Sofia Bisi Albini

1879 Indice:Bisi Albini - Donnina forte, Milano, Carrara, 1879.djvu Romanzi/Scritture di donne Letteratura Donnina forte Intestazione 31 agosto 2020 100% Da definire


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DONNINA FORTE

CONFIDENZE

DI

DONNA CONNY

MILANO

LIBRERIA DI EDUCAZIONE E DI ISTRUZIONE

DI PAOLO CARRARA

Via S. Margherita, 1104.


1879.

[p. Dedica modifica]

ALLA

CARISSIMA SIGNORA

CARLOTTA R. C.

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MM
iss Jane, perchè è la vigilia di Natale siamo obbligati di aver a pranzo delle persone che non posso soffrire?»

Miss Jane sollevò il viso dalla sua piccola Bibbia e sorrise con compiacenza. Capii... che non aveva capito, e mi avvicinai alla finestra. Com’erano appannati i vetri!

«Risparmio di calar la tenda quando arriva la zia, — pensai. — Ella che non vuol vedere quell’orribile vis-a-vis!

A dir la verità, anch’io, — quando il babbo, anni fa, mi condusse a vedere questa nuova casa, — ho detto: «Oh, non è un piacere, babbo, di star alla finestra con quella casupola nera lì di contro!» Ma quando sentii la zia marchesa far la stessa esclamazione, ho pensato: Se lo dice lei, è segno che è un ridicolo pre[p. 8 modifica]giudizio aristocratico. Ed io allora fui obbligata di mutar opinione. Figurarsi! la Conny aristocratica! ah! ah! mi fa ridere soltanto a pensarci... Io! lo spauracchio della zia marchesa e della cugina contessa: io che, se vien la Comune, scendo in piazza e divento senz’altro una pétrolieuse!

È la zia che me lo ha detto.

«Ma già, con l’educazione che ha ricevuta non poteva riuscire diversamente. Immaginatevi! — È mia zia che parla così — il suo babbo, perchè era sopraintendente scolastico, s’è creduto quasi in dovere di mandare la sua figliola alle scuole pubbliche! Ma non sapete cosa c’è nelle scuole pubbliche? Nientemeno che le figlie dei macellai! dei fornai!... dei fruttaioli!... Bisogna chiuder gli occhi per figurarsela bene questa ragazza, che ha già nel sangue qualcosa di borghese... (mia madre non era nobile) e che è cresciuta nello studio di suo padre, un umanitario per la pelle! bisogna figurarsela, dico, là in mezzo a tutta quella ragazzaglia che parla un dialetto sguaiato, a ricevere la stessa educazione di quelle figliole destinate a star in bottega tutta la vita!

«È vero che la Conny dopo è andata alla scuola superiore, che è pubblica anche quella, ma via, se non vanta delle nobiltà è però un pochino più ammodo: è vero che dopo ha avuto per due anni l’istitutrice tedesca, ed ora ha quella inglese, e non frequenta che [p. 9 modifica]la nostra società; ma pure, cosa volete! — (È sempre la zia che parla) C’è rimasto in lei quell’aria turbolenta, inquieta, tutta propria del popolo; e certe opinioni poi!...

«Ella ride di tutte le convenienze. (Mia zia dice convenienze per etichette). Ma volete sentirne una che le sorpassa tutte?!.. Nientemeno che la Conny saluta nella strada tutte queste sue compagne della Scuola Comunale! ragazze che vanno in giro sole, naturalmente: senza cappello, e con panieri o bambini sulle braccia. Ma volete proprio che ve le dica tutte?... Vedete! divento rossa soltanto a rammentarlo...

«Un giorno la Conny viene con me dal Garbagnati a comperare... non so più che: ah! quei mezzi guanti di lana d’Antipode che ho pagato nove lire. (La zia voleva forse dire Antilope: oh, un piccolo sbaglio!)

«Dunque entro dal Garbagnati: c’eran lì ferme tre o quattro carrozze, e dentro nel negozio, una folla di signore. A un tratto sento... anzi, sentiamo: perchè ha gridato con una vociaccia sgarbata e fessa di Porta Ticinese! Sentiamo dunque gridare: «Ciao, Conny!»

«Indovinate chi era!... Una sartina!

«Non dico altro: donna Conny*** che esce con sua zia, e che è salutata a quel modo, in mezzo a tutta la nobiltà — poiché c’era anche la duchessa** — salutata, dico, da una grisette! Che cosa ve ne pare?!»

Se io, donna Conny ***, dicessi che quel saluto m’ha [p. 10 modifica]fatto piacere, direi una bugia: credo d’essere diventata di fuoco, e, non sono sicura di averle risposto: ma quello scoppio di furore di mia zia, che si credette in dovere di spiegare la cosa a modo suo a tutte quelle signore e ai giovani del Garbagnati, mi fece passare il mio dispetto: e finii a ridere.

Sono uno spirito di contraddizione: me lo dice sempre la zia, e forse non ha torto.


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NN
on capisco perché ora mi sia tornata in mente tutta quella storia. Ah! a proposito del mio vis-à-vis, che mia zia trova indegno del palazzo di suo fratello don Emanuele*** commendatore e deputato al Parlamento.

Che sia una brutta casaccia, non c’è che dire: ha una certa porticina che conduce in un corridoio buio, stretto, umido, che non si sa dove vada a finire. Quest’anno poi ci hanno aperto lì accanto un botteghino di fruttaiola.

Immagino che d’estate metterà le ceste fuori, ma ora è chiusa da un usciolo a vetri: certi piccoli vetri quadri, impiombati, come non se ne vedono ormai più in Milano.

Stavo guardandoli, quando vedo apparire, come in una cornice, dietro uno di essi, un visetto di donna, [p. 12 modifica]pallidino, con due occhietti neri che par che pungano, e accanto quello grassotto e rosso di un bambino.

Ma io lo conosco da un pazzo quel viso!... Quando l’ho visto?... Forse qui, un’altra volta: ma no: io conosco quella donna: mi par di sapere che voce ha. È strano!

Che sia anche quella una compagna di scuola?

Ma è maritata, con un bambino: che! sono dunque così vecchia, io? Vediamo un po’: ho vent’un anno: ella si sarà maritata a diciannove, fors’anche a diciotto: certo, certo! Tò, non ci avevo mai pensato che a quest’ora potrei essere mamma anch’io. Che idea originale! non so perchè non mi faccia ridere...

— «Miss Jane!» Ella trasalì e spalancò i suoi occhi azzurri con quella solita aria turbata e rispettosa che non mi piace e che finisce a turbare anche me.

Par che beva le mie parole; mi ascolta tutta raccolta, attenta, come se le dicessi chi sa che!

Che io le faccia soggezione? forse a volte sono un po’ brusca: ma il più delle volte mi par d’essere così allegra! E la gente allegra non fa certo soggezione.

Miss Jane mi guardava ancora ed aspettava.

— «Oh, scusate: era una sciocchezza. Leggete, leggete...»

— «Thankyou!» mi rispose arrossendo, e tornò alla sua Bibbia.

Che cosa volevo dire a miss Jane? non lo so più; [p. 13 modifica]forse quello che pensavo della fruttaiola. Io ho bisogno di comunicare le mie idee. A volte, quando ne ho tante tante nella testa, mi par che mi pesino e me la facciano scoppiare.

Credo sia per questo che, non avendo la mamma nè una sorella a cui confidarle, abbia quella gran passione di scrivere.

Essendo poi quasi sempre sola — perchè il babbo, deputato, sta molto a Roma — e non avendo la smania dei divertimenti, io lavoro molto coll’immaginazione, e su una parola, su una persona intravveduta dal finestrino della mia carrozza, su un nonnulla, creo tutta una storia interessante, commovente o umoristica che poi mi vien la voglia di scrivere. E scrivo: ma avrei anche quella di dar alle stampe, ma... non ci sono ancora riuscita.

Lo vorrei: prima di tutto perchè quello che scrivo non mi sembra orribile, e ha uno scopo morale, quindi male non farebbe di certo.

Mi ricordo delle parole di d’Azeglio:

— «Un lavoro letterario può valer poco sotto l’aspetto artistico, ma può valer molto sotto un altro, pur che serva a uno scopo utile».

C’è poi la voglia di provare una nuova emozione; di affrontare il pubblico sconosciuto e conosciuto, e — sono cattiva — di metter sossopra e scandalizzare tutta la nobiltà.

Donna Conny nelle vetrine de’ librai e su per le cantonate! C’è da perder la testa!! [p. 14 modifica]

L’altro giorno donna Giulia **** mi domandò: —

«Ma è vero che lei vuoi far la letterata?»

— «Oh, no: scrivo e vorrei pubblicare».

— «È la stessa cosa» mi rispose piccata.

— «Non mi pare». —

Ella insistè, con gran dispetto di mia zia.

— «Pubblicherà con un pseudonimo».

— «Perchè? crede ella che mi faccia paura il pubblico?» risposi ridendo. «Le maschere non mi piacciono».

— «Ma certe critiche sono così pettegole e villane qualche volta!»

— «Naturalmente» — le risposi — «che chi pubblica dev’essere preparato a tutto. Del resto, guardi: io sono del parere che bisogna leggerle tutte le critiche: e tenersele sul tavolino anche quelle che ci hanno fatto male e ci hanno offeso. Io ho osservato che, per esempio, certe persone di servizio, senza educazione, e che non sanno fingere nè adulare, dicono alle padrone molte verità... che noi si piglia per insolenze: ...Sa del resto che è il mio modo di pensare: meglio una verità cruda che una menzogna... stavo per dire cotta! scusi: volevo dire gentile».

Capii che ne rimasero scandolezzate; ma donna Giulia mi disse con quel suo sorriso graziosissimo ma punto intelligente:

«Cara signorina, lei ha delle idee emancipatrici...» [p. 15 modifica]

— «Le pare?» risposi ridendo: e mi dimandai come mai ci entrasse lì dentro l’emancipazione.

E mia zia, dopo un momento di riflessione, esclamò seria e con convinzione: «Secondo me, la troppa franchezza è un’indecenza come la nudità!»

Frase, che — se non mi sbaglio — ha preso a prestito da qualche autore: non so più chi.


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OO
h, la fruttaiola è uscita a dar un’occhiata sulla strada: mancano gli avventori, mi pare: ed è la vigilia di Natale! Poveretti: domani non potranno fare un po’ d’allegria...

Quella donna è vestita maluccio: ma è però pulita, col suo fazzoletto bianco al collo... e anche il bimbo è ravviatino. Che bel visetto: par una mela.

Oh, ecco uno spazzacamino: che avventore! ha comperato una manciata di castagne. La donna sorride... Oh, ma io lo conosco quel sorriso! Chi può essere?

Io sono curiosa, molto curiosa! pare impossibile, nevvero? perchè di solito la gente curiosa è pettegola ed io non lo sono punto punto.

Misi il dito sul bottone del campanello elettrico: Giacomo entrò correndo.

— «Va giù dalla fruttaiola» gli dissi: «e com[p. 17 modifica]pera per tre o quattro lire di frutta: ma non star lì a scegliere: prendi quel che ti capita, anche quelle un po’ guaste, non importa... E intanto chiacchiera con a donna e trova modo di domandarle il suo nome da ragazza.... Ma sappi far bene, ve’!» —

— «E le frutta?» mi disse con un mezzo sorrise Giacomo. «Non le porto in cucina sa! perché il cuoco oggi ha una luna!...»

— «Dalle ai bambini del portinaio» risposi «Ma fa presto, e bene!»

Egli uscì: lo vidi attraversar la strada e entrare: poi scegliere nelle ceste le frutta... guaste. Risi pensando ai bambini del portinaio.

A un tratto vidi Giacomo voltarsi quasi spaventato far il fagotto in furia, buttar là i denari, e correre verso casa a gambe levate.

Si era fermata una carrozza: certo quella della zia.

Infatti sentii la campana del portinaio. Quella benedetta campana che fa star lì tre minuti in una sospensione ridicola! So che alcune signore ne approfittano per mettere un pochino ancora di cipria sul viso e per accomodarsi i capelli sulla fronte, e altre per allungarsi sul divano e sprofondarsi nella lettura di un romanzo inglese. (Il vocabolario arrivano in tempo a nasconderlo dietro il cuscino). Io invece, per il pensiero istintivo di mettere un po’ in ordine i capelli, finisco a buttarli all’aria di più; e per quello di accontentare almeno una volta la zia (ma in realtà per [p. 18 modifica]evitare delle domande che mi seccano, e delle questioni che mi irritano) nascondo in fretta e in furia i miei scartafacci e i miei libri, e corro all’uscio.

Ma la vigilia di Natale tutto era chiuso, serio e ordinato. Soltanto miss Jane scomparve colla sua Bibbia.

La porta si aperse: e entrò mia zia con mio cugino, il marchese Gian Carlo ***

Non lo conoscete? è quel giovane biondo, colla caramella all’occhio: che quest’anno ha quel paletò chiaro, lungo, stretto alla vita come l’abito di una signora... Oh, è impossibile che non lo conosciate, almeno di vista.

Mi salutò stringendomi la mano con energia e con serietà, come se facesse una solenne promessa, e inchinandosi senza parlare.

