Memorie (Da Ponte)/Parte seconda (1777-1792)
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PARTE SECONDA
(1777-1792)
Gorizia è una gentile, antica e nobile cittá del Friuli tedesco, situata sulle rive del Lisonzo e distante poche miglia (credo dodici) dal Friuli veneto. Vi arrivai il primo di settembre dell’anno 1777, prima cioè d’esser giunto al ventinovesimo della vita. Non conoscendo io alcuno in quella cittá, non avendo meco portato lettere per alcuno, andai a dirittura alla prima locanda che trovai, portando un fardelletto sotto il braccio, che conteneva parte di un abito, poca biancheria, un Orazietto (che portai con me piú di trenta anni, perdei poscia a Londra, e ritrovai qualche tempo fa a Filadelfia), un Dante con delle note fatte da me e un vecchio Petrarca. Questo equipaggio non ispaventò la locandiera. Appena entrai nella locanda mi venne incontra, mi diede un’occhiatina espressiva, che mi disse quanto poi nacque tra noi e mi menò in una buona camera.
Questa donna era molto bella, giovane, fresca, e parea sopra ogni creder vivace. Era vestita alla foggia tedesca: avea una cuffietta a trine d’oro sul capo; una collana di catenella finissima di Venezia le cingea almen trenta volte un collo ritondo e piú candido d’alabastro, e, scendendo in crescenti giri, cadeva fin al bel seno, che vezzosamente in parte copriva; un giubbetto ben attilato le stringea le tornite membra con lasciva eleganza ; ed una calzettina di seta, che terminava in due scarpette color di rosa, mostravan al cupido sguardo la forma ammirabile di un piccolissimo piede. Non erano ancora suonate le sei della sera; ma, come io non aveva preso tutto quel giorno che qualche bicchier di vino e un poco di pane, le chiesi da cena. Per mia disgrazia non parlava che tedesco o cragnolino, ed io non capia una parola di quello ch’ella diceva a me, né ella di quel ch’io a lei.
Cominciai a farle dei cenni colle mani, colla bocca, co’ denti, ch’ella prendeva, quanto mi parve, per complimenti amorosi. Io aveva un appetito che avrebbe divorato i sassi. Mentre m’affaticava cosi, per farle intendere che avrei voluto da mangiare, passò una servetta davanti alla porta della mia camera con un piatto di pollastri fritti, destinati per altri viaggiatori: me le scagliai addosso colla prestezza d’un gatto, ne presi un quarto, e me lo trangugiai in un momento. Io Io trovai tanto delizioso, che credo d’aver inghiottite anche le ossa. Capi allora quel ch’io volea, e in poco tempo vidi portarmi una cena esquisiia, resa piú dolce e piacevole dalla continua compagnia della leggiadra ostessina. Non potendo parlare, cercavamo capirci colle occhiate e colle gesticolazioni. Quando vcnner le frutta, cavò dalla tasca un coltellino colla lama d’argento, levò la buccia a una pera, ne tagliò la metá per me e mangiò l’altra metá; poi mi offri il coltellino ed io feci altrettanto. Bevve un bicchieretto di vino con me, e m’insegnò a dir «Gesundkcit» ; e da’ movimenti del bicchiere intesi che volea dirmi ch’io becssi alla sua salute, convella beeva alla mia. Come io non aveva proferito bene questa parola, me la fece ripetere dueo tre volte, e sempre empiendo e vuotando il bicchierctto di nuovo vino.
Non so se Bacco o qualche altra divinitá cominciasse a scaldarle un pochetto il sangue. Dopo due buone ore di simile conversazione, una tinta vivissima le coloriva le guance e le brillavan negli occhi le fiamme della voluttá : ella era divenuta una vera bellezza. Sorgeva dalla sua sedia, si contorceva, mi guardava, sospirava, tornava a sedere; tutto questo però alla presenza di due vaghe seiveiie. vestite aiia sua foggia, che ci avevano servito tutto il tempo della cena e di quella conversazione. Finalmente una di quelle parti, e dopo alcuni minuti la padrona fé’ cenno all’altra d’andarsenc, dicendole qualche cosa in tedesco, ch’io non capiva. In pochi istanti la servetta tornò: portolle un libro, e riparti Quando restammo soli, venne presso di me, e, cercando in quello alcune parole, vi mise dei pezzetti di carta e mi fe’ cenno di leggere. Era quel libro un dizionario, tedesco e italiano: a’ lochi indicati lessi queste tre parole: «lek liebe Si£» ; e trovai che significavano «Io amo voi». Come la seconda parte di quello era il dizionario italiano, cosi cercai la congiunzione «e» e le feci rileggere le stesse parole «und ich liebe Sie». La scenetta allora divenne graziosissima: conversammo almeno un’ora e mezzo coll’aiuto del dizionario, e ci dicemmo scambievolmente diverse cose che parevano dover finire assai seriamente. Fortunatamente arrivarono alla porta diverse carrozze: la bella locandiera fu contra sua voglia obbligata partire, ed io alfine rimasi solo. Mi posi allora a far delle riflessioni su questo bizzarro fatterello. — Come ò possibile — mi diceva 10 — che in un paese dove regna Maria Teresa, principessa tanto famosa per la severitá delle sue leggi, in un paese dove si fanno delle visite notturne, dove un forassero bisogna che dica con tanta solennitá, appena arrivato, di dove viene, dove va, che cosa fa, e dove è obbligato di dare in inscritto nome, cognome, patria, ecc. ccc. ecc.; in un paese, infine, dove i preti, i frati e le spie del governo hanno si grande influenza; coni’è possibile — dissi — che nelle locande vi sia una tal libertá, che può passare in un attimo al piú scandaloso libertinaggio? Contraddizioni in tutto, anche nei governi! — Mentre io stava immerso in questo pensiero, ecco l’ostessina tutta allegra, che torna in camera colle due ragazze medesime ch’avevano assistito alla cena. Portavano queste dei gelati e de’zuccherini, che per forza ho dovuto prendere con lei ^intanto una delle ragazze cominciò a cantare assai piacevolmente una canzonetta tedesca che cominciava: «Ich liebe cinen welschen Manti» (io amo un uomo italiano). Mentre costei cantava, mi ricordai di Calipso e di Leucotoe, e mi figurava in quella situazione di esser Telemaco. Terminata la canzonetta dalla ninfa tedesca, parli coll’altra servetta, ed io rimasi solo colla padrona novellamente. Intesi allora che io aveva bisogno d’un Mentore. Il cortese Morfeo fu il mio. Presi in mano il dizionario, e le feci veder la parola «sonno». Fu discretissima. Suonò 11 campanello, entrò una delle sue serve e l’ostessina con bellissimo garbo parti. La serva scoperse il letto, mostrommi dov’era l’acqua per lavarmi le mani e per bere, e si fermò con ridente volto presso di me. Io non intendeva questa cerimonia. Pensai che aspettasse la mancia; le offersi una moneta, ch’ella rifiutò con disdegno, ma, prendendomi con molta grazia la mano, v’impresse un bacio e lasciomnii. Tutta questa commediola, che non durò meno di cinque ore, mi diverti estremamente. Ma non poteva cacciare dalla mia testa i preti, i frati, Maria Teresa e tutto il suo codice penale; cose tutte di cui io aveva udito parlare come della santissima inquisizione di Spagna. Finalmente m’addormentai. Levatomi la mattina piú tardi del mio solito, trovai nella vicina camera una eccellente colazione e l’ostessa, che m’aspettava. Io aveva imparato ormai tutti i principali complimenti, per esempio «Buon giorno», «Come state?», «Avete dormito bene?». Ma nessun complimento a quella donna piaceva fuorché «lek liebe Sie». Dopo la colazione fu obbligata di lasciarmi, ed io, tornato nella mia camera, trovai due o tre donne che .n’aspettavano con delle cestelle piene di varie mcrcatanzie di ogni sorta, che vendevano per le taverne a’ forastieri. In due ore ne vennero almen venti.
Anche questa usanza mi parve assai strana: in un paese, ove con tanto rigore si vigilava sul buon costume, sotto il pretesto di vendere aghi, spille, fazzoletti, collane, nastri e simili bagattelle, era molto facile assai cose vendere, che nelle cestelle non trovatisi.
Passai dieci o dodici giorni nell’albergo di questa donna, ed, ora col dizionario, ora colla grammatica alla mano, facemmo quattro o cinque ore di conversazione ogni giorno, e quasi sempre suii argomento medesimo, e che sempre finivano con un «Ich hebe Sie». A capo di questi giorni m’accorsi di aver fatto un vocabolarbtto, quasi t> tto composto di parole e di frasi d’amore, e questo mi servi poi moltissimo nel corso delie mie giovenili conquiste in quella cittá ed altrove. M’accorsi però anche d un’altra cosuccia, a cui non ci aveva molto pensato prima: che la mia borsa, cioè, era quasi vuota; perché, sebbene io spendeva pochissimo in quella locanda, quel pochissimo aveva bastato ad esaurire il piú che pochissimo ch’io aveva portato meco in Gorizia. Quella buona femmina s’accorse del mio vicino imbarazzo, e, con una generositá poco comune a persone del suo mestiero, mi fece delle offerte che m’intenerirono db Ma io non ho mai conosciuto il mestiero di decimar le borse alle donne, che però hanno molte volte decimate le mie: presi perciò la risoluzione di lasciare la sua locanda. Restammo però buoni amici, ed io ho conservato per lei de’ sentimenti di sincera benevolenza e di stima fin ch’ella visse; il che fu pel solo spazio di sette mesi, al fine de’ quali mori, all’etá di ventidue anni, d’una febbre infiammatoria. Io diedi molte lagrime a quella bffla ed amabile giovine, che meritava esser, piú tosto che una locandiera, una principessa. Fu questa senza dubbio una delle migliori donne ch’io ho conosciuto in ottant’anni di vita. Forse se non moriva... Ma la morte fura i migliori e lascia stare i rei.
Cangiai dunque d’albergo, e pensai di riguadagnar colla lira quello ch’aveva speso in viaggi e in dodici giorni da me passati come Ruggiero e Rinaldo colle due belle maghe dell’Ariosto e del Tasso.
Essendosi fatta in que’giorni la pace di Teschen tra l’imperatrice e Federico di Prussia, mi venne in capo di scriver un’oda su quel soggetto e d’intitolarla La gara degli uccelli, alludendo allo stemma gentilizio de’ due sovrani. La dedicai al conte Guido Cobenzl, un de’ primari signori di Gorizia e della Germania e padre di quello che aveva maneggiata e condotta a fine quella pace. Ne publicherò qui alcuni versi, per dar un’idea d’un componimento, che fu la sorgente poi di quasi tutte le mie letterarie avventure in Germania.
Quel Pati gel, che a risse e a pugne sfidò giá gli augei piú fieri, e assali nibbi e sparvieri or col becco ed or coll’ugne; (i) Ella mi pose una sera sotto l’origliere una borsetta con alcune monete d’oro, «he io le restituii tta i baci e le lagrime! die i confin del natio nido dilatò per forza ed arte, tal che lama in ogni parte ne portò temuto il grido; si credea che, vinto e stanco dalle cure e piú dagli anni, di cercar lasciasse affanni per dar requie al vecchio fianco. Quando un di, vicino al fiume sacro all’aquila possente, quell’augello osò repente rotear le azzurre piume, e, con voci aspre d’orgoglio, dispiegar l’adunco artiglio, d’altrui sangue ancor vermiglio, e sfidarla fin dal soglio. Vòlta mai non ebbe l’alma degli augei la gran regina agli studi di rapina, ma a una bella e dolce calma. Ed allor nel saggio petto ravvolgea novi consigli r*r*T* Ir* rio! cori fírrlí I---* v **‘* **£>** e del regno a lei soggetto...
Portai quell’oda al Cobenzl, il quale m’accolse con grazia e cortesia somma, la lesse in presenza mia, e parve gradirla infinitamente. La fece stampare a sue spese e ne sparse moltissime copie per le piú illustri famiglie di quella cittá, ch’erano allora numerosissime. Si vuol leggere un’operetta del conte R. Coronini, intitolata Fasti goriziani , per formarsi un’idea della quantitá, antichitá e numero de’ personaggi illustri, di cui quel paesetto si gloria. Trovai, tra questi, molti mecenati, da’ quali, dopo que’ primi miei versi, fui ben accolto e onorato. Non posso ricordarmi, senza un vivo sentimento di riconoscenza, de’ nomi di Strasoldo. Lanthieri, Cobenzl, Attems, Tuns, Coronini e Torriani. Andavano tutti a gara nel compartirmi favori e benefizi. Non potrò mai lodare abbastanza la cortesia e la liberalitá di quegli illustri cavalieri. Amavano essi e me e i versi miei. La pietá, in quelli inspirata dalle mie vicende, gli animava a raddolcir per cento modi l’amarezza della mia sorte. Prevenivano generalmente i bisogni miei ; e lo facevano con tanta nobiltá e delicatezza, che il mio amor proprio non poteva per alcun modo arrossire. Felici que’ paesi in cui si trova abbondanza di tali abitatori! L’indigenza stessa diventa una fonte di beni per chi ha l’anima gentile e capace di sentir il piacere della gratitudine.
La dolcezza ch’io provava nelle loro beneficenze mi facea benedire sovente le mie passate disavventure, lo abitava in una povera cameretta, presa a pigione da me nella casa d’un mercatantuccio di grano. Eravamo ambidue molto poveri, indi ci accordavamo assai bene.
La semplicitá del mio tugurio non era però di alcun impedimento alle visite, che continuamente mi si facevano. Tutti gli amatori delle muse vollero conoscermi. Chi lo faceva per ammirare, chi forse per la speranza di trovare di che criticarmi. Un certo Colletti, che di caporale era diventato stampatore italiano, e che, sognato avendo d’esser poetr, soffrir non poteva gli applausi miei senza noia, disse un giorno pubblicamente ch’io non dovea esser l’autor di quella canzone sulla pace, giacché non aveva poi per diversi mesi alcun altro verso composto. Era stimolato costui dal pungiglione del cacoete poetico. Ogni giorno usciva qualche nuova lueubrazione della sua mal prolifica cornamusa: gli parca quindi impossibile ch’io avessi potuto tener la mia taciturna si lungo tempo, se stato fossi veramente poeta. Un altro stampatore di quella cittá’ 1 ), che (l) Il signor Valerio de’ Valeri. odiavalo mortalmente, e che l’aveva udito dire tal cosa di me, trovò la via d’essermi presentato a solo oggetto di farmene consapevole; sperava attizzarmi contra colui e pormi in una guerra poetica, che alfin l’umiliasse. Io risi da prima, e consigliai quel buon uomo a ridere anch’esso. Egli avea troppo calda d’ira l’irritabile fibra contra il rivai tipografico, per acquetarsi al consiglio mio. Continuò a farmi frequenti visite, intuonandomi sempre all’orecchio la stessa antifona; ma io non credea che un tal personaggio meritasse il mio risentimento.
Udendo questo Valerio ch’io era poco contento dell’oste mio, il quale aveva la brutta usanza d’ubbriacarsi e, quel ch’eia peggio, di batter, qunnd’era briaco, la moglie, di cui gelosissimo il vino rcndevalo, sebbene né bella fosse né giovine, mi offerse con bel garbo una stanza nella sua casa, e non ebbi coraggio di rifiutarla. Trattommi poi con tanta ospitalitá ed ami cizia, che mi credetti in dovere di far per lui tutto quello che in mio poter era di onestamente fare. Egli non domandava che versi, ed io non aveva altro da dargli. — Quando castigheremo — mi disse egli un giorno — quel pazzo fanatico? — Non era però Collctti solamente fanatico e pazzo. Accoppiava a un’ infinita ignoranza del vero gusto poetico e di tutte le cognizioni, che in un letterato richiedonsi, una vanitá ed una arroganza stomachevole. Era. oltre a ciò, bugiardo, adulatore, simulatore, invidioso, e copriva col velo d’una ipocrisia farisaica una straordinaria inclinazione al libertinaggio. Non cessava egli ad ogni occasione di sparlare di me dietro le spaile, mentre ini culicava in presenza mia d’ampullosissimi elogi. Non potendo un di trattenersi di chiedermi perché non cercava di stabilire la mia riputazione in Gorizia con qualche «produzione novella del mio fervido ingegno»; — Dirollovi in versi — gli risposi io. sorridendo; e, andato a casa, parendomi d’esser alquanto caldo dall’estro che in me destò quella bizzarra domanda, mi chiusi nella mia stanza, e scrissi quasi ex abruplo un ghiribizzo burlesco in ottava rima, cui diedi in dono la sera stessa al mio oste cortese, informandolo della graziosa scenetta accadutami la mattina con quel nostro amico. Non è possibile dipigner la gioia con cui accolse quel dono e il piacer che mostrommi nel leggerlo. Non era poeta, ma non era nemmeno privo di quel criterio, ch e necessario a discernere il buono dal cattivo. Io aveva toccate inoltre certe corde che solleticavano mirabilmente il suo orecchio. Non nominava alcuno in quei versi, ma tanto il Colletti che gli altri verseggiatori del suo ordine si videro in quelli meravigliosamente dipinti. Mi ricordo di due ottave, che ferirono piú sul vivo questi poveri sciaurati, e sono queste :
Dicono che famosi or quinci or quindi fatti si son col plettro e colla tromba, che lor fama volò da’mori agl’indi, che non andranno interi entro la tomba; van per le strade attilatucci e lindi per ascoltar se il nome lor rimbomba, e, se non parlan gli altri, parlan essi, ed al silenzio altrui fan de’ processi. Mi vergogno però eh’in altra forma non vedano sé stessi e il proprio fallo, mi vergogno che Febo o taccia o dorma e non gli accoppi il pegaseo cavallo. Oh come è ver ch’orgoglio il ver trasforma e mostra spesso all’uom verde per giallo!
ché lungo un palmo si vedrien gli orecchi, se guardasser un di dentro i miei specchi.
Non mancò Valerio di pubblicar questo poemetto colle stampe. Si sparse in un momento per tutto il paese, e tanto gli amici miei che quelli dell’editore lo trovarono molto piacevole e ne fecero somma festa. Colletti fremeva, ma non osava aprir bocca, per non parer di conoscersi. — Tutti mi dicono — mi diss’egli un giorno — che intendeste di fare il ritratto mio; nia io veramente non mi ci trovo. — Si trovava però costui dipinto assai meglio ch’io non voleva, e non mancò a suo tempo di vendicarsene. Questa frottola, dirollo pure, mi rese assai piú accetto a tutta la cittá. Non passava giorno, in cui io non avessi qualche pruova novella di generositá e di amicizia. Il conte Coronini volle ch’io traducessi in verso italiano la menzionata operetta de’ Fasti goriziani , e ne fui generosamente premiato.
Passai otto mesi in questo commodo e tranquillo stato di vita. U ta sola cosa ne amareggiava in parte la sua dolcezza, e questa era il pensiero d’essere stato si male trattato, senza la minima ragione, da una patria, ch’io amava e al cui bene reale adoperavano. Io non poteva inoltre evitar di sentire in me un certo desiderio di ritornarvi, per riveder i parenti ed amici miei, e sopra tutti Zaguri, Nlemmo e Pisani. Passò frattanto per Gorizia il mio caro amico Catarino Mazzola, per andar a Dresda, dove era stato invitato a poeta pel teatro dell’opera. Venne a trovarmi, e mi narrò la tremenda catastrofe del Pisani, il quale, dopo esser stato fatto procuratore di San Marco, ch’era uno de’ piú sublimi gradi di quella repubblica, fu preso di notte tempo nella sua propria casa, per ordine degli inquisitori di Stato, e relegato nel castello di Verona. Piangendo allora sul destino del mio amico, deposi ogni speranza di tornar a Venezia, e pregai Mazzola di trovarmi, s’era possibile, qualche impiego alla corte di Dresda. Mazzola mel promise e mi diede molte speranze di buon successo, contando molto sul favore del conte Marcolini, allora primo ministro di quell’elettore, di cui godeva l’amico mio la protezione e la stima.
Capitò intanto in Gorizia una buona compagnia comica. Voleano gli amici e fautori miei ch’io componessi un dramma ed una tragedia per quella; ma, non avendo mai scritto pria pel teatro, non osai cimentarmi, per téma di perdere col coturno quello ch’aveva acquistato col colascione. Ho dovuto tuttavia, ad istanza di nobil matrona, condiscendere di fare la traduzione d una tragedia tedesca, che non si recitò che due sere, non so se per difetto dell’originale o mio. Per rimediar un poco a questa caduta, diedi alla medesima compagnia II conte di Warwick , tragedia francese, tradotta parte dal mio fratello e parte da me; e questa piacque assai piú.
Continuavano intanto i signori goriziani a onorarmi ed amarmi, ed io continuava a far versi, che erano sempre ben ricevuti e premiati. Fu appunto in que’ tempi che si stabili in Gorizia una colonia arcadica col nome di «colonia sonziaca», di cui i! conte Guido Cobenzl era presidente; e fui anche io annoverato tra i suoi pastori, col nome di Lesbonico Pegasio.
11 Colletti, ch’era buon stampatore, fatto ne fu secretario, come quello che dovea registrare e pubblicare gli atti della colonia; e questo formò e strinse una spezie di fratellanza letteraria tra lui e me, ch’egli scaltrissimamente arrivò alfine a farmi credere sincera. Cominciai dunque a trattarlo con amicizia, se non con istima poetica, e credea positivamente ch’egli avesse del tutto dimenticato il «palmo di orecchi» e gli «specchi miei». Gli dissi, tra l’altre cose, che forse partirei in bre\e per Dresda; che Mazzola, cui veduto meco egli aveva, me l’aveva fatto sperare, e ch’io vedeva la cosa molto probabile. Ne parve sorpreso e dolente; ma io vidi subito che ne sarebbe stato lietissimo. Io aveva ciò detto a diversi; e non piú che due mesi dopo capitoni mi una lettera da Dresda, che m’ordinava di portarmi immediatamente a quella cittá, per occupare un posto onorevole alla corte elettorale. Non era scritta da Mazzola, ma il suo nome eravi sottoscritto, era di suo carattere, che io conosceva ottimamente, e non aveva motivo di temer inganno, venendomi da un amico leale, che avrebbe voluto assai volentieri farmi del bene. Lessi dunque la lettera a’ miei amici e, calcolati tutti i vantaggi, risolsi per loro consiglio di andar a Dresda. Ebbi in quegli ultimi giorni mille novelli segni di cortesia dalle dame e da’ cavalieri di quella cittá. Il giorno avanti la mia partenza, il conte Luigi Torriani, nella cui casa da qualche tempo io dimorava, invitò tutti gli amici suoi a una splendida cena. Dopo la cena, che fu piú del solito allegra, si misero a una partita di gioco; cosa che si faceva per giro in varie case nobili di quella cittá, una volta o due al mese, in ogni casa che s’associava, deponendo tutto il denaro perduto al gioco in un vaso di terra con una fessura capace a riceverlo, e disponendone poi in un certo prefisso giorno a divertimento della compagnia. Il caso volle che quella fosse l’ultima sera dell’anno, e tre mozioni dovevan farsi, una dal padrone di casa e l’altre da due dame tratte a sorte, onde decider del modo in cui quel danaro doveva impiegarsi. Come il padrone di casa doveva esser rultimo, cosi lasciò che le due donne fosser le prime: una di quelle propose una gita in islilta a Gradisca, l’altra una mascherata a cavallo. 11 buon conte, dopo aver narrata la cagion della mia partenza, propose che il danaro raccolto in quel vaso fosse offerto a me per le spese del viaggio da Gorizia a Dresda. Un «si» e un «no» doveva decidere della cosa. — Slitta 1 — gridò allora il conte. Un «no» generale fu la risposta. — Mascherata! — Un «no» piú forte e piú sonoro del primo. — Da Ponte a Dresda ! — Si, si, si! — rimbombò per tutta la camera. La moglie del conte, angelo di bontá piuttosto che donna, prese allor quel vaso per romperlo; ma alcune altre damine della societá offersero di aggiungervi qualch’altra moneta, e il loro esempio fu da tutti con molta soddisfazione seguito. Gittò allora il conte Strasoldo, ch’era ultimo offerente, quel vaso a terra, e tutti a gara s’unirono a raccogliere quel danaro, a porlo in un bel fazzoletto di seta, che la padrona di casa avea in pronto, e si volle che ella medesima mi presentasse quel dono. Ella mel presentò con queste parole:
— Signor Da Ponte, accettate questa offerta de’ vostri amici goriziani. Possiate aver tante felicitá nel paese ove andate, quante monete sono in questo fazzoletto. Ricordatevi qualche volta di noi, che noi ci ricorderemo di voi molto spesso. — Si aspettava ch’io rispondessi; ma io era si confuso e si sopralatto da questa rara scena di bontá, rii generositá e tl’una non equivoca stima e benevolenza, che mi fu impossibile aprir bocca. Il conte ringraziò per me quella nobilissima compagnia, e il mio silenzio disse assai piú di tutto quello ch’avrei potuto dire parlando. Fui inteso, e la delicatezza del mio core ne fu applaudita. Tutte queste grazie produssero in me un effetto si meraviglioso, che per tutta quella notte non feci che piangere al solo pensiero di dover lasciar una cittá, dove io era si ben trattato da tutti i buoni e dove giunsi talvolta a stimare me stesso. Il conte Torriani s’accorse, al tempo della colazione, della fiera battaglia da cui era la mia anima combattuta ; mi condusse dal conte Cobenzl, e, dopo vari discorsi e riflessi, vollero ch’io partissi. Diemmi quest’ultimo lettere commendatizie pel figliuolo in Vienna, per quello cioè che conchiuso aveva col prusso re la pace di Teschen. Fui accolto graziosamente da quel signore; mi parlò della canzone ch’aveva scritta per lui; ed alla mia partenza mi regalò un libretto da viaggi, nel cui frontespizio aveva affisso con una spilla una cedola di banco di cento fiorini, al cui piede era scritto: «Il Cobenzl al Da Fonte, per le spese del viaggio».
