel numero e nell’estensione delle materie d’insegnamento. Cosi la scuola sarà maggiormente educativa, perchè, con programmi più ristretti, la coltura può essere soda e l’insegnamento più efficace. Bisogna persuadersi una buona volta che non è la quantità delle materie d’insegnamento che costituisce la bontà di una scuola, ma la qualità di esse e il metodo didattico, e che vai più saper poco e bene che saper molto e male. Solo così la scuola secondaria femminile può educare la mente delle alunne e renderla sempre più capace di dedicarsi con efficacia a studî maggiori.
La riduzione dei programmi, da subordinarsi al fine da raggiungere, apporterà anche un altro grande benefizio, quello di non danneggiare le forze fisiche delle alunne, alle quali la scuola complementare e normale impone tale un lavoro mentale da renderle quasi tutte clorotiche, anemiche e nevrasteniche. Eppure la scuola femminile, sia primaria che secondaria, ha dalla legge l’obbligo di sviluppare, corroborare le forze fisiche, e per questo scopo esiste anche un insegnamento speciale, quello della ginnastica educativa.
Ma si cura realmente, colla ginnastica, l’educazione fisica delle alunne nelle nostre scuole femminili? In quelle elementari la ginnastica si fa a tempo perso, generalmente nei banchi, o fuori di essi, nella medesima aula scolastica, mentre la ginnastica tra i banchi, tranne alcuni movimenti di carattere ricreativo o che hanno il fine di correggere posizioni incomode e dannose, a cui sono, obbligati gli alunni mentre scrivono, ha ben poca utilità, e quella fuori dei banchi, nell’aula scolastica, è dannosa per la polvere che i movimenti degli alunni sollevano e che vien da essi stessi respirata. A voler fare la ginnastica fuori classe, secondo i programmi governativi, mancano i porticati, i giardini e gli spazi liberi; e le passeggiate scolastiche, con le quali si potrebbe in parte rimediale a tale mancanza, si fanno quando è possibile, una volta al mese.
Nelle scuole complementari poi s’insegna la ginnastica educativa per due ore settimanali in ciascuna classe, e nelle normali per un’ora sola, e quello che si fa è così povera cosa che non si può dire che in esse si pensi seriamente all’educazione fisica delle giovanette, la quale rimane quasi tutta abbandonata alle cure delle famiglie, che spesso non se ne danno pensiero.
Sicchè non parrà ingiusto il desiderare che, non potendo le scuole secondarie femminili sviluppare, con la ginnastica educativa, le forze fisiche delle alunne, non le danneggino almeno col sovraccarico mentale.
Note
- ↑ Veggasi a questo proposito il mio libro: L’Educazione morale nella scuola elementare (presso Albrighi-Segati e C., L. 1) pag. 40 e seguenti.
- ↑ Veggasi il mio libro L’educazione morale, innanzi citato, pag. 73.
- ↑ Un mio amico che aveva una figliuola alla scuola complementare, fu obbligato a comprare per essa tre antologie diverse: quella del Rinaldi il 1° anno, quella del Mestica il 2°, e quella del Casini il 3°.
- ↑ Veggasi: demilis edmond, «L’Éducation nouvelle», pag. 72 e seguenti.
- ↑ Veggasi sulla questione delle scuole maschili affidate a maestre il mio libro L’abitudine nell’educazione, già citato.