Mio cugino è un giovane di spirito... dicono.

Io non saprei dire se è vero, perché con le signorine non si degna di far dello spirito.

Dio mio! Cosa c’è di più insignificante a questo mondo di una signorina!

È una creatura senza carattere e senza opinioni; che si lascia rimpastare in una forma nuova dalle diverse circostanze e dalle diverse conoscenze.

Che cosa ve ne pare? è orribile, non è vero?! Però... — Non mi leggete che voi, care compagne, e possiamo farci delle confessioni. Sentite: è un fatto che molte signorine si studiano di non dire mai quello che pensano, come se fosse, che so io! un’indecenza. [p. 19 modifica]E soffocano tutte le idee gentili che il cuore suggerisce, e affettano, in società, una ritenutezza che fa stizza.

A me pare che quell’astenersi dal dire quel che pensiamo, quel nascondere paurose e diffidenti la propria opinione, quello sfuggire qualunque discussione sopra cose o sopra azioni, il più delle volte non è timidezza, è... me lo lasciate dire? un’eccesso di amor proprio; è la paura di sbagliare, o anche di non essere comprese, e di incontrare un’opposizione. Ma forse è sempre timidezza.

E il Leopardi che ha detto — se ben mi ricordo — che i timidi si guardano dal pungere gli altri per evitare d’essere punti essi stessi: perchè il loro amor proprio è grande come quello degli arroganti, o meglio, più sensitivo.

In ogni modo, credete, quell’incertezza del dire e non dire tiene come in sospeso la mente e toglie al cuore tutta la sua spontaneità. Non è forse vero?

Dunque... non ha torto mio cugino?!

No, no: ha sempre torto perchè fa del difetto di alcune una regola generale.

Egli guarda anche me con indifferenza attraverso la sua caramella, e quando mi ascolta par che dica: «Parla, parla! non mi diverto: ma non importa: a questo mondo dobbiamo aver tutti il nostro quarto d’ora di seccature.»

Eran due mesi che non lo vedevo il mio amabile [p. 20 modifica]cugino, e lo trovai ancora più annoiato: si vedeva che gli seccava quel pranzo di famiglia. Si sdraiò in una poltrona con una gamba a cavalcioni dell’altra e prese un giornale.

La zia non mi aveva salutato: si sedette anche lei e mi disse con un’aria solenne:

— «Scusami, cara; ma nella tua casa regna un disordine scandaloso. Tu hai bisogno....

— «Di un’istitutrice di polso?»

— «No, no: l’istitutrice di polso finisce a diventar lei la padrona. No: volevo dire di un po’ di sommissione. Lasciati guidare da chi ne sa, cara Conny: da chi, come tua zia, ha una casa che è l’ammirazione di tutti!»

— «Siamo stati cinque minuti sul pianerottolo ad aspettare che il servitore salisse ad aprirci.» Si degnò di dire mio cugino.

— «Ah, sicuro: Giacomo l’avevo mandato via.»

— «Tu!» esclamò la zia «Ma sapevi bene che noi si doveva venire!»

— «La Conny ama le originalità,» disse Gian Carlo, o Carletto, com’io mi ostino a chiamarlo. «I servitori stanno in anticamera di solito; dunque il suo deve star sulle scale.»

Io risi.

— «Tu ridi sempre:» disse la zia «è una cosa che finisce ad irritare, sai?»

— «Oh, mi scusi: non riderò più.» E risi ancora. In quella entrò mia cugina con suo marito, il conte Filippo ** che rideva col suo vocione grosso. [p. 21 modifica]

— «Conny, come stai?» mi disse l’Elisa abbracciandomi. «Lasciami ridere: ah, ah! dopo ti conterò!»

— «Il servitore vi ha lasciato sulle scale dieci minuti?» dimandò Carletto.

— «Ed è salito quattro scalini alla volta ad aprirvi l’uscio?» aggiunsi io.

— «No, no:» disse Filippo, il cui largo viso era ridiventato serio.

Io gli sporsi tutte e due le mani come faccio sempre, e gli dissi: «Mi racconti che cosa è stato?»

— «C’è stato, cara figliola, che sull’uscio del portinaio c’era seminato un’infinità di mele e che quattro o cinque bambini, erano là in terra come tanti gattini, e facevano a chi ne raccoglieva di più. Ma quando la portinaia ci vide, accorse colla scopa a scopar via, in tutta furia, mele e bambini!»

— «Ma dovresti dirle di tener i figlioli di sopra!» interruppe la zia.

— «In quel bugigattolo?!.. Di solito sono all’Asilo; ma oggi è la vigilia di Natale e hanno diritto di far un po’ di chiasso anche loro.»

— «E di seminar le mele?»

— «È stato Giacomo; che, nella furia di salire ad aprirvi, le ha buttate là...»

Ma entrò il babbo e tirai un sospirone.


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MM
io padre non par fratello della zia: ha un carattere serio, fermo: un bello e grande carattere infine. La sua alta persona, e sopratutto quella sua stupenda testa, attirano gli occhi di tutti: e quando parla... ma chi di voi, mie amiche, non conosco don Emanuele ***!

Ma in società è molto diverso di quel ch’egli sia in casa: in società ha certi sorrisi, e sa parlare con tanta disinvoltura di cose frivole con le signore, che io non so riconoscerlo, e lo ascolto attonita. Egli è al suo posto quando, nelle tranquille nostre serate, discute coi suoi amici di politica, di economia o di filosofia: nella sua parola calma, convincente e severa c’è allora l’uomo studioso e utile quale egli è, non il gentiluomo elegante quale non è mai stato.

Egli fa una vita laboriosissima, e quand’io ritorno [p. 23 modifica]dal teatro — dove vado con mia zia o con mia cugina — egli è ancora nel suo studio a scrivere: ma il più delle volte quell’uscio è chiuso, e non appare la luce disotto la fessura, e io penso al babbo che è a Roma.

Una volta avevo molta confidenza con lui, ma ora viviamo così separati! e finisco a dir tutto a Filippo: ed egli si diverte delle mie osservazioni e dei miei giudizi su questo e su quella.

Una sera mi disse: «Io ho sempre creduto che chi osserva, studia e analizza tutto, finisse collo sciupare la poesia della vita: ma vedo che non è vero. Non c’è nessuna donna, io credo, più anatomista di te; eppure sei quella che ha la più grande e vera poesia!» Vedete come m’adora mio cugino?... Non spalancate gli occhi: ha cinquant’anni ed è brutto come un orco.

Ma che cosa stavo dicendo?

Ah, mi ricordo... che entrò il babbo e che ebbe per l’Elisa e per sua sorella un sorriso così gentile che la loro attenzione si concentrò tutta in lui.

Io ne approfittai per iscappar da Giacomo.

— «E così?»

— «Era figliuola di un calzolaio: un certo Mosca che stava in via Santo Spirito.

— «Mosca? ah!» e rientrai in sala.

«Mosca!» ripetei affacciandomi alla finestra.

«Ma sì! il Moscerino! il mio Moscerino!»

La ricordo: come mi voleva bene! Un giorno ho [p. 24 modifica]voluto accompagnarla a casa; e mi sono divertita a veder quella bottega con quel deschetto e tutti quei ferri... Il suo babbo e la sua mamma erano giovani e belli, ma il babbo era magrissimo, e aveva certi occhi grandi, neri, infossati, e una voce sottile e appannata.

Il mio servitore mi disse, uscendo, che quell’uomo era tisico, ed io quella notte sognai che lo conducevo insieme a sua moglie e alla figliola, a Nervi, perchè guarisse.

— «Che cosa guardi, Conny?» mi domandò Filippo, passandomi un braccio intorno alla vita.

— «Niente» gli risposi, e andai incontro a miss Jane che rientrava, e mi sedetti vicino a lei; ma ero inquieta, e mi alzai.

— «Oh babbo!» esclamai. «Pensa che la fruttaiola è il Moscerino, quel tal Moscerino!»

Tutti si misero a ridere.

— «Ma che cosa dici?»

Io mi sedetti sul bracciolo della poltrona del babbo e gli misi un braccio intorno al collo.

— «Ti ricordi di una mia compagna della scuola comunale? la figliola di un calzolaio; la più brava... che tu lodavi sempre quando venivi a visitar la scuola? Si chiamava Giuseppina Mosca: ma noi la chiamavamo Moscerino perchè era piccola e magrina. Ti ricordi babbo?»

— «Mi pare... sì.»

— «Ebbene, è la fruttaiola che sta qui dicontro. [p. 25 modifica]Lasciami andare a farle una visitina, babbo! appena un momento!» Sentii un mormorio di disapprovazione.

Alzai la testa: non ci avevo più pensato che c’era lì tutta quella gente.

— «Che posizione...!» mormorò mia zia. Avevo una gamba sul bracciolo e credo si vedesse l’altra un pochino.

C’era da vergognarsi? Forse sì; ma io non me ne vergognai! Quattro anni fa avevo la veste corta, e tutti si credevano in dovere di ammirare le mie gambe... visto forse che il viso non aveva nulla di particolare.

E poi mi ricordai che mia zia... pochi giorni prima, mi aveva consigliato di comperar le calze assortite agli abiti perchè... quando si sale in carrozza, chi è dall’altra parte della via ci vede la gamba fino al ginocchio.... Ed ora... Non vi pare che io abbia ragione di ridere?

— «Non lasciarla andare, Manolo! non mancherebbe che questa!» esclamò spaventata la zia.

— «A Natale non si rifiuta niente ai bambini,» rispose il babbo accarezzandomi. Io baciai quella mano che mi passò sulle labbra, e mi alzai...

— «Sentite» dissi «vi racconterò una storiella, e se non vi convertite... peggio per voi!

«Ero dunque alla scuola comunale...»

— «Lo sappiamo, pur troppo!» mormorò la zia con un sospiro.

Io continuai: «Ero la figlia del soprintendente [p. 26 modifica]scolastico: la figlia di don Emanuele, e misi, sulle prime, in soggezione compagne e maestre. So che anche la direttrice disse che le seccava un pochino di avermi nella sua scuola. Ma sapete come sono io...»

— «Entri in confidenza con tutto il mondo» interruppe mia cugina.

— «Purché non sia nobile...» aggiunse la zia.

— «Ero allegra; un folletto; — continuai — e diventai il beniamino di tutte. Due giorni dopo io non avevo più soggezione di nessuno e nessuno aveva soggezione di me. Nell’ora di ricreazione le compagne si rubavano il mio braccio destro e il mio braccio sinistro...»

— «Perché eri la figlia del sopraintendente! donna...»

— «Oh, zia! è crudele! Perché non vuole che io creda che mi si possa amare per me, per me sola?.. C’era un’unica ragazzina, la più brava e la più povera, che non mi si avvicinava mai; era il Moscerino. Mi faceva un dispetto! non capivo quella ritrosia: credevo fosse invidia. Un giorno si discuteva chi di noi avrebbe avuto il premio.

— «Il Moscerino» dissi io e molte altre.

— «Oh, no: l’hai tu, Conny! di sicuro!» esclamarono due o tre.

— «Io? ma che! prima di me c’è la tale e la tal altra...»

— «Oh, ma tu sei la figliola del sopraintendente!» rispose una, che si chiamava Lisetta. [p. 27 modifica]

Io mi sentii un colpo nel cuore: tutte le mie compagne si misero a gridare. «Che sciocca! che cosa c’entra? la nostra maestra non fa le ingiustizie!» E una vocina gridò più forte con un tono indignato: «Come sei ineducata!» e mi sentii passar un braccio intorno alla vita.

Era il Moscerino.

Mi chinai a baciarla: ella mi tirò in disparte e mi disse seria come una donnina: — «Studia, Conny! fa degli splendidi esami: la Lisetta rimarrà confusa, e sarà obbligata di dire che il premio è tuo... perchè sei la più brava!»

Io le risposi: «Sì, vedrai!» E mi misi a studiare con ardore.

Il Moscerino era diventata la mia amica più cara: ella mi diceva: «Non voglio volerti bene; tu sei ricca, sei nobile: dopo la scuola non ci vedremo più...» Ma io le volevo un così gran bene ch’ella non resistette altro. Ma un giorno pensai con ispavento:

— «Se io ho il premio, non l’ha il Moscerino che ha studiato tutto l’anno...» ma poi dissi: «Rinuncierò al premio!» Quando ci siamo ragazzi, piacciono i colpi di scena, non si sognano che sacrifici. Rinuncierò per lei! pensavo tutto il giorno e studiavo con entusiasmo.

Ma un giorno... il babbo è così curioso! A furia di domandarmi: cosa fai? cosa pensi? mi strappò anche quel mio segreto...

— «Non farai gli esami — mi disse. — La settimana ventura ti condurrò ai bagni.» [p. 28 modifica]

Il mio castello si rovesciò: ne piansi il primo giorno, ma poi pensai: «Il Moscerino avrà il premio e la Lisetta la sua lezione»; e partii felice per Nervi.

— «E tutto questo di che ci deve convincere!» dimandò sorridendo mio cugino Gian Carlo.

— «Che il Moscerino ha un carattere simpatico» disse Filippo.