Mori al mio arrivo a Vienna Maria Teresa, principessa amata generalmente in quella cittá. Non v’eran dunque che lacrime e maninconia: io non mi vi fermai che tre giorni. Arrivato a Dresda, corsi sul fatto da Mazzola. Quando entrare mi vide nella sua camera: — Da Ponte a Dresda! — esclamò egli con gran sorpresa. Non è difficile imaginare qual io rimanessi a questa accoglienza. Corse ad abbracciarmi, ma io non aveva quasi la forza d’aprir la bocca, nonché di corrispondere a’ suoi abbracciamenti. Vedendo ch’io non parlava: — E che si
— soggiunse — che chiamato foste a poeta pe’ teatri di Pietroburgo? — Io venni a Dresda — risposi allora — per vedere l’amico Mazzola, e per profittar, se si può, del favore de’ suoi amici. — Risposi questo macchinalmente, e senza quasi sapere quel che diceva. — Bravo! — ripigliò esso — siete forse arrivato a tempo. — Mi condusse a una vicina locanda, dove passò meco in discorsi di vario genere, senza farmi alcun remoto cenno di quella lettera. Era giá passata la mezzanotte quando lasciommi. Passai tutto il rimanente di quella in mille pensieri differenti. Come non mi era possibile credere che Mazzolá avesse voluto ingannarmi, e ch’era sicuro dall’altro canto che la sottoscrizione di quella lettera era sua, cosi non poteva che ondeggiare tra mille idee, senza mai aver ragioni di abbracciarne alcuna.
Andai da lui la mattina, ma nulla potei scoprire piú del di antecedente. Gli domandai se si ricordava di ciò che m’avea promesso a Gorizia. — Mi ricordo benissimo — replicò egli: — finora però non s’è presentata occasione per voi, come vi ho scritto. — Come m’avete scritto! — ripresi con meraviglia. — Ve lo scrissi e vi assicurai che non avrei mancato alle mie promesse; ed, essendo da pochi di in qua i! principe Antonio, fratello del nostro elettore, rimasto senza secretario, aveva giá stabilito di parlare per voi al primo ministro: lo farò di buon grado e con maggior gusto or che qui siete venuto. — Rimasi il rimanente di quella serata con lui, procurando di celar il mio vero imbarazzo. Quando andai a casa, recatomi in me stesso, procurai di sviluppare novellamente quella matassa.
— Mazzola — diceva io — mi scrisse una lettera da Dresda eli’ io non ho ricevuto. Ne ho però ricevuto un’altra, che per ignota mano era scritta, colla soscrizione di quell’amico. Non potrebbe nascer sospetto che quella soscri/ione fosse falsificata? Ma (dii poteva ciò fare? chi? Colletti! Io l’ho smascherato co’versi miei, io gli era una continua spina negli occhi, finché dimorava in Gorizia: se per qualche accidente o artefizio gli ò capitata in mano la vera lettera ili Mazzola, non può averne egli imitato il carattere, e, acchiudendo il foglio suo nel foglio della soprascritta, su cui eravi il segno della posta di Dresda, avermi fatto tal tradimento? — Riesaminai allora attentamente la detta lettera, e parvemi di scorgere veramente qualche diversitá nel carattere, e un doppio sigillo, e di qualitá assai diversa il foglio della soprascritta da quella del foglio acchiusovi, il quale portava, per colmo dei sospetti, l’impronta d’un cartolaio di Gorizia. Aveva, oltre a ciò. favorito costui la mia partenza per Dresda e acceleratone in vari modi il momento. Conchiusi dunque in me stesso avermi fatto U Colletti quel brutto gioco, e fino al di d’oggi non ebbi occasione di discrederlo. La provvidenza volle però che non avesse per me quelle conseguenze fatali che aveva sperato colui. Parve al contrario che si servisse di quello la mia fortuna per condurmi a uno stato di vita, in cui avrei trovato una permanente felicitá, se non distruggeva la morte immatura del troppo tardi conosciuto e non mai abbastanza pianto Giuseppe, colle speranze del mondo, le mie. Non partii nulladimeno dalla Sassonia, sebben non riuscisse a Mazzolá d’ottenermi l’impiego alla corte. Io era trattato da lui con tanta ospitalitá, liberalitá ed amicizia, che non aveva core d’allontanarmene. Mi rimaneva dall’altro canto una certa lusinga di dover trovare occasione, col tempo, da impiegarmi onorevolmente.
Passava frattanto la piú gran parte della giornata e parte ancor della notte con lui. Era egli molto occupato a comporre, a tradurre o ad accomodare de’ drammi ad uso di quel teatro, che era allora fornito d’una delle migliori compagnie drammatiche dell’ Europa. Per non istare colle mani alla cintola, m’ofTersi a coadiutore delle sue teatrali fatiche; ed egli accettò in qualche modo l’offerta mia. Tradussi dunque o composi anch’io ne’ suoi drammi or un’aria or un duetto ed or una scena intiera, ch’ei prima mi disegnava. Aveva allora per le mani un’opera di Filippo Quinault, eh’ ha per titolo, se non m’inganno, Ali e Cibele. Trovai la parte di Sangaride piena d’interesse e d’affetto, e gli proposi di tradurla. Bisogna dir che la mia traduzione gli piacesse molto, perché, dopo avermi adoperato in vari altri caratteri, non potè trattenersi un giorno di domandarmi perché non tentava di scrivere per i teatri d’Italia. — Voi sapete bene
— gli risposi io — esser l’arte drammatica in tal avvilimento in quel paese, che fa d’uopo avere molto coraggio per abbracciarla. — Non v’era infatti chi meritasse in que’tempi d’esser letto, tra tutti i poeti drammatici seri e buffi che componevano per li teatri italiani. Metastasio era a Vienna, Moretti e Coltellini a Pietroburgo, Caramondani a Berlino, e Migliavacca prima, poi Mazzola erano stati stipendiati alla cor’e di Diesda. Tra cento altri, che v’erano rimasti, un sol non ve n’era, che sapesse scrivere un dramma che losse sopportabile, nonché degno d’esser letto o veduto in scena.* I Porta, i Zini, i Palomba, i Bertatti ed altri simili ciabattini teatrali, che non hanno mai saputo un principio di poesia, nonché di quelle infinite regole, leggi c cognizioni, che per fare un buon dramma s’esigono, erano gli Euripidi e i Sofocli di Roma, di Venezia, di Napoli e della stessa Firenze e di tutte l’altre cittá principali d’Italia. Questo nasceva dalla vergognosa avarizia degli impresari venali, che non incoraggiavan co’ premi i migliori ingegni a quel difficilissimo genere di composizione (*), e cfie, mentre pagavano mille e duemila per poche sere a un gorgheggiante Narsette o ad una filarmonica Taide, non avevan rossore di offrir quindici o venti piastre per un libretto, cfie costa qualche volta tre mesi di sudato lavoro ad uno scrittore consumato. Contribuiva altresí al discadimento vituperevole di si bell’arte la somma ignoranza di quasi tutti i cosi detti maestri di cappella, cfie facean generalmente della bellissima musica sulle sconce e triviali parole de’ lazzaroni napolitani, come, o meglio forse, di quello cfie fatta l’avrebbero sulle soavissime ariette di Metastasio. Tale era al mio tempo lo stato del teatro drammatico in Italia. Non so qual sia a questi tempi. Ma dalle opere, a cui Rossini ha fatto una si bella musica, ne traggo augúri molto cattivi.
Non parti per altro,del tutto dal capo mio quel suggerimento dell’amico, anzi mi incoraggi poco tempo dopo, come vedremo, a tentar anch’io la mia sorte nella lizza drammatica in uno de’ piú conspicui teatri del mondo.
Mi presentò intanto l’amico agli amici suoi, tra’ quali tenevano il primo loco il conte Marcolini, primo ministro e gran favorito di quell’elettore, ed un rispettabile e dotto ex-gesuita, cfie pur godea della stima e della grazia di quel sovrano. Strinsi in poco tempo con quest’ultimo tanta familiaritá ed amicizia, cfie non ebbi ribrezzo di narrargli la storia mia. Ne rimase egli commosso, e, dopo aver esaminato piú volte la lettera da me ricevuta a Gorizia e udita tutta la faccenda di Colletti e de’ versi miei, trovò cfie il sospetto era molto ben fondato. Lodò altresi la delicatezza da me adoperata con Mazzola, ch’egli amava e stimava moltissimo; perché, diceva egli, quel bravo galantuomo, sentendo la cosa, provato avrebbe un immenso cordoglio, senza poter rimediarvi. Alle qualitá eccellentissime di core e di spirito accoppiava questo colto ex-gesuita un gusto (i) Un poeta drammatico nu disse, quasi con pompa, ch’egli si faceva pagar bene dagli impresari. Per quattro opere buffe, da lui composte in un anno, aveva avuto ottanta piastre da un certo Zardon i Questo poeta dovea vivere di rugiada! squisito per la poesia, e pel Cotta, pel Lemene e per Bernardo Tasso aveva una spezie di santa venerazione. Parca leggere con piacere anche i versi miei. Ma in breve tempo m’accorsi che Mazzolá non aveva gusto ch’io scrivessi o divulgassi in Dresda alcun verso: voleva piuttosto farmi passar per improvvisatore, mestiero allora divenuto alla moda anche in Germania. Aveva la sua ragione, ed io non era né cieco, né ingiusto, né ingrato. Avendo tuttavia scoperto il diletto del padre Huber nel leggere i bellissimi salmi di Bernardo Tasso, pensai che non potesse dispiacere all’amico mio. s’io ne componeva alcuni per far cosa grata al comune amico, essendo questi d’un genere di poesia tutta diversa dalla teatrale. Ne composi sette, li lessi a Mazzolá, e fu il primo egli a consigliarmi di darne copia al padre Huber, anzi ili dedicarglieli. Non mancai di seguire il suo consiglio. Mazzolá stesso ne fu il portatore. Fu Huber assai grato alla mia offerta e li diede ei medesimo al primo ministro ed all’elettore. Fui lodato e regalato da tutti tre; e i loro regali, per lo piú peeuniari. per dire il vero, giunsero assai a tempo.
Ripubblico qui cinque di questi salmi, essendo questo il lor proprio loco; e desidero che il mio leggitore ritrovi in questi qualche compenso della noia recatagli da tant’altri versi ch’io pubblicai in questa Vita. I quali versi io gli ho pubblicati non giá perché li credessi degni di qualche lode, ma perché da quelli in gran parte lo sviluppo dipendeva di molti eventi importantissimi della mia vita. Tale lusinga in me nasce dall’accoglimento favorevole che a questi salmi fu fatto da vari letterati italiani, tra’ quali citerò con orgoglio Ugo Foscolo, quel raro mostro di sapere e d’ingegno, ch’osa gareggiar con Alfieri e Monti nel tragico e che forse li vince nH lirico entrambi. Ei lodò questi salmi, et erit miái magnus Apollo. SALMO I Miserare tnei, Deus, quoniam infirmus sum.
Signor, di fragil terra formasti il corpo mio, a coi f.i sempre guerra crudo nemico e rio, die nutre il fier desio del pianto de’ mortali ; e danni a danni aggiunge e mali a mali. Ahi! quante volte, ahi! quante il barbaro mi vinse, e dietro il volgo errante l’anima mia sospinse! quante il mio core avvinse, che non temea d’inganno!
onde servo io divenni, egli tiranno. Or ei guida i miei passi per vie fosche e distorte; ove per tronchi e sassi si giunge a strazio e a morte. Ma tu con man piú forte spezza il funesto laccio, e me ritogli ancor a l’empio braccio. Veggo quant’io peccai, mianto il tuo nume diesit però, Padre, tu sai che a lungo pria contesi; sai che a l’empio mi resi per mia fralezza estrema, non giá perch’io non t’ami e te non tema. Su queste labbia spesso suonò il tuo nome santo, in quel momento stesso ch’io ti fuggia dal canto; e sparsi amaro pianto su quei stessi diletti, onde peccáro i traviati affetti. Ma, se de’ falli miei scusa non è che basti, salvami, perché sei quel Dio che mi creasti, e l’empio invan contrasti col tuo voler superno, ch’osa sfidarti ancor fin da l’inferno.
SALMO II lus/us es, Domine, et rectnm iudicium tuum.
Non verso, eterno Dio, questi sospiri fuor del dolente seno sopra le mie ferite e i miei martiri. Retto è ognor tuo giudizio e retto il freno che i figli tuoi corregge, né per ira o pietá sei giusto meno. Piango, perché peccai contra tua legge, perché dentro il tuo ciglio tutto il ben che perdei quest’alma or legge. Perdei l’amante Padre, ingrato figlio; perdei l’immenso Amore, l’unica speme ed il fedel consiglio. Or son orfano e cieco, e questo core altro in te piú non mira che il suo giudice irato, il suo Signore. Ali, men grave su me quel ciglio gira! non può l’anima mia lo sguardo sostener di tua giust’ira. Vibri la destra tua, deh! vibri pria tutti i flagelli suoi, ma sol questo al fallir la pena sia. Struggimi prima, se placar ti puoi sol struggendo un ingrato; ma vivo non serbarmi agli odii tuoi. Ché, se nulla pietá merta il mio stato e il lungo pianto mio, da’ a me quell’odio, e abborrirò il peccato. Nuovo duol, nuovo amor, nuovo desio nascer vedrai di quello, onde spero d’amarti, eterno Dio, quanto al santo tuo nome io fui rubello.
SALMO III Convertere, Domine, et eripc attintavi nteam, salvimi me fac proptcr inisericordiavi Inani. Aprite, eterno Dio, le porte aprite de la vostra pietade, l’amaro pianto del mio core udite. So che chiuse finor m’ebbe le strade questo ingrato cor mio, che di offender osò vostra bontade. Ma figlio e verme io son, voi Padre e Dio; ed or piango e mi pento sul mio peccato, e a voi tornar desio. Fuori di voi non v’è pace e contento; voi siete il vero Bine; e tra le colpe mie, Padre, lo sento. Non trovai ne la colpa altro che pene; non trovai che rimorso, Datemi, per pietá, pronto soccorso: quanti crudi nemici guerra mi fanno, or che ho cangiato il corso! Traete dal mio sen le ree radici, ove ancora trovate giusta cagion a le vostr’ire ultrici. Datemi un nuovo core, e tal lo fate, che d’amarvi sia degno: io vi benedirò mille fiate. Benedirovvi allora: or troppo indegno è questo labbro immondo, ed io troppo pavento il vostro sdegno. O cittadini del beato mondo, benedite il Signore, che il viver vostro fa sempre giocondo: egli è il Dio di pietade, il Dio d’amore. SALMO IV Alisericordias Domini in aeternum cantabo.
Abbastanza, o Signore, non pianse il mio peccato questo mio core ingrato; ma son si consolato nel tuo divino amore, ch’ove lagrime chiedo, invece io sento sorger di gioia alletti e di contento. Veggio le aperte braccia, onde i tuoi figli inviti, se son da te partiti. Veggio i rai che a’ smarriti dietro ingannevol traccia ad or ad or la tua pietá dischiude, e qual infondi in lor grazia e virtude. Ler boschi ermi e dirupi tu volgi ognor le piante, pastor tenero e amante, dietro l’agnella errante; tu la guardi dai lupi, tu contra i denti lor le dai soccorso, e la porti all’ovil sul di viti dorso. Se la tua man percuote un’alma a te rubella, mano di padre è quella, che da l’error rappella, che i tarili sprona e scuote. E, vilipeso ancor, soffre ed aspetta, pria che il dardo vibrar de la vendetta. Ah! di vendetta i sguardi in me, Signor, non stenda tua giusta ira tremenda. Prenda tua man, deli! prenda sol di clemenza i dardi; sieno gli sdegni tuoi sdegni di vita e m’udrai benedir ogni ferita.
SALMO V Coeli enarralit gloriavi Dei Stiamo, o genti, a veder la gloria nostra; tutto di Dio favella all’intelletto, e tutto Dio ne mostra. Parla il vivido raggio, onde è si bella la faccia della terra, e col suo moto in ciel parla ogni stella; Quanti fiori dal grembo april disserra; quanti hanno arbori i campi; quanti muti animali il mar rinserra. Fischia il folgore eterno, e par che avvampi del divino furore ed il nome di Dio nell’aria stampi. Freme turgido il vento, e in quel furore sento secreto un grido la possanza annunziar del suo Motore. Quel prudente augellin, che cangia lido, dice, e udirlo ben puoi, nel suo voi, nel suo canto: — In Dio confido.— Rinfiamma, anima mia, gli affetti tuoi; non conosci in te stessa l’eterna imago e gli alti imperi suoi? Mira quanto se’ bella, e Dio confessa. La pubblicazione di questi salmi mi procacciò la conoscenza di varie persone, quella, tra altre, di un bravo e colto pittore italiano, che aveva due bellissime figlie. Il mio cuore, inclinatissimo per carattere alla passione d’amore, ad onta di molte cure e pensieri serissimi, si lascio a poco a poco pigliar alla rete e s’innamorò fieramente di tutte due. Elleno mi corrispondevano di buona fede, ciascuna d’esse si credeva la prediletta, e, ad onta d’esser gelosissime Luna dell’altra, erano nel medesimo tempo buone sorelle ed amiche. La madre era bella, benché fosse presso ai quaranta, c piena di grazie e di spirito. Quantunque savissima e costumata, amava ella che le dicessero:
— Siete ancor bella ; — e, come si poteva dirglielo senza adularla, cosi io gliel diceva assai spesso : troppo spesso forse per non renderla un poco vana e, quanto l’onesta poteva permettere, amica mia. Io credo che questa parzialitá per me sia stata la causa d’un’indulgenza, che fu vicinissima a far me ed altri infelici. Io non aveva allora piú di trenta anni; e, con una figura, per quello che si diceva, piacevole, con un poco di spirito, un’anima poetica ed italiana, e non ignorante nelle faccende d’amore, non era maraviglia se non trovava dei grandi ostacoli ne* teneri cori delle fanciulle. Protesto però di non averne mai abusato; e dal primo momento in cui ho cominciato ad amare, il che fu all’etá di diciott’anni, fino al quarantesimosecondo anno della mia vita, in cui presi una compagna per tutto il rimanente di quella, non ho mai detto a donna: — Ti amo, — senza saper di poter amarla, senza mancar ad alcun dovere. Spesso le mie attenzioni, le mie occhiate e perfino i miei complimenti di comune civiltá presi furono per dichiarazioni d’amore; ma ne la mia bocca peccò mai, né senza il consentimento del core e della ragione cercò per vanitá o per capriccio d ’ instillar una passione in un petto credulo ed innocente, che dovesse poi terminar colle lagrime e col rimorso.
Il mio affetto per queste due sorelle, per quanto strano possa parere, era grande, era vivo ed era uguale. Io mi domandava sovente: — Qual ami piú? — E non mi poteva rispondere. Non era felice che quando mi trovava con tutte due : credo che, se le leggi permesso l’avessero, le avrei impalmate entrambe nel momento stesso. Con tutto questo, io ho avuto la forza di frequentar la lor casa piú di due mesi, senza dir né all’una ne all’altra una parola d amore. In veritá io scherzava assai piú colla lor madre; e un giorno le dissi alla presenza di molta gente, per ischerzo s’intende: — Signora, se non foste maritata, non verrei senza paura a trovarvi. — Ella si mise a ridere, ma poi mi disse pian pianino all’orecchio: — Chi vuol bene alla figlia accarezzi la mamma. — Quando fummo soli, mi tenne questo discorso: — Da Ponte caro, ascoltate senza interrompermi: bisogna terminar la commedia. Le mie due figliuole son pazzamente innamorate di voi; e, se non m’inganno, voi pure siete innamorato delle due mie figliuole. Voi vedete bene che una madre prudente non può lasciar correre le cose cosi, e mi duole moltissimo di averle lasciate giá correre un poco troppo: ho gran paura che alcun di noi in ogni modo debba esserne la vittima; forse tutti La gioventú, che viene da noi, s’è giá accorta di questo, e quelli, che hanno qualche buona intenzione sulle mie figlie, ne son gelosissimi e non han riguardo di dirlo. Caro Da Ponte, bisogna risolvere qualche cosa. Non voglio che mi rispondiate su due piedi. Vi lascio tempo fino a domani; ma non un’ora di piú. — Detto questo, parti come un fulmine.
Se queste parole fossero per me tanti coltelli, sei pensi chiunque ha un core. Dopo pochi minuti mi alzai per partire; ma ii padre, entrando neiia camera colie due ragazze, ambedue lagrimanti e vestite da viaggio: - Addio — disse, — signor Da Ponte. Vado colle mie figlie a fare un piccolo viaggetto. State bene. — Le due giovanette non osarono guardarmi in faccia, e partirono col padre. Fulmine sopra fulmine! Lo stato dell’anima mia in quel momento non si potrebbe dipingere. Andai a casa, entrai nella mia camera ; ma non trovava né rimedi né consolazioni. lo n’era disperato. Un matrimonio in ogni altro caso avrebbe potuto por fine a tutti i guai ; ma per me nemmen questo poteva farsi. Oltre che la follia inusitata d amarne due giungeva all’eccesso di non lasciarmi padrone di scegliere, ogni apparenza dicevami clic non avrei potuto per alcun modo sceglierne una, senza rendere l’altra infelice. Io era in questo stato, mentre Mazzola venne da me. La mia agitazione era tale, eli’ io non l’udii entrare che dopo qualche minuto. Mi trovò dunque desolato, piangendo e gridando replicatamente: — O Rosina! o Camilletta! O Camilletta! o Rosina! che sará di voi, poverine? che sará di me? — Qual fu la mia pena quando ni’accorsi che Mazzolá era nella stanza! Mi copersi la faccia, perché non vedesse né la mia confusione né il mio rossore; ma egli proruppe in uno scroscio di riso, che, nel tempo stesso in cui mi empieva di rabbia, mi recava in me stesso. Egli era di giá informato di quella mia doppia passione, che qualche volta lo facea ridere e qualche volta strabiliare di maraviglia. Gli narrai allora tutta la faccenda, ed egli altro non faceva che ridere c gridar: — Tanto meglio, tanto meglio! — Quando mi vide alquanto calmato: — Eccovi — mi disse — una lettera di vostro padre, che s’acchiuse per suo ordine in una mia, perché vi capiti piú sicura. — Era sigillata con cera negra: questo giá bastava per dirmi tutto. Mazzolá, che sapeva di che trattava, pensò darmela in quell’istante, per distrarmi con una trista novella da una situazione che gli sembrava molto piú trista.
Il rimedio fu forse opportuno. Con mano tremante apersi quel foglio, e trovai che portava la dolorosissima nuova della morte del mio amato Girolamo. Sebbene sapessi ch’egli era ammalato assai gravemente e che i medici disperavano affatto di sua guarigione, il mio dolore fu nulladimcno eccessivo. Quell’adorabile giovine, tra l’altre sue ottime qualitá, aveva quella di dar al nostro vecchio e quasi impossente padre, che aveva una famiglia numerosissima, la maggior parte de’ suoi emolumenti, ch’erano assai ragguardevoli. La sua morte doveva dunque esser fatalissima al rimanente della famiglia, incapace per sé di guadagnarsi il pane e molto piú di prestar al padre alcuna assistenza. Questo pensiero accrebbe a dismisura la doglia mia: era questa tanto intensa, tanto eccessiva, che mi toglieva perfino il consolante sfogo del pianto. Tacqui per piú d’un ’ora, quantunque l’amico facesse tutti gli sforzi per farmi parlare. Allora, cercando, diceva egli, la via di distrarmi dalla mia doppia afflizione, dopo molti argomenti consolatori: — Calmatevi un poco
— mi disse: — leggerovvi un’altra lettera, die probabilmente vi fará ridere. — Spiegò allora un altro foglio, ch’era quella sera stessa a lui capitato c che a lui scritto aveva un certo Viola, amico suo, da Venezia, nel quale vi erano queste parole: «Diccsi per Venezia che il Da Ponte sia venuto a Dresda per carpirvi il posto di poeta a codesta corte. Caro amico, guardatevenc. Questi Da Ponte son pericolosi, come voi bene sapete». Di questi tre successivi colpi in un giorno solo, io non potrei veramente dire quale a me paresse il piú grave. — Io non sapeva, mio caro amico — soggiunsi immediatamente — che voi sapeste tal cosa!— Mazzola non m’intese; anzi, nel leggere quella lettera, volgevami certi sguardi, pe’ quali avrei giurato ch’ei credesse quel che si dicea per Venezia. Mi parve altresí che, non credendolo, non avrebbe dovuto mai legger a ine quella lettera, e clic l’atto stesso di leggerla fosse una prova convincentissima del suo sospetto crudele, irragionevole, ingiusto e indegno del tutto e di lui e di me. Io non gli risposi che con un sorriso un po’ sforzato, c seguitai a tacermi. Mi si affollarono tuttavia mille e mille idee diverse al pensiero, e, dopo un rapido sguardo ch’io diedi a tutte le cose, nelle quali la mia viva imaginazione parve presentarmi l’intero ritratto della mia situazione in quel momento, mi parve che una voce imperiosa dicessemi: — Bisogna partire da Dresda. — Presi immediatamente ia penna e un pezzetto di carta, e scrissi queste parole: Veneratissimo padre Huber, Bisogna che domani io lasci Dresda. La diligenza parte alle dieci, io sarò a darle l’ultimo addio prima delle nove. Il suo servitore ed amico L. Da Ponte.
Mandai senza indugi quel bigliettino al padre Huber: erano le dieci della sera, e cinque minuti dopo Mazzola se ne andò.
La mattina, prima delle otto, andai a prendere un posto nella diligenza di Praga, indi dal padre Huber. Narrai per esteso tutta la storia mia a quell’onestissimo personaggio; il quale, dopo aver lodata la mia risoluzione e sparse delle lagrime meco, mi pregò di tornar da lui mezz’ora prima che partisse la diligenza. Tornai a casa e scrissi il seguente biglietto alla madre delle due giovani.
