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Lui, — il conte, — ritto dietro una seggiola, colle mani aggrappate alla spalliera, mi guardava col suo viso di marmo.

— «Vuoi essere, Conny, moglie del conte Rinaldi che t’ama tanto?» disse lentamente il babbo stringendomi con agitazione la mano.

Io guardai lui, guardai il conte, e la testa mi si abbassò sul petto quasi con vergogna, e gli occhi mi si empirono di lagrime.

— «Conny,» ripetè la voce ansiosa del babbo.

Io rialzai finalmente la testa.

— «Mi ama, babbo?» chiesi con un filo di voce.

— «Sì: ti ama con tutta la sua anima grande e leale, nevvero Rinaldi?»

Il conte non rispose: il suo viso era contratto d’emozione: nel suo sguardo passava un’angoscia senza nome!

— «Lui! — esclamai con un singhiozzo. — «Così bravo e buono! lui... Perchè deve amar me...? oh, babbo, vorrei poterlo amare... anch’io!»

Non volevo piangere: volevo restar forte: dir tante cose a lui, poveretto, che soffriva.

Sentivo fisso su me il suo sguardo pieno d’ansietà e di desolazione... Finalmente volsi il viso verso di lui, lo guardai, gli corsi vicino e gli stesi le mani.

— «Oh, dite che non mi amate!» e barcollai: egli mi sostenne: sentii che mi deponeva su una poltrona... sentii le suo labbra sfiorare la mia mano... e quando iapersi gli occhi egli non c’era più.