— «E, che non c’è da vergognarsi nel farle una visita» aggiunsi io...

— «Una visita a una fruttaiola!» esclamò con irritazione la zia. «Bisogna essere matti!»

— «Papà, vado?»

— «Va.»

— «Non sola, eh? dove s’è cacciata miss Jane?» gridò la zia.

— «È qui vicino a me!» disse serio il babbo sedendosi accanto a miss Jane che era diventata rossa come una brace.

Io uscii, e un minuto dopo — indossato in furia il paletò e messo il cappellino — scendevo con Giacomo.

Attraversai la strada e vidi là, alle finestre della sala, quei cinque visi: quelli del babbo e di Filippo, sorridenti e curiosi: quelli de’ miei cugini, pieni di ironica compassione, o quello di mia zia, irritato fino alla collera.

Lasciai Giacomo di fuori, e entrai nella bottega.


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EE
ra uno stanzone grande, che non riceveva luce che dalla porticina a vetri, diviso da un paravento su cui erano impastate delle pagine di giornali illustrati: là dietro si vedeva un letto grande, una culla e una tavola. Davanti c’era un caminetto, e sopra due scale, i cesti pieni di verdure che sgocciolavano, di frutti, e di polli mezzo pelati.

La fruttaiola era seduta vicino al fuoco col libro delle preghiere, e il suo bambino, su uno sgabello, aveva lo mani e le gambine sotto la gonnella di lei per iscaldarsi al veggio.

Si alzò arrossendo come una brace, e mi venne incontro lentamente e dimandandomi senza guardarmi: «Che cosa desidera la signora?»

— «Desidero di salutarti, Giuseppina!» [p. 30 modifica]

Ella sollevò gli occhi, ma li riabbassò subito.

— «Non mi conosci?» le dissi: ma avevo capito che mi aveva riconosciuto.

— «Sono la Conny: la tua compagna della scuola elementare. Sto qui di faccia: ti ho riconosciuta un momento fa dalla finestra e sono scesa a augurarti le buone feste.»

— «Oh, grazie...» mormorò, diventando ancora più rossa; e si chinò confusa ad accarezzare la testina del suo bambino.

Io le facevo soggezione. Perchè?... per il mio vestito di velluto e per le mie pelliccie. Ed ella faceva soggezione a me... per l’aria grave che aveva sul viso, ma sopratutto per il bambino che le si aggrappava alle ginocchia. Chi di noi aveva ragione?

— «Non mi riconosci?» — ripetei.

— «Oh sì!... l’ho riconosciuta fin dal primo giorno che sono venuta ad abitar qui...»

— «Ah davvero? e sei stata contenta di rivedermi?»

Ella sorrise tristamente e disse: «Sì e no: contenta di veder che sta bene... che è diventata bella; ma nello stesso tempo m’ha seccato... Mi scusi, sa? ma vederla e non poterla salutare è un tormento.»

— «Perché non potermi salutare?»

— «Vuol ch’io la saluti in faccia alla gente?»

— «Che male c’è?»

— «Per me è un onore; ma per lei... Oh, ma ha [p. 31 modifica]ragione: anche a me secca se qualcuno più basso di me mi saluta.»

Più basso di lei! Chi poteva essere più povero di lei che abitava quella bottega che spirava miseria un miglio lontano? Non potei a meno di domandarglielo.

— «Chi... per esempio?...»

— «Per esempio... la Lisetta: se ne ricorda? quella figliola del carbonaio che sta laggiù al Naviglio. S’era messa a far la sarta; poi... poi ha finito male. Ora è vestita come una signora, ma quando la incontro sono io che ho vergogna a salutar lei.»

Io le presi la mano. Era sempre il mio Moscerino con quel bel carattere onesto e altero. Quella è una giusta e santa aristocrazia! Che cosa avrei dato perchè quelli là che ci guardavano dalla finestra l’avessero sentita!

— «Tu sei sempre buona come una volta» le dissi. «Ti ricordi quando ti chiamavo il mio Moscerino?»

— «Se me ne ricordo! Che bei tempi! Beata lei che può studiare ancora!»

Io mi chinai a baciare il bambino.

— «Com’è bello!» dissi.

— «Somiglia al suo babbo.»

— «Che cosa fa tuo marito?

— «La mattina va a vendere sul Verziere, poi gira colle pere cotte e le castagne, e quando non c’è altro, colle cipolle arrosto.»

— «E tu stai in bottega?» [p. 32 modifica]

– «Sì: lavoravo anche in biancheria, ma ho dovuto smettere. Vede, la bottega è buia, e poi le mani non posso tenerle pulite. Faccio scatole per gli zolfanelli di cucina, quando ho tempo.»

Mi avanzai dietro il paravento.

— «Mi permetti?»

— «Oh guardi, guardi pure. Siamo poveri, ma si fa di tutto per tener pulito.»

Infatti il letto aveva le federe e la coperta candidissime.

Vidi sul cassettone dei libri: ah! i Promessi sposi; i Racconti di Giulio Carcano; quelli del Thouar per i fanciulli: la Storia Patria del Ricotti e il Vangelo del Barni...

— «I nostri libri di scuola» disse. «Si ricorda, signora Conny?»

— «Perchè mi dici signora? non siamo compagne?»

— «Sì: ma lei è sempre la figliola di don Emanuele, ed io del calzolaio. Non insista: è giusto ch’ella dia del tu a me, ed io del lei... a lei... Io le voglio bene ugualmente, sa?» e sorrise arrossendo.

— «Brava: allora mi contento.»

— «Scusi — mi disse — giacchè ella è così buona con me, le vorrei chiedere un favore. So che il Thouar ha scritto degli altri racconti, dei racconti popolari: uno deve essere intitolato Le Tessitore, se non isbaglio...»

— «Li vuoi?» [p. 33 modifica]

— «Oh, se me li volesse prestare, mi farebbe un gran piacere! Sono degli anni che ho questo desiderio!»

Degli anni! e ci voleva così poco a soddisfarla, poverina!

— «Te li mando giù subito: infatti sono bellissimi» le dissi.

— «E morali:» ella aggiunse seria. «Ora mi pare che non ne scrivano più di quei libri così buoni. Le ragazze leggono certi romanzi che scaldano il sangue e rovinano il cuore. Per noi povera gente ci vogliono storie di poveri, storie di buoni, per darci un po’ di coraggio a sopportare lo nostre miserie.»

Poi si mise a ridere. «Veda che stupida sono mai! A volte mi figuro di scrivere io un libro!...» ma si interruppe. — «Li ha visti?» mi dimandò indicendomi due ritratti appiccicati al muro, l’uno accanto all’altro.

Guardai: oh! il Manzoni e il suo amico Rossari!

— «Si ricorda» mi disse «quando il povero professor Rossari veniva a visitare le scuole? Com’era buono! come parlava, povero vecchietto! Io ho una sua lettera; lo sa?»

No: non lo sapevo: la pregai di farmela vedere.

Ella aperse un cassetto: prese una scatola di torrone, e ne levò una lettera. Oh sì; era la sua scrittura minuta, tremante, ma chiara.

— «Mio buon Moscerino» diceva la lettera — «lasci [p. 34 modifica]che la chiami anch’io come la chiamano le sue compagne,» e la lodava de’ suoi profitti nello studio, e le diceva che il sapere è un conforto nella vita, qualunque sia la posizione nella società.

La fruttaiola mormorò: «Aveva proprio ragione!» Io riposi quella lettera nella sua scatola di torrone e abbracciai «il mio buon Moscerino.»

Ella immobile, mi lasciò fare, ma poi tutta commossa sollevò il bambino e gli disse: «Dà un bacio alla signora per me.» E i labbruzzi umidi del piccino si posarono sulla mia guancia e scoccarono un gran bacio.

Uscii da quella bottega col viso rosso, e portando nel cuore una contentezza che non avevo mai provato.

I miei cugini, dietro i vetri, ridevano. Io dissi tra me: «poveri grulli!» E credo che in quel momento avrei avuto il coraggio di dirglielo anche sul viso.

Mi accolsero tutti — meno la zia che s’era chiusa in un silenzio pieno di disprezzo — con un gran chiasso.

— «Ah, ah! racconta! racconta!» E Filippo mi condusse vicino a una poltrona.

Io mi sedetti, mi soffiai il naso, tossii, poi dissi: «Non racconto niente! perchè non voglio che si rida di quel che per me è commovente.» E mi alzai.

— «Ha avuto una disillusione» mormorò Carletto.

In quella annunciarono che era in tavola. Mio cugino mi offerse il braccio. — «Scusami» gli dissi, «c’è miss Jane.»

E lo piantai. [p. 35 modifica]


NN
on so perché quella sera, a tavola, fui tanto allegra: credo anzi d’aver fatto dello spirito, perchè mio cugino si occupò di me e si degnò di mostrarmi il suo.

— «Hai fatto un gran mutamento, Conny!» mi disse.

— «Ho un lungo strascico: non hai veduto? E poi questa pettinatura mi dà un carattere serio, non è vero?»

— «Serio! non me ne sono accorto,» mi rispose ridendo, e aggiunse piano:

— «Mi sono accorto però che sei diventata una bella signorina.»

«Ah, ah! e poi?... ho una passione per i complimenti, lo sai! Dimmene un altro, Carletto, ti prego.»

— «Che tu dici spesso delle cose serie, profonde [p. 36 modifica]ma con una cert’aria birichina, e quella tua parola a scoppiettii... che è originalissima!»

— «Davvero! è dunque per questo forse, che quando dico una mia opinione, mi rispondono: Ah! ah! ma non mi dicono mai: Brava! tu hai ragione!»

Dopo pranzo, sdraiato sul sofà là di contro a me Carletto mi guardava con insistenza attraverso il fumo della sigaretta; con tanta insistenza ch’io saltavo d’inquietitudine sulla seggiola. A un tratto, stufa, mi alzai, e andai a piantarmegli dinanzi dicendo: «A che specie d’animali appartengo?»

— «Uh!» esclamarono tutti.

— «Ma Conny!» disse ridendo il babbo.

— «Shoking! Shoking!» esclamò tra i denti miss Jane arrossendo.

— «Sei un originale! ecco cosa sei!» esclamò mio cugino prendendomi tutte e due le mani. Io mi svincolai. — «Non pensi che queste mani hanno strette quello della fruttaiola?»

— «Oh! e non te le sei lavate dopo?» mi domandò, e si fiutò le sue mani bianche e profumate.

— «Ah! guarda cosa faccio io invece!» e mi baciai le mie.

La zia aveva un’aria desolata: l’Elisa arricciò il suo naso petulante e lasciò sfuggire, con un sorriso di compassione, il fumo della sigaretta, che avvolse il suo bel visino. «Oh, le esagerazioni!» mormorò.

— «Quando Carletto smetterà le sue, io smetterò [p. 37 modifica]le mie!» risposi, e mi sedetti, pigliando di sul tavolino la Perseveranza.

Mio cugino si alzò e venne a levarmela di mano. «Manda Giacomo giù in istrada a comperare il Secolo» disse.

— «Oh Carletto, no! esclamai afferrandogli la mano che teneva il giornale. «Vedi! non ci intendiamo! Io non mi vergogno d’essere nobile: sono fiera anzi, della mia nobiltà, tanto più che il babbo sa tener così alto il nome della sua famiglia e lo rende due volte nobile.

Professo in fatto di politica — se è permesso a una signorina d’aver un’opinione — le idee del babbo; ma questo non vuol dire che io debba vergognarmi d’aver frequentato le scuole pubbliche, e di salutare le mie compagne, perchè sono figlie di bottegai.

I partiti esclusivi, lo dice anche il babbo, sono quasi sempre ingiusti, perchè le cose di questo mondo sono così confuse che spesso le più cattive hanno un lato buono e le buone qualche difetto...»

Ma che sciocca, non è vero? volevo persuader lui, il più aristocratico di tutti i giovanotti di Milano, lui che aveva sempre trattato le mie idee con tanto disprezzo!

Ma perchè non mi rispondeva? e mi guardava fisso in quel modo strano che mi toglie il respiro? Quegli occhi sono troppo belli: quello sguardo par che entri fin nell’anima...

Parlai ancora, ma non so che cosa dissi: a un [p. 38 modifica]tratto, per cercar di liberarmi da quell’oppressione, diedi in una risata.

— «Ah! ah! ha ragione l’Elisa, ti pare? Una fanciulla più pedante e pesante di me non c’è in tutta Milano!»

Egli si volse a cercar una seggiolina bassa e venne a sedersi davanti a me: aveva in tutta la fisonomia un’aria grave che non gli avevo mai veduto.

— «Sai» mi disse lentamente e a voce sommessa «che tu confonderesti l’uomo più eloquente e spiritoso del mondo?»

— «Ah, davvero? il che vuol dire, in altre parole, che ho confuso il mio signor cugino Gian Carlo dei marchesi***!... Oh, non c’è bisogno di ringraziamenti: non ho fatto che interpretare la tua frase.»

— «Sei terribile!»

— «Sì?»

— «E terribilmente bella.»

— «Ah, questo!..» e mi sentii offesa davvero.