Madama, A dieci ore e un quarto non sarò piú in Dresda. Io non so trovare miglior rimedio al male che involontariamente ho fatto. Ho amato, è vero, ma questa è la prima volta che la mia penna lo dice: la mia bocca noi disse mai e noi dirá. Spero che il mio core e quelle due terrene angiolette ne seguiranno l’esempio. Dio dia a lei e alla sua famiglia tutte le possibili prosperitá. Il suo devotissimo servitore L. Da Ponte.
Trentacinque minuti dopo le nove tornai dal padre Hubcr. Trovai ch’aveva messo in un cestello del caffè, dello zucchero, della cioccolata, con varie crostate fatte a posta pe’ viaggiatori, due cartocci di confetti e qualche bottiglia d’un liquore squisito. Mi mise addosso di propria mano una buona pelliccia, sul capo una berretta da viaggio, e volle a forza ch’io prendessi il suo manicotto. Vera un borsellino secreto, chiuso con bottoncini d’argento, che ordinommi di non aprire prima d’esscr arrivato alla prima posta. Ubbidii; e, quando l’apersi, vi trovai un piccolo Boezio, De conso/a/ione philosophiae , e un Tomaso da Kempis, con una borsetta in cui v’erano dodici monete d’oro del valore di cento fiorini. E facile imnginare la mia sorpresa. Ne piansi di tenerezza c posso assicurar il mio lettore di non aver mai provato nella gioia e nel riso quella dolcezza e soavitá che provai in quelle lagrime di gratitudine. Quando partii da lui, mi abbracciò strettamente, e mi disse queste parole: — Andate, caro Da Ponte; il core mi dice che tutto andrá bene. — La sua faccia, nel dirmi questo, parea brillar propriamente d’ttna luce celeste. E, a vero dire, per vari anni furon quelle parole predizioni profetiche piuttosto che buoni augúri. Se non durarono sempre le mie felicitá, è perché tregua non hanno le umane permutazioni; e al momento in cui scrivo queste memorie h- 1 , vicino come sono al sessantesimo anno della mia vita, mi convien confessare che, se non sono stato sempre felice, non posso dire nemmeno di essere sempre stato infelice, e aggiunger voglio a onor dell’umanitá che, se ho trovato nel mondo de’ Gallerini e de’ Ganelloni, ho trovato ancora degli Huber e de’Mathias! Permettimi, generosissimo amico, ch’io accoppi a quello d’un vero angelo il tuo da me riverito e quasi adorato nome.
Quando suonaron le dicci, gli diedi l’ultimo addio, e corsi da Mazzola cosi impellicciato. Non gli lasciai dire una parola: me gli gettai al collo, abbracciandolo teneramente, e non gli dissi che queste parole: — Carissimo amico mio, grazie di tutto, lo parto da Dresda in questo istante c vado a Vienna. Vi prego scriverlo a’ vostri amici di Venezia. Tra gli altri, al signor Viola dalle male corde. — Rimase attonito: credo che gli dispiacesse molto. Lo riabbracciai e partii, ma non a ciglio asciutto, da lui. Andai all’uffizio della diligenza. Appena arrivatovi, Mazzola mi raggiunse, prese un foglietto e scrisse a Salieri queste preziose parole:
Amico Salieri, Il mio dilettissimo Da Ponte vi porterá questi pochi versi. Fate per lui tutto quello che fareste per me. Il suo core ed i suoi talenti uici itau Lucio. Egii e, oltre a ciò, «pars animae dimídíumque uieae». Il vostro Mazzola.
Salieri era a que’ tempi uno de’ piú famosi compositori di musica, carissimo all’imperatore, amico intimo di Mazzola, colto, dotto, sebbene maestro di cappella, cd amantissimo de’ (1) Cominciai a quest’epoca a sciiver la storia della mia vita. Son giunto agli ottanta, e dirò col Metastasio: «E la (avola mia non è finita». letterati. Questa lettera, eh’io non mancai di portargli quando arrivai a Vienna, produsse, col tempo, degli ottimi e (Tetti per me, e fu la prima origine del favore ottenuto da me presso Giuseppe secondo. Non conoscendo i tedeschi, nc parlando bene la loro lingua, mi misi a praticare degl*italiani. Uno di questi era un soggetto colto, idolatra del Metastasio e buon improvvisatore. Parlògli di me e gli diede da leggere certi versi, che per suo desiderio dedicato aveva e composto per nobilissimo signore tedesco, cui egli trattava familiarmente. Mostrò quindi quel gran poeta piacer di conoscermi. Si pensi quanto maggiore fu il mio di conoscer lui! Gli fui presentato dal nuovo amico, ed egli mi accolse con quella urbanitá e quella grazia, ch’era propria di lui e che caratterizza gli scritti suoi. Mi parlò sul fatto de* versi che avea veduti, e non isdegnò di leggere egli medesimo alla dotta assemblea, ch’ogni sera in sua casa soleva adunarsi, tutti 1 seguenti, che erano il cominciamento di quel poemetto e ch’io sempre ritenni c riterrò a mente, come un monumento prezioso: Filemone e Bauci Era Bauci una ninfa, a cui non nacque altra pari in bellezza a’tempi suoi; e al pastor Filemon piacque ella tanto, quanto il bel pastorello a lei piacea. Tacque da pria sul timidetto labbro l’alterna fiamma, lungamente chiusa ne’semplicetti petti: alfine, un varco ritrovando negli occhi, ivi appario, quanto celata piú, tanto piú bella. Piacque a Imeneo quel foco, e ad essi il foco piacque pur d’hneneo, che in aureo nodo distrinse i cor de’ giovanetti amanti. Ma non estinse mai Connubio o Tempo di lor foco una dramma: ogni momento il piú dolce parea de’ loro amori. Un concorde voler, un genio stesso animava i lor cori; ed in costanza sol variata di novelli affetti, vivean gli avventurati amanti e sposi. Passar gli anni cosi, cosi solcate lor fronti fúr dalla rugosa etade; e l’ardor moderò, non giá distrusse, invecchiata amicizia.
Qui si fermò il Metastasio, e invitommi a leggere il rimanente di quella poesia. Qualche cortese espressione di lode, ch’usci da una bocca si venerabile, fece parlare vantaggiosamente di me per Vienna. Non ebbi però piú la sorte di riveder quel grand’uomo, che riteneva, sebben vecchissimo, tutta la freschezza ed il brio della gioventú e tutto il primitivo vigore del vivace e gagliardo ingegno, alla cui dotta scuola e conversazione avrei potuto moltissimo profittare. Egli mori, pochi giorni dopo, di dolore, per quel che un suo amico intrinseco raccontommi.
Eccone la ragione, clic il mio lettore udrá con piacere, come cosa non a tutti nota e appartenente a un uomo si celebre in tutte le parti del colto universo.
Alla morte di Maria Teresa, principessa che, per debolezza forse di core, aveva quasi rovinato l’erario a forza di accordare pensioni b), Giuseppe ordinò, al suo avvenimento al trono, che tutte le pensioni d’un certo genere, dalla regina madre accordate, dovessero discadere, riserbandosi il diritto di rinnovarle egli stesso a chi ne credea meritevole. Il Metastasio, udendo sintil decreto, ne risenti tal rammarico, pel torto ch’ei credeva fatto al suo merito ed ai suoi lunghi servigi, che in pochi (i) La famiglia Edling di Gorizia era composta di sette individui, uno de’quali era il vescovo di quella cittá. Avendo questi ottenuto dall» compiacentissima imperadrice una pensione per p idre, madre, fratello e sorelle e tutta la servitú, ritrovandosi un giorno colla sovrana, narrandole certe faccende religiose, che a quella principessa piacevano, domandogli con gran premura se potesse fai e qualche cosa per lui e per li suoi — Vostra Maestá — rispose il santo prelato — ci ha tutti beneficali. Non rimangono piú che i due vecchi cavalli del mio padre, due buone bestie che riunito servito treniatré anni, e che converragli vender, non avendo egli i modi da mantenerle senza servirsene. — Pria d’uscir dalla camera, il santo vescovo ebbe una pensione di 300 fiorini Tanno dalla regina «per le buone bestie di suo signor padre» ! giorni cessò di vivere. Appena emanato il decreto, l’imperadore scritto aveva un biglietto graziosissimo al cesareo poeta, clic dalla legge generale escludevalo e con un elogio affcttuosissimo tutte le sue pensioni riconfermavagli : ma questa medicina fu troppo tarda al colpo mortale, che ferito avea l’animo di quel buon vecchio. Lodato sia il cielo! io non morrò mai pel dolore di perdere le mie pensioni. Invidia, gelosia di mestiere, travaglio ed ingratitudine son le quattro divinitá da cui quasi sempre fui pensionato; c, quando uno perde le loro pensioni, non v’ò periglio che mora!
Seguitai per qualche tempo a vivere ozioso. La piú gran parte del danaro da me portato da Dresda se n’era ito, ed io non poteva dimenticare l’ulive nere e l’acqua di Brenta, con cui per piú di quaranta giorni aveva fatto una seconda quadragesima in Padova. Cominciai allora a pensare all’economia. Invece di seguitar a tenere un alloggio in cittá, che mi costava assai caro, presi una cameretta nella casa d’un sarto nel sobborgo di Vidden. Per mia buona sorte feci in quel tempo la conoscenza di un giovane colto, erudito e della italiana letteratura amantissimo, che, sebbene non ricco, era però tanto generoso da somministrarmi in modo assai nobile quanto bastonimi a non sentir i bisogni per molti mesi.
Udii dire frattanto accidentalmente che l’imperatore volea riaprire un teatro italiano in quella cittá. Risovvenendomi allora del suggerimento di Mazzola, mi passò per la mente il pensiero di diventar poeta di Cesare. Io aveva nudrito sempre in me stesso un sentimento di affettuosa venerazione per quel sovrano, di cui aveva udito narrare infiniti tratti di umanitá, di grandezza e di beneficenza. Questo sentimento accresceva il coraggio mio e avvalorava le mie speranze. Andai da Salicri, a cui dato aveva al mio arrivo la lettera di Mazzolá; ed egli non m’alletto solamente a domandar quel posto, ma offersemi di parlar per me egli medesimo al direttore degli spettacoli ed al sovrano medesimo, da cui singolarmente era amato. Maneggiò si bene la cosa, che andai da Cesare la prima volta, non per domandar grafie, ma per ringraziare. Io non aveva parlato prima d’allora ad alcun monarca. Quantunque ognun mi dicesse che Giuseppe era il principe piú umano ed affabile del mondo, pur non potei comparirgli innanzi senza sommo ribrezzo e timiditá. Ma l’aria ridente della sua faccia, il suono soave della sua voce, e sopra tutto la semplicitá estrema de’ suoi modi e del suo vestire, che nulla uvea ili quello che imaginavami d’un re, mi rianimaron non solo, ma mi lasciarono appena spazio d’accorgermi ch’era davanti ad un imperndore. Aveva inteso dire ch’ei giudicava spessissimo gli uomini dalla loro fisonomia: parve che la mia non gli dispiacesse, tal fu la grazia con cui mi accolse e la benignitá con cui accordommi la prima udienza. Come era vago di saper tutto, cosi mi fece molte domande relativamente alla mia patria, a’ mici studi, alle ragioni che mi avevano condotto in Vienna. Risposi a tutto assai brevemente, del che pure sembrommi soddisfattissimo. Mi domandò per ultimo quanti drammi aveva composti, al che soggiunsi francamente: — Sire, nessuno. — Bene, bene! — replicò sorridendo — avrem una musa vergine. — È facile pensare come io son partito da quel regnante: il mio core era pieno di mille grati sentimenti di gioia, di riverenza, d’ammirazione. Fu quello senza alcun dubbio il piú dolce e delizioso momento della mia vita. Crebbe di molto la mia consolazione, quando Salieri mi disse, dopo aver parlato all’imperatore, ch’io aveva avuta la sorte di piacergli. Questo solo mi diede forza da soffrir tutto nella mia non breve teatrale carriera in Vienna; questo mi <u di maggior aiuto di tutti i precetti, di tutte le regole d’Aristotile, da me lette poco e meno studiate; questo fu l’anima del mio estro, la guida della mia penna in una gran quantitá di drammi da me composti pel suo teatro; questo alla fine mi fece uscir vittorioso da un feroce conflitto in me mosso, fin dal cominciamento della mia promozione, da una masnada implacabile ili criticucci, di pedantucci, di scioli, di semiletterati, di poetastri, e, dopo questi, da uno dei piú celebri e famosi poeti del nostro secolo, che mi fece l’altissimo onore di invidiarmi non solo, ma di insidiarmi per mille turpi maniere quel posto, come nel corso vedremo di questa storia. Arrivò, pochi giorni dopo, in Vienna la compagnia de’ cantanti, da quel sovrano chiamata da tutte le parti dell’Italia. Era veramente nobilissima. Mi accinsi sul fatto a comporre un dramma. Cercai tutti quelli eh’erano giá stali scritti e rappresentati in quella cittá, per formarmi un’idea di tal genere di composizione e per imparar qualche cosa, s’era possibile. Un certo Varese, che si faceva, come tanti altri, chiamar poeta, forse perche aveva anche egli composto un dramma buffo, anzi buffone, alcun tempo prima, n’aveva la maravigliosa raccolta di circa trecento. Andai a trovarlo e lo pregai di prestarmene alcun volume. Rise della mia domanda e mi rispose cosi:
— Questa collezione, o signore, vale un tesoro, lo solo posso vantarmi d’averla nel mondo tutto. Non potreste credere quanto danaro e quanti disturbi mi costa. Un giorno si porrá a paraggio colla famosa collana. No, no; non isperate ch’io lasci uscirne un volume solo da queste stanze. Son gioielli, signore, son tcsoretti ! tutto quello c’ho al mondo non vale un volume di questi. Vorrei piuttosto farmi tagliar un orecchio, farmi cavar tutti i denti — e. benché vecchio, n’aveva molti — che perderne un solo. — Tutto ciò che potei ottenere fu di leggerne alcuni in sua presenza. Ei mi teneva sempre gli occhi alle mani, per timore, crcd’io. ch’io ne mettessi qualcuno in tasca. Ebbi la pazienza e il coraggio di scorrer coll’occhio diciotto o venti di que’ suoi gioielli. Povera Italia, che roba! Non intreccio, non caratteri, non interesse, non sceneggiatura, non grazia di lingua o di stile, e, comecché fossero fatti per far ridere, pure ciascuno creduto avrebbe che assai piú propri fossero per far piangere. Non v’era un verso, in quei miserabili pasticci, che chiudesse un vezzo, una bizzarria, un motto grazioso, che eccitasse per qualunque modo la voglia di ridere. Erano tanti ammassi di concetti insipidi, di sciocchezze, di buffonerie. Questi erano i gioielli del signor Varese e i drammi buffi d’Italia! Sperava che dovesse esser facil cosa il comporne de’ migliori. Credeva almeno che qua e lá trovalo si sarebbe ne’ mici qualche tratto piacevole, qualche frizzo, qualche motto; che la lingua non sarebbe stata né barbara né sconcia; che s’avrebbe potuto leggere senza disgusto le ariette; e che, trovando un argomento giocondo, capace di interessanti caratteri e fertile d’accidenti, non avrei potuto, nemmen volendo, comporre un dramma cosi cattivo come quelli erano che ietti aveva. Conobbi però per esperienza che molto piú di questo esigesi per comporre un dramma che piaccia, e sopra tutto che piaccia rappresentandosi sulla scena. Come questa prima mia produzione si dovea porre in musica dal Salieri, ch’era, a dir vero, soggetto coltissimo e intelligente, cosi proposi a lui vari piani, vari soggetti, lasciandogliene poscia la scelta. Gli piacque, sgraziatamente, quello che forse era men suscettibile di grazia e d’interesse teatrale. Fu questo II ricco d’uri giorno. Mi misi coraggiosamente al lavoro; ma ben presto m’accorsi quanto piú difficile in ogni impresa sia l’eseguir che l’imaginare. Le difficoltá, che incontrai, furono infinite. L’argomento non mi somministrava la quantitá de’ caratteri e la varietá degli incidenti necessari ad empiere con interesse un piano che durasse circa due ore; i dialoghi mi riuscivano secchi, l’arie sforzate, i sentimenti triviali, l’azione languida, le scene fredde; mi pareva infine di non saper piú né scrivere, né verseggiare, né colorire e d’aver preso a trattare la clava d’Èrcole con man di fanciullo. Terminai alfin, bene o male, quasi tutto il primo atto. Non mi mancava piú che il finale. Questo finale, che deve essere per altro intimamente connesso col rimanente dell’opera, è una spezie di commediola o di piccioi dramma da se, e richiede un novello intreccio ed un interesse straordinario. In questo principalmente deve brillare il genio del mastro di cappella, la forza de’ cantanti, il piú grande effetto del dramma. Il recitativo n’è escluso, si canta tutto, e trovar vi si deve ogni genere di canto: l’adagio, l’allegro, l’andante, l’amabile, l’armonioso, lo strepitoso, l’arcistrepitoso, lo strepitosissimo, con cui quasi sempre il suddetto finale si chiude; il che in voce musico-tecnica si chiama la «chiusa» oppure la «stretta», non so se perché in quella la forza del dramma si stringe, o perché dá generalmente non una stretta ma cento al povero cerebro del poeta che deve scrivere Da Ponte, Memorie le parole. In questo finale devono per teatrale domrna comparir in scena tutti i cantanti, se fosser trecento, a uno, a due, a tre, a sei, a dieci, a sessanta, per cantarvi de’ soli, de’ duetti, de’ terzetti, de’ sestetti, de’ sessantetti ; e, se l’intreccio del dramma noi permette, bisogna che il poeta trovi la strada di farselo permettere, a dispetto del criterio, della ragione e di tutti gli Aristotili della terra; e, se trovasi poi che va male, tanto peggio per lui.
Dopo questa pittura, non sará difficile imaginare qual lu l’imbarazzo in cui mi trovai nel comporre il mio primo finale Fui dieci volte al procinto di bruciare quel che aveva latto e di andare a chiedere il mio congedo. Alfine, a forza di mordermi l’ugne, di stralunare gli occhi, di grattarmi il capo e d’invocar l aiuto di Lucina e di tutti i santi e le levatrici di Pindo, terminai non solo il primo finale, ma tutta l’opera. La chiusi allora nel mio armadio e non la cavai che quindici giorni dopo, per leggerla tutta a mente serena. Mi parve piú fredda e piú cattiva che mai. Bisognava però darla al Salieri, che n’aveva giá messo in musica alcune scene e che mi domandava ogni di il rimanente. Andai da lui coll’orecchie basse e gli misi in mano il libretto senza parlare. Lo lesse egli in presenza mia e mi disse queste parole: — È bene scritto, ma bisogna vederlo in scena. Vi sono deH’arie e delle scene assai buone e che molto mi piacciono: avrò, per altro, bisogno che mi facciate alcuni piccoli cambiamenti, piuttosto per l’effetto musicale che per altra causa. — Partii da lui contento come un paladino, e, come si crede volentieri quello che si desidera, cosi cominciava a sperare che quel dramma non fosse tanto cattivo quant’ io l’avea pria giudicato. In che consistevan però questi piccoli cambiamenti? In mutilare o allungare la piú gran parte delle scene; in introdurvi de’ nuovi duetti, terzetti, quartetti, ecc.; in cangiar i metri a metá dell’arie; in framisehiarvi i cori (che si dovean cantar da tedeschi!); in togliervi quasi tutti i recitativi e conseguentemente tutto l’intreccio e l’interesse dell’opera, se alcun ve n’era: di maniera che, quando il dramma andò in scena, non credo che rimanesser cento versi del primo mio originale. Era giá terminata dal compositore la musica e si doveva in poco tempo rappresentare, quando arrivò a Vienna il celeberrimo abate Casti, poeta del piú alto grido in Europa, famoso singolarmente per le sue novelle galanti, tanto pregiabili per la poesia quanto scandalose ed empie per la morale. Udita la morte di Maria Teresa, che noi vedeva volentieri in Vienna, indi quella del Metastasio, pensò che, parte per merito e parte per protezione de’ suoi potentissimi amici e sopra tutto del conte di Rosemberg, che amava molto, benché vecchissimo, l’arpa profana del cantor lascivo, che sentir gli Iacea ch’era ancor vivo, potrebbe forse ottenere il posto del defunto poeta cesareo. Arrivò nel medesimo tempo a Vienna il celebre Paisiello, compositore di musica assai caro all’imperadore e particolarmente stimato da’viennesi; sicché, parendogli di dover riuscire e sicuro che, riuscendo, il suo colpo era fatto, propose di scriver un dramma. Si mise dunque a dormire II ricco d’uri giorno e non si parlò piú che di Casti. S’imagi ni l’aspettazione de’ cantanti, del conte di Rosemberg, de’ non casti amici di Casti, di tutta infine la cittá, dove suonava si altamente il suo castissimo nome. Come toccava a me sopraintendere all’edizione di tutti i drammi, che in quel teatro rappresentavansi, cosi fui quasi il primo ad aver in mano il Re Teodoro , che tal era il titolo della • sua opera. Non ebbi pazienza d’andar a casa per leggerla.
Entrai in una bottega di caffè, e la lessi due volte dal principio alla fine. Non vi mancava puritá di lingua, non vaghezza di stile, non grazia e armonia di verso, non sali, non eleganza, non brio; le arie erano bellissime, i pezzi concertati deliziosi, i finali molto poetici: eppure il dramma non era né caldo, né interessante, né comico, né teatrale. L’azione era languida, i caratteri insipidi, la catastrofe inverisimile e quasi tragica. Le parti insomma erano ottime, ma il tutto era un mostro. Mi parve di veder un gioielliere, che guasta Leffetto di molte pietre preziose per non saper bene legarle e disporle con ordine e simetria. Mi confortai dunque pe’ difetti del Ricco d’un giorno , ch’io chiarissimamente vedeva, come vedeva quelli del Re Teodoro. Conobbi allora che non bastava essere gran poeta (giacché in veritá tale era Casti) per comporre un buon dramma; ma necessarissima cosa essere acquistar molte cognizioni, saper conoscere gli attori, saper bene vestirli, osservar sulla scena gli altrui falli ed i propri e, dopo due o tremila fischiate, saper correggerli; le quali cose, quantunque utilissime, nulladimeno assai difficili sono ad eseguirsi, impedendolo ora il bisogno, ora l’avarizia ed or l’amor proprio. Non osai tuttavia dire ad alcuno il pensiero mio, certissimo essendo che, se fatto l’avessi, m’avrebbero lapidato o messo come farnetico a’ pazzarelli. Casti era piú infallibile a Vienna che il papa a Roma. Lasciai dunque che il tempo, giudice delle cose, ne decidesse.
Non andò guari che l’opera si rappresentò e che sopra ogni credere piacque. Poteva essere diversamente? I cantanti erano tutti eccellentissimi, la decorazione era superba, gli abiti magnifici, la musica da paradiso; e il signor poeta, con un sorriso d’approvazione, riceveva gli applausi de’ cantanti, del pittore, . del sarto e del maestro di cappella, come tutti suoi. Ma, mentre la casti-rosembergica famiglia gridava altamente: — Oh che bel libro! oh che bel libro! — soggiungevano i pochi imparziali, e il giusto Giuseppe alla loro testa: — Oh che bella musica! oh che bella musica! — A ogni modo però l’efTetto maraviglioso del tutto insieme spaventò per tal modo Salieri, che non osò piú per quell’anno proporre // ricco d’un giorno alla direzione.
Andò Salieri alcun tempo dopo a Parigi, per metter in musica Le dnnaidi , ed io, considerate le circostanze, ebbi piacer della dilazione. Ebbi tempo cosi di riflettere sulle cose e di studiar il teatro. Scopersi ad un tempo stesso le occulte trame del mio potente rivale, e mi parve alfine che avrei potuto scrivere un libretto senza i difetti del primo. Tornò Salieri da Francia, e si dovette subito rappresentare il mio dramma. La parte principale di quest’opera addossata era alla Storace, ch’era nel suo fiore e tutta la delizia di Vienna. Questa cantante era allora inferma, onde convenne servirsi d’un’altra donna, che tanto era fatta per quelia parte quanto saria una colomba per far quella d’un’aquila. L’opera diede un gran crollo. Ma questo era poco, lo aveva dato da copiare il libretto a certo Chiavarina, giovane di qualche talento ma sommamente povero, e con core di padre beneficatolo. Egli era legato in amicizia con certo Brunati, che aspirava, come tanti pigmei di Parnasso, al poetato di quel teatro. Questo Chiavarina gli diede da leggere II ricco d’un giorno , e costui avvisò di farne una critica e di pubblicarla la sera della rappresentazione. Infatti la scrisse; e, credendo piacergli, la portò al signor Casti, perché gli ottenesse la permissione di pubblicarla in teatro. Il signor Casti l’ottenne assai facilmente; corresse diversi errori della ammirata rapsodia; mise le gambe a moltissimi versi che n’aveano o meno o piú del bisogno; vi aggiunse qualche verso, qualche frizzo spiritoso; e Chiavarina, vestito d’un abito ch’io pochi di prima aveva caritatevolmente comperato per coprirgli le ignude membra, fu quello che vendette in teatro quella nobilissima produzione, per piacere al signor abate Casti ed al protettore! Desidero che questa storia, quantunque frivola, non sia dalla memoria de’ miei leggitori sbandita. E comincino da questo momento a vedere quai furono sempre le disposizioni dell’animo mio, quale la gratitudine con cui mi pagarono i miei medesimi compatriotti, quale infine la guerra che ebbi a sostenere per molti anni. Non dirò giá che II ricco d’un giorno avrebbe avuto un assai migliore succcssu, se anche, invece delia satira dei poetastro tSrunati (vedremo in breve se tale era). Casti medesimo v’avesse fatto un elogio. Il libro era positivamente cattivo, e non molto migliore la musica: ché Salieri, tornato da Parigi coll’orecchio pieno di Gluck, di Lais, di Danaidi e di stridi da spiritati, scrisse una musica interamente francese, e le belle melodie e popolari, onde soleva essere fertilissimo, sepolte le aveva nella Senna. Ma, per intendere tutta la malizia de’ miei persecutori, basterá dire che, sebbene concorressero tante cose alla sua caduta, pur si voleva far credere che fosse mia sola la colpa ; e, mentre ne’ drammi buffi generalmente non si contano le parole die come la cornice d’un bel quadro che sostiene la tela, in questa occasione si pretese che le [iarde fossero tanto importanti, che da quelle sole dovesse dipendere tutto il buon effetto del dramma. E non eran solo i partigiani di Casti, i miei propri nemici e tutti quelli che aspiravano al poetato de’ teatri imperiali che gridavano p/agas contra me. ma i cantanti medesimi, ed alla testa loro il Salieri, dicevano cose da far paura Non sapevano, dicevan essi, come avevan potuto recitar quelle parolacce o come il maestro aveva potuto metterle in musica; e quest’ultimo, d’altronde uom saggio e non ignorante, fé’ giuramento solenne di lasciarsi piuttosto tagliar le dita che metter piú in musica un verso mio. E che Iacea il signor Casti? Faceami la guerra in un altro modo. Era il solo che impugnava la spada a difesa mia. Ma le sue lodi eran mille volte peggiori dell’altrui biasimo.
