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In quella Carletto si alzò, dicendo che aveva un appuntamento al Club, e salutò tutti: poi si avvicinò a me, ch’ero ritta accanto alla tavola, poco lontana dall’uscio.
— «Non pigli una tazza di the?» gli dissi.
— «Grazie; no,» mi rispose serio, troppo serio; e mi stese la mano senza parlare, guardandomi negli occhi, fisso, con un’espressione strana.
— «Buona sera» dissi un po’ confusa.
Egli si inchinò, fece un passo verso l’uscio, poi tornò; mi prese di nuovo la mano e disse a voce bassa, serio, quasi severo:
— «Conny, tu sei ancora una bambina. Non t’offendere... Aspetta a giudicare la società: vivi ancora un pochino. Di qui a qualche anno ci riparleremo: allora le tue teorie saranno meno contraddicenti: allora mi dirai che i partiti esclusivi sono ingiusti, ma mi mostrerai anche col fatto che sai quello che dici. Allora ti sarai persuasa, cara Conny, che a questo mondo non c’è nessuno che sia buono sotto tutti i rapporti, nè completamente cattivo. Credimi: serietà e leggerezza sono confuse più o meno insieme, e spesso in una persona lo più grandi e belle qualità sono ecclissate da mille piccoli difetti e da debolezze puerili... qualche volta. Mi credi?...»
Io tentai di parlare, ma non ci riuscii: un senso indefinito di soggezione mi invase tutta. Soggezione! di mio cugino Carletto! a cui avevo parlato con tanta arditezza, e che avevo guardato anche un momento prima con tanto disprezzo!