Egli mi sporse uno specchietto che aveva in un taschino. — «Guarda che occhi!» Mi guardai: erano grandi e ombreggiati dalle ciglia nerissime e lunghe... ma erano grigi!

— «Occhi di gatto!» esclamai.

— «Sono gli occhi più brillanti, più fieri, più profondi, più reveux... C’è tutto qui dentro!»

E mi guardava fisso fisso. Aveva i gomiti sulle ginocchia e colle mani arrotolava una sigaretta: ne [p. 39 modifica]sono ben sicura: pure, quando disse quel: «qui dentro!» provai una sensazione strana, come se una sua mano si fosse posata sui miei occhi, e senza volerlo le mie palpebre si chiusero e mi tirai indietro.

— «Oh, ti prego, Carletto!... sai che mi sono odiosi i complimenti.» E mi alzai.

— «Oh, ti prego, Conny, sai che tuo cugino dice sempre, e solo, quello che pensa: e che quando c’è stato l’occasione, non ha fatto complimenti con te...»

Era vero, ma risposi invece: — «Non so niente, io! quello che so è che tu sei un giovanotto brillante e blasè, di quelli a cui non si può credere.» E corsi ridendo a sedermi vicino all’Elisa.

— «Questa è troppo forte!» esclamò, e mi seguì col suo pliant.

— «Birichina! Fuori! una confessione! Che cosa pensi di me?»

— «Probabilmente quello che pensano tutte le altre signore» rispose sorridendo l’Elisa.

— «Ma sai che la Conny...»

— «È uno spirito di contraddizione» interruppi io. «Abbi dunque misericordia di te»

— «Oh parla pure! son preparato a tutto. So già che la Conny si lascia sempre trasportare dalla passione... ella che crede d’essere la più ragionevole e calma signorina del mondo! Oh, non spalancar gli occhi a quel modo!...» e mi prese le mani. «È un fatto che tu decidi alla prima occhiata che il tale è buono a nulla o è buono a tutto.» [p. 40 modifica]

— «Ma no!» esclamai sorpresa.

— «Oh, di’ che non è vero, se ne hai il coraggio!» aggiunse l’Elisa, ridendo di quel suo riso squillante di bambina. «... Lo dico ve’, a Gian Carlo!... Senti: ella non ha ancora, si può dire, avvicinato un giovane, e non li conosce che nei romanzi, ma ha già dichiarato che siete tutti degli sciocchi... ah, ah! dei piccoli spiriti vuoti di tutto fuorchè di amor proprio; che non v’occupate che di frivolezze, ecc. ecc.! Ma ti pare?!» e rise ancora.

Io ero diventata di fuoco: mi pigliò una grande stizza non so perchè.

— «Si; è vero, è vero!» esclamai.

— «E lo dici con tanta serietà?» rispose Carletto «Ah, ah! la donnina forte! la fanciulla superiore!... quella che detesta i partiti esclusivi! Eccola che giudica di un colpo e dà le sue sentenze più delle signore a cui ella rimprovera la maldicenza. Zitto! lasciami finire... Donna Conny non riflette...»

— «Non è vero.»

— «Non riflette su tutte le circostanze e non capisce che il più delle volte, quel che la colpisce come cattivo, in fondo non è che imprudente o irriflessivo: non è che un’apparenza, ma...»

— «Gian Carlo ha ragione.»

Mi voltai spaventata. Era Filippo che lo aveva detto: Filippo che mi guardava attento, appoggiato alla spalliera della poltrona di sua moglie. [p. 41 modifica]

— «Che! mio marito che dà torto alla Conny?» esclamò con un sorriso l’Elisa, sollevando il suo visino rosa.

— «E ragione a me! questa è più strana ancora!» aggiunse ridendo Carletto.

— «Ma va avanti» disse Filippo «ero curioso di sentire che cosa volevi dire con quel ma

— «Che ma? Davvero non so più che cosa stavo dicendo.»

— «Se non ho capito male, volevi dire alla Conny che quel che la abbaglia e desta la sua ammirazione, non ha spesso altro movente che qualche desiderio ambizioso o cattivo, e tende a un brutto fine. Non volevi dir questo?»

— «Veramente volevo dire il contrario, ma fa lo stesso,» rispose Carletto con un’aria seccata.

Io ero confusa, credo per la prima volta; non sapevo più come rispondere e l’avevo con Carletto: sopratutto con que’ suoi occhi che mi guardavano sempre.

— «Conny! ti sei lasciata sopraffare?» mi dimandò sorpreso Filippo.

Io feci segno di no, e mi prese un colpo di tosse.

— «Vedete» dissi poi ridendo. «Ci avevo qui tanto dispetto che ho dovuto tossire, se no mi soffocava. Ora è passato. Dunque? parlo chiaro anch’io? È verissimo che non vedevo in voi altri, profumati ed eleganti, che tanti ragazzi leggeri e vuoti.»

Ma perchè Carletto sorrise con tanta dolcezza? [p. 42 modifica]

— «Vedevo!» esclamò Filippo. «È già un gran passo! Gian Carlo, ringraziala!»

— «Che! ho detto vedevo? No, no: vedo! vedo!» e abbassai lo sguardo con un sorriso di compassione a quel colletto scollato, giù giù, fino alla calza di seta azzurra e alla scarpetta lucida.

— «Che petulante!» esclamò Carletto con un sorriso: ma in verità, punto sul serio.

— «Tu non puoi negare» gli dissi «che la maggior parte de’ tuoi compagni sono dei poveri grulli. Li ho visti e li ho sentiti abbastanza, anche quelli che passano per giovani di spirito. Guarda il Sanmarano, per esempio...»

L’Elisa spalancò tanto d’occhi.

— «Vorresti dire che non è simpatico? che è un grullo, lui!» esclamò.

— «Oh, è allegro, lo ammetto» risposi tranquilla «È disinvolto: è l’anima della società: quando lui non c’è, la serata è morta. Manca il direttore del cotillon e delle quadriglie: mancano i calembours... non è vero, Elisa?»

— «Sei insopportabile, Conny, questa sera!» disse ella, indispettita sul serio.

Suo marito rideva.

— «Già! hai imparato da Filippo a far l’originale per progetto!... Ma che cosa te ne pare, Gian Carlo? Trovar da ridire persino sul Sanmarano che è uno dei giovani più ammodo della nostra società!» [p. 43 modifica]

— «Ammodo!» esclamai. «Che! ci vuol così poco per essere ammodo al giorno d’oggi? Basta dunque allungarsi con indolenza sul canapè; mandar in aria con grazia il fumo della sigaretta... accavallar le gambe e mettere in mostra la scarpetta lucida e la calza di seta?»

In quella vidi dondolare davanti a me il piede di Carletto, e tacqui arrossendo. Ma egli mi disse con quel suo bellissimo sorriso: «Avanti, avanti, Conny!»

— «Ho finito» risposi.

— «Ma che!» esclamò Filippo. «Hai dimenticato che un giovane ammodo deve avere anche certe risatine improvvise, e certi improvvisi silenzi che turbano e fanno pensare; e parlar a spizzico, a enimmi, a giuochi di parole... e la sua parola deve scoppiettare e scintillare come un razzo...»

— «Ma Filippo, Filippo!» supplicò l’Elisa.

— «.... di un fuoco d’artificio. Un giovane serio e timido che si siede ritto su una sedia e dice una frase piena di buonsenso, quello non è ammodo! e vi fa l’effetto d’una doccia d’acqua gelata; non è forse vero Elisa?»

Io battei le mani ridendo. Mia cugina si alzò indignata: Carletto, con una gamba sopra l’altra, si dondolava mandando in aria con grazia il fumo della sigaretta.

— È un orrore,» esclamò l’Elisa. «Credete di far dello spirito, e non capite che vi rendete ridicoli col [p. 44 modifica]vostro puritanismo. È un’affettazione!... Dammi un po’ di fuoco, Carletto...» e si chinò su lui ad accendere la sigaretta. «Di un giovane disinvolto e spigliato che accavalla le gambe perchè così gli piace, e non va a cercare se sia o no una sconvenienza, voi me ne avete fatto uno sciocco tutto affettazioni e pose! Dio mio! ora non si bada più a certe stupide etichette!»

Carletto rideva con indolenza.

— «Mi piace di vedere con che calore te la pigli! Si direbbe che tu sia un giovane ammodo. Impara da me, cara Elisa: non vedi come sono tranquillo? Ho visto partire la sassata e sono rimasto fermo al mio posto.»

Filippo andò nell’altro angolo della sala a discorrere con miss Jane.

— «M’ha fatto dispetto, ecco!» continuò l’Elisa stizzita come una bambina. «Per me, lo confesso, un giovane come il suo giovane ammodo mi piace! Lo trovo franco, svelto: sono sicura che il suo carattere è pieno di slancio e di sincerità. Mi par che tutti dovrebbero essere così in questi tempi di libertà e di progresso. Sbaglio? ma davvero mi fa quell’effetto: e un giovane come quella doccia di Filippo...!»

— «Ah, ah! quella doccia!» esclamò Carletto.» Non t’è parso di veder il Rinaldi col suo fare stecchito?»

— «È vero!» rispose l’Elisa. «Conny, ammetterai almeno che il Rinaldi è terribilmente pesante!» [p. 45 modifica]

— «Ha però un bel carattere» dissi.

— «Che cosa importa? Quando non sa essere gentile nè rendersi piacevole?»

— «Oh, mi pare che sia un gentiluomo perfetto, Elisa. Per me t’assicuro che preferisco mille volte il conte Rinaldi al Sanmarano. Col Sanmarano ci si diverte forse, ma non interessa punto. Nel suo discorso c’entra sempre l’io! e questo benedetto io, dice e fa le più strane cose. Gli succedono tutte le avventure più strane; sa sempre tutte le novità più palpitanti, come dice la zia; inventa tutti i calembours più spiritosi. È un uomo fortunato, via.»

Carletto si mise a ridere: «Non gli si può negare però» disse «che non abbia un’immaginazione fervidissima e una loquacità sorprendente. Ma hai ragione: spesso quelle storielle hanno già visto una generazione e parecchie edizioni del Buonumore per tutti

— «Già; ma chi, anche sapendolo, avrebbe il coraggio di dirlo a quell’amabile chiacchierone che diverte tanto tutto il resto della compagnia? Il coraggio di smentire una buona azione si ha; ma quello di svergognare uno sciocco orgoglioso...»

L’Elisa, allungata in una poltrona, disse con un’aria stanca: «Come si capisce, Conny, che stai molto con mio marito! Hai preso tutto il suo fare di predicatore...»

— «Davvero? me ne vanto!» esclamai allegramente, e corsi a fare il the. [p. 46 modifica]

In quella Carletto si alzò, dicendo che aveva un appuntamento al Club, e salutò tutti: poi si avvicinò a me, ch’ero ritta accanto alla tavola, poco lontana dall’uscio.

— «Non pigli una tazza di the?» gli dissi.

— «Grazie; no,» mi rispose serio, troppo serio; e mi stese la mano senza parlare, guardandomi negli occhi, fisso, con un’espressione strana.

— «Buona sera» dissi un po’ confusa.

Egli si inchinò, fece un passo verso l’uscio, poi tornò; mi prese di nuovo la mano e disse a voce bassa, serio, quasi severo:

— «Conny, tu sei ancora una bambina. Non t’offendere... Aspetta a giudicare la società: vivi ancora un pochino. Di qui a qualche anno ci riparleremo: allora le tue teorie saranno meno contraddicenti: allora mi dirai che i partiti esclusivi sono ingiusti, ma mi mostrerai anche col fatto che sai quello che dici. Allora ti sarai persuasa, cara Conny, che a questo mondo non c’è nessuno che sia buono sotto tutti i rapporti, nè completamente cattivo. Credimi: serietà e leggerezza sono confuse più o meno insieme, e spesso in una persona lo più grandi e belle qualità sono ecclissate da mille piccoli difetti e da debolezze puerili... qualche volta. Mi credi?...»

Io tentai di parlare, ma non ci riuscii: un senso indefinito di soggezione mi invase tutta. Soggezione! di mio cugino Carletto! a cui avevo parlato con tanta arditezza, e che avevo guardato anche un momento prima con tanto disprezzo! [p. 47 modifica]

No, no: sollevai la testa, sorrisi: ma le labbra mi tremavano e non potei staccare gli occhi dalla sua cravatta.

— Mi credi?» ripetè con quella sua voce lenta, sommessa e dolce.

Il suo alito caldo mi passava sulla fronte: la sua mano morbida stringeva la mia. Un brivido mi corse da capo a piedi.

— Sì, sì! mi pareva che mi si ripetesse in fondo all’anima. Ma alzai gli occhi, li fissai in quelli di lui...

— «No» risposi, e risi: ma la risata mi si strozzò in gola.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Quando presentai la tazza di the a Filippo, non lo guardai: ma sentivo fissi su me que’ suoi occhi rotondi e sporgenti.

— «Conny, lascia che veda,» mi disse.

— «Che cosa?» dimandai alzando la testa.

— «Ho già, visto» mi rispose.

— «Ma che? non capisco, Filippo.»