Pessimum ittimicorum genus laudanies.
— Il Da Ponte — diceva egli — non sa fare un dramma: questo che fa? Non può egli esser un uomo di merito senza saper fare un dramma? Non si può negare ch’egli non abbia molto talento. molto buon gusto e moltissime cognizioni. — Tutto quello che gli premeva era che si credesse ch’io non sapessi comporre de’drammi; e, lodando il mio talento, il mio buon gusto e le mie cognizioni, acquistava il diritto d’esser creduto verace in quello ancora che non lodava.
Uno stile tutto diverso teneano meco frattanto gli altri rivali. Ogni giorno usciva una critica, una satira, un libello contro me o i versi miei. Certo Nunziato Porta, un poeta cioè sul far di Brunati o peggiore, scrisse una poesia che terminava con questi due elegantissimi versi :
Asino tu nascesti ed asino morrai : per ora dissi poco, col tempo dirò assai.
Ma io contava tutti costoro come sei meritavano, fi vero che scrissi anch’io qualche poesia, in quella occasione, alquanto pungente e satirica; ma l’ho fatto piuttosto per diporto e per bizzarria che per sentimento di collera o di dispetto. Offrirò tra tutte queste a’ lettori miei alcune ottave, che mandai al nobiionio Pietro Zaguri, che comfncian cosi:
Ho presa dieci volte in man la penna; e forse ancora certi sonetti tronchi, che scrissi contro Chiovini, da me, per somiglianza del volto col deretano, chiamato Chiappino, e che, non essendo drammi, il signor abate Casti medesimo mi fece l’onor di lodare e di paragonarli a quelli delia Giuleide , scritta da lui. Si troveranno, coll’altre poesie, nel terzo tomo della mia Vita.
Non era dunque che Casti quello ch’io doveva temere, pel suo vero merito e piú ancora pei suoi finissimi artifizi e pel suo onnipossente protettore. Da questi però io aveva l’imperadore che difendevami, e, quanto piú essi mostravansi animati a umiliarmi, tanto piú esso armavasi a mio favore ed al mio risorgimento. — Questo giovane — diss’egli un giorno al ministro veneto Andrea Dolfin, che pur proteggevami — ha troppo talento per non dar gelosia a Casti. Ma io lo sosterrò. Ieri il conte di Rosemberg mi disse, dopo la recita del Ricca d’un giornn: — Avremo bisogno d’un altro poeta. — Casti era nella loggia con lui, quand’egli mel disse. Sperava forse ch’io gli dicessi t — Pigliate Casti. — Ma io invece gli risposi: — Voglio prima vedere un’altra opera del Da Ponte. — II cattivo effetto della prima mia produzione m’aveva tolto ii coraggio d’andar da lui : una volta, incontrandolo accidentalmente in un suo passeggio mattutinale, mi fermò e mi disse con un guardo cortese : — Sapete. Da Ponte, che la vostra opera non è poi si cattiva come ci voglion far credere? Bisogna far coraggio e darcene un’altra. — Capitarono frattanto a Vienna lo Storace e Martini, due giovani compositori che aspiravano a scrivere un’opera pel teatro italiano. II primo aveva la sorella per lui, virtuosa di merito favorita dal sovrano stesso; e l’altro l’ambasciatrice di Spagna, con cui legato parea d’amicizia strettissima l’imperatore. Dopo vari raggiri ed anderivieni segreti de’ cantanti e del casto abate, tentossi un gran colpo. Si pensò di far si che, a dispetto del volere sovrano, io fossi escluso dal mio uffizio: si propose perciò di far comporre il libretto per lo Storace (e Casti era alla testa della congiura) da quello stesso Brunati, che composto avea la satira contra me; e, quanto a Martini, cui tuttodí empievan l’orecchie della mia prima caduta, credevano o che non avrebbe mai osato arrischiar il suo credito co’ miei versi, o io non avrei arrischiato i miei versi colla sua musica; e, per meglio ottenere il loro intento, a lui dicevano male de’ miei drammi, a me della sua scienza. — Egli era un buon compositore pel ballo — dicevan essi; — ma, quanto alla musica vocale, Dio ce ne guardi! — Il mio reale protettore tagliò ben presto tal nodo. Fece dire a Martini per la medesima ambasciatrice di domandare a me le parole d’un dramma, e a me disse egli stesso: — Perché non fate un’opera per quello spagnuolo? Io credo che piacerá. — Fu interrotto a quest’epoca ogni mio studio da una strana e crudele avventura, che merita aver un loco tra i casi piú straordinari della mia vita. Un vile italiano, non essendo né bello, né amabile, né giovine, né ricco, s’era perdutamente innamorato di bellissima giovinetta, nella cui casa io abitava: ella però non solamente non amava lui, ma in odio e disprezzo l’avea, quanto mai da giovine donna possasi avere l’uom piú deforme.
Infastidendola un giorno costui per saper la cagione di questo suo odio: — Prima — gli rispose ella — perché siete piú brutto del diavolo, e poi perché son innamorata del Da Ponte ; — e, per piú dargli martello, cominciò a fargli un elogio di me, come se fossi stato un vero Adoncino. Io non aveva parlato sei volte in tutta la vita mia con questa fanciulla, né ho avuto mai ragione di credere ch’ella amasse me, perché sapeva ch’io amava altra donna, che nella medesima casa abitava. Lo fece forse per levarsi la noia di dosso o per punirlo d’aver avuto il coraggio di dirle ch’era innamorato di lei. La conseguenza di questo scherzo però mi fu fatalissima. Fu la cagione di farmi perdere tutti i denti all’etá di trentaquattr’anni, di farmi passar un anno di vita interamente infelice e quasi quasi di togliermi l’esistenza. Credendo ch’io solo fossi la vera causa del suo non essere amato, ne ingelosi bestialmente e concepí un odio implacabile contra me e un vivo desiderio di vendicarsene. Incontrandomi a caso un giorno in una bottega di caffè e sembrandogli che io fossi alquanto pensieroso, me ne chiese con simulato rincrescimento il motivo. Sapendo da un canto ch’egli esercitava la chirurgia, e non sapendo dall’altro la storia de’ suoi amori e la sua avversione gelosa per me, non ebbi difficoltá di dirgli che era dolente per la necessitá, in cui sarei, di farmi tagliare un’escrescenza carnosa in una gengiva, cagionata dall’estrazione d’un dente, escrescenza che di giorno in giorno maravigliosamente ingrossavasi. — E chi — diss’egli — consigliovvi di fare un taglio? — Il signor Brambilla — risposi (era questi il primo chirurgo dell’imperadore). — Male, male, malissimo — ripigliò colui. — Se voi mi date uno zecchino, io fo sparir l’escrescenza senza incisione. — Gli diedi il danaro chiestomi, ed ei parti. Ritornò in pochi minuti, e mi die’ una bottiglietta d’un liquore tanto possente, che in meno di sei giorni quell’escrescenza se n’era quasi ita. M’aveva ordinato egli di ammollare un pezzetto di tela in una piccola quantitá di quel liquore, indi porre la tela sull’escrescenza, prendendo ben cura di non inghiottirne alcuna quantitá considerabile. Una donna, che avea la cura della mia guardaroba, entrò a caso nella mia camera, mentre stava facendo per la settima volta questa operazione, e, in un’occhiata sola vedendo me porre in bocca la tela di giá ammollata, mise un grido spaventevole e altro non disse:
— Santo Dio, acquafòrte! — Mi strappò la bottiglia e la tela di mano; le riesaminò, mise il medesimo grido, e ripetè:
— Acquafòrte! acquafòrte! — Ella avea l’uso d’adoperarne nel lavare le mie calzette di seta, e cosi conobbe che cosa era. È facile pensare com’io rimasi. Mi fece lavar la bocca con acqua e aceto, con latte e non so con quante altre cose; ma il male era giá fatto. In otto giorni mi caddero otto denti di bocca, e, dall’inghiottire che feci alcune particelle di quel possente veleno, perdei talmente ogni appetenza al cibo, che per un anno intero pareva a tutti un miracolo, ch’io potessi vivere col poco nutrimento ch’io prendeva. Se divenni furente sei pensino quelli che sanno che sia esser privo di queste molle della digestione, del gusto e della vita. Corsi per le vie di Vienna a guisa d’un forsennato per piú di quindici giorni, nel giro de’ quali altri otto denti m’uscirono dalle gengive, come fossero stati di cera. Ei seppe del mio furore e si salvò colla fuga. Noi vidi piú per otto anni ; al fin de’ quali andato io a Gorizia col signor Giovanni Grahl e sua figlia, ch’io allor corteggiava, arrivando sul Traunico, nel discendere dalla carrozza, vidi una ciurma di gente correre in qualche distanza, come mossa da curiositá di veder qualche cosa di strano. Vi corsi anch’ io, e vidi un uomo grosso e grasso a terra, caduto boccone, tutto lordo del proprio sangue, disfigurato, guasto e dirotto tutta la faccia, e vicino a lui quattro grossi denti in terra, che pareano allora allora usciti dalla sua bocca. Varie persone l’aiutarono ad alzarsi, e non senza difficoltá il riconobbi per quel Doriguti stesso (tal era il nome di quel villano) che otto anni prima mi aveva fatto perdere i miei.
Dopo questa tribulazione, vedendo che piú non vi era rimedio pe’denti, cercai di trovarne uno per l’appetito; e in veritá non fu che due anni dopo che il riacquistai. Ripresi allora i miei studi e li consecrai intieramente a Martini. Scelsi II burbero di buon core pel soggetto del nostro dramma, e mi misi al lavoro. Appena si seppe la cosa, che il signor Casti, ostinato parimenti nel disegno d’ottenere il posto di poeta cesareo che in quello di perseguitar me, che credeva esserne il solo ostacolo, disse ad alta voce e pubblicamente che quello non era soggetto da opera buffa e che non farebbe ridere.
Ebbe fino l’audacia di dirlo a Cesare, che poi a me lo ridisse con queste parole: — Da Ponte, il vostro amico Casti pretende che il Burbero non fará ridere. — Maestá — rispos’io, — ci vorrá pazienza, meglio per me se lo fará piangere. — Giuseppe, che ne intese il senso: — Lo spero — soggiunse. Di fatti l’opera andò in scena e fu dal principio al fine applaudita. Si osservò che molti spettatori, e tra gli altri lo imperadore, applaudivan qualchevolta a’ soli recitativi. Incontrommi egli all’uscir del teatro, mi si accostò e mi disse a mezza voce: — Abbiamo vinto. — Queste due parole valevano per me cento volumi d’elogi. Andai la mattina a trovare il conte. Egli stava a croccino col caro abate. La serietá, con cui entrambi mi ricevettero, mi spaventò. — Che comanda il signor poeta? — Vengo a ricevere la mia sentenza dal signor direttore degli spettacoli. — Il signor poeta 1’ ha giá ricevuta dal nostro dolcissimo pubblico, non so quanto giusta! — E qui sorrisero amaramente il protettore e il protetto, e gentilissimamente mi piantarono. Non fui sorpreso di questo, ma risolsi sul fatto di congedarmi. — Quest’ due nemici — io diceva — son troppo potenti, e il favore sovrano non basterá a salvarmi dalle loro insidie. È meglio congedarsi ch’essere congedato. Corsi, con tal pensiero, alla reggia. Appena entrai nel gabinetto del principe, che con giubilo maraviglioso mi disse: — Bravo, Da Ponte! mi piace e la musica e le parole.
— Sacra Maestá — soggiunsi io modestamente, — il signor direttore par d’altro avviso. — Non è il signor direttore, è Casti che p irla — ripigliò Cesare. — Ma questo è il vostro trionfo. 1,’avete fatto piangere. Andate a casa: fatevi coraggio, e dateci una seconda opera con musica di Martini. Bisogna batter il ferro finch é caldo. — L’imperadore disse le stesse cose a Rosemberg, il quale ebbe poscia la sciocchezza di ridirmele.
Ma nemmen questo bastò a far perdere a’ due cortigiani scaltrissimi la speranza di guadagnarla. Cásti nulladimeno si trovò alquanto imbarazzato, e non ebbe coraggio di dir male apertamente u’un dramma che tutti lodavano. Prese una via di mezzo. Lodò, ma v’aggiunse tanti «ma», che la lode stessa finiva in biasimo.
— Ma, in fondo — diceva egli, — non è che una traduzione... Bisogna vedere com’andrá la faccenda in un’opera originale... Ma è peccato ch’egli negliga tanto la lingua... «Taglia», per esempio, non vuol dire statura. — nella qual significazione io avea adoperata quella parola. Mi trovai accidentalmente dietro alle sue spalle, quand’egli, in tuon derisorio, e piú nel naso che nella strozza disugolata. si gorgogliava questo verso a un cantante: La taglia è come questa. Passai allora dalle sue spalle al suo volto, e in suono anch’io di strozza disugolata e nasale gli ripetei questo verso del Berni: Gigante non fu mai di maggior taglia.
Guardommi, arrossi, ma ebbe la onestá di dire: — Per Dio, ha ragione! — Signor abate — gli dissi io allora, — chi non può criticar in un dramma che qualche parola, ne fa un grandissimo elogio. Io non ho mai criticato i gallicismi del Teodoro d).— Non gli diedi tempo di rispondermi, e me ne andai. Quel cantante rise, e il signor abate rimase mutolo per piú di dieci minuti. Cosi mi disse poi quel cantante, Stefano Mandini.
Si vede da questo che non tutto quello che luce è oro. E Casti, cui nessun può negare un infinito merito come poeta, non era per veritá né dotto né erudito. Egli aveva un dizionario enciclopedico, su cui studiava le cose che non sapea, quando occorrevagli farne uso. Nell’opera di Trofonio , parlando de’ dialoghi di Platone scrisse questo verso : Plato nel suo Fedon, nel suo Timone.
Fortunatamente per lui, io, che fui il primo a leggere il suo dramma e che dovea attender alla stampa, m’accorsi subito dell’errore, e vi posi «Timeo». Quando io gli diedi la pruova dell’editore per l’ultima correzione, arrivato a quel verso, nel leggere «Timeo», fermossi un poco, e mi chiese chi aveva cangiato «Timone» in «Timeo». — Io — risposi — signor abate. — Corse subito al suo dizionario, trovò il suo errore, si diede un terribile colpo di mano alla fronte, arrossi, mi ringraziò, e volle a forza ch’io prendessi bidono quel suo dizionario, che conservai per piú di venticinque anni e da qualche mano rapace mi fu carpito.
Il successo di questo secondo tentativo, e piú ancora il deciso favore, mostratomi dall’imperadore, creò in me una nuova anima, raddoppiò le mie forze per le fatiche da me intraprese, (1) Per esempio: «la risorsa dell’esausta mia borsa», ovvero «vai la pena di far la crudel». e non mi die’ solamente coraggio da incontrar gli assalti de’ miei nemici, ma da guardar con disprezzo tutti i loro sforzi.
Non andò guari, che vari compositori ricorsero a me per libretti. Ma non ve n’eran in Vienna che due, i quali meritassero la mia stima. Martini, il compositore allor favorito di Giuseppe, e Volfango Mozzart, cui in quel medesimo tempo ebbi occasione di conoscere in casa del barone Vetzlar, suo grande ammiratore ed amico, e il quale, sebbene dotato di talenti superiori forse a quelli d’alcun altro compositore del mondo passato, presente o futuro, non avea mai potuto, in grazia delle cabale de’ suoi nemici, esercitare il divino suo genio in Vienna, e rimanea sconosciuto ed oscuro, a guisa di gemma preziosa, che, sepolta nelle viscere della terra, nasconda il pregio brillante del suo splendore. Io non ;’OSso mai ricordarmi senza esultanza e compiacimento che la mia sola perseveranza e fermezza fu quella in gran parte a cui deve l’Europa ed il mondo tutto le squisite vocali composizioni di questo ammirabile genio.
L’ingiustizia, l’invidia de’giornalisti, de’ gazzettieri e piú de’ biografi di Mozzart non permise loro di dare tal gloria ad un italiano; ma tutta Vienna, tutti quelli che conobbero me e lui in Germania, in Boemia e in Sassonia, tutta la sua famiglia, e piú che tutti il baron Vetzlar, sotto il cui tetto nacque la prima scintilla di questa nobile fiamma, debbono essere testimoni per me della veritá che or discopro. E voi, gentilissimo signor barone, della cui cortese memoria ebbi con gran diletto recenti prove, voi che amaste e stimaste tanto queU’uomo celeste, e che pur una parte avete nelle sue glorie, ornai fatte maggiori dell’invidia e da tutta la nostra etá confessate, se mai vi capitan queste Memorie alle mani (ed io cercherò ben che vi capitino), rendetemi quella giustizia, che due parziali tedeschi fínor non mi resero : fate che per via de’ pubblici fogli di qualche veridico scrittore si sappia una veritá, che la malizia degli altri nascose, da cui un raggio di luce rifolgorerá, quando che fia, sulla memoria onorata del vostro amico Da Ponte.
Dopo, dunque, la buona riuscita del Burbero , andai dal suddetto Mozzart, e, narrategli le cose accadutemi si con Casti e Rosemberg che col sovrano, gli domandai se gli piacerebbe di porre in musica un dramma da me scritto per lui. — Lo farei volentierissimo — risposagli immediatamente; — ma son sicur.o che non ne avrò la permissione. — Questo — soggiunsi — sará mia cura. — Cominciai dunque a riflettere sulla scelta di due soggetti, che potessero piú convenire a due compositori di sommo genio, ma quasi diametricalmente opposti nel genere della loro composizione. Mentre io era immerso in tale pensiero, ricevei ordine da’ direttori teatrali di scrivere un dramma per Gazzaniga, compositore di qualche merito, ma d’uno stile non piú moderno. Per isbrigarmi presto, scelsi una commedia francese, intitolata L’aveugle clairvoyant , e ne schiccherai un dramma in pochi giorni, che piacque poco, tanto per le parole che per la musica. Una passioncella per una donna di cinquantanni, che disturbava la mente di quel brav’uomo, gl’impedí di finire l’opera ai tempo (issatogli. Ho dovuto perciò incastrare in un second’atto de’ pezzi fatti ventanni prima; prender varie scene d’altr’opere, tanto sue che d’altri maestri; infine fare un pasticcio, un guazzabuglio, che non avea né capo né piedi, che si rappresentò tre volte e poi si mise a dormire. Questa caduta però non fece gran torto al mio credito; ond’io mi misi serenamente a pensar a drammi, che doveva fare pe’ miei due cari amici Mozzart e Martini. Quanto al primo, io concepii facilmente che la immensitá del suo gemo domandava un soggetto esteso, multiforme, sublime. Conversando un giorno con lui su questa materia, mi chiese se potrei facilmente ridurre a dramma la commedia di Beaumarchais, intitolata Le nozze di Figaro. Mi piacque assai la proposizione e gliela promisi. Ma v’era una difficoltá grandissima da superare. Vietato aveva pochi di prima l’imperadore alla compagnia del teatro tedesco di rappresentare quella comedia, che scritta era, diceva egli, troppo liberamente per un costumato uditorio: or come proporgliela per un dramma? Il baron Vetzlar offriva con bella generositá di darmi un prezzo assai ragionevole per le parole, e far poi rappresentare quell’opera a Londra od in Francia, se non si poteva a Vienna; ma io rifiutai le sue offerte e proposi di scriver le parole e la musica secretamente, e d’aspettar un’opportunitá favorevole da esibirla a’direttori teatrali o all’imperadore; dei che coraggiosamente osai incaricarmi. Martini fu il solo che seppe da me il bell’arcano, ed egli assai liberalmente, per la stima ch’avea di Mozzart, consenti che io ritardassi a scriver per lui, finché avessi terminato il dramma di Figaro.
Mi misi dunque all’impresa, e, di mano in mano ch’io scriveva le parole, ei ne faceva la musica. In sei settimane tutto era all’ordine. La buona fortuna di Mozzart voile che mancassero spartiti al teatro. Colta però 1 occasione, andai, senza parlare con chi che sia, ad ofírir il Figaro all’imperadore medesimo. — Come! — diss’egli. — Sapete che Mozzart, bravissimo per l’istrumentale, non ha mai scritto che un dramma vocale, e questo non era gran cosa! — Nemmen io — replicai sommessamente — senza la clemenza della Maestá Vostra non avrei scritto che un dramma a Vienna. — È vero — replicò egli ; — ma queste Nozze di Figaro io le ho proibite alla truppa tedesca.
— Si — soggiunsi io; — ma, avendo composto un dramma per musica e non una commedia, ho dovuto ominettere molte scene e assai piú raccorciarne, ed ho ommesso e raccorciato quello che poteva offendere la delicatezza e decenza d’uno spettacolo, a cui la Maestá sovrana presiede. Quanto alla musica poi, per quanto io posso giudicare, panni d’una bellezza maravigliosa.
— Bene: quand’è cosi, mi fido del vostro gusto quanto alla musica e della vostra prudenza quanto al costume. Fate dar lo spartito al copista. — Corsi subito da Mozzart; ma non aveva ancora finito di dargli la buona nuova, che uno staffiere dell’imperadore venne a lui e gli portò un biglietto, ove ordinavagli d’andar subito alla reggia collo spartito. Ubbidi al comando reale; gli fece udire diversi pezzi, che piacquergli maravigliosamente e, senza esagerazione alcuna, lo stordirono. Era egli d’un gusto squisito in fatto di musica, come lo era veracemente in tutte le arti. Il gran successo, cl/ebbe per tutto il mondo questa teatrale rappresentazione, mostrò chiaramente che non s’era ingannato nel suo giudizio. Non piacque questa novella agli altri compositori di Vienna; non piacque a Rosemberg, che non amava quel genere di musica; ma sopra tutto non piacque a Casti, che dopo il Burbero non osava piú dire: — Il Da Ponte non sa far drammi. — e cominciava a sentire che non era impossibile ch’io alfine ne facessi uno che piacesse quanto il Teodoro.
Il conte frattanto, dopo aver tentato invano ogni mezzo surretticcio, osò chieder apertamente il posto di poeta cesareo pel suo novello Petronio. E, come la maniera è molto bizzarra, cosi m’imagino che fará piacere, a chi legge, l’udirla. Aveva l’imperadore data alle dame ^ii Vienna una bellissima festa nel palazzo di Schoenbrunn, nel cui teatrino il direttore degli spettacoli aveva fatto introdurre una comediola tedesca e un dramma italiano, le parole del quale erano, per suo consiglio, state fatte da Casti. Portava per titolo; Le parole dopo la musica. Per assicurarsi ch’era un vero pasticcio, senza sale, senza condotta, senza caratteri, basterá sapere che nessuno, tranne il conte, ebbe ardir di lodarlo. Per assicurar meglio la riuscita de’ loro intrighi, si pensò di far una galante satiretta dell’attuale poeta teatrale; e si può ben credere che il signor Casti non fu si galante con me come lo fu Apelle con Antigono. Ma, se si tragga il vestito mio e il modo con cui io portava i capelli, il rimanente era piú ritratto di Casti che mio. Parlava tra l’altre cose dei miei amori colle donne teatrali, e il bello si era che delle due donne che cantavano in quella farsa egli medesimo n’era il protettore ed il vagheggino. Il giorno dopo la festa, il conte, come gran ciambellano di Giuseppe, ebbe ordine da quel sovrano, nel presentargli la camicia, di segnare sopra un foglietto i nomi de’ cantanti e degli attori e di affissar a ogni nome, a misura del merito. un certo numero di zecchini, in segno dell’aggradimento sovrano. Mentre dunque l’imperadore vestivasi, il conte scriveva: finita che fu la ljsta, gliela presentò. Cesare le die’ un’occhiata, sorrise, e, pigliando in mano la penna, aggiunse un zero alle varie somme del conte, sicché un dieci diveniva cento, un quindici centocinquanta, e cosi in séguito. Restituendogli poi quella lista: — Non è il conte Rosemberg — disse — che die’ la festa: è l’imperadore. — Infiniti furono gli atti di simile generositá, che onoraron la vita e che onoreranno per sempre la memoria di questo buon principe, a dispetto di tutti coloro che per invidia, per ipocrisia o per ignoranza osarono, e in vita e dopo la sua morte, parlare e scrivere contra le cose fatte da lui, contra la sua saviezza e sovra tutto contra il suo cuore. Né solamente era generoso e benefico, ma accompagnava di tanta grazia le sue beneficenze, che ne raddoppiava il piacere e la maraviglia del beneficato.
