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tratto, per cercar di liberarmi da quell’oppressione, diedi in una risata.
— «Ah! ah! ha ragione l’Elisa, ti pare? Una fanciulla più pedante e pesante di me non c’è in tutta Milano!»
Egli si volse a cercar una seggiolina bassa e venne a sedersi davanti a me: aveva in tutta la fisonomia un’aria grave che non gli avevo mai veduto.
— «Sai» mi disse lentamente e a voce sommessa «che tu confonderesti l’uomo più eloquente e spiritoso del mondo?»
— «Ah, davvero? il che vuol dire, in altre parole, che ho confuso il mio signor cugino Gian Carlo dei marchesi***!... Oh, non c’è bisogno di ringraziamenti: non ho fatto che interpretare la tua frase.»
— «Sei terribile!»
— «Sì?»
— «E terribilmente bella.»
— «Ah, questo!..» e mi sentii offesa davvero.
Egli mi sporse uno specchietto che aveva in un taschino. — «Guarda che occhi!» Mi guardai: erano grandi e ombreggiati dalle ciglia nerissime e lunghe... ma erano grigi!
— «Occhi di gatto!» esclamai.
— «Sono gli occhi più brillanti, più fieri, più profondi, più reveux... C’è tutto qui dentro!»
E mi guardava fisso fisso. Aveva i gomiti sulle ginocchia e colle mani arrotolava una sigaretta: ne