— «Il primo sintomo di una malattia: ma non mi spavento: sei robusta, sei forte. Son di quelle malattie che risanano una costituzione come la tua.»

Tentai di ridere. — «Ma se sto benone! l’assicuro!»

— «Davvero? sei proprio la Conny di cinque minuti fa? calma, allegra...»

— «Ma sì; Filippo! sono sempre la sua donnina forte!» E sollevai il viso: ma vidi nello specchio di contro ch’esso era pallido di inquietudine. [p. 48 modifica]


LL
a sera di Santo Stefano, l’Elisa doveva passare colla carrozza a prendermi per andare alla Scala. Perchè ero così inquieta? e mi occupavo tanto di quella benedetta camelia bianca che mi faceva un corno sulla testa? Non ero io la Conny? la famosa Conny che ha suscitato, — me lo ha detto la zia — una discussione in casa T*** per decidere se sia coquette o ingenua: se nel suo modo di vestire semplice e severo ci sia dello studio e una posa di classicismo, o invece mancanza di vanità?

Davvero che se dovessi rispondere io, sarei un pochino imbarazzata. Vanità! Che cos’è? Mi par che in questo caso s’intenda un puerile orgoglio; il desiderio di piacere, non per il cuore e per l’intelligenza, ma per la bellezza. Che brutta cosa! che sentimento piccino, Dio mio! No, no, io non sono vanitosa. [p. 49 modifica]

Quando mi vesto io non penso agli altri: non faccio che accontentare il mio occhio; e siccome a me piacciono i contorni decisi, le linee nette, non ho mai sopra di me nè tulle, nè nastri. Certe testoline tutte a fiori, a spilloni, mi han qualcosa di raffazzonato, di non ben definito che — sono un originale? — mi fa dubitare del carattere della signora. È barocco infine, e il barocco in arte non mi piace.

Sentii una scampanellata.

— «Here is» e Miss Jane mi buttò sulle spalle il mantello.

Sull’uscio mi incontrai in Carletto; perchè arrossii? come sono sciocca!

— «Addio, Conny» mi disse respirando a fatica, per la corsa fatta su per le scale; il suo viso era pallido e negli occhi grandi, castani e profondi, v’era un velo di tristezza. È un fatto che egli è uno dei più bei giovani ch’io conosca: in quella sera la sua testa piccola e bionda, risaltava stupendamente su quel largo bavero di martoro.

Mi offerse il braccio senza parlare e scendemmo...

— «Sei troppo gentile — dissi tentando di dar alla mia voce un tono d’ironia. «Incomodarsi per una signorina!»

Egli si volse a guardarmi, poi posò la mano sulla mia ch’era appoggiata al suo braccio, e disse con un suono di voce che mi turbò:

— «Conny; io mi sono riconciliato colla signorina; [p. 50 modifica]ora tu, buona e intelligente, non devi ostinarti, per puntiglio, nella tua... via! nella tua antipatia per il giovane... ammodo...» Ma in quella la vocina allegra dell’Elisa lo interruppe.

— «Siete qui? che cosa hai detto, Conny?»

— «Non è strano...?» continuò mentre salivo in carrozza «Gian Carlo che di solito se ne sta al Martini ad aspettarci, e viene, per compiacenza, all’atrio del teatro quando ci vede arrivare...» e rideva.

Sprofondata nell’angolo oscuro della carrozza, io vedevo brillare davanti a me gli occhi di Carletto che cercavano i miei.

Si entrò in teatro: lo spettacolo era già incominciato e la musica assorbì tutta la mia attenzione: non vedevo e non sentivo altro, nemmeno le chiacchiere incessanti di mia cugina.

Quando l’atto finì, battei le mani.

— «Cara Conny, non è ammodo lo star così attente allo spettacolo e applaudire» disse l’Elisa, e volle sorridere.

— «Lo so; ma sai che io al vostro ammodo non bado. Sono venuta in teatro per Don Carlo, non...»

— «Per Don Carletto?» dimandò il conte Rinaldi con la sua imperturbabile serietà, e si alzò per salutarmi. Non l’avevo veduto nè sentito entrare.

Mia cugina rise: e Carletto mi guardò con un espressione seria. Io arrossii, ma dissi stendendo la mano al Rinaldi. «Non per don Carletto.» [p. 51 modifica]

Ma in quel punto mi sentii fissata e mi volsi istintivamente.

Era una signorina nel palco di casa Verri, che mi guardava: ma abbassò subito il canocchiale e due grandi occhi neri si fissarono ne’ miei con un’epressione cupa, dolorosa, e nello stesso tempo fredda, che mi strinse il cuore.

Era bruna, pallida, bellissima: aveva un vestito di tibet bianco, accollato, senz’altro ornamento che una crocetta d’oro. Mi domandai perchè aveva quella posizione strana: mi pareva che colle spalle si puntasse allo schienale della sedia: il suo seno si sollevava e s’abbassava, e le mani, che tenevano stretto il cannocchiale posato sulle ginocchia, e quelle braccia allungate, parevano rigide come di marmo.

— «Carletto» dissi «Chi c’è nel palco dei Verri...?

— «Non li conosco» — mi rispose senza guardare, e avviò un discorso col Rinaldi.

Mia cugina guardò.

— «Ma come, Gian Carlo! è la Clara de Lami con sua madre e suo fratello.»

— «Ah! è vero! disse lui.» Non l’avevo riconosciuta.»

— «Ha un’espressione antipatica: c’è qualcosa di maligno in quegli occhi scuri, nevvero Rinaldi?» — dimandò l’Elisa.

— «Non mi pare,» rispose serio.

— «Che sguardo freddo e altero gira intorno! dissi [p. 52 modifica]io.» Par che dica: Mi degno!... Ma nello stesso tempo più la guardo, e più mi piace. Sai che effetto mi fa? che abbia un gran dolore e che voglia nasconderlo.»

Carletto si alzò ridendo. «Badate Rinaldi! mia cugina vede romanzi dappertutto. Dimandatele che cosa pensa di voi: Sentirete che intreccio!» S’inchinò e aggiunse: — Se permettete vado a far una visitina a donna Giulia,» e uscì ridendo sempre.

Sul viso lungo e sbiadito del conte Rinaldi non apparve un sorriso: e disse lentamente e con serietà: — «Questa volta io credo che donna Conny si sbagli di poco. La signorina De Lami pare anche a me una bella statua del dolore.»

— «Ah, ah! mi fate ridere! esclamò l’Elisa allegramente.» Peccato che Gian Carlo sia andato via: lui vi può dire come è simpatica la vostra signorina De Lami! E poi bisogna essere ciechi, caro Rinaldi. Mi par che glielo si veda chiaro negli occhi che anima cattiva ella ha. Gian Carlo mi diceva che di tutte le cose ella vede subito il lato brutto o cattivo, e se non lo vede, lo cerca, e trovatolo par che ne goda!...

«Guarda Conny, come è pettinata male la Mary!... Dunque dicevo che piglia tutto in cattiva parte e vede in ogni azione un secondo fine: insomma è invidiosa, permalosa e sofistica, peggio di una vecchia zitellona.»

— «Ella la conosce intimamente, contessa? dimandò il Rinaldi.

— «La vedo oggi per la seconda volta: ma mio [p. 53 modifica]fratello è amico del giovane De Lami, il famoso velocipedista...»

— «E ha frequentato molto la casa della signorina, questo lo so,» replicò Rinaldi.

Davvero che quel suo tono di voce sempre uguale e quel suo viso freddo e immobile, cominciava a irritare anche me.

Elisa mi diede un’occhiata che voleva dire:

— «Dio mio: com’è pedante!»

— «Senta, contessa, — egli continuò «Che sia irritata contro qualcuno che le abbia fatto la corte e poi...»

— «La corte! O chi volete che le faccia la corte, Dio mio!» esclamò ella ridendo.

— «Elisa! come sei terribile!» dissi io. «Oh, lasciamelo dire: sei terribile e ingiusta. Povera signorina! Tu hai detto che è sofistica? invidiosa? maligna? Guarda! ed io invece sono sicura che è buona e che soffre.»

— «Grazie!» mi rispose risentita.

— «Soffrire di che?» aggiunse poi tentando di sorridere.

— «Non lo so: è certo un suo segreto, e nè io nè voi dobbiamo cercar di saperlo...»

Ma entrò il tenente Alfieri e il Rinaldi venne a sedersi vicino a me.

Incominciò il secondo atto, e i miei occhi si fissarono sulla scena: ma per quanto mi sforzassi, non riuscii [p. 54 modifica]a concentrare la mia attenzione nella musica. Vedevo laggiù, quel viso pallido e severo della signorina De Lami, e poi fra mia cugina e il tenente s’era intavolata una di quelle conversazioni leggiere, maldicenti e pettegole che mi seccano tanto e mi metton sottosopra i nervi.

Mi par una viltà indegna di persone che pretendono di essere educate e oneste. Mia cugina è di quelle che giudicano in bene o in male, secondo quello che sente raccontare o riferire in società, fra un piccolo gruppo di conoscenti, e non pensa che quasi sempre il male che si dice è una calunnia o per lo meno un’esagerazione.

Io mi misi a discorrere col conte Rinaldi. Egli non è punto bello, è vero: è troppo alto è troppo angoloso. La sua lunga figura, quando appare nel vano di un uscio, mi par un ritratto antico nella sua cornice: e non so perchè quando l’ho vicino mi par di sentire quell’odore di carte vecchie e di muffa che c’è nella nostra biblioteca di campagna.

Io credo ch’egli viva fuori di questo mondo: in un mondo tutto ideale. È un originale, e forse, anzi, certo per questo, mi piace.

Parla poco e lento, ma la sua parola è però sempre gentile, convincente e utile, come la chiama ridendo l’Elisa.

È letterato e archeologo, e scrive qualche volta dei serii articoli sulla Nuova Antologia, che tutte le signore [p. 55 modifica]leggono, ma non capiscono, ma di cui, naturalmente, gli fanno le congratulazioni o gli elogi più intelligenti.

Prima che lo spettacolo finisse, mia cugina si alzò.

— «Aspetta un momento,» disse Carletto ch’era rientrato in quel punto. «Conny desidera certo di rimanere sino alla fine.»

— «Oh, no, andiamo, andiamo pure» risposi.

Avevo, non so perchè, un gran peso sul cuore e una gran voglia di trovarmi fuori per respirare liberamente.

Mentre Carletto mi metteva sulle spalle il mantello, vidi che nel palco di casa Verri non c’era più nessuno.

— «Vorrei incontrarmi sulle scale con lei,» pensai, e uscimmo.

Arrivate nel corridoio della prima fila, vidi venire verso di noi una signorina alta, che portava la testa con fierezza, e dietro a lei una signora attempata che camminava adagio, sostenuta da un giovinotto.

Mio cugino, che mi dava il braccio, si fermò bruscamente e si voltò a dimandare a sua sorella se voleva passare dal Cova a prendere un the.

Io guardavo la famiglia De Lami. Vidi il giovane rialzare la testa, e il lampo orgoglioso de’ suoi grandi occhi neri passare sopra le nostre teste come una palla di fucile. La signorina ci passò dinanzi e scese lentamente, cogli occhi fissi innanzi a sè: bianca e fredda come una statua di marmo. [p. 56 modifica]

— «L’ha veduta?» mi disse piano il conte Rinaldi.

— «Sì:» risposi. «Ma forse hanno ragione i miei cugini. C’è in lei qualcosa che allontana. Non le pare?»

Perchè mi guardò in quel modo, attonito, fisso, e le sue labbra si agitarono senza che ne uscisse una parola?

Carletto chiacchierava col tenente e con l’Elisa, ma sentivo il suo braccio avvicinarsi sempre più al suo petto, e mi pareva di sentire battere il suo cuore sotto la mia mano.

Mi invase un senso indefinibile di piacere e di sgomento: le idee mi turbinavano: il cuore mi batteva con violenza. Non sentivo e non vedevo più nulla.

Si arrivò alla carrozza: mia cugina salì, ed io dopo di lei.

— «Ma dove hai la testa, Conny» mi disse.

«Non senti che il Rinaldi ti saluta?»

Io sporsi la mano dallo sportello: e soltanto quando me la sentii stretta dalla mano lunga e magra del conte, mi riscossi, e mi risvegliai come se avessi sognato.


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NN
on ho mai capito perchè mai il conte Filippo abbia sposata mia cugina Elisa. Lui ha cinquant’anni e lei trenta: lui è brutto e lei bellissima. Lui ama... veramente non so che cosa ami: fa insomma una vita quieta, regolata: la casa e il Cova; il Cova e la casa: la Perseveranza e la Revue des deux Mondes, la Revue' e la Perseveranza, e sempre così. Cioè, mi dimenticavo di mettere, dopo il Cova, la mia poltroncina rossa.

Lei è elegantissima, vivacissima, e per star bene — dico — ha bisogno di moto, di visite, di teatri e di balli.

Credo che marito e moglie non si vedano che a pranzo. Ma è ammodo anche questo, lo sapete.