E, perché spero di far cosa grata a’ miei lettori, lasciando da parte per poco tempo la storia di Casti e del suo mecenate, racconterò due azioni di questo adorabile principe, le quali, sebbene in sé stesse bellissime e della piú alta lode degne, nulladimeno debbono essere state del tutto ignote a’ suoi biografi ed encomiatori, perché da nessuno se n’è, per quel ch’io sappia, fatta menzione.
La moglie del sarto, da cui aveva preso un alloggio, era bella, giovane, compiacente e sopra ogni credere sollazzevole. Frequentavan diverse persone la casa sua: tra l’altre una vedova molto ricca, che, sebbene arrivata all’anno sessantesimo di sua vita, amava meglio rimaritarsi che dire orazioni. Aveva costei quattro figliuoli, ed eran carichi tutti quattro di numerosa famiglia; ma, benché figli di ricco padre, nulladimeno obbligati erano a guadagnarsi il pane col lavoro delle lor mani, perché il padre lasciato aveva piú di due terzi di sua facoltá alla consorte, e questa amava piú sé che i soni figli e piú il proprio piacere che quello degli altri. Veniva altresi spessissimo in quella casa un giovine gioielliere, avvenente della persona, gentil di maniere e d’un carattere gaio e piacevole quanfaltri mai. La vedovella dai dodici lustri l’adocchiò due o tre volte, e, credutolo tenero e delicato boccone per i suoi denti o, per meglio dire, per le sue giá indurate gengive, ne divenne mattamente ghiottissima, e credè poter supplire colle ricchezze a’ danni dell’etá, alle rughe del volto e a tutti i difetti d’un’invecchiata natura. Del resto non era né schifosa né disgustosa. Per un uomo di pari etá sarebbe stata un partito ottimo. S’accontò dunque colla Lisetta (cosi chiamavasi la moglie del sarto), la quale da principio ne rise; ma, quando le disse che, s’ella poteva far il gioielliere suo sposo, essa farebbe a lui donazione di tutta la sua facoltá e a lei darebbe un bell’orologio d’oro del valore di cento piastre, la Lisetta cominciò a spalancare gli occhi e a pensarvi seriamente, e un giorno, fingendo di scherzare, disse per esteso la cosa all’amato giovane. Senza pensarvi sopra un istante: — Andate subito — soggiunse egli, — e fatevi dar l’orologio; s’ella mi fa donazione di tutto, io sarò suo marito. — Parlò con tanta serietá, che la sarta senza indugiare andò da madama Agnese (cosi la vecchia chiamavasi), recolle la bella nuova, ch’ella udi, come si può credere, con eccesso di gioia ; gli sposi la medesima sera si videro; stipulossi il contratto matrimoniale, si segnò da entrambi in presenza di testimoni; e l’amorosa Agnesina, dopo aver dato l’orologio alla pronuba Lisetta e cento fiorini per le spese della festa nuziale, che celebrar dovevasi nella sua casa, ímpatiens tuorae, fissò il di seguente per la cerimonia della chiesa; e, appena tornata a casa, dimentica de’ figli, de’ nipoti, di se medesima, rimise in presenza di molti un bauletto, che seco portato avea, al dolce maritino, diègli le chiavi, ed egli, apertolo pubblicamente, vi trovò tra oro, gemme, orologi e danaro investito ne’ banchi, il grosso capitale di sessanta a settantamila piastre, di cui assoluta signora lasciata avevaia il defunto marito.
Si passò tutta la giornata in grande allegria. Rinfreschi in abbondanza, musica, canti epitalamici, pranzo soutuoso, ballo, cena, dopo la quale la vecchiarella, che avea stuzzicato gagliardamente il foco d’amore con quel di Bacco, domandò di ballare col marituccio, e, finita la danza, che fece, come può credersi, smascellar dalle risa gli astanti, la compagnia congedossi. Era giá passata la mezzanotte e, dopo non molti minuti, domandò al marito se non fosse tempo d’andare a letto. — Madama — rispose egli, — tocca a voi l’andarvi prima. — Immaginandosi che cosi le dicesse per i riguardi dovuti di sua modestia al virginal decoro, domandò la permissione al sarto, alla Lisetta ed a me d’imprimere il primo casto bacio sulle labbra al bel giovanetto, ed, appressandosi a lui, la bocca gli baciò tutta tremante; ma, dal modo con cui egli la ribaciò, avrebbe molto facilmente potuto accorgersi che quel primo bacio sarebbe Lultimo. Andò, dopo questo, alla sua camera. Il gioielliere rimase alcun tempo con noi, ma in pochi minuti s’udi dall’alto gridare una voce flebile: — Cecco, è tempo d’andar a letto. — Dopo un breve silenzio, s’udi ripetere in suon piú forte il medesimo invito, a cui dopo aver egli risposto:— Tra poco, madama, — chiamò la Lisetta, le disse poche parole e parti. Non passaron che pochi istanti, e la medesima voce in tuono piú ansioso e desiderante si fece udire, sciamando : — Ma, Cecco, è tempo d’andar a letto. — Allora la sarta dal piè della scala le fece intendere che Cecco avea dovuto partire per qualche importante affaruccio, ma che la mattina ritornerebbe. La povera vecchia non voleva crederlo. Non scese no, precipitò... delle scale. Diceva ch’era una burla, e che n’era di ciò sicurissima. Cerco per tutte le camere, sotto i letti, negli armadi, dietro le cortine delle finestre, in tutti gli angoli e buchi della casa, e, vedendo alfine che non era burla ma veritá, si gettò disperatamente sopra il sofá, empie’ d’ululati e di stridi la casa, finché, stanca di urlare, di piangere, di contorcersi, di divincolarsi c di far tutto quello che farebbe uno che addosso avesse non un demonio sol, ma le decine, dopo un’ora di tragicommedia, s’addormentò sul sofá, dove la lasciammo dormir e russare fino alle nove della mattina.
Fu quella appunto l’ora in cui il giovane gioielliere ricevette in sua casa i quattro figli di quella donna, cui due ore prima aveva per lettera invitati a fargli una visita. Li fece sedere e, vedendoli in viso seri e corrucciati, parlò loro cosi: — Signori, la povera madre vostra, incapace di moderare in sua vecchia etá l’impetuosa passione de’ sensi, fosse amore che la sedusse o fosse poter di sensualitá, mi fece proporre di maritarla, offerendomi per tal atto tutta la facoltá che a lei, forse per imprudenza, lasciò il padre vostro. Siete in diritto di credere che amor di ricchezze m’abbia sedotto a condiscendere a un’offerta si turpe e ad uno stesso tempo ridicola. No, amici miei: se credete ciò, v’ingannate. Io ho abbastanza da vivere col frutto delle mie mani, e di superfluo non mi curo; ma, riflettendo che questa donna voleva a ogni modo un marito, mi affrettai a legarla co’ vincoli d’un matrimonio, temendo che un mio rifiuto non la obbligasse a cercarne un altro, che forse poteva essere men giusto e piú interessato di me. Fu dunque per caritá per voi, di cui conosco i bisogni e i diritti, che ho fatto un sacrifizio della mia libertá; fu per darvi, colla mano di padre adottivo, quello che la vostra madre naturale voleva togliervi. — Aperse, cosi dicendo, il bauletto, che posto aveva sopra una tavola; trasse tutte le cose che conteneva; ed: — Ecco — disse — tutta la ricchezza che v’appartiene e ch’io, pieno di vero giubilo, a voi rimetto. Dividetevela da buoni fratelli, e voglia Dio che serva a farvi felici. — Rimasero tutti muti, soprafatti, storditi per piú minuti; ond’egli. seguitando a parlare, informolli che avea ritenuto un capitale di seimila fiorini, il cui interesse dovea servire pel mantenimento della lor madre, e che anche questi, dopo la sua morte, voleva che appartenessero ad essi od a’ loro figli. Io non mi cimenterò a descrivere la scena che segui poi tra queste cinque persone. Non ripeterò le lagrime e i singulti di gioia, le offerte, le espressioni di gratitudine, i mutui abbracciamenti, le benedizioni : dirò solamente che si gettarono tutti quattro ai piedi del magnanimo giovine, cui chiamarono padre, amico, angelo, dio tutelare, e non fu che dopo un’ora di tali carezze e trasporti che si separarono per partire. Il buon gioielliere volle me ed il sartore testimoni di questo suo atto, degno d’un Socrate, d’un Aristide; e non so d’aver veduta o letta in tutta la vita mia una scena che piú di questa m’abbia sorpreso ed intenerito. Ci pregò allora d’andar a casa, ove, appena arrivati, avemmo la fine del dramma. Mandò a madama, poco dopo il nostro ritorno, una lettera, in cui le fece una patetica narrazione del fatto. V’acchiuse setiantacinque fiorini pel primo trimestre, e assicurolla solennemente che noi rivedrebbe mai piú. Mancò poco ciie non morisse di dolore alla lettura di quella lettera; ma, per consiglio de’ loro amici, i quattro figli, le mogli ed i nepotini vennero tutti da lei, e, a forza di carezze, di offerte, di lagrime, di preghiere, la racconsolaron per modo che, dopo essersi tutti abbracciati e riabbracciati, condiscese ella d’andar ad abitare con uno d’essi.
Non indugiai molto a raccontar tutta la storia all’imperatore, il quale, dopo avere sciamato con gran trasporto: — Lodato sia Dio, che, se vi sono dei cattivi, vi son anche dei buoni nella mia Vienna, — mando sul fatto pel gioielliere, lodò assai un atto si nobile e gli destinò una pensione di quattrocento fiorini l’anno, sua vita durante. Ho pensato piú volte di fare di questo aneddoto un dramma buffo; ma la cantante, che avrebbe condisceso di far la parte della vecchia, non è ancora nata e probabilmente non nascerá. La seconda azione, che sto per narrare, non è, a mio parere, né men nobile né meno interessante di questa, come quella che accoppiava a somma generositá somma clemenza. Lui poeta tedesco, che pe’suoi rari talenti era assai caro all’imperatore, da cui avea avuti chiari e distinti segni di generoso favore, trasportato da un estro piú che poetico, che non seppe imbrigliare, pubblicò un’oda, che cominciava cosi: «Può un re esser buono?» Il resto di quest’oda rispondeva perfettamente a questo principio. Appena si pubblicò, che vi fu chi portolla al sovrano, con tutte le aggiunte e le frange che si sogliono fare in tali occasioni. Giuseppe la lesse, e la ingratitudine del poeta tanto gli spiacque, che il fece partir da Vienna e lo rilegò a Temisvar. Domandandomi, alcun di dopo, s’io letto avea e che cosa parevami di quell’oda, risposi che l’avea letta e che mi sembrava bellissima. — Bellissima? — soggiunse egli. — Maestá, si, — ripigliai: — era facil cosa provargli che un re può esser buono. — Come? come? — Perdonandogli. — Avete ragione — replicò allora con gran vivacitá; e, andando velocemente al tavolino, scrisse un biglietto al direttor della polizia, se non ingannomi al conte Saur, nel quale gli commise di richiamar quel poeta e di dirgli che l’imperadore gli perdona. Gli mandò poi duecento zecchini per le spese del viaggio, ma non volle vederlo mai piú.
Torniamo a Rosemberg. Non aveva ancora avuto tempo di riaversi dalla mortificazione e sorpresa cagionatagli da questo «zero». L’imperadore, che s’era giá allontanato da lui, gli si accostò nuovamente, per domandargli perché il nomedi Casti non eravi in quella lista. — Casti — soggiunse il conte — ed io con lui speriamo che la Maestá Vostra si degnerá di onorarlo del titolo prezioso di poeta cesareo. — Conte caro — replicò Cesare, — per me non ho bisogno di poeti, e pel teatro basta Da Ponte. — Seppi un si bell’aneddoto il giorno stesso dal maestro Salieri, a cui il sovrano lo disse, e qualche di dopo dal sovrano medesimo. Questa repulsa frattanto non fece che accrescere l’odio loro contra di me. Non eravamo perciò senza un giusto timore, tanto Mozzart che io, di non dover soffrir delle nuove cabale da questi due nostri buoni amici.
Non hanno potuto far molto, ma pur hanno fatto quel c’han potuto. Un certo Bussani, inspettor del vestiario e della scena e che sapea fare tutti i mestieri fuori che quello del galantuomo, avendo udito ch’io aveva intrecciato un ballo nel Figaro, corse subitamente dal conte e, in tuono di disapprovazione e di maraviglia, gli disse: — Eccellenza, il signor poeta ha introdotto un ballo nella sua opera. — Il conte mandò immediatamente per me, e, tutto accigliato, cominciò questo dialoghetto, che vai ben quello dell’Eccellenza barnabotica.
— Dunque il signor poeta ha introdotto un ballo nel Figaro ?
— Eccellenza, si.
— Il signor poeta non sa che l’imperadore non vuol balli nel suo teatro?
— Eccellenza, no.
— Ebben. signor poeta, ora glielo dich’io.
— Eccellenza, si.
— E le dico di piú che bisogna cavarlo, signor poeta. — Questo «signor poeta» era ripetuto in un tuono espressivo, che pareva voler significare «signor ciuco», o qualche cosa di simile. Ma anche il mio «Eccellenza» aveva il dovuto significato.
— Eccellenza, no.
— Ha ella il libretto con sé?
— Eccellenza, si.
— Dov’è la scena del ballo?
— Eccola qui, Eccellenza.
— Ecco come si fa. — Dicendo questo, levò due foglietti del dramma, gittolli gentilmente sul fuoco, mi rimise il libretto, dicendo:— Veda, signor poeta, ch’io posso tutto: — e m’onorò d’un secondo «vnde».
Andai sul fatto da Mozzart, il quale, all’udire tal novelluccia da me, n’era disperato. Voleva andar dal conte, strapazzar Bussani, ricorrer a Cesare, ripigliar lo spartito: ebbi in veritá a durar gran fatica a calmarlo. Lo pregai alfine di darmi due soli giorni di tempo e di lasciar fare a me.
Si doveva quel giorno stesso far la prova generale dell’opera. Andai personalmente a dirlo al sovrano, il quale mi disse che interverrebbe all’ora prefissa. Difatti vi venne, e con lui mezza la nobiltá di Vienna. V’intervenne altresí il signor abate con lui. Si recitò il primo atto tra gli applausi universali. Alla fine di quello havvi un’azione muta tra il conte e Susanna, durante la quale l’orchestra suona e s’eseguisce la danza. Ma, come Sua Eccellenza Puotutto cavò quella scena, non si vedea che il conte e Susanna gesticolare, e, l’orchestra tacendo, pareva proprio una scena di burattini. — Che è questo? — disse í’impcradcre a Casti, che sedeva dietro di lui. — Bisogna domandarlo al poeta — rispose il signor abate, con un sorrisetto maligno. Fui dunque chiamato; ma, invece di rispondere alla questione che mi fece, gli presentai il mio manoscritto, in cui aveva rimessa la scena. Il sovrano la lesse e domandommi perché non v’era la danza. Il mio silenzio gli fece intender che vi doveva esser qualche imbroglietto. Si volse al conte, gli chiese conto della cosa, ed ei, mezzo barbottante, disse che mancava la danza, perché il teatro dell’opera non avea ballerini. — Ve ne sono
— diss’egli — negli altri teatri? — Gli dissero che ve n’erano.
— Ebbene, n’abbia il Da Ponte quanti gliene occorrono. — In men di mezz’ora giunsero ventiquattro ballerini, ossia figuranti: al fine del secondo atto si ripetè la scena ch’era cavata, e l’imperadore gridò: — Cosi va bene! — Questo nuovo atto di bontá sovrana raddoppiò l’odio e la brama ardentissima di vendetta nell’animo del mio potente persecutore. Aveva io chiesto, pochi di prima, che mi fosse pagato dalla cassa teatrale certo danaro, che per diritto di contratto mi era dovuto. Trovò egli delle cavillazoni per defraudarmene, ed io, che non volli per piú ragioni parlarne al mio reale signore, provai d’ottenere coll’arte quello che non poteva colla giustizia. Casti era la susta principalissima, che moveva in tutto quell’uomo debole: pensai dunque di scriver a lui un’epistola in versi, che contenesse non solo la mia domanda e le mie ragioni, ma un elogio altresi del suo merito; ed egli, conseguentemente, trovati avendo que’ versi bellissimi, lodolli, recitolli agli amici suoi ed al signor conte, ed io ebbi scnz’altre opposizioni il danaro richiesto.
Laudes, crede tnihi, placatit homitiesque deosque. Stamperò novellamente questi versi, che, se non sono belli, furono fortunati.
Epistola all’abate Casti Gentil Casti, ho stabilito, ecc. (0.
Si rappresentò frattanto l’opera di Mozzart, che. ad onta de’ «sentiremo» e de’ «vedremo» di tutti gli altri maestri e de’ lor partigiani, ad onta del conte, di Casti e di cento diavoli, piacque generalmente, e fu dal sovrano e da’ veri intendenti come cosa sublime e quasi divina tenuta. Anche il libretto si trovò bello; e il mio castissimo comentatore fu il primo a farne rimarcar le bellezze. Ma quali erano queste bellezze? — È vero che non è che una traduzione della commedia di Beaumarchais ; ma vi sono I k _ (i) Manca il resto dell ’Epistola [F.d.l, de’ bei versi e qualche bella aria. Ecco, per esempio, due versi leggiadrissimi :
Non piú andrai, farfallone amoroso, notte e giorno d’intorno girando. — Tutta la lode, dunque, di quest’opera consisteva, secondo lui, in qualche bel verso o, al piú al piú, in qualche bell’aria. Quantunque, per altro, cominciasse quasi a disperare d’ottener da Giuseppe quel posto e avesse giá artifiziosamente sparsa voce che intendeva d’accompagnare un ricco signore ne’ suoi viaggi, il conte nulladimeno, che tremava di paura di perdere l’eccitator di voluttá languente, volle che scrivesse un’altra opera per Salieri, che desiderava vivamente d’oscurare con qualche cosa di grande l’opera di Mozzart. Fu allora che scrisse La grotta di Trofonio , il cui secondo atto, quanto alla poesia, distruggeva intieramente 1 ’eff tto del primo, del quale non era che una perfetta ripetizione ; ma che, a mio credere, è un’opera assai piu bella del Teodoro. Sebbene però la musica fosse bellissima e i fautori di quel poeta suonassero le campane a martello, battessero i tamburi e desser fiato alle trombe per diffonder il susurro delle lor lodi, nulladimeno nemmen per queste o per tutti i miracoli del mago Trofonio poterono smuover l’imperatore dal suo tenace proposito. Non rimaneva perciò che un colpo da tentarsi: tentossi anche questo; ma fu quello appunto che fini di rovinar Casti neii’animo dell’imperadore, che amava bene i suoi versi, ma non amava lui. Aveva egli terminato di scrivere il Gingiscano poema tartaro (secondo me, di merito molto inferiore alle sue Novelle e agli Ammali parlanti), lo fece copiare leggiadramente e presentollo di propria mano all’imperadore. Quando questo sovrano trovò cíie quel poema non era che una satira acerrima di Caterina <*), (i) li giorno di santa Caterina, onomastico di quella celebre principessa, Giuseppe circondava il suo ritratto, che teneva nella sua camera da letto, d una infinitá di candele accese, ne solennizzava l’anniversario con vari atti di gioiosa venerazione e accordava tutte le grazie che gli venivano domandate. ch’egli amava ed idolatrava, fece chiamar Casti nella sua loggia al teatro dell’opera e gli regalò seicento zecchini, dicendogli:
— Questi serviranno per le spese del vostro viaggio. — Ecco una maniera assai graziosa per dar il congedo ad alcuno! Casti comprese il gergo e parti pochi giorni dopo da Vienna. La sua partenza quasi improvvisa accrebbe di molto il mio coraggio e il mio spirito, e distrusse tutti gli ostacoli ch’ei metteva alla mia pace e alla mia drammatica riputazione, e come uomo celebre per proprio merito, e come protetto da’ piú potenti, e come generalmente amato e desiderato in Vienna, al cui innalzamento credevasi ch’io solo fossi d’inciampo. S’ingannavano però tutti: la vera ragione per cui Giuseppe non volle mai dargli il posto ed il titolo del Metastasio, poeta si castigato, si puro, dicasi pur coraggiosamente, si santo e nei costumi e ne’ scritti suoi, furono le sue Novelle galanti , il suo amore sfacciato pel gioco, per le donne, per le dissolutezze e, forse piú che per altra cosa, pel suo carattere satirico, vendicativo e immemore de’ benefici. — Avete letto — mi disse un giorno Giuseppe — il sonetto che scrisse contro il vostro buon amico Casti il famoso Parini ? — No, sire, — risposi io. — Eccovelo. — Trasse un foglietto da un taccuino, mel diede sorridendo e: — Come so — soggiunse egli — che vi piacerá, vi consiglio di trarne copia. — Il sonetto si trova nel terzo volume dell’ Opere di Parini dell’edizione di Milano. Lo pubblico qui, per provare che è tutto vero quello che dico :
Un prete brutto, vecchio e puzzolente, dal mal moderno tutto quanto guasto, e che, per bizzarria dell’accidente, dal nome del casato è detto casto; che scrive dei racconti, in cui si sente dell’infame Aretin tutto l’impasto, ed un poema sporco e impertinente contra la donna dell’impero vasto; che, sebbene senz’ugola è rimaso, attorno va, recitator molesto, oscenamente parlando col naso: che dagli occhi, dal volto e fin dal gesto spira l’empia lussuria ond’egli è invaso, qual satiro procace e disonesto : si, questo mostro, questo è la delizia de’ terrestri numi. Oh che razza di tempi e di costumi ! Quando s’accorse ch’io aveva terminato di leggerlo, mi diede un foglietto di carta e volle ch’il ricopiassi. — L’autografo — soggiuns’egli — lo daremo al conte Rosemberg, che volea regalarmi questo fior di virtú in loco del Metastasio. — Questa espressione ironica di «fior di virtú» mi richiamò alla memoria un sonetto, ch’aveva fatto pel dramma di Casti, intitolato Le parole dopo la musica, in cui aveva usata anch’io quella frase; e per quella frase sola osai recitarglielo, avendogliene prima detto la causa. Casti ier sera un’operetta fe’ (— Divina! — dice il conte), ove pensò satiretta gentil scriver di me; ma il pennel traditore il corbellò. Tutto quel ch’ei pingea, pingea di sé, d’amor, di gioco (il resto io noi dirò); e, quando in man al nostro sir lo die’, lui riconobbe il nostro sir, me no. Quindi il conte proporgli indarno ardi in luco mio quel fiore di virtú, ché il nostro sir gli rispondea cosi:
— Casti è un poeta che vale un Perú, ond’io gli do’l buon anno ed il buon di; ma, se Casti pur vuoi, piglialo tu. —
— Bravo! mi piace, datemene copia, ché lo farò leggere al conte con quel di Parini. — Al conte, Sire? — Si, al conte; ma non gli dirò che l’avete fatto voi. — Gli diedi il sonetto, ed egli mi regalò quindici sovrane, che trasse di tasca senza contare. Lasciamo Casti per ora: avrò occasione di parlare novellamente di lui al suo ritorno a Vienna. Partito dunque il mio persegutore, ch’era l’oracolo che per le altrui bocche parlava, mi venne in testa il pensiero di far una bella burletta a’miei Zoili, ch’io aveva gran voglia di castigare. Dolevasi giá il Martini del mio soverchio indugiare a dargli delle parole: appena finito il Figaro , il fratello della Storace, che aveva conosciuto meglio i talenti del suo primo poeta, ottenuto avea dall’imperatore d’aver un libretto da me, ch’io, per fargli piacere e spicciarmi, trassi da una comedia di Shakespeare. Come non doveva parer possibile eh’io scrivessi due drammi ad un tempo stesso, cosi opportuno mi parve il momento di porre in opera il mio disegno. Andai da Martini, e mi feci promettere che nessuno al mondo saprebbe ch’io doveva scrivere un dramma per lui. Il bravo spagnuolo mi servi ottimamente, e, per colorare meglio la cosa, finse di esser in collera meco pel mio ritardo e fece credere a tutti che un poeta, ch’aveagli fatto un’altr’opera a Venezia, gli avesse giá mandato un dramma e che egli stavane facendo la musica. Intanto, per piacere si a lui che aH’ambasciatrice di Spagna, sua protettrice, pensai di sceglier un soggetto spagnuolo; il che piacque estremamente al Martini e all’imperadore stesso, a cui affidai il mio secreto, ch’egli approvò estremamente. Dopo aver letto alcune commedie spagnuole, per conoscere alcun poco il carattere teatrale di quella nazione, mi piacque moltissimo una comedia di Calderon, intitolata La luna della Sierra ; e, prendendo da quella la parte istorica e una certa pittura de’ caratteri, formai il mio piano, nel quale ebbi occasione di far brillare tutti i migliori cantanti della compagnia di quel teatro. Il soggetto del dramma era semplicissimo. L’infante di Spagna s’innamora d’una bellissima serrana. Essa, innamorata d’un serrano e virtuosissima per carattere, resiste a tutti gli assalti di quel principe, e prima e dopo le nozze. Intitolo dunque l’opera Una cosa rara, ossia bellezza e onestá , corroborando quel titolo col famoso verso del satirico: «Rara est concordia formae atque pudicitiae». Mi misi al lavoro, e mi convien confessare di non aver mai scritto versi in tutta la vita mia con tanta celeritá né con tanto diletto. Fosse un sentimento di tenera parzialitá per un compositore, da cui mi erano derivati i primi raggi di pace e di gloria teatrale, fosse il desiderio di abbattere d’un colpo mortale i miei ingiusti persecutori, o fosse alfine la natura dell’argomento, per sé poetico e dilettevole, io ho finita quell’opera in trenta giorni, e il bravo maestro ne fini a un tempo stesso la musica. Aveva osato unire, come giá dissi, in questo libretto i principali cantanti della compagnia. I bigelli italiani, torbidi generalmente e inquieti, mossero le solite liti al compositor della musica, prima ancor di ricevere le loro parti. A me non potevan muoverne, non sapendo ch’io fossi l’autore delle parole, e per quella volta tanto sic me servavit Apollo.