Dunque Filippo viene spesso da me: sopratutto quando il babbo è a Roma. Egli... ah! eccolo trovato [p. 58 modifica]che cosa ama! Ama me: in un modo un po’ brusco, ma che, forse appunto per questo, mi piace, mi commove, e mi ispira tutta la fiducia.

Credo che abbia ragione l’Elisa: un po’ del mio carattere... via, sincero: e del mio faro franco l’ho preso da lui. Il mondo lo conosco perchè lui me l’ha descritto, e siccome lui è molto scettico, io... ma voi sapete già come la penso io.

Filippo dice che non c’è nessun angolo di salotto più simpatico e comodo del mio: ed io quasi ogni sera gli facevo la sorpresa di una nuova comodità: oggi era il tavolino da fumare accanto alla sua poltroncina rossa: domani era un paralume.

Le prime volte quasi si offendeva; mi diceva che lo volevo viziare: che lui voleva servir me e non esser servito: che lui è de’ tempi passati e non vuol mutare, e che allora era una villania il fumar sul viso alle signore e lo sdraiarsi nelle poltrone...

— «Non soffri, Conny? Miss Jane soffrite?...» domanda ogni sera.

— «No, no,» gli diciamo noi.

— «Allora, se permettete...»

Io gli dico:

— «Si figuri!»

E lui: «Grazie.» Si inchina, e fuma un mezzo zigaro avana.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Da due settimane non lo vedevo. Una mattina, [p. 59 modifica]verso mezzogiorno, egli entrò nel mio salotto: io mi ero appena alzata, perchè avevo ballato tutta la notte in casa S***. Non so perchè rimasi così confusa a vederlo, e non trovavo modo di avviar un discorso. Egli fece i suoi inchini, forse con maggior gravità del solito: aspettò che gli dicessi di sedersi, ringraziò, si sedette e mi fece i suoi complimenti per il furoreche avevo destato in casa S***. Glielo aveva detto sua moglie, e un amico che aveva trovato quella mattina al Cova.

Ma ad un tratto mi domandò:

— «Sei in collera, Conny?»

— «In collera! no:» risposi; «perchè dovrei essere in collera?» e sorrisi.

— «Davvero?... È però molto tempo che non ci vediamo: lo sai?» E si chinò per guardarmi negli occhi. Perchè io non li alzai? e non gli lasciai leggere che cosa passava nel mio sguardo?

— «Senti, cara ragazza: parliamo un pochino sul serio, eh?»

— «Che? abbiamo forse finora parlato per ridere?»

Egli mi prese una mano:

— «Conny, Conny: non tentar di scherzare quando non ne hai la voglia! Tu non sei buona di fingere. Mi vuoi ascoltare?»

— «Ma si figuri!»

Vi fu un momento di silenzio. [p. 60 modifica]

— «Conny — disse finalmente «il tuo babbo è lontano, ed io mi credo quasi in dovere di pigliare il suo posto: io, il solo, ricordatelo! il solo e vero amico che tu abbia. Oh, ti prego, non buttarti anche tu in quella vita leggera che ha per iscopo la toeletta e le feste. È un pericolo, sai? Una donna è raro che si conservi buona in società. Si vede ammirata, corteggiata, e finisce a concentrar tutto in sè, a non occuparsi che di sè, e la sua mente si rappiccinisce e il suo cuore si raffredda.»

— «Oh, a me pare che saprò essere sempre buona, Filippo!» dissi.

— «Eh, eh! sicura come sarai di piacere, non penserai ad amare. La tua bellezza e i tuoi successi ti terranno luogo di tutte le gioie più sante e più care!»

Io sollevai la testa: tutto il sangue m’era salito al viso.

— «Filippo!» dissi con una voce che tremava di sdegno e di dolore. «La mia vita tranquilla fra il babbo e lei, in mezzo ai miei libri, è stata troppo bella perchè io vi voglia rinunciare. Voi mi avete detto e ripetuto troppo che sono buona, che sono colta, che sono una donnina forte, perchè io lo possa dimenticare, per il piacere di sentirmi dire che sono bella! Lei poi, Filippo, ha fatto di tutto per istillar dentro qui delle idee sode e serie, e un briciolo di quel bonsenso che in tanti casi della vita val più anche dell’ingegno... Filippo, Filippo! se c’è una persona [p. 61 modifica]che non deve dubitare di me, è lei!» Singhiozzai, e mi copersi il viso colle mani dando in uno scoppio di pianto.

Vi fu un lungo silenzio: poi la mano larga di Filippo passò e ripassò sulla mia testa: e finalmente mi disse con la voce tremante:

— «Guarda, figliola! non puoi credere che piacere è per me questo tuo scoppio di sdegno. Mi fidavo di te: sapevo che nessuno al mondo avrebbe potuto mutare quel tuo cuore così lealmente buono: ma avevo bisogno che tu me lo dicessi: e se t’ho offesa è stato per provocare questo sfogo più che per altro, Conny. Per te io metterei la mano sul fuoco: ma non vorrei che tu, per esser buona, dovessi soffrire, e far sacrifici. Vorrei vederti amata come lo meriti, da un uomo serio, buono, che conoscesse tutta la tua anima come la conosciamo tuo padre ed io... Tu, cara Conny, col tuo spirito d’osservazione e la tua superiorità, riesci sempre a scoprire tutte le debolezze delle persone che ti circondano: ma sei ancora troppo giovine, e il tuo cuore è troppo buono e la tua mente troppo serena, perchè tu possa nemmeno sospettare certe colpe e certe ipocrisie. Povera la mia donnina! tu mi guardi spaventata... Oh, ma verrà pur troppo il giorno in cui conoscerai che cos’è la società, e diventerai scettica anche tu.»

Si alzò. Io singhiozzai.

— «Le mie parole ti han fatto male, figliola» [p. 62 modifica]mi disse accarezzandomi i capelli: «ma ti faranno pensare, ed è quello ch’io voglio. Non t’ho detto tutto, ma tu capirai anche quello che ho taciuto... Oh, credi! è bene che una parola seria venga a scotere in mezzo agli svaghi e alle emozioni dei giorni felici...»

Quando alzai la testa ero sola nel mio salotto.

Provai come uno spavento... «Oh sì: è bene: ma è però doloroso!» esclamai con un singhiozzo.


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UU
n’ora dopo entrò mia cugina. — Buon giorno Conny, come stai? Sei stanca? Dio mio! che freddo!» e tirò una poltrona vicino alla bocca del calorifero, e vi si rannicchiò mettendosi il manicotto sul viso.

— «Sono venuta a piedi, lo sai? Che gelo!» e picchiava i piedini sul pavimento. «Pensa! il mio cocchiere stanotte s’è pigliato un raffreddore! Dica quel che vuole mio marito, ma un cocchiere che ha il petto delicato più di una signora io non me lo tengo!»

— «Gli hai detto di venire a prenderci alle tre e invece noi siam rimaste fino alle sei. Ne avrà certo pigliato del freddo!» dissi io.

— «Ma a quest’ora dovrebbe essere abituato. Non si va a fare il cocchiere quando non si può sopportarlo. Ma vuoi ridere, Conny?... Figurati che Filippo [p. 64 modifica]avrebbe voluto che mettesse la pelliccia come il servitore! Pensa! Il cocchiere che è stato là sotto la pioggia tutte quelle ore: Dio sa come l’avrebbe conciata! O tutti e due o nessuno; — mi diceva. Lui non pensa che il servitore deve venir nell’anticamera ad accompagnarci e a prenderci. Che bella figura avrebbe fatto senza pelliccia, là in mezzo alle stupende pellegrine di martoro di casa T*** e di casa P***!»

— «Ah! ma vedi, Elisa! Filippo ha delle ingenuità strane: lui credeva che le pelliccie fossero fatte per tener caldo, e che il cocchiere, che doveva star di fuori tre ore ad otto gradi sotto lo zero ne avesse bisogno più del servitore...»

L’Elisa mi guardava con un’aria desolata. «Oh, Conny! ti prego....» supplicò colla sua voce dolce di bambina. «Non ridiventare quella brutta e antipatica Conny di una volta!» e balzò in piedi, e mi buttò un braccio al collo.

Io risi e la baciai sulla punta del suo nasino che pareva si fosse voltata in su allora allora, per guardarmi anch’essa e dirmi: «Sono carina, non è vero?»

— «Elisa, tu mi hai affascinata: finirai col farmi diventare una donnina indolente... e poco seria come te!»

— «Poco seria!» esclamò scandolezzata «Conny! come sei cattiva! Vedi, mi vuoi far credere che sono io che t’ho affascinata! ma sei invece tu, più alta, più istruita, e, via! più seria di me, che colle tue lunghe dita mi avvoltoli e mi fai girare e mi strappazzi come [p. 65 modifica]ti piace. Oh, non ti guardo più, va!» E tornò a sedersi nella sua poltroncina coi piedi contro la bocca della stufa.

Io pigliai una seggiola e mi sedetti dietro di lei, voltandole le spalle.

— «Eppure — dissi calma calma — «Scommetterei qualunque cosa che ora tu mi fai attaccar i cavalli per forza, e mi conduci dove tu vuoi.»

Una risatina allegra e un colpetto della sua testolina contro la mia, accolse le mie parole: poi ella arrovesciò le braccia e mi prese le due orecchie.

— «Ah, ah! Sei la più furba, la più intelligente creatura del mondo! Sei un tesoro, ecco!»

— «Grazie, grazie! ma mi fai male!»

Ella rideva ch’era un piacere a sentirla, poi si volse, si inginocchiò sulla sua poltroncina e mi arrovesciò la testa.

«Li fai attaccare, non è vero?» mi chiese con una voce supplichevole.

— «Che cosa?»

— «I cavalli. Sì, sì! falli attaccare; e poi andiamo insieme a far tre o quattro visite che so già di non trovare; poi andiamo sui bastioni. Metti il tuo vestitino certo: dopo scendiamo e facciamo un giro a piedi. Va bene? Conny! dimmi di sì, dunque!»

— «E s’io volessi dir di no?»

— «Non sei buona.»

— «Eppure...» [p. 66 modifica]

— «Oh Conny, Conny! non essere scortese!» e mi stampò un gran bacio sulla fronte.

Chi avrebbe resistito?

Ordinai che attaccassero. Mentre mi vestivo, l’Elisa, seduta alla mia toeletta, si accomodava il cappellino.

— «Sai? — diceva — «la mamma stamattina è venuta a trovarmi. Era ansiosa di sapere com’era andata la festa: aveva però già incontrato l’Antonietta e sapeva già di quel cotillon così poco spiritoso. Le ho detto dell’orribile abito dell’Emma! N’è rimasta sorpresa anche lei... Ti pare che mi stia bene questo berretto, Conny?... Senti: le ho detto del tuo successone: ne è stata felicissima: se non isbaglio s’è riconciliata con te. Non te ne sei accorta?»

Io stavo per rispondere, ma ella continuò. — «Ah, ah! sai? Gian Carlo voleva sapere dove si andasse; non voleva dirglielo: finii col dargli ad intendere che si andava sui bastioni nell’ora che non c’è nessuno, poi si sarebbe finite al Cova a mangiare un africano. Ma scommetto che riesce a trovarci ugualmente quel matto: vedrai!»

— «Conny!» — mi dimandò a un tratto mentre si strappava un pelo che le spunta ostinato da una piccola lente, e arricciava il nasino per il dolore.

— «Ahi! che peccato! mi s’è rotto senza strapparsi: Senti dunque... Che cosa ti dicevo?»

— «Nulla.»

— «Ma sì: ti ho domandato se ti piace mio fratello.» [p. 67 modifica]

Feci per ridere, ma non ci riuscii.

— «Che domanda originale!» dissi.

— «Oh Dio mio! che cosa c’è? Ti fa la corte, tutti se ne sono accorti: e niente di più naturale che egli ti sia simpatico. Che occhi non è vero? e poi quei denti! È tutto bello!... Ma che creatura fredda, Dio mio! mi fai stizza, Conny! Di’ dunque, ti piace?»

— «Non so.»

— «Non lo sai?!» e picchiò il piedino sul pavimento con stizza. «Non lo meriti davvero. Se non credessi di dargli un dispiacere, glielo direi, guarda!»

— «Ah! ah! dispiacere?» e misi in furia il velo sul viso perchè ella non potesse vedere come avevo arrossito.

— «Ma sì; non ho mai visto mio fratello così entusiasta di una signorina. Una volta non si degnava nemmeno di guardarle... Oh ecco un altro pelo! qua! ma t’assicuro, Conny, che mi vien la barba!»

Diedi in una risata più rumorosa e prolungata di quel che fosse necessario, sperando di concentrare tutta la sua attenzione nella barba.

— «Dirò a Filippo di far un baraccone in Piazza Castello e di farti vedere al pubblico. Avanti, signori! qui si vede una donna non mai vista! che ha la barba vera come un uomo! A chi non vuol credere è permesso tirarla!»

Eravamo già in carrozza e si rideva ancora come due bambine.


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SS
i andò a far tre visite: cioè, a lasciare i biglietti perchè nessuno era in casa. La quarta c’era: era la Contessa Giuseppina *** ch’io amo tanto.

Entrammo quasi insieme a una bella signora elegantissima, grassotta, con un viso aperto e due grandi occhi chiari, pieni di sincerità e di allegria.

— «Chi è?» dimandai all’Elisa.

— «Non so» mi rispose: e visto che non è più di moda far le presentazioni, dovetti tenermi la mia curiosità.

Esaurito il discorso del teatro, del ballo di casa S.** e della serata musicale di casa T***, quella signora disse: — «Hai sentito, Giuseppina, della povera Clara?»

— «Ma sì: pensa che colpo è stato per me! non sapevo che fosse ammalata. Ieri piglio il giornale, vedo [p. 69 modifica]questa striscia nera... guardo! Clara De-Lami! Era proprio lei!»

— «De-Lami?! esclamai: e mi sentii diventar pallida. «Elisa! non è quella signorina cogli occhioni neri, pallida, che ho veduta in teatro la sera di Santo Stefano?»

— «Nel palco di casa Verri? Sì: quella appunto» mi rispose la signora.

— «Poveretta! pensi, a ventidue anni!»

— «Mi rincresce quasi d’averla conosciuta!» disse l’Elisa.

— «Ed io invece, guarda! — esclamai — Vorrei averla conosciuta di più.» Ma non era strano? non l’avevo veduto che una volta e mi sentivo soffocare d’emozione come se avessi perduta un’amica.

— «Oh era simpatica!» disse donna Giuseppina. «Buona come un angelo! così dolce e gentile sempre!»

— «Ma se tu l’avessi vista in casa» esclamò la signora. «Soffocava le lagrime, si faceva forte, e sorrideva alla sua povera mamma e a suo fratello. Ma quand’era sola, o in mezzo ad estranei, il cuore le voleva scoppiare, e qualche volta il dolore era più forte di lei!»

— «Ma perchè? — » dimandò timidamente la padrona di casa. «È dunque proprio vero?»

Io guardai l’Elisa come a dire: «ti ricordi di quel che ho detto quella sera?»

— «Ma che cosa è stato?» dimandò ella con curiosità. [p. 70 modifica]

— «Ah, non lo sanno? ma oramai è una cosa conosciuta... E poi glielo si vedeva negli occhi: quegli occhi che scintillavano come se avesse la febbre, e avevano certi lampi! Ah, signorina!...» esclamò volgendosi a me. «Stia in guardia lei! Badi che c’è un vuoto, una leggerezza nei giovani del giorno d’oggi che fa spavento!»

— «Ma racconti, chi è il giovane?» dimandò colla sua insistente curiosità mia cugina.

— «Il giovane? è un bel giovane, signora. Uno dei più simpatici della nostra nobiltà! l’enfant gáté delle signore, a cui tutti fanno festa, che tutti cercano e vogliono. E mi dicono che non s’è mai dato per inteso del dolore di Clara. Sempre allegro, disinvolto e spiritoso. Oh, ma vorrei vedere oggi dentro in quel cuore io! Che rimorso, le pare?»

— «Ma, è poi proprio vero che le abbia fatto la corte?» dimandò mia cugina con indolenza: e mi volsi a guardarla perchè mi parve che la sua voce tremasse. Perchè?

— «Ma come! cara signora, — rispose con un leggiero tono di ironia. — «Si figuri che anche la mamma del signorino aveva fatto tutte le feste alla fanciulla e aveva parlato chiaro a sua madre... perchè sapeva che c’era un milioncino di dote: non per altro, si figuri! L’assicuro io che non è una signora che transiga facilmente sulla mancanza di nobiltà. Ma un milioncino! Le pare?!...» [p. 71 modifica]

— «Fa troppo caldo qui dentro, nevvero?» disse donna Giuseppina alzandosi, e andò a chiudere la bocca della stufa. L’Elisa si alzò anch’ella e andò a guardare dei ritratti che c’erano su un tavolino. — «Che stupendo bambino!» esclamò, e si mise a chiacchierare di bimbi e di abitini eleganti con la padrona di casa.

La signora si volse a me.

— «Si figuri, signorina, che il giovane aveva fatta alla fanciulla la sua dichiarazione chiara e tonda, e che la signora De-Lami lo sapeva e ne era felice, e non aspettava che il momento buono per combinare le nozze... E lei, la Clara, povera Clara! gli voleva tutto il suo bene ed era beata. Ma un bel giorno, che cosa succede?... Succede che la banca fallisce, i De-Lami ci perdono: la dote va in fumo ed il marchese Gian Carlo scompare!»

Mi aggrappai con una mano al bracciolo della poltrona... «È orribile!» mormorai con una voce soffocata.

— «Eh? che cosa le pare? Si mette in prigione un uomo che ruba un fazzoletto o che falsifica un biglietto: ma un uomo così, dica! un uomo che fa morire di dolore una povera fanciulla e getta nella desolazione tutta una famiglia...!»

In quella la padrona di casa si voltò: le risatine allegre dell’Elisa non le avevano lasciato sentire che la signora mi aveva parlato.

Si avvicinò a noi, e disse: «Non ho fatto la presentazione: la contessa Elisa di*** che, sai, è figliola [p. 72 modifica]della marchesa***; e sua cugina, donna Conny***» Poi disse a noi: «La signora Gemmi, una delle mie più buone amiche.» E sorrise, respirando più liberamente, ma non capì che non era arrivata in tempo.

La signora Gemmi mi fissò co’ suoi grandi occhi pieni di sorpresa e di inquietudine, disse ancora qualche parola, poi si alzò. Nel salutarmi mi strinse forte la mano, guardandomi fisso, poi mi disse con una voce piena di bontà, e quasi commossa. «Cara signorina, permetta che la baci.» E mi abbracciò stretto.

Non so come io sia uscita di là: so che mi trovai in carrozza cogli occhi sbarrati senza guardar nulla. I polsi mi battevano: le orecchie mi sibilavano: mi pareva che qualche cosa si fosse spezzato in me.

Una risatina dell’Elisa mi fece trasalire.

— «Ah, ah! se si dovesse credere a tutte le chiacchiere che si fanno in società, si starebbe freschi! T’ha ella detto ancora qualche altra cosa?... Ma come sei pallida, Conny, che cos’hai?... Dunque non t’è parsa stupida quella signora... come si chiama? non mi ricordo più: dev’essere la moglie di un bottegaio arricchito: lo scommetterei! M’ha fatto ridere davvero! Muore una ragazza? bisogna subito dire che è morta per amore! e già è più poetico che di dire: è morta di tifo o di gastrica, oppure di indigestione.»

Un dolore intenso, improvviso al cuore, mi tolse il respiro e mi fece chiudere gli occhi.

L’Elisa mi afferrò una mano, spaventata. [p. 73 modifica]

— «Ma Conny! non capisco! non la conoscevi nemmeno questa Clara e sei turbata come se... Ah! brava! mi avevi spaventata!.. Senti dunque, cara: tu ti sgomenti di tutto: mi fai ridere... Tu che dicevi di conoscere il mondo meglio di chiunque altra!... Ma credi tu forse che il giovine che tu sposerai — chiunque sia — non avrà prima fatto la corte a questa o a quella? Cosa c’è di male? pretendi forse che facciano una vita di monaco? Non sarebbe certo un piacere, cara mia, se tutti gli uomini fossero tanti Filippi, o tanti conti Rinaldi... t’assicuro io!

— «Ma già, ha ragione mio fratello...»

— «Che cosa dice?» domandai con un filo di voce a cui volli dare un tono fermo.

— «Dice.... cioè, diceva che le signorine sono delle povere grulle: perchè pigliate sul serio la cortesia più comune, e come una dichiarazione di amore una parola gentile. Vedete subito grande il doppio ogni cosa...»

In quella la carrozza si fermò: eravamo sui bastioni.

— «Che c’è?» dimandò l’Elisa...

— «Il marchese» rispose il domestico. E apparve la figura elegante e bella di mio cugino, che si affacciò allo sportello della carrozza.

Il suo volto era raggiante di allegrezza.

— «Ah, ah! vi ho preso! Ma che cos’hai, Conny? ti senti male!... Che cosa è accaduto?» disse spaventato, e tutta la sua fisonomia si rannuvolò. [p. 74 modifica]

Mi pareva d’essere impietrita: immobile nel fondo della carrozza, cogli occhi fissi in quelli di lui, avrei voluto penetrare collo sguardo fino in fondo alla sua anima.

Egli passò dalla mia parte, e mi prese le mani; io le ritirai con ispavento: no! dissi con una voce rauca.

— «Ma che cos’hai? Conny! parla, oh parla! Mi vuoi far morire?!..» Il suo viso era coperto di pallore.

— «Scendiamo! scendiamo! disse con impazienza l’Elisa saltando a terra.

— «Egli ha qui il phaiton, nevvero? — dissi — Potresti tornare a casa con lui.

— «Conny.... scendi.... ti prego!» Perchè quella voce esercitava su me un fascino così irresistibile? Perchè mi lasciai prendere le mani? e scesi di carrozza e lasciai che mi guardasse con amore, e mi dicesse con quella sua voce sommessa e dolce che mi fa tremare: «Grazie!»

Era una giornata fredda e nebbiosa dei primi di febbraio: non c’era anima viva sui bastioni.

L’Elisa volle passare sul viale che guarda giù nella strada di circonvallazione per vedere il tramway. Io camminavo come trasognata: Carletto mi prese la mano... un brivido mi corse dalla testa ai piedi... se la posò sul suo braccio. Egli rispondeva a tutte le domando curiose di sua sorella; e il suo braccio si stringeva sempre più al suo petto, come quella sera di Santo Stefano. [p. 75 modifica]

Si arrivò sul ponte del passaggio Principe Umberto: nessuno parlava; poco lontano scalpitavano i nostri cavalli: gli omnibus e le vetture passavano rumorosamente sotto di noi e nella stazione fischiavano e sbuffavano le locomotive. Tutto questo mi rimbombava nella testa dolorosamente.

Carletto si appoggiò alla sbarra del ponte, e mise una mano sulla mia perchè non la ritirassi; poi rivolse il viso verso di me, ch’ero rimasta ritta e immobile accanto a lui.

I suoi occhi pieni d’amore si fissarono nella mia pupilla ardente.

Oh, no, no! non volevo guardarlo, non volevo essere guardata a quel modo! Mi parve di veder rizzarsi accanto a noi, cogli occhi neri e cupi la povera Clara, e mi sfuggì un grido d’angoscia.

— «Carletto, no no! ti odio!»

— «Conny! ma Conny! abbi pietà di me!... ti adoro!»

E le sue labbra di fuoco si posarono sul polso gelato della mia mano.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·

Non so cosa sia accaduto.

Mi ricordo solo, come in un sogno, che ero in carrozza e che mia cugina parlava parlava, e che io ascoltavo ma non capivo: e che due cavalli ci rasentarono come un fulmine: ed io pensai: perchè i miei cavalli non corrono? e mi prese un’ansietà, un’inquie[p. 76 modifica]tudine affannosa, e avrei voluto precipitarmi giù, e correre a casa a piedi, sola! Finalmente la carrozza entrò in casa: scesi e dissi al servitore:

— «Riconducete la signora Contessa a casa sua,» ed io salii lentamente la scala; entrai in casa, apersi l’uscio del mio salotto e trasalii.

Egli era lì, ritto davanti a me, pallido e serio.

Si inchinò e mi stese tutte e due le mani.

Io m’appoggiai colle spalle al muro: non avevo più un filo di forza nè di fiato.

— «Conny... sono qui: dimmi perchè mi odii. Io ti dirò poi, perchè ti adoro.»

Io mi copersi il viso colle mani e singhiozzai senza piangere.

— Oh, non posso, Carletto!... non posso! è una cosa così orribile!... Morirei se la dicessi! Va, va! per amor di Dio!... Abbi pietà di te stesso se non vuoi averla di me... Va! ti risparmio una vergogna!» e rialzai la testa con disprezzo.

L’uscio si aperse e entrò miss Jane che si fermò cogli occhi spalancati di spavento, credo per il mio viso stravolto.

Io le andai incontro. Ella mi disse: «Don Emanuele è arrivato, lo sapete? m’ha fatto chiamare nello studio perchè venissi a dirvi che desidera di parlarvi.»

«Mi volsi: dissi: «Addio, Gian Carlo.» Egli si inchinò e uscì.


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EE
ra uscito: partito per sempre: lui! l’unico uomo che mi aveva parlato d’amore: lui che mi adorava! Avevo io il diritto di condannare lui o me al dolore, senza una spiegazione, senza lasciargli modo di giustificarsi?... Dio! Dio! che cosa avevo fatto? In società si raccontano tante cose punto vere. Non poteva la signora Gemmi avere sbagliato di nome, o forse inventata quella storiella?... Mi lasciai cadere sul sofà, piangendo di disperazione. Chi mi salvava, ora? Nessuno: nessuno avrebbe potuto restituirmi il suo amore, perchè io lo avevo insultato! e un uomo come lui non perdona un insulto!

«Miss Conny, che cosa avete?» mi domandò miss Jane piangendo.

— «Nulla: sono una pazza: ecco cosa sono!» e mi alzai, mi asciugai il viso, e mi guardai nello specchio. [p. 78 modifica]

— «Avete detto che è arrivato il babbo?»