Appena si distribuiron le parti, che parve scatenato l’inferno Chi aveva troppi recitativi, chi non n’aveva abbastanza; per uno l’aria era troppo bassa, per un altro tropp’alta; questi non entrava ne’ pezzi concertati, quegli ne dovea cantar troppi; chi era sacrificato olla prima donna, chi al primo, al secondo, al terzo ed al quarto buffo: il foco era generale. Si diceva però (e questo, credendo di dar martello si a Martini che a me, cui non credevan autore de’ versi) che la poesia era vaghissima, i caratteri interessanti, il soggetto del tutto nuovo: che il dramma finalmente era un capolavoro, ma la musica debolissima e triviale. — Imparate, signor Da Ponte — mi disse un di seriamente certo cantante, — come si scrive un libretto buffo. — Si può pensar facilmente coni’io rideva. Fece alfine questo vulcano la sua eruzione. Rimandarono quasi tutti la parte al copista, e gli commisero di dire al Martini che quella sorta di musica non era da loro e che non volevan cantarla. Il capopopolo della congiura era il primo buffo, che odiava particolarmente il compositore spagnuolo, come quello che dalla sua infedel dulcinea era guardato con occhio tenero. La novella di quella teatrale rivoluzione giunse all’orecchio di Cesare, il quale mandò sul fatto per Martini e per me, e ne chiese conto di tutto. Osai assicurarlo che né i cantanti erano mai stati esposti in alcun altro spettacolo con piú vantaggio di quello ch’erano nel mio dramma, né Vienna aveva forse udita prima d’allpra una musica si vaga, si amena, si nova e si popolare.
Mi domandò il libretto, ch’io aveva per buona sorte portato meco. Apertolo a caso, gli venne davanti il primo finale, che terminava con questi versi:
Ma quel eh’è fatto, è fatto, e non si può cangiar.
— Non può essere piú a proposito, — gridò Giuseppe sorridendo. Prese subito la matita, e scrisse in un foglietto queste parole :
Caro conte, dite a’miei cantanti c’ho udite le loro doglianze quanto all’opera del Martini, che me ne dispiace moltissimo; ma che «quel eh’è fatto, è fatto, e non si può cangiar».
Giuseppe. Mandò sul fatto al conte di Rosemberg quel biglietto, il quale lo fece leggere il giorno stesso ai cantanti alle pruove teatrali. Impauri quelle teste bizzarre la lettura del reale scritto, ma non scemonne il dispetto. Ripresero le parti, non cessando nelle loro combricole di mormorare, di criticare e di maledir lo spagnuolo e la di lui musica. Arrivò la sera della prima rappresentazione. Il teatro era pieno di spettatori, per la maggior parte nemici e disposti a fischiare. Trovossi però, sin dal cominciamento della rappresentazione, una tal grazia, una tal dolcezza, una tal melodia nella musica e una tal novitá ed interesse nelle parole, che l’udienza parea rapita in un’estasi ili piacere. Ad un silenzio, ad una attenzione, non mai prestata prima ad alcun’opera italiana, succedeva un frastuono d’applausi, anzi pur d’urlamenti di dilettazione e di gioia. Si comprese sul fatto l’intrigo de’cabalisti, e si unirono tutti concordemente nel batter di mani e nelle piú vive acclamazioni. Dopo il primo atto, domandarono le frequentatrici del teatro chi era il poeta. Aveano queste udito Casti e i parziali suoi parlar si poco favorevolmente del mio sapere drammatico, che nemmeno passava loro pel capo ch’io ne potessi esser l’autore, e, quantunque lo stile della Cosa rara non fosse diverso da quello del Burbero, del Figaro e degli altri miei primi drammi, pure non s’è
trovato in Vienna che Kelly, il quale, sebben né molto colto né letterato, di tale somiglianza s’accorse, e mi disse un di francamente: — Scommetto, Da Ponte, che questo libretto è scritto da voi. — Lo pregai di non eccitarne il sospetto negli altri, parlandone. Tacque; ed io, per colorare meglio la mia burletta, non misi il mio nome .in gran parte de’ libri, che si sogliono vendere nei teatri per comodo degli spettatori. Aveva però confidato il segreto al signor de Lercheneim, segretario del reai gabinetto e singolarissimo amico mio. Fattosi questo a passeggiare tra le belle del parta re^ e uditi i loro discorsi, le informò che il poeta era un veneziano che era attualmente in Vienna, e che al fine dello spettacolo si sarebbe fatto vedere.
— Questo — esclamaron esse, — questo è il poeta che al teatro nostro conviene, e lo domanderemo noi stesse all’imperadore, se sará necessario. — Non sará necessario — rispose Lamico mio, — perché questo poeta è stato giá dal sovrano impegnato. — Ne fecer di ciò quelle dolci damine festa maravigliosa, e si cominciò il second’atto, ch’ebbe un ugual successo, e forse ancor piú fortunato del primo. Un duetto principalmente parve elettrizzare l’anime ed empirle d’un foco celeste. Giuseppe fu il primo a domandarne, e colla voce e colle mani, la ripetizione, abolendo cosi una legge fatta pochi di prima da lui, di non ripetere i cosi detti pezzi concertati.
Terminato lo spettacolo, presentommi il signor Lercheneim a quelle dame che bramavano un nuovo poeta nel loro teatro, ed autor dichiarommi di quel libretto. Non so se fosse maggiore il mio divertimento o la lor confusione c sorpresa. Mi domandarono la cagione per cui celato aveva tanto gelosamente il mio nome. — Per far arrossire la cabala — rispose il signor Lercheneim graziosamente. Andai a visitare allora i miei colleglli teatrali, e regalai a ciascuno un libretto, in cui era stampato il mio nome a lettere maiuscole. Non si può dipingere con parole la lor confusione. Non ardivano guardarmi in faccia ( 1 ) A Vienna vi è nn parterre, nel quale vanno anche le dame ed i cavalieri. né favellare. Credo che avrebber voluto essere stati senza lingua piuttosto che aver tanto laudate quelle parole prima di sapermi autore; il che avevano fatto col pensiero di farmi avvilire a’ miei stessi occhi, ma reso avevano invece piú luminoso il trionfo mio.
Fui invitato la stessa sera a cenar da un cantante, dove frequentemente trovavasi l’autor della famosa satira «Asino, tu nascesti». Vi capitò, e: — Chi diavolo — diss’egli, entrando, — è l’autor di questo bel libro? — Un «asino tu nascesti», signor Porta mio — (cosi chiamavasi il mio satirico), risposi io freddamente, offerendogli un esemplare del dramma col mio nome nel frontespizio. Non occorre dire come rimase. Ma tutti questi divertimenti non furono nulla, in confronto de’ piaceri reali da me provati pel felice successo di questa opera. I tedeschi, naturalmente buoni e ospitali, che avevano fin allora fatto poco conto di me, in grazia delle censure de’ miei nemici e delle lodi col «ma» prodigatemi da Casti, cercavano di darmi degli ampi compensi de’ torti fattimi, colle cortesie, colle carezze e colle accoglienze gentili. Le donne principalmente, che non volevano che vedere la Cosa rara e vestirsi alla foggia della Cosa rara , credevano in veritá due cose rare tanto Martini che me. Noi avremmo potuto avere piú avventure amorose che non ebbero tutti i cavalieri erranti della Tavola rotonda in vent’anni. Non si parlava che di noi, non si lodava altri che noi; quell’opera aveva operato il prestigio di scoprire delle grazie, delle bellezze, delle raritá, che in noi non si eran vedute prima e che non si trovavano negli altri uomini. Inviti a passeggi, a pranzi, a cene, a gite di campagna, a pescagioni; bigliettini inzuccherati, regalucci con versi enimmatici, ecc. ecc. Lo spagnoletto, che si divertiva mollissimo a tutto questo, ne profittò in tutti i modi. Quanto a me, risi, feci de’ buoni riflessi sul cuore umano, e pensai a fare qualche altra Cosa rara , s’era possibile; tantoppiu che Cesare, dopo avermi dati de’ segni conspicui del suo gradimento, mi consigliò di far senz’ indugio un’altra opera «per questo bravo spagnuolo». Anche il conte di Rosentberg (forse perché Casti era giá partito) divenne con me piú trattabile, e, incontrandomi pochi di dopo per via, mi fermò, mi diede la mano, e in un’aria di bontá, che parea sincera: — Bravo! — mi disse — signor Da Ponte:
avete superata la nostra aspettazione. — Chinai la testa, ma francamente soggiunsi: — Eccellenza, ci volea poco.— Volli allora, senza perder tempo, pensar a qualche bello ma differente soggetto, su cui scriver un altro dramma per Martini; ma troppi furono i compositori che mi chiesero drammi, o chiedere me li fecero da’ primi signori della cittá, per lasciarmi la libertá di scegliere il coinpositor della musica che piú mi fosse piaciuto. Malgrado mio, mi vidi costretto di scriverne due per due maestri di cappella, ch’io non amava né stimava molto, e della cui caduta era sicurissimo. Uno di questi fu Reghini, per cui pregava e instava Salieri, che avea dimenticati i suoi giuramenti e desiderava vivamente di scriver la musica per qualche mio dramma e che io ho creduto onesta cosa compiacere, memore de’ buoni uffizi fatti per me nella promozione mia al poetato. Scrissi dunque un’operetta buffa, che intitolai II filosofo punito ; ma era meglio intitolarla II maestro e il poeta puniti a vicenda. Cadde, come dovea cadere. Gli amici di Reghini diedero la colpa alle parole : io la diedi alla musica ed alla cattiva opinione ch’aveva del compositore; opinione che soffocava l’estro poetico nella mia testa. La lite non fu e non sará mai decisa. L’altro compositore fu Peticchio, uomo di pochissima levatura e di scarsissimi musicali talenti. Aveva egli giá cominciata un’opera del famoso Brunati, di quello cioè che, Casti suadente, aveva scritto la satira contro II ricco d’un giorno. Ma l’imperatore, che ne avea, poche sere prima, veduta un’altra colla musica d’un tedesco, ch’era la cosa piú miserabile che siasi mai su scena italiana rappresentata, ordinò che opere «brunatiche» non si rappresentassero piú sul teatro di Vienna. Insegnava Peticchio la musica alle sorelle d’una damigella d’onore di corte, e queste erano strettissime amiche del dottor Brusati, mio amico e mio medico. Domandommi questi un favore, esigendo però solenne promessa di farglielo: il che avendogli io promesso, mi chiese di far un’opera per Peticchio. — Cadrá — gli risposi. — Non importa.
Peticchio è un ingrato verso di voi: non dovea mai condiscendere a prender parole da un tale sciocco e-nemico vostro, quando potea ottenerle da voi. Tutti credono che vorrete vendicarvi, negandogli un libro. Io dissi che vi conosco troppo bene, che so questi non essere i vostri principi, e m’impegnai di farvi fare un’opera per lui. — «Demisi auriculas ut iniqucie mentis asellus», ed altro non dissi se non: — Venga da me. — Scelse, tra vari argomenti offertigli, il Bertoldo-.
andò al diavolo, ed era naturale. Oltre la difficoltá di scrivere de’ versi per un maestro bestia, n’ebbi una di gran lunga maggiore nel dover fare delle parole nuove a musica giá fatta su delle parole bestiali di Brunati. Basta ciò per sapere qual doveva essere il suo destino. Due o tre di dopo vidi l’imperatore. — Da Ponte — tliss’egli, — fate de’ drammi pe’ Mozzart, pe’ Martini, pe’ Salieri ! non ne fate mai per questi Potacchi, Petecchie, Pitocchi, Pelicelo... come si chiama colui? Casti era piú furbo di voi: non facea de’libri che per un Paisiello e per un Salieri. — Anche queste due opere dunque si misero a dormire col Ricco d’un giorno e col Finto cieco, e si tornò al Figaro e alla Cosa rara. Pensai però che tempo fosse di rianimare la vena poetica, che mi parea secca del tutto, quando scrissi per Regioni e Peticchio. Me ne presentarono l’occasione i tre prelodati maestri. Martini, Mozzart e Salieri, che vennero tutti tre in una volta a chiedermi un dramma. Io gli amava e stimava tutti tre, e da tutti tre sperava un riparo alle passate cadute e qualche incremento alla mia gloriuccia teatrale. Pensai se non fosse possibile di contentarli tutti tre e di far tre opere a un tratto. Salieri non mi domandava un dramma originale. Aveva scritto a Parigi la musica all’opera del Tarar, volea ridurla al carattere di dramma e musica italiana, e me ne domandava quindi una libera traduzione. Mozzart e Martini lasciavano a me interamente la scelta. Scelsi per lui il Don Giovanni, soggetto che infinitamente gli piacque, e L’arbore di Diana pel Martini, a cui dar voleva un argomento gentile, adattabile a quelle sue dolcissime melodie, che si senton nell’anima, ma che pochissimi sanno imitare. Trovati questi tre soggetti, andai dall’imperadore, gli esposi il mio pensiero e l’informai che mia intenzione era di far queste tre opere contemporaneamente.
— Non ci riuscirete! — mi rispose egli. — Forse che no — replicai ; — ma mi proverò. Scriverò la notte per Mozzart, e faro conto di legger V Inferito di Dante. Scriverò la mattina per Martini, e mi parrá di studiar il Petrarca. La sera per Salieri, e sará il mio Tasso. — Trovò assai bello il mio parallelo; e, appena tornato a casa, mi posi a scrivere. Andai al tavolino e vi rimasi dodici ore continue. Una bottiglietta di «tockai» a destra, il calamaio nel mezzo, e una scatola di tabacco di Siviglia a sinistra. Una bella giovinetta di sedici anni (ch’io avrei voluto non amare che come figlia, ma...) stava in casa mia con sua madre, ch’aveva la cura della famiglia, e venia nella mia camera a suono di campanello, che per veritá io suonava assai spesso, e singolarmente quando mi pareva che l’estro cominciasse a raffreddarsi: ella mi portava or un biscottino, or una tazza di caffè, or niente altro che il suo bel viso, sempre gaio, sempre ridente e fatto appunto per inspirare l’estro poetico e le idee spiritose. Io seguitai a studiar dodici ore ogni giorno, con brevi intermissioni, per due mesi continui, e per tutto questo spazio di tempo ella rimase nella stanza contigua, or con un libro in mano ed ora coll’ago o il ricamo, per essere pronta a venir da me al primo tocco del campanello. Mi si assideva talvolta vicino senza muoversi, senza aprir bocca né batter occhio, mi guardava fisso fisso, sorrideva blandissimamente, sospirava e qualche volta parea voler piangere: alle corte, questa fanciulla fu la mia Calliope per quelle tre opere, e lo fu poscia per tutti i versi che scrissi per l’intero corso di altri sei anni. Da principio io le permettea molto sovente tali visite; dovei alfine renderle meno spesse, per non perdere troppo tempo in tenerezze amorose, di cui era perfetta maestra. La prima giornata frattanto, tra il «tockai», il tabacco di Siviglia, il caffè, il campanello e la giovine musa, ho scritte le due prime scene del Don Giovanni , altre due dell ’Arbore di Diana e piú di metá del primo atto del Tarar , titolo da me cambiato in Assur. Portai la mattina queste scene a’ tre compositori, che appena volevan credere che fosse possibile quello che cogli occhi propri leggevano; e in sessantatré giorni le due prime opere erano finite del tutto, e quasi due terzi dell’ultima.
L’a’bore di D ana fu la prima a rappresentarsi. Ebbe un incontro felicissimo e pari almeno a quello della Cosa rara.
Dirò poche cose di quest’opera, che forse il mio lettore udrá con qualche diletto. Il signor Lercheneim, di cui feci cenno poco fa, era grandissimo ammiratore ed amico di Martini.
Due o tre giorni prima ch’io dessi alcun verso a questo maestro, venne da me con lui, e, mezzo scherzoso, mezzo sdegnato:
— Quando avrá — diss’egli — il nostro Martini de’ versi? — Posdomani — risposi. — Dunque il soggetto è scelto? — Senza dubbio — soggiunsi. — Il titolo dell’opera? — L’arbo> e di Diana. —
— È fatto il piano? — disse il Martini. — Non v’ ha dubbio. — Per buona sorte servirono da cena, ed io pregai i due amici di cenar meco, assicurandoli che dopo la cena mostrerei loro il piano che domandavano di vedere. Accettaron l’invito ed io, che non solo non avea fatto alcun piano, ma che aveva detto che il titolo era L’arbore di Diana , senza aver la minima idea di quello che quest’arbore doveva essere, finsi che m’occorresse alcuna cosa in un’altra stanza, e diedi ordine d’essere in pochi minuti chiamato. Lasciai i due amici colla mia bella musa e con mio fratello che viveva con me, andai in un gabinetto laterale, e in men di mezz’ora imaginai e descrissi tutto il piano dell’opera, ch’oltre a qualche merito di novitá, aveva quello di dar mirabilmente nel genio al mio augusto protettore e sovrano. Aveva egli a quel tempo con un santo decreto abolita intieramente la barbara instituzione monacale negli Stati ereditari. Finsi dunque che Diana, dea favolosa della castitá, avesse un albero nel suo giardino, i cui rami producessero de’ pomi d’una grandezza straordinaria; e, quando le ninfe di questa dea passavano sotto quell’albero, se caste in fatti e in pensieri, que’ pomi diveniano lucidissimi, e uscivan da quelli e da tutti i rami de’suoni e de’canti di celeste soavissima melodia; se alcuna di quelle avea commesso qualche delitto contra la santitá di quella virtú, le frutta, divenendo piú nere d’ogni carbone, cad valile sulla testa o sul dosso e la punivano, sfigurandole il viso o ammaccandole e rompendole qualche membro, a proporzione del suo delitto. Amore, non potendo soffrire una legge tanto oltraggiosa alla sua divinitá, entra nel giardino di Diana sotto spoglie feminili, innamora il giardiniere della dea, gli insegna il modo d’innamorare tutte le ninfe, e, non contento di questo, v’introduce il bell* Endiniione, di cui alfín innamorasi Diana stessa. Il sacerdote della dea scopre ne’ sacrifizi esservi de’ delitti nel virginale recinto, e, coll’autoritá sacerdotale datagli dalla diva, ordina che tutte le ninfe e Diana stessa soggiacciano alle prove dell’albero. Questa, che vede d’essere scoperta, fa tagliar quella pianta miracolosa, e Amore, comparendo in una nube di luce, ordina che il giardino di Diana si cangi nella reggia d’amore. Questo dramma, per mia opinione, è il migliore di tutti i drammi da me composti, tanto per l’invenzione che per la poesia: è voluttuoso senza essere lascivo e interessa, per quel che parve da piú di cento rappresentazioni che se ne son fatte, dal cominciamento alla fine. Il conte di Rosemberg mi domandò dove trovato avea quelle belle cose; ed io gli risposi: — Nella schiena de’ miei nemici. — L’irnperadore poi, che intese il pensiero mio e se ne compiacque, mi mandò a casa cento zecchini.
Non s’era fatta che la prima rappresentazione di questo spettacolo, quando fui obbligato di partire per Praga, dove doveasi rappresentar per la prima volta il Don Giovanni di Mozzart, per l’arrivo della principessa di Toscana in quella cittá. Mi vi fermai otto giorni per dirigere gli attori, che doveano rappresentarlo; ma, prima che andasse in scena, fui obbligato di tornar a Vienna, per una lettera di foco che ricevei dal Salieri, in cui, fosse vero o no, informavami che 1 ’ Assur doveva rappresentarsi immediatamente per le nozze di Francesco, e che l’imperatore gli aveva ordinato di richiamarmi. Tornai adunque a Vienna, viaggiando die notte; ma a mezza strada, sembrandomi d’essere stanco, domandai d’andar a letto per un paio d’ore. Mi coricai, e, quando i cavalli erano pronti, si venne a chiamarmi. Balzo dal letto mezzo addormentato, discendo dalle scale, entro nella vettura e parto. A qualche distanza giungemmo a una barriera, ove mi domandano una piccola somma pel mio passaggio. Metto la mano in tasca, e qual fu la mia sorpresa quando non trovai un soldo nel borsellino, dov’io posi la mattina cinquanta zecchini, che l’impresario di Praga, Guardassoni, pagato in’avea per quell’opera ! Pensai d’averli perduti nel letto, dove m era coricato vestito. Ritorno subito a quell’osteria, non v’era un soldo. L’oste e sua moglie, persone veramente di garbo, chiamano tutti i servi, cercano, esaminano, minacciano; ma nessuno conlessa d’aver guardato in quel letto. Una fanciulletta di cinque anni al piú, ch’avea veduto una delle serve rifar il letto per un altro forestiero: — Mamma, mamma! — esclamò — la Caterina ha rifatto il letto, quando il signore parti. — La ostessa fece spogliare la Caterina, e le trovò nel seno i cinquanta zecchini. Perdei due ore di tempo in questa faccenda; ma, lieto d’aver trovato quel danaro, pregai quella buona gente di perdonare a quella lor serva, e, senza fermarmi che a cangiar cavalli, arrivai il di dopo a Vienna. Mandai per Salieri. e mi misi al lavoro. In due giorni VAssur era all’ordine. Si rappresentò; e fu tale il successo, che per molto tempo rimase in dubbio quale delle tre opere fosse la piú perfetta, si parli della musica o delle parole.
Io non avea veduto a Praga la rappresentazione del Don Giovanni ; ma Mozzart m’informò subito del suo incontro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: «Evviva Da Ponte, evviva Mozzart Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno, non si saprá mai che sia miseria teatrale». L’imperadore mi fece chiamare e, caricandomi di graziose espressioni di lode, mi fece dono d’altri cento zecchini, e mi disse che bramava molto di vedere il Don Giovanni. Mozzart torno, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a cavare le parti, perché Giuseppe doveva partire. Andò in scena, e... deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l’imperadore? — L’opera è divina: è forse forse piú bella del Figaro , ma non è cibo pei denti de* miei viennesi. — Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi : — Lasciam loro tempo da masticarlo. — Non s’inganno. Procurai, per suo avviso, che l’opera si ripetesse sovente; ad ogni rappresentazione l’applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori viennesi da’ mali denti ne gustarmi il sapore e ne intesero la bellezza, e posero il Don Giovanni tra le piu belle opere che su alcun teatro drammatico si rappresentassero.
Fu a quest’epoca, se non fallo, che la Coltellini, famosa attrice ma debole cantante, venne per la seconda volta a Vienna. Ella era la sirena favoritissima di Casti, e in conseguenza del conte di Rosemberg, dall’imperadore medesimo assai ben veduta. Essendo essa o immaginandosi d’essere mal vista e perseguitata dal maestro Salieri, che reggeva in gran parte il teatro, scrisse una lettera si viva e si ardita all’imperadore, che venne ordine preciso di congedare la compagnia degli italiani. Thorwart, vice direttore del teatro e nemico mortale degli italiani, venne lietissimo alla prova dell’opera e lesse una lettera, scritta dal campo al conte direttore, nella quale gii dava perentoriamente l’ordine di dire a ciascun di noi che alla fine di quella stagione Sua Maestá intendeva di chiudere il teatro italiano.
Questa novella contristò tutta la cittá, tutti i cantanti e almeno da cento persone, tra suonatori, illuminatori, figuranti, comparse, sarti, pittori, servi, ecc., che da questo stabilimento traevano la lor sussistenza e quella delle loro famiglie. Mi entrò nella testa l’ardito pensiero di fargli cangiare consiglio o di trovar qualche mezzo di ritener i cantanti, senza dipendere dalla corte. Andai a trovare tutte quelle dame, che amavano sopra tutto il nostro teatro; e, fatto un piano semplicissimo, che dovea risparmiare un terzo ahnen della spesa, senza scemar alcun virtuoso favorito, proposi di fare una sottoscrizione di centomila fiorini per un fondo teatrale, e depositarlo nel banco regio, senza debito di pagar interesse. Dopo aver con questo fondo e l’entrate serali pacate tutte le spese, feci veder chiaramente che vi dovea rimanere un guadagno di venticinquemila fiorini. In meno di otto giorni v’era in mia mano una sottoscrizione di centomila fiorini. Il baron Gondar, rispettabilissimo e ricchissimo signore viennese, dovea ricevere il danaro di sottoscrizione ed esser il direttore degli spettacoli teatrali; ed io il sottodirettore.
Intanto l’imperatore tornò a Vienna, ed io andai senza indugi da lui. Appena mi vide, mi fece entrar nel suo gabinetto e mi domandò come andava il teatro.
— Sire, il teatro non può andar peggio.
— Come? Perché?
— Perché siamo tutti disperati e dolenti per dover lasciar a settembre il nostro adorabile padrone — e, dicendo queste parole, mi caddero alcune lagrime, di cui egli s’accorse; e con una bontá, che non può dipingersi con parole: — No, voi noi perderete, — mi disse.
— Ma, se il teatro non sussiste piú, quante persone, quante famiglie non periranno?
— Ma io non posso pensare a spendere delle somme immense per divertir me ed altri, or che n’ ho tanto bisogno per oggetti assai piú importanti. Sapete voi ch’il teatro italiano mi costa piú di ottantamila fiorini l’anno? Io non posso prender il danaro degli uni per darlo agli altri. E poi... e poi... quella cara Coltellini... — Mentr’egli cosi diceva, io trassi cautamente un grandissimo foglio di carta reale piegato diverse volte, e gliel feci ad arte vedere, perché mi chiedesse che cosa fosse. Difatti mel chiese, ed io gli risposi ch’era un corto memoriale.
— Corto?
— Cortissimo.
— In un foglio di carta reale? — Spiegò il foglio con una faccia un po’ seria, ma non vi erano in tutto queU’ampio spazio che questi due versi di Casti :
Proposizioni ognuno far le può: il punto sta nell’accettarle o no. Non potè trattenere le risa, e mi chiese che proposizione aveva da fargli. Sire — risposi, — non domando che l’uso del suo teatro, ed io darò alla Maestá Vostra ed a Vienna la stessa compagnia e gli stessi spettacoli tre volte per settimana.
— Voi? Siete dunque si ricco?
— No. Sire. Ma ecco quello che ho fatto, da che ci pervenne la trista novella del nostro congedo. — Trassi allora di tasca due altri fogli, in uno rie’ quali v’eran segnati vari nomi di cavalieri e dame, ciascuno e ciascuna delle quali prometteva di pagar cinquecento fiorini per una loggia in primo, secondo o terzo ordine, o una certa somma per tanti biglietti d’ammissione, all’uso di Londra: nell’altro v’era un esatto calcolo di entrate serali e di spesa, calcolo tratto da’ libri del teatro medesimo. Die’ un’occhiata a tutto.
— Ebbene! — disse — andate da Rosemberg e ditegli ch’io vi do l’uso del teatro. — Rosemberg mi ricevette con gran giubilo; ma entrò Thorwart, e questi, sotto vari pretesti, guastò la faccenda.
— Eccellenza, non abbiamo né un ricco scenario né un riero vestiario. Vi sarebbero sempre dispute tra cantanti italiani e attori tedeschi : non si possono trasportar le scene ogni giorno senza grandissimo disturbo. Eccellenza, non può essere. — Il conte allora ripigliò anch’egli: — Non può essere, non può essere. — Uscito dalla sua camera, corsi al palazzo reale, trovai Cesare solo, e senza aspettar che parli, tutto ansante e senza fiato:
— Sire — diss’io, — Thorwart dice e il conte Rosemberg, facendogli l’eco, ripete che non si può. — Datemi il vostro piano
— disse allora egli. — Gliel porsi, ed ei scrisse al piede:
Conte, dite a Thorwart che si può, e che ritengo il teatro per conto mio, secondo il piano del Da Ponte, a cui raddoppierete la paga.
Giuseppe. Tornai dal conte, il quale mi ricevette con grandissima gioia, e non potè astenersi dal gridare: — Bravo, bravo il nostro Da Ponte! — In breve ora si sparse la nuova per tutta la cittá, ed io ebbi alia casa mia piú di ottanta persone, che vennero a ringraziarmi e a giurarmi gratitudine, stima, amicizia. Oh quanto differenti son le parole del labbro dai sentimenti del core o aímen come presto Tuoni si dimentica de’ benefici che riceve, delle promesse che fa e della riconoscenza che deve al benefattore, contra cui ben sovente volge le armi dell’invidia e dell’odio, credendo in tal guisa di scuoter il peso, umiliante per un ingrato, del beneficio! Chi crederebbe che queglino appunto, che piú degli altri fruirono di questo fortunato maneggio e che da principio parevan piú sentirne e riconoscerne il merito, furono quelli poi che piú s’adoprarono per la mia perdita, e che non furon contenti, finché non videro la mia intera ruina in Vienna? Non è lontano il momento di vedere, come di buon seme mal frutto colsi, e qual merito ha chi ingrato serve.
Svilupperò brevemente questa teatrale congiura, la quale, sebbene da sé non interesserá gran fatto i miei leggitori, pur, come cosa che produsse un intero cambiamento in tutto il rimanente della mia vita, non credo che siami permesso l’ommetteria in queste Memorie. Mi giova informar qui chi mi legge, che, sebben io sia stato generalmente inclinatissimo alla passione d’amore, nulladimeno mi feci solennissima legge di non amar donna di teatro, e per piú di sett’anni ebbi il valore di resistere a ogni tentazione e di rigorosamente osservarla. Per mia disgrazia capitò una cantante, che, senza avere gran pregio di bellezza, mi dilettò pria col suo canto; indi, mostrando gran propensione per me, finii coll’innamorarmene. Avea per veritá molto merito. La sua voce era deliziosa, il suo metodo nuovo e maravigliosamente toccante: non aveva una figura molto leggiadra e non era ottima attrice, ma, con due bellissimi occhi, con una bocca molto vezzosa, pochissime furon l'opere in cui non piacesse infinitamente. Il suo esser utile al teatro accresceva le mie premure e l’affetto mio, particolarmente dopo esser stato io la causa primaria della sua permanenza in quella cittá. Ma questa donna, oltre aver eccitata l’invidia nell’altre cantanti, e in due specialmente, Puna tedesca e protetta forse un po’ troppo dal buon Salieri, l’altra italiana, che, sebbene sguaiata e di poco merito, pure, a forza di smorfie, di pagliacciate e forse di mezzi piú teatrali, s’era formata un gran partito tra cuochi, staffieri, camerieri, lacchè, parrucchieri, ecc., e per conseguenza si teneva per una gioia; era, oltre tutto questo, d’un carattere un po’ violento e fatto per irritar i malevoli, piuttosto che per conciliarsi amici. Questo però non le toglieva il suo vero merito, e perciò io la sostenni, la difesi contro ai cabalisti e, finché visse Giuseppe, vani furono tutti i loro intrighi, tanto contra lei che contra me. Scrissi per lei II pastor fido e La cifra con musica di Salieri, due drammi che non formaron epoca nelle glorie musicali di quello, sebbene in varie parti bellissime; e La scola degli amanti , con musica di Mozzart, dramma che tiene il terzo loco tra le sorelle nate da quel celeberrimo padre dell’armonia. Ma non fu in questi tre drammi che crebbe l’invidia de’ suoi nemici e de’ miei: fu in un’opera quaresimale di un nuovo genere, intitolata II pasticcio e rappresentata a benefizio de’ cantanti, nella quale introdussi i migliori pezzi di tutte le opere che in vari anni s’erano vedute su quelle scene, cangiando ogni sera la maggior parte di quelli, e accrescendo l’etTetto per un’introduzione inaspettata. Quest’opera era una critica assai arguta e piacevole del pubblico, degli impresari, de’ cantanti, de’ poeti, de’ maestri di cappella, alfine di me medesimo.
Piacque tanto, che si rappresentò dieci volte con crescente applauso. Gli amatori del teatro n’erano deliziosamente soddisfatti. L’entrate serali furono doppie, e l’imperatore medesimo portò ogni sera per la sua loggia cento zecchini, e dugento nella serata annunziata per me. Avendo io composto quell’opera senza soccorso di compositore, e presivi quelli tra cantanti, che aveano un diritto alla munificenza del pubblico e del sovrano per i loro talenti, tutti gli altri, ch’esclusi vidersi, divenner (urenti tanto contra la mia amica, per cui io avevo immaginato quello spettacolo, che contra me. Quegli, che sopra tutti si risenti, fu il bravo maestro Salieri ; un uomo eh’ io amai e stimai e per gratitudine e per inclinazione, con cui passai molte ore dottamente felici, e che per sei anni continui, cioè dalla rappresentazione del Burbero a quella deila Cifra, era stato, piú che amico, fratello mio. Il suo troppo affetto per la Cavalieri (nominiamola), donna che aveva abbastanza di inerito per non aver bisogno d’alzarsi per via d’intrighi, e il mio, parimente soverchio, per la Ferraresi (nominiam anche questa), fu il dolente motivo di rompere un nodo d’amicizia, che dovea durar colla vita, e che s’è ben in me raffreddata per qualche tempo, ma colla lontananza e co! tempo rinacque piú che mai viva, per detestare chi ne fu la causa e per chieder dopo trentatré anni perdono di si gran fallo a Dio ed al caro amico, se ancora vive<d; il che mi sará dolce sapere.
Fu a questi tempi, cioè verso l’anno 1790 , che il mio augusto signore e protettore mori. Il desiderio di questo ottimo principe era di porre sul trono dell’Austria il nipote Francesco, imperadore attuale, educato da lui nei suoi stessi principi.
Cosi sperava di dare l’ultima mano alle cose cominciate da lui. Leopoldo s’oppose: aveane il dritto di successione, e volle regnare. Giuseppe tuttavia mori rassegnato e tranquillo, e al medico, che ebbe l’onorato coraggio di annunziargli la morte, fece rie’ doni degni di lui. E questa è la storia vera di quel grande evento. Io stava nell’anticamera del mio moribondo signore, con un piccolo numero di persone che gli prestavan in lagrime gli ultimi uffizi. I primi medici della cittá l’assistevano, e, quantunque sicuri che inevitabil fosse la di lui dissoluzione, nessuno avea avuto l’ardire o, per meglio dire, la forza di dirglielo. Accortosi l’imperatore della loro irresolutezza, fece chiamar a sé il dottor Quirini, e, pregandolo e quasi comandandogli di dirgli il vero, fece si che quel bravo medico gli annunziò, lagrimando, l’impossibilitá della sua guarigione. Ciò accadde il giorno medesimo in cui la principessa di Wirtemberg, prima sposa del regnante imperatore Francesco, (1) Seppi di poi con iolore che il Salieri mori. doveva esser sepolta. Terminata la pompa funebre, chiese placidamente come ite eran l’esequie, e ordinò che il solito catafalco e tutti gli altri apparati di sepoltura reale si lasciassero intatti, aggiungendo placidamente : — Tutto ciò servirá per me. — Diede ordine a un tempo stesso ad uno dei suoi primari uffiziali di mandar la sua piú ricca carrozza e due bellissimi cavalli al dottor coraggioso che 1‘ubbidí, e il giorno dopo al ciel volò quell’anima beata.
Poco tempo dopo, arrivò Leopoldo a Vienna. Al suo avvenimento al trono composi una canzone, nella quale, dopo aver pianta la morte di Giuseppe, cantai le virtú di Leopoldo. Sincero era il mio dolore, sincera egualmente era la mia lode di questo sovrano, che mille combinazioni fatali mi rendettero poi sfavorevole. Le cose ch’io sto per narrare parranno probabdmente incredibili, ma son note a Vienna (per cui sopra tutto le scrivo) ; son nate verso la fine del passato secolo, sotto gli occhi di mille e mille che ancora vivono, che leggeranno, spero, queste Memorie , e cui sfido solennemente a smentir quel che scrivo nella piú piccola circostanza de’ fatti o nel colorito solo con cui le dipingo.
Nel cominciamento del regno leopoldiano pareva che tutte le cose andassero a seconda per me. Leopoldo, occupato ila faccende importantissime, non avea tempo di badare alle frivolezze ed imbrogli del teatro. Capitò intanto il re di Napoli colle figlie, destinale a spose de’ uue principi reali, e aiiora non si pensò che a pubbliche feste. Il principe d’Auesperg e il marchese del Gallo furono quelli che piú degli altri si distinsero in festeggiarlo. Tra gli altri divertimenti destinatigli, in un certo di stabilito, volle quel principe che fessevi una cantata analoga alla circostanza, e incaricò me della scelta del compositore, del loco ove doveva rappresentarsi e della qualitá e numero de’ cantanti, con pien potere di ordinare gli abiti e le decorazioni. Nel suo magnifico palagio, oltre un bel teatrino, in cui dovea rappresentarsi una commediola, eravi in un gran giardino una superba rotonda, colla statua di Flora nel mezzo. ed il rimanente del tutto vuoto. Io non aveva per fare ciò che tre giorni di tempo. Scelsi l’allora giovine Weigl per fare la musica. Lo condussi la sera da me: feci la prima aria della mia cantata, che intitolai II tempio di Flora , e, mentre ei faceva la musica di quella, io intendeva di proseguire. Erano questi i versi della prima aria:
Di gemme e di stelle s’avessi abbondanza, corona di quelle a te vorrei far. Ma il fato non diemmi che impero de’ fiori: son questi i tesori che a te posso dar.
Appena lessi questi versi al compositore, che, come fosse invasato d’una fiamma celeste, si mise a farne rapidissimamente la musica, che in veritá era d’una armonia e squisitezza meravigliosa. Il suo entusiasmo accrebbe subito il mio, e dalla sera alla mattina quella cantata era intieramente finita. Tre di dopo si rappresentò; e l’eflfetto fu sorprendente. L’idea di quella era si nuova, che varrá il prezzo dell’opera il farne la descrizione. Questa rotonda conteneva circa trecento persone, oltre un piccolo spazio destinato agli attori. Levata la statua di Flora, vi misi sul piedistallo una cantante, che, rimanendo del tutto immobile, faceva parere agli spettatori d’essere la dea marmorea. Una specie di sipario, situato dietro alla statua, nascondeva una banda numerosissima di strumenti da fiato, e il loco era oscurissimo. Allo splendore cupo d’un lanternino, entrar doveva al mio cenno la reai compagnia col suo séguito, e al primo entrarvi tutto era silenzio ed oscuritá; ma ad un tratto illuminavasi il loco da una infinitá di lumicini celati sulle cornici del tempio, e l’orchestra nascosta, con suoni a poco a poro crescenti, empieva quel loco d’una melodia di paradiso. Gli spettatori trovavansi improvvisamente assisi su sedili di fiori, e, dopo la prima aria e un recitativo di Flora, scaturivano dal palco diversi Amorini, eh’erano mandati da Venere e da Cupido, per presentar rose e mirti agli sposi; ma, nell’atto di presentarli, appariva Minerva, s’opponeva all’offerta di tali fiori, e pretendeva che meglio convenissero agli sposi ed a’ pari loro gli olivi di Minerva e gli allori di Apollo. Fra tal contenzione Flora scendea dal suo piedistallo, e, levandosi la ghirlanda di testa, inginocchiavasi davanti alla regina, madre delle spose, e, cantando un’aria dolcissima, a lei presentavala. Ma la regina, baciandola in fronte, rimettevala aH’otTeritrice, non come dea, ma come cantante.
L’effetto di questa cantata fu mirabile. Il principe Auesperg ne fu si contento, che la domane fece de’ ricchi presenti a tutti i cantanti; ed a me mandò una bella cervetta colle corna coperte d’una lama d’oro, una scatola del medesimo metallo e una borsa con cinquanta zecchini.
Non andò cosi la faccenda col marchese italiano. Diede egli il carico della cantata a Peticchio, suo coinpatriotta, e questi o pregò di fare o fu pregato da un certo abate Serafini d’impiegarlo a far le parole. Questo signor abate, per esser segretario d’ambasciata del ministro di Lucca, credeva forse esserlo delle muse; ma in veritá era tanto poeta quanto io generai d’armata, e, dopo d’aver composto, a forza di dita e d’aritmetica, questi due versi:
Da quel fatai istante che ti perdei nell’onde (0, perdé, insieme col povero Ferdinando, anche l’estro e la lira: volle far credere d’aver la febbre, e piantò come un cavolo il maestro per piú di due settimane, senza piú dargli un sol verso. Non mancavano che tre giorni alla festa, e, non trovando altro ripiego, s’ebbe novellamente ricorso a me. Il marchese del Gallo ansiosamente venne a tiro sei alla mia casa, mi fece un preambolo ministeriale, e insieme l’onore di «supplicarmi» (1) Napoli parla col re ch’era partito per Vienna. d’assisterlo. Io non ho mai amato cozzar co’ grandi. Gli risposi che m’era grata cosa il servirlo. Farti esultante, mandò Peticchio da me, e in trentasei ore ho latto una cantata nuova per musica vecchia, che piacque e quanto alle parole e quanto alla musica. Forse era lavoro d’ahri maestri, ma, s’era di Peticchio, era veramente la sola cosa buona ch’ei fece. Il signor marchese ne parve contentissimo, e due di dopo volle darmi de’ segni di sua liberale «munificenza». Mi mando una lettera di due pagine, in cui v’acchiuse una cedola di cinquanta fiorini (cinque ghinee!), ch’io immediatamente regalai al portatore.
Il signor marchese ne fu offeso. Era questo signor Gallo carissimo alla corte; era giovine, bello, ben fatto e d’uno spirilo vivacissimo. Ma la generositá non va sempre unita a tai pregi. Dissimulò tuttavia e venne di nuovo a trovarmi. La sua visita non mi sconcertò; e, prima ch’ei nulla dicesse, gli parlai cosi: — Signor marchese, l’onore che mi ha fatto e il buon esito del mio zelo si pagano a vicenda, e, mandandomi cinquanta fiorini, Ella feri mortalmente il mio amor proprio, che non s’aspettava che un «Bravo Da Ponte!», il quale, uscendo da una bocca si rispettabile come la sua, avrebbe valuto piú che tutto il danaro del mondo. Li diedi perciò ad un de’ suoi servi, che non conoscerebbe il pregio di queste parole, ma che conosce quello dell’oro. — Signor Da Ponte — rispose egli, — io son mortificatissimo. Ella mi dica almeno se v è cosa al mondo ch’io far possa per lei. — Volea parlargli di Leopoldo, lo mi era giá accorto che quel sovrano era sdegnato con me. Ma, come mi parve dagli occhi di quel cortigiano ch’egli non fosse sincero, cosi credei che fosse assai meglio non avvilirmi, e quindi soggiunsi che non credea veramente eh’alcuna cosa occorressemi. Tacque per pochi istanti; poi, cavando un orologio d’oro di tasca: — Almeno — diss’egli — le piaccia accettare questa mostra, come una memoria della mia riconoscenza. — Non valea molto piú di cinquanta fiorini, ma non osai rifiutarla, e la regalai poche ore dopo alla versi-spirante mia musa. L’effetto di questa temeritá fu per me fatalissimo. Il marchese del Gallo divenne da quel momento mio nemico feroce, e fu Leopoldo medesimo che qualche tempo dopo mel disse. Torniamo adesso alla Ferraresi. Questa virtuosa, per me funesta. con tutti i difetti del suo personale e del suo carattere, era infallibilmente, come giá dissi, utilissima a quel teatro. Questo aumentava il numero de’ suoi nemici, o per una rivalitá sempre omogenea a quella sorta di gente, o per protezione di qualche altra cantante. Un poco per amore, un poco per giustizia, ma sopra tutto pel ben d’un teatro, che parea esser cosa mia propria, io sostenea a spada tratta questa cantante: ella era stata impegnata per due anni e mezzo, e questo tempo era vicino a spirare; un’altra cantante era giá stata impegnata, e questa era una favorita distinta si del sovrano che della regina. Ad onta di tutto questo, osai proporre la riconfermazione della mia amica per soli sei mesi. A chi ne feci la proposizione?
Al Rosemberg, e questo sotto sigillo di secretezza. Gli addussi delle ragioni fortissime, che parve approvare; ma, obbliando la promessa di secretezza a me fatta, ne parlò a tutti, e a quelli precipuamente che odiavano la Ferraresi. Questi scrissero alla favorita della corte, con tutte le frange che 1’ invidia, il mal talento e il proprio interesse soglion dettare; e questa scrisse lettere di fuoco a’ suoi protettori ed alla stessa imperatrice, che le lesse pubblicamente al giá non ben disposto consorte.
— Si mandi al diavolo — esclamò allora Leopoldo — questo disturbator della pace! — Io non seppi per molto tempo questa secreta congiura. M’accorsi però che il numero de’ nemici cresceva a proporzione del mio zelo per la Ferraresi, la quale, per fomento delle passioni, piaceva ogni giorno piú sulla scena.
Si può immaginare quali furono gli effetti. Ogni giorno usciva un nuovo delatore, una nuova accusa: la mia infinita pazienza era stanca. Un giorno corsi disperato verso la reggia per chieder giustizia. Incontrai per disgrazia il vicedirettore degli spettacoli. Costui m’odiava seeretamente, perch’io sapeva ch’egli defraudava l amministrazion teatrale, e una volta aveva avuto 1 imprudenza di dirglielo. Nel vedermi tanto infuriato, mi domandò dove andava: la collera non mi lasciò essere abbastanza guardingo. Gli apersi il core, gli dissi ch’io mi presentava all’imperatore per chiedergli una prigione, dove intendeva di stare finché egli riconoscesse giustizia. Tentò tutte le strade per impedirmelo: m’accarezzò, mi pregò, mi disse che in quei giorni doveva cangiarsi il direttore, il qual sapeva bene che mi amava e faceva gran conto del mio talento, e ch’io non doveva disgustarlo andando dal sovrano; che il principe si lasciava acciecar dal Salieri, ma che il conte lo conosceva, ecc. ecc. Mi son lasciato sedurre, e cessai di ricorrere. Non passarono due giorni che riconobbi il mio fallo. Volli parlare al nuovo direttore: non fui ricevuto. Crescevano intanto i tumulti e le ciarle: gli oziosi, i malevoli, i falsi amici fingevano d’avvertirmi per compassione, ma lo facevano per tormentarmi. Un di mi fu annunziato che Rosemberg volea carcerarmi, perché il Bussani gli aveva detto che per mia colpa non si poteva rappresentare cert’opera. Divenni furente. Disperando ottenere un’udienza particolare da Cesare, gli scrissi una lettera: 10 non sapeva però come fargliela capitare. Un certo Lattanzio, scrittore della gazzetta Vox populi , s’offerse di dargliela in propria mano. La circostanza mi fece accettare l’offerta, quantunque sapessi che il portatore era un falsificatore di cedole, scappato dall’ergastolo di Roma. Ma egli si faceva credere un de’ primari favoriti del monarca. Inserilla costui nel suo manoscritto, e consegnolla al padrone con questa nota: «Ecco una lettera che merita la disapprovazione d’un saggio re. Si dice che sia del Da Ponte.» Io gli aveva regalata una scatola e un medaglione d’oro per la offerta, a me fatta da colui, di darla in proprie mani dell’imperatore. Credo d’aver pagato assai bene 11 boia che mi frustò. Due giorni dopo, ordinommi di pubblicarla ed assicurommi che in breve tempo avrebbe deH’ottime nuove da darmi. Infatti non potevan esser migliori! Dopo tal fatto noi vidi che una sola volta, e fu per dirmi queste parole:
— L’imperatore m’ha proibito aver alcun affare con lei.— Sonisi e lo pregai di porre questa storiella tra le «cedole false» o sulle porte dell’ergastolo. Fu punito, a suo tempo, costui della sua iniquitá dal medesimo Leopoldo. Le cose erano in questo stato, quando l’amico Martini mi scrisse da Pietroburgo die si aveva bisogno d’un poeta per quei teatri ; e che La cosa rara e L’arbore di Diana avendo estremamente piaciuto si nel teatro della cittá che nell’eremitaggio di Caterina, era cosa indubitabile ch’io vi sarei ricevuto. Non vi pensai sopra un momento, ma andai a congedarmi.
Non essendo a Vienna in quell’epoca il direttore, me n’andai da Thorwart; il quale parlonne a Leopoldo, che mi fece dire, il giorno seguente, che Sua Maestá non mi permetteva partire che quando il mio contratto fosse finito, cd a ciò mancavan quasi sei mesi. Non passarono però trenta giorni, e il medesimo Thorwart venne da me, e mi disse quasi prò tribunali che Sua Maestá l’imperatore non aveva piú bisogno de’ miei servigi e ch’io poteva andarmene. Risposi che, se Sua Maestá voleva pagarmi un’opera ch’io stava per ordine della direzione scrivendo e tutti i libretti d’opera che rimanevano da vendere, oltre il mio salario di cinque mesi, eh’ancor mancavano all’adempimento del mio contratto, avrei immediatamente lasciato il teatro, benché persuaso che fosse giá troppo tardi per andar a Pietroburgo. Soggiunse egli allora : — Sua Maestá le accorderá volentieri quel che domanda. Ella mi faccia il suo conto. — Lo feci senza indugi, ed ebbi tutto quello che domandava; il che ascendeva alla somma di otto o novecento fiorini.
Io avea giá scritto a Martini che avevanmi negato il congedo, e che quindi non avrei potuto andar a Pietroburgo per molti mesi. Dubitando quindi che avessero giá scritto in Italia per altro poeta, m’accontai con Mozzart e procurai persuaderlo di andar meco a Londra. Ma egli, che avea poco prima ricevuta una pensione in vita dall’imperatore Giuseppe in premio delle sue divine opere, e che stava allora mettendo in musica un’opera tedesca, Il flauto incantato , da cui sperava novelle glorie, chiese sei mesi di tempo a risolvere; ed io intanto soggiacqui a vicende, che mi fecero prender, quasi per forza, un cammino tutto diverso. Sebbene, con tutto il salario di undici anni di servigio, con tutto l’immenso profitto da me fatto nella vendila de’ libretti d’opera e con tutti i doni da me ricevuti in varie occasioni da Giuseppe e da altri, io non avessi, per la mia eccessiva liberalitá, risparmiato in si lungo tempo che alcune centinaia di piastre (forse seicento), pure io credeva che queste bastar mi dovessero per viver decentemente, finché la provvidenza m’ollrisse qualche novello impiego. Seguitai dunque a vivere in tutto e per tutto come prima, e, dopo non molti giorni, mi trovai in tanta calma di spirito, che mi venne voglia di andare a vedere il mio Assur , che si dovea rappresentare da nuovi cantanti. Affacciatomi alla porta del teatro, parve che il ricevitor de’ biglietti rimanesse confuso. Io soleva avere prima d’allora libera l’entrata a’teatri di Vienna: tuttavia m’era provveduto del mio biglietto, cui senza parlare gli presentai. Lo rifiutò civilmente, mi chiamò da parte e, quasi piangendo, mi disse: — Caro signor Da Ponte, la prego perdonarmi, ma non posso lasciarla entrar nel teatro. — Chi vi diede l’ordine? — dissi. — Thorwart — rispose egli. 11 principe Adamo Auesperg, ch’era alla porta, udi il nostro discorso, mi prese per la mano e mi condusse nella sua loggia. Gli narrai la mia storia, ne parve sorpreso e dolente : s’offerse di parlar all’imperatore perché m’ascoltasse ; ma io, che aveva cominciato a gioire della mia pace, pregai si lui che infiniti altri cavalieri o dame, che la medesima offerta mi fecero, di lasciar correr le cose senza mischiarsene. Io non poteva partire con piú gloria di Vienna. In undici anni di servizio avea composti quindici drammi, nove de’ quali furono i soli che vi si rappresentarono centinaia e centinaia di volte, con applauso sempre crescente, in quel teatro, che, senza lo zelo e maneggio mio, sarebbe giá stato chiuso. Nell’anno medesimo in cui fui congedato, queste nove opere erano le sole che su quel teatro si rappresentassero e che fossero generalmente ricercate ed amate; due cantate serie erano state in quell’epoca stessa la delizia di quella cittá ; e la mia canzone per la morte di Giuseppe secondo era stata ripubblicata nell ’Anno poetico in Venezia, in Trevigi, con note del celebre Giulio Trento, ed in molte altre cittá dell’Italia: in modo da non lasciar perire il mio nome per la mia partenza di Vienna. Tutte queste mie glorie però accrebbero, piuttosto che scemare, l’odio de’ miei nemici e raddoppiare fecero i loro sforzi per rendermi quanto era possibile infelice. Negli umani infortuni si suol trovare il piú delle volte il conforto dell’altrui compassione; ma i miei persecutori non eran generosi leoni che sapessero «parccre subiectis»: eran volpi maligne e rapaci lupi, «non missini cutem nisi pieni cruoris».