— «Sì: e vi cercava.»

Ella corse a pigliare il fiocchetto della cipria: me lo passò sugli occhi e fece scomparire la traccia delle lagrime.

— «Ecco, miss Conny: potete andare.»

Entrai nello studio del babbo, ma mi fermai sulla soglia dell’uscio.

Egli non era solo: ritto accanto a lui, davanti al camino, c’era il conte Rinaldi. Era la prima volta che lo vedevo nella nostra casa: egli era là ritto, impettito e pallido come sempre.

Il babbo mi venne incontro: io gli buttai le braccia al collo e lo baciai con una commozione e una tenerezza tutta nuova: e anch’egli m’accarezzò e mi baciò commosso, come se leggesse nella mia anima desolata. Ma poi il suo viso si illuminò di gioia.

Mi prese per mano e mi disse con un sorriso:

— «Nevvero, Conny, che ho ragione? Dicevo al conte Rinaldi che tu non hai bisogno di pensare un giorno su quel che devi fare. Che tu senti prontamente e vivamente, e l’impressione diventa in te opinione o sentimento che non si muta mai, in eterno.»

Io lo ascoltava trasognata.

— «Conny: il conte Rinaldi è venuto a prendermi a Roma: siamo ritornati un’ora fa insieme. Egli è venuto a chiedermi se la signorina vorrebbe...»

Credo che ne’ miei occhi sia apparso come uno spavento perchè il babbo s’arrestò, guardandomi inquieto. [p. 79 modifica]

Lui, — il conte, — ritto dietro una seggiola, colle mani aggrappate alla spalliera, mi guardava col suo viso di marmo.

— «Vuoi essere, Conny, moglie del conte Rinaldi che t’ama tanto?» disse lentamente il babbo stringendomi con agitazione la mano.

Io guardai lui, guardai il conte, e la testa mi si abbassò sul petto quasi con vergogna, e gli occhi mi si empirono di lagrime.

— «Conny,» ripetè la voce ansiosa del babbo.

Io rialzai finalmente la testa.

— «Mi ama, babbo?» chiesi con un filo di voce.

— «Sì: ti ama con tutta la sua anima grande e leale, nevvero Rinaldi?»

Il conte non rispose: il suo viso era contratto d’emozione: nel suo sguardo passava un’angoscia senza nome!

— «Lui! — esclamai con un singhiozzo. — «Così bravo e buono! lui... Perchè deve amar me...? oh, babbo, vorrei poterlo amare... anch’io!»

Non volevo piangere: volevo restar forte: dir tante cose a lui, poveretto, che soffriva.

Sentivo fisso su me il suo sguardo pieno d’ansietà e di desolazione... Finalmente volsi il viso verso di lui, lo guardai, gli corsi vicino e gli stesi le mani.

— «Oh, dite che non mi amate!» e barcollai: egli mi sostenne: sentii che mi deponeva su una poltrona... sentii le suo labbra sfiorare la mia mano... e quando riapersi gli occhi egli non c’era più.


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rano passati due giorni: la zia e l’Elisa avevano chiesto di vedermi, ma io non mi chiusi in camera dicendo che avevo il mal di capo, Filippo non era mai venuto. Sapevo che la zia aveva avuto dei lunghi e vivaci colloqui col babbo, ma egli non mi diceva nulla, ed io, che il primo giorno gli avevo promesso di parlargli, ora non ne trovavo più il coraggio.

Era domenica, e uscii con lui per andare alla Messa. Sulla bottega della fruttaiola c’era il bambino; mi fermai a baciarlo. Era un pezzo che non lo salutavo più... ora voleva tornare a tutte le abitudini di una volta.

— «Dove andiamo, babbo? non a San...... ve’! c’è uno sfoggio di cappellini eleganti, e di libri da messa colle cifre... non ci si prega bene.»

— «Dove vuoi andare?»

— «In cerca di qualche chiesina fuor di mano: [p. 81 modifica]dove non ci sia che qualche povera donnetta, e dove il prete abbia una pianeta scolorita da cui escano i fili d’oro, eh?»

Il babbo rise, poi passò il mio braccio sotto il suo e disse, incamminandosi a passo lesto verso il corso di Porta Venezia:

— «Brava la mia Conny: torna allegra come una volta: e intanto che siamo soli... vuoi tu dirmi quel che mi avevi promesso? Vuoi tu spiegarmi...»

Si rannuvolò, e la sua voce divenne seria quando aggiunse:

— «È stato per me un gran dolore — non te lo posso nascondere — che tu abbia rifiutato la mano del Rinaldi; mi pareva il giovane fatto per te: ma forse ha ragione mia sorella: è un giovane troppo vecchio. Tu sei espansiva, allegra, ardente, e hai bisogno di un uomo che, non solo ti voglia bene, ma te lo dica... Conny, non vuoi proprio confidarmi nulla?»

Io respiravo a fatica: avevo un nodo alla gola che m’impediva di parlare.

Si camminò un poco in silenzio: il corso era quasi deserto. Sperai che si entrasse nella chiesa di San Babila, ma invece si andò innanzi.

— «Conny: ieri sera sono andato da mia sorella: lo sai?»

— «No: non me lo avevi detto.»

— «Ho dovuto andar io... perchè c’era qualcuno, che non voleva venir da me.» [p. 82 modifica]

Mi sentii un colpo nel cuore. Perchè il babbo me ne parlava? Non capiva che soffrivo? Egli continuò:

— «Qualcuno che non vuol rimettere il piede nella nostra casa senza il permesso della signorina Conny: ma che ti prega, ti supplica, in nome di quello che hai di più caro, di dargli questo permesso: perchè egli vuole una spiegazione... di che? nè io nè sua madre siamo riusciti a saperlo. Dice che è un vostro segreto. Io mi fido di te, Conny... e di Carletto: per questo non ho insistito perchè tu parlassi.»

Io avevo messo il manicotto sulla bocca per soffocare i singhiozzi. — Dio mio! perchè mi diceva tutte quelle cose, lì nella strada, in mezzo alla gente? Non sentiva che mi trascinavo a fatica, e che il respiro mi si faceva sempre più pesante?

— «Conny: di’ la verità: vi amate: di questo non ne dubito: e vi siete bisticciati per qualche sciocchezza... e a quest’ora tu sei pentita, povera la mia bambina!... Dunque gli scrivo, eh? appena ritornati a casa, che la signora Conny permette al marchese Gian Carlo di venire a vederla. Che! piangi?»

Sì, piangevo: piangevo perchè avevo bisogno di sfogare tutto il dolore che mi aveva empito il cuore in quei giorni... ma quando finii di piangere, sollevai la testa, e sorrisi, perchè nel mio cuore non era rimasta che una gioia immensa che mi pareva un sogno!

Eravamo arrivati quasi a Porta Venezia.

— «Ma dove si va, babbo? Qui non ci son più [p. 83 modifica]chiese! Se fossimo ai tempi dei Promessi Sposi direi che si va alla chiesa de’ Cappuccini!»

Ma si svoltò in una via, chiusa in fondo dal bastione, in via Borghetto.

— «Vedi quella porticina a destra?...» mi disse il babbo. «Quella è una chiesina proprio come la vuoi tu: nuda e stretta. Vedrai che pulpito! par troppo piccolo per un uomo.»

In quella una voce allegra, ma che parlava un dialetto sguaiato, mi fece alzar la testa.

Una ragazza elegante, scendeva a salti dalla stradettina a zig-zag del bastione, e dietro a lei...

Sentii una bestemmia soffocata del babbo: e il suo braccio strinse il mio come per sostenermi.

... Tutti i miei nervi avevano sussultato con spasimo: ma fu un lampo: la testa mi si rizzò, e mi sembrò di essere diventata più alta, e che tutta la mia anima si fosse ad un tratto mutata.

Dietro a lei, scendeva, ridendo e chiacchierando, un bel giovane biondo, con un lungo paletò chiaro.

Ci vide, e il suo viso si coperse di pallore, poi diventò rosso come di fuoco: il mio sguardo tagliente come una lama gli deve essere penetrato fino in fondo al cuore.

Il babbo spinse la porticina della chiesa: io lo seguii, ma prima di richiuderla mi voltai.

La ragazza s’era appoggiata al braccio di lui: e mi passarono davanti: mio cugino si guardava la punta degli stivaletti. [p. 84 modifica]

— «Ciao, Conny!» gridò ad un tratto la fanciulla. Mi sentii un tuffo nel sangue, e la guardai cogli occhi scintillanti di sdegno e di ribrezzo.

Era la Lisetta; quella mia compagna di scuola di cui mi aveva parlato la fruttaiola.

Mi parve che mio cugino trasalisse stupito, e certo respinse il braccio di lei. Ma ella vi si aggrappò di nuovo dicendo forte:

— «Che stupida quella Conny! Siamo state compagne di scuola e finge di non conoscermi!»

La porta si richiuse dietro di me, e mi trovai in chiesa. Mi inginocchiai: i miei occhi erano fissi su una candela che ardeva sull’altare: e quella fiammella, agitandosi, mi pareva che s’allargasse e formasse delle grandi stelle che mi abbagliavano e mi stancavano: ma non pensai di guardar altrove.

Una povera donna, inginocchiata vicino a me, diceva al suo figliolo: «Di’: Buon Dio: beneditemi; fatemi diventare un bravo giovane, sincero e onesto.»

E nelle orecchie mi si ripeteva: «un bravo giovine sincero e onesto...» senza che riuscissi ad afferrarne il senso: solo mi si ripeteva nella mente questo pensiero:

— «L’ho amato! l’ho amato!» e mi chiusi il viso nelle mani con un senso doloroso di vergogna.


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uando arrivai sulla soglia del mio salottino mi passai una mano sulla fronte. Non mi pareva vero d’essere arrivata finalmente là; mi pareva un gran pezzo ch’ero assente da casa mia, che non vivevo la mia vita tranquilla e felice.

Filippo era seduto nella mia poltroncina rossa colla Revue fra le mani: si alzò serio e compassato, ma poi mi guardò, spalancò gli occhi e aperse le braccia. Io mi vi buttai singhiozzando.

— «Finalmente!» disse.

— «Ringrazia Iddio che ti sei svegliata in tempo... domani sarebbe stato troppo tardi...

— «Povera figliola! hai avuto il tuo momento di vertigine anche tu, forte e ragionevole. Era forse necessario; hai fatto la tua esperienza.» [p. 86 modifica]

Io m’aggrappai convulsivamente al suo collo.

— «Non è stato a tempo Filippo» — disse il babbo con una voce soffocata dall’emozione «l’altro giorno ha rifiutato Rinaldi.»

— «Rinaldi!» esclamò Filippo con sorpresa, e le sue braccia mi strinsero, quasi con un tremito «Era il mio sogno» mormorò.

— «L’unico uomo che ti meritava.»

— «Emanuele,» disse poi con una voce ferma e forte, «ti giuro che io ho fatto di tutto per evitare alla tua figliola questo dolore: ma non ho potuto! Nessuna donna sa resistere al fascino del suo sguardo: è lui stesso che lo ha detto una sera: l’ho sentito io, e so che ha fatto l’esperienza su parecchie signore della nostra società. Questa volta, è vero, aveva tutta la intenzione di finire al municipio: il mese scorso ha perduto al gioco non so quanto, e aveva bisogno di rifarsi...»

— «Abbia pietà di questa povera creatura!» gridò risentito il babbo.

— «Emanuele: non conosci la tua figliola! ella ha bisogno di veder chiaro in tutto, di non essere ingannata: nevvero Conny? Vedi, io mi ero detto: Conny è buona e seria. Conny conosce il mondo» e sorrise con amarezza.

«Conny, che ha letto i filosofi e i metafisici, analizza tutto, capisce tutto, e sa che cosa bisogna fare per resistere alle vanità e alle seduzioni di quella brutta bestiac[p. 87 modifica]cia che si chiama società. Conny ha vissuto finora in mezzo ai libri e ai vecchi, ma sa istintivamente quante leggerezze, quante slealtà e quante colpe si trovano nella giovane società: e saprà capire, studiare e rimaner sempre in alto, sopra a tutti, la donnina forte! Questo mi ero detto, cara figliola; e questo voleva dire: non c’è bisogno di metterla in guardia: non sa ancora che cosa sia l’amore, ma ella saprà distinguere il falso dal vero, il complimento dalla dichiarazione, la parola dal sentimento, la leggerezza dalla serietà.»

Tacque. Io tenevo il viso nascosto contro il suo petto e piangevo in silenzio. A un tratto rizzai la testa, mi guardai in giro, dissi: «Filippo, non ne parliamo più, la prego!» e gli stesi la mano: egli me la baciò e uscì.

— «Babbo, staremo sempre insieme! mi condurrai a Roma con te, non è vero?»

— «Sì: cara figliola:» e mi asciugò gli occhi, poi me li baciò con tenerezza.

L’indomani mi svegliai pallida ma calma. C’era nel mio sguardo una luce nuova, profonda, cupa, e un lampo pieno d’alterezza e qualche volta di sarcasmo che credo mi durerà tutta la vita.

FINE.