Appena si seppe del congedo mio, che la baldanza e il livor di que’ perfidi (ed eran questi tutti italiani) non ebbe piú alcun ritegno. Che non dissero, che non fecero per tormentarmi] L’imperatore era stato giusto; cosi andavano trattati i birbanti; la mia condotta m’avea meritato ciò e peggio; le amanti, le cabale, le parzialitá... Tutti questi però erano discorsi vaghi; e il paese, pieno di mille vari rumori, non poteva dire qual fosse la vera cagione del mio congedo. Lasciò frattanto Leopoldo la capitale e parti per l’Italia: io voleva allontanarmi da un luogo, dove non si presentavano agli occhi miei che oggetti di dispetto e d’orrore. La necessitá di dar sesto a diversi affari m’obbligò rimanervi per qualche tempo. Parve pericolosa la mia dimora. Il nuovo direttore, ad instigazione di alcuni malevoli, mi mandò un ordine per iscritto di partire dalla cittá. Gli avevano fatto credere, per indurlo alla illegale risoluzione, che all’incominciamento degli spettacoli avrei cercati de’ partigiani contro le nuove virtuose. Una di queste ebbe la viltá di dirgli che non osava presentarsi al pubblico finché si trovava in Vienna Da Ponte. Si trovò un ottimo antidoto per la paura. Mi si intimò la partenza da Vienna il giorno medesimo in cui si doveva riaprire il teatro. È lieve immaginare qual effetto produsse in me questo colpo. Io vedeva precipitato per sempre l’onor mio da questa spezie di esilio. Che si poteva fare contra la forza? Partii. Mi ritirai in una montagnuola due miglie discosta dalla capitale. Qual fu il mio tormento, quando mi vidi in quella solitudine!
II primo giorno fu uno de’ piú terribili di tutta la vita mia. Sacrificato all’odio, all’invidia, agli interessi degli scellerati, scacciato da una cittá nella quale col prezzo onorato del mio talento io era vissuto undici anni ; abbandonato dagli amici, verso cui tanto spesso aveva esercitate le piú distinte beneficenze; biasmato. maledetto, avvilito dagli oziosi, dagli ipocriti, dai trionfanti nemici ; cacciato alfin da un teatro, che non esisteva che per opera mia; io sono stato piú volte all’istantaneo procinto di togliermi colle mie mani la vita. Il conoscimento della propria innocenza, invece di consolarmi, raddoppiava la mia disperazione. Io poteva bene riputarmi innocente, ma come provarlo ad un giudice che mi avea condannato senza udirmi e che, per colmo della disgrazia, era allora lontano dai suoi domini? Passai tra le lagrime e la desolazione tre giorni e tre notti. Due sole persone, a cui prima della mia partenza aveva indicato il loco del mio ritiro, vennero dopo tal tempo a visitarmi. Queste mi consigliarono d’aspettare in quel loco stesso il ritorno dell’imperadore. Voleano che mi giustificassi, ch’io chiamassi in giudizio i miei accusatori, che difendessi il mio onore, giacché non m’importava piu dell’impiego. Mi lanciai vincere. Scrissi colla maggior evidenza il compendio di questa storia, offersi i piú legittimi documenti alla prova, e per mezzo d’integerrimo personaggio, che venne a vedermi secretamente per compassione, mi riusci di farla capitare in Italia al sovrano. Si riseppe, non so come, nella cittá il loco della mia dimora e il maneggio mio. I calunniatori tremarono. Conveniva prevenire il fulmine. Non c’era che un modo, ed era quello di non lasciarmi tempo da parlar a Leopoldo, che si sapeva esser giá vicino al ritorno. Si mandarono improvvisamente in mia casa due commissari di polizia, i quali mi cavaron dal letto, mi condussero senza parlare a Vienna, e, dopo avermi lasciato due ore in sospetto se si trattasse di condurmi alle carceri o al patibolo, m’ordinarono prò tribunali , da parte di «colui che tutto puote», di allontanarmi nello spazio di ventiquattro ore dalla capitale e da tutte le vicine cittá. Io ero avvezzo ai gran colpi. Questo non mi lasciò sentire tutto l’eccesso dell’ultimo. Domandai placidamente da chi mi veniva tal ordine. Un d’essi mi rispose seccamente: — Da colui che comanda. — Chiesi di parlare al direttore di quel tribunale; non fu picciola grazia che me l’abbiano permesso. Era questo il conte Saur, uno de’ piú saggi, giusti e rispettabili soggetti della sua patria. Io non posso ricordar il di lui nome senza lagrime di riconoscenza e di venerazione. Corsi al suo tribunale; gli feci un racconto esatto di tutte le cose. Mi disse che non era che csecutor dell’altrui volontá, che non gli era noto quali fossero le mie colpe, che al tribunal della polizia, di cui egli era direttore, non era stato in alcun tempo portata accusa contra me; ma ch’io aveva dei possenti nemici nel teatro, i quali dipinto m’avevano con neri colori alla corte, e particolarmente all’imperadrice. L’assicurai della mia innocenza: gli dissi ch’io sapeva di non aver mai fatta cosa contro le leggi e il dovere d’un uomo sociale. Parve di crederlo. La veritá ha i suoi caratteri. Ella si fa riconoscer facilmente da un’anima giusta. Lo pregai d’impetrarmi una proroga d’otto giorni, nei quali proponeva di giustificarmi. Me li impetrò da Francesco secondo, allora correggente. In questo spazio di tempo esaminai, cercai lumi e scrissi tutte quelle instruzioni ch’io riputava opportune alla circostanza. Offersi attestati di personaggi irrefragabili, per provar l’onestá della mia condotta civile. Ignaro delle precise calunnie, onde s’era proceduto con me tanto atrocemente, feci l’enumerazione di tutti i delitti che possono meritar i supplizi della umana giustizia, anche volendosi adoperare il piú severo rigor delie leggi, provando ch’io era innocente Io esibiva a tal prova l’ostaggio della libertá e della vita Non giovò nulla. Francesco, esecutore e nulla piú della volontá del padre, lette e ponderate le mie ragioni, altro non potè far che compiangermi c consigliarmi d’andar sollecitamente a Trieste, dove si doveva in pochi giorni trovar Leopoldo, per fare le mie difese e per implorare giustizia. Abbracciai sul fatto il consiglio di quell’ottimo principe.
Giunto in Trieste, mi presentai al conte Brigido, governatore di quella cittá. Egli aveva saputa tutta la storia delle mie avventure. Per qualunque modo gliel’avesser dipinta, ei non isdegnò d’accogliermi con affabile cortesia. Udi nuovamente da me medesimo il racconto de’ casi miei, lo credette veridico e, con una rara bontá, m’offerse protezione, assistenza, amicizia. Ei non mancò in alcun tempo alla magnanima offerta. L’anima mia, che fu sempre memore delle beneficenze e delle nobili azioni, non può trattener l’espansione della sua gratitudine alla rimembranza della geneiositá e della giustizia di quest’uomo celeste. Io non posso lodarlo abbastanza. Accogliete, signor conte Brigidob), senza ribrezzo questa grata testimonianza d’un uomo che riconosce la conservazion della vita e un risarcimento di onore dalla vostra benefica mano. Senza l’appoggio dell’autoritá e della grazia vostra, io non sarei piú o sarei forse nel disonore. Ci voleva un eccesso di virtú per offrirmelo questo appoggio: voi sapevate che io era in disgrazia del sovrano, e, ad onta di questo, osaste proteggermi e mi salvaste. Le circostanze e il loco dove sono non lasciano né in altri né in voi sospetto d’adulazione: tutto quello ch’io scrivo è un tributo che devo alla mia coscienza e alla grandezza della vostra anima. Io non posso pagarvi che di parole e di fausti augúri.
Non passarono che alcuni giorni, e capitò in Trieste Leopoldo. Corsi sul fatto dal governatore, ed egli cercò, ma invano, d’ottenermi un’udienza. Questo rifiuto m’immerse nell’ultima disperazione. Passai tre giorni e tre notti in continui parossismi di morte. Io era in procinto di coglier qualche momento dei reali passeggi o delle comparse pubbliche di Leopoldo, per presentarmi a lui e domandar giustizia. Io voleva strascinar meco un padre settuagenario con sette sorelle e tre fratelli, che giá da molti anni benedicevano la provvidenza nel frutto de’ miei sudori e che nel mio sacrifizio eransi in ugual modo sacrificati. Il disegno non s’era potuto eseguire, per la lontananza d’una giornata e mezza della mia paterna famiglia. Mentre io ruminava la cosa, sento alla porta della mia camera gridare improvvisamente: — Da Ponte, Da Ponte, l’imperadore vi vuol vedere! — Credeva di sognare. Non era sogno. Era il principe Lichtenstein, che per ordine di Cesare era venuto per me. Corsi quasi fuor di senno al reale albergo. Una folla di popolo attendeva udienza. Appena capitai, l’usciere ordinommi d’entrar (il E probabile che questo uomo benefico non esista piú, alla pubblicazione della mia Vita\ ma la mia gratitudine esiste ed esisterá eternamente ne’miei scritti. nella camera del sovrano. Stava egli guardando dalla finestra, col dorso vólto verso la porta. Quantunque l’orgasmo del mio spirito fosse alquanto calmato per la maraviglia della chiamata, pure io era abbastanza pieno d’impazienza e di foco per incominciar io stesso a parlare. Mi trattenne la sua postura. Vedendolo in quell’attitudine, attesi per aprir bocca che mi volgesse la faccia. Me la volse, ma nel momento stesso parlò. Questo diede un giro tutto diverso al nostro dialogo. Ne trascriverò parola per parola tutto l’essenziale: non vi sará la minima alterazione. Noi parlammo in un tuono che si poteva udir tutto nell’anticamera. Si udí, si riseppe, ma non da per tutto fedelmente. Ecco la veritá.
— Si può sapere la ragione per cui il signor Da Ponte non ha mai voluto vedere l’imperatore Leopoldo in Vienna?
— Perché Vostra Maestá non ha voluto ricevermi.
— Io le ho fatto dire eh’è padron di venire da me quando vuole.
— A me hanno detto che Vostra Maestá non ha tempo.
— Si, quando mi fece domandare un’udienza privata.
— La mia innocenza aveva diritto di sperarla dalla Maestá Vostra.
— Se fosse stata innocente, avrebbe trovato il modo di farmelo sapere. Ella sa dove io abito.
— Se Vostra Maestá usato avesse anche con me della sua solita clemenza, m’avrebbe fatto chiamare prima di condannarmi. Vostra Maestá non ignora che un uomo caduto nella disgrazia d’un sovrano non viene sempre ammesso all’udienza reale dai ministri, che credono di farsi merito col loro signore, allontanando il disgraziato dal trono, lo ne sono la prova.
— In qual maniera?
— Il di 24 di gennaio corsi qual forsennato per le strade di Vienna, risoluto di gettarmi ai piedi della Maestá Vostra per domandare pietá. Incontrai un segretario del gabinetto reale, lo pregai lagrimando di additarmene le vie. M’indicò il loco ove si trovava lo Steffani e mi suggeri di farmi presentare al sovrano da lui. Sulle scale della reggia v’era Giovanni Thorwart, vicedirettor del teatro. Conobbe dalla mia faccia l’orgasmo in cui era il mio spirito, mi fermò, m’esaminò e m’impedi a viva forza di ricorrere. Vostra Maestá n’ ha in casa sua i testimoni.
— Thorwart! Ed egli disse a me stesso eh’Ella non voleva venire a vedermi, per poter dire ch’io non la voglio udire, eh’ io sono un tiranno. E come glielo impedí?
— Mi disse che Vostra Maestá è irritata troppo con me, che è certo che non mi riceverá ; che mi metto a rischio di qualche affronto; che il nuovo direttore mi fará giustizia, perché mi conosce, mi stima e mi vuol bene...
— Oh bella ! E fu il direttore appunto che mi pregò di scacciarla, dicendo che non poteva aver pace con lei né in teatro né in casa.
— Questo prova l’onestá de’ miei delatori.
— Ma Ella ha tutti nemici? Direttori, ministri, maestro, cantanti, tutti insomma mi dissero male di lei.
— Questo dovrebbe provare la mia innocenza.
— Può darsi: ma perché l’odiano tanto? -- L’ex-direttore Rosemberg, desideroso di porre un altro poeta al reale servigio, si lasciò facilmente guastar l’animo dal Thorwart....
— Oh ! Rosemberg ne sa poco poco di direzion di spettacoli.
De’suoi poeti poi non n’ho alcun bisogno: io me 1’ho trovato a mio modo in Venezia...
— Ugart_
— Ugart è un sacco di paglia : ei fa tutto quello che gli si dice di fare, e l’ultimo che gli parla ha sempre ragione. E perché è suo nemico Thorwart?
— Perché io sapeva e gli aveva detto di sapere i suoi latrocini.
— Come? quando?
— Quando per semplice zelo gli proposi d’illuminare in miglior modo il teatro e a minore spesa, di somministrare i drappi di seta d’ogni colore ed i veli d’ottime qualitá col vantaggio dell’ottanta per cento, e d’indicargli un nuovo metodo di ricevere i biglietti serali alle porte del teatro, che assicurava la cassa da certi monopoli di vario genere, ch’io gli ho fatto capire di sospettare.
— E perché non ha egli voluto? che cosa le disse?
— Che le cose erano cosi da gran tempo e che non si doveano cangiare; anzi che mi consigliava a non far motto di questo a chi che sia, se voleva rimaner a Vienna.
— Oh birbante! Ora capisco perché mi disse tanto male di lei. A Vienna... a Vienna... Tiriamo avanti.
— Il Salieri poi...
— Oh! di Salieri non ho bisogno che mi parliate. Io lo conosco abbastanza. So tutte le sue cabale, e so quelle della Cavalieri. È un egoista insopportabile, che non vorrebbe che piacessero nel mio teatro che le sue opere e la sua bella. Egli non è solo nemico vostro, ma lo è di tutti i maestri di cappella, di tutte le cantanti, di tutti gl’italiani, e sopra tutto mio, perché sa che lo conosco. Io non voglio piú né la sua tedesca né lui nel mio teatro. Bussani poi, quel vero imbroglione, mi conoscerá. Io ho trovata una certa Gaspari a Venezia, che fará uscire i grilli di testa a quella sfrontata saltibanco di sua moglie, che, a forza di piazzate, di pagliacciate e di urli stuonati, si è acquistata un partito di staffieri, di parrucchieri e di cuochi nella mia dolce Vienna. Io ho avvertita la Gaspari di non lasciare alcuna prima parte a costei: se questo non gioverá, troveremo altre strade. Adesso son io direttore e impresario, e il mio conte «sacco di paglia» non deve far nulla. Io, io voglio comandare, e vedremo se andranno meglio ie cose. Basta: da tutto quello che voi mi dite, e che mi pare naturalissimo, capisco che non siete quell’uomo che mi voleano far credere che foste.
— Noi sono, viva Dio! Sire, noi sono!
— Lo credo, lo credo! Ma che cosa è certo libro, sullo stile di quel di madama Lamotte contro la regina di Francia, che voi state componendo contro me....
— Oh che calunnia! Io contro la Maestá Vostra?
— A me l’hanno detto Ugart, Thorwart e Lattanzio.
— Ecco di quali armi si son serviti i nemici miei, per far credere ch’io era un uomo pericoloso e che conveniva estirparmi dal mondo, lo sono stato ritirato al Brill ed a Moedling: ivi fui visitato piú volte da alcuni onesti personaggi, i cui nomi depositerò nelle mani di Vostra Maestá. Essi hanno Ietti tutti i miei scritti. Si degni esaminarli, e se trova che non è vero. .
— Oh! se non è vero quel che m’hanno detto, io li voglio acconciare come meritano, particolarmente quel birbone di Lattanzio, che si fa credere consigliere, segretario e confidente mio, e che ha ingannata tanta gente in Vienna colle sue imposture e bugie. Egli ha scroccato anche a voi una scatola d’oro e un medaglione, per portarmi un memoriale... Oh, se sapeste come vi ha servito! Ma io servirò meglio lui: non dubitate!
— Questo non fará ch’io non rimanga vittima.
— Oh, lo fará benissimo! Dove pensate di andare adesso?
— Sire, a Vienna.
— A Vienna, cosi presto, non si può. Vi sono ancora delle imp-essioni troppo cattive di voi. Sará cura mia lo smentirle... e poi...
— Sire, io non ho tempo d’aspettare gli «e poi». Ho un padre settuagenario, sette sorelle nubili e tre fratelli, c’hanno bisogno di me.
— So che fate del bene alla vostra famiglia, so che educate due fratelli, che siete benefico: questo mi piace. Ma perché non fate venire a Vienna le vostre sorelle? Hanno de’ talenti? Si potrebbero impiegar nel teatro.
— Le mie sorelle morrebbero, se dovessero abbandonar per tre giorni il lor vecchio padre. Esse non hanno altro talento né altra bellezza che l’onestá. Se Vostra Maestá vuol fare felici dodici persone ad un tratto, faccia ritornar me solo a Vienna: io suderò per tutti, come sudai giá undici anni; tutte le volte che potrò prestar dei soccorsi a questa onorata famiglia, alzeranno dodici bocche benedizioni e ringraziamenti alla giustizia della Maestá Vostra. Se non merito d’esser poeta de’ teatri cesarei, mi destini qualch’altro impiego, mi metta a servire l’ultimo de’ suoi servi; ma ciò senza indugi, e sopra tutto in Vienna.
— Il mio teatro può aver bisogno di due poeti: io so che voi siete buon poeta anche nel serio; ma per adesso non posso.
— La Maestá Vostra lo deve, per trionfo della giustizia, per onore del trono, per conforto della mia avvilita onestá. Io mi genufletto ai piedi della Maestá Vostra, di dove non mi alzerò senza essere pienamente esaudito. Ella si lasci piegare da queste lagrime, che sono lagrime d’innocenza. Si. o Sire, io lo posso dire, lo posso giurare: son lagrime d’innocenza, se non è delitto per me Tesser uomo e l’aver le passioni dell’uomo...
— Questo no; ma m’hanno detto...
— E per un «m’ hanno detto» il moderato, il saggio Leopoldo mi toglie un pane che non mi diede? Per un «m* hanno detto» mi fa partire da una cittá, che m’accolse onorato undici anni, che mi vide esercitar tutto questo tempo la vera religione dell’uomo, la beneficenza verso la famiglia, verso gli amici, verso i nemici medesimi, che mi dá diritto di cittadinanza o almeno di pubblica protezione?
— Alzatevi.
— Per un «m’hanno detto» macchia il mio nome coll’eterna infamia di doppi bandi, mi mette al paragone dei primi scellerati del mondo, mi nega un asilo di pochi palmi di terra in tutti gli Stati imperiali, mi fa diventare favola degli sfaccendati, ludibrio degli ipocriti, scherno dei traditori?
— Alzatevi.
— Sire, non devo, non posso. Ella me ne dia la forza, esaudendo il mio voto. Ella non mi lasci piú negli orrori d’una sentenza che carpirono i miei nemici dalla sua ingannata giustizia, e che non è autorizzata da altra legge che da quella della forza. Questa non è nel codice di Leopoldo.
— Alzatevi! ve lo cornando. Un sovrano è padrone di far quel che vuole in casa propria, e non ha debito di rendere conto ad alcuno della sua volontá.
— Io mi prostro, o Sire, piú profondamente per implorare perdono dalla sua clemenza. Io giurai a tutto costo di dirle il vero. Questo sentimento non può dispiacere al magnanimo Leopoldo. Un sovrano non deve fare che ciò eh’è giusto.
— Sará sempre padrone di tener chi gli piace al suo servigio e di congedare chi non gli piace.
— Non oserei porlo in dubbio. Ma questo congedo e pena, che basta per chi ha la disgrazia di non piacere a un sovrano, è pena che basta, senza disonorarlo con due esili e senza fargli imputare, per una presunzion fondatissima, ogni possibil delitto.
— Io non ve n’ho imputato alcuno.
— Volesse il cielo che Vostra Maestá, prima di condannarmi, me ne avesse imputato alcuno! Allora si avrebbe detto: — L’imperatore l’ha punito per una reitá. — Ora si dice per mille. I preti, perché io era uno scandaloso; i cantanti del teatro, per le mie cabale e parzialitá teatrali; i deboli, per la scola perniciosa de’ miei libretti; i calunniatori, per satire scritte contro il sovrano; gli oziosi, i mal informali, i novellatori dei caffè, per tutto quello che lor suggerisce il momento, il capriccio, il vantaggio proprio, il piacer di dir male: di maniera che non v’ha persona in Vienna, che non abbia inventato o creduto in me un differente delitto, e che a spese della mia riputazione non abbia giustificato il rigore della Maestá Vostra nel castigarmi. — Rimase allora un momento pensieroso, fece due o tre giri per la camera senza parlare, e, volgendosi d’improvviso con serena faccia a me, tuttavia inginocchiato: — Sorgete — mi disse, stendendomi la mano per aiutarmi: — vi credo perseguitato e vi prometto un risarcimento. Volete di piú?
— No, Sire: mi basta che il mio nome meriti la rimembranza d’un monarca occupato in cure di tanto maggiore importanza, e che la Maestá Vostra si degni credere che il foco, forse soverchio, da me oggi mostrato, da altro non nasca che da una coscienza oltraggiata a torto da’ miei ingiusti nemici.
— Ve lo credo e dimentico tutto. Dove pensate fermarvi?
— Io fermerommi, o Sire, in Trieste.
— Ebbene, fermatevi qui, e fatemi qualche volta udir novella di voi. Intanto, sentite. Ho ricevuto oggi lettere da Vienna, ove mi scrivono che gli affari del teatro vanno malissimo e che non si fanno che vessazioni ed intrighi alle mie cantanti: per questo vi ho fatto chiamare, e vorrei che mi suggeriste come si potrebbe fare a estirparli.
— Vostra Maestá vede adesso se era il Da Ponte l’autoF delle cabale, o se Io son quei medesimi che le volevan far credere ch’ei lo fosse.
— Oh ! lo veggo bene, lo veggo.
— Prima di tutto, o Sire, bisogna distrugger le cause.
— Ebbene, ditemi le principali. — Sedette, prese in mano la penna e si mise in atto di scrivere. Gli ripetei allora le cose stesse che aveva giá suggerite alla direzione, ed egli le scrisse colla maggior esattezza, approvando di tratto in tratto quello ch’io gli dettava e che non ridico in queste Memorie , come cose che interessare non possono i miei lettori, né aggiungere o togliere alcuna dilucidazione alla storia della mia vita. Scrisse quel che io dettai per lo spazio intero d’un’ora, mi parlò d’alcune altre cose che bello ora è il tacere, siccome era il parlar colá dov’era, mi assicurò novellamente di ricordarsi di me e di darmi novelle di lui, mi domandò se m’occorreva danaro ; ed io, benché non era lontano ad averne bisogno, fui stolto o vano abbastanza per dirgli che nulla occorrevami. * Partii alfine dalla sua camera, colla ferma speranza di veder in brevissimo tempo trionfare la mia innocenza. Ma vedrassi tra poco l’elTetto per me funesto di questa speranza. Quest ultima idea Irattanto fece la impression piú viva nell’anima mia. Operai subito in relazione di quella, cercando di allontanar tutte l’altre, che mi volean condurre per forza ad un altro ritratto di questo principe. Egli non era piú per me un uom ingiusto; egli era stato ingannato; era peccato che avesse al fianco dei consiglieri malvagi e che una caterva d’adulatori l’ubbidisse per tradirlo.
Con questa lusinga neH’animo, lasciai correr alcune settimane senza far o dir nulla. Questo bastò ad esaurire la borsa d’un poeta, che non è mai stato né avaro né ricco. Le promesse sovrane m’aveano fatto seguitare l’intrapresa assistenza di due fratelli e d’un’amica di dieci anni, ch’aveami seguitato ne’ miei infortuni fino a Trieste. Esausta la borsa, cominciai a spogliare la guardaroba. Si vuotò in pochi mesi anche questa. Ricorsi agli antichi amici : dov’erano o come mi accolsero? Sordi, insensibili, inesorabili, mi voltarono tutti le spalle, non risposero alle mie lagrime o mi caricarono di rimproveri per «la mia imprudente condotta». Non mi giovò ricordare i prestati servigi, non gridar colle voci dell’amicizia, non dire: — Soccorretemi, ch’io moro di fame. — Un italiano, eh’ io tenuto avea per piú mesi in mia casa e assistito con cor di padre si lui che i suoi figli in tempi calamitosi, era per una bizzarria di fortuna divenuto ricchissimo. Viveva egli in Napoli a que’ tempi, ed era banchiere. Credei che non potesse negarmi la prestanza di cento piastre, ed osai domandargliele.
Ecco la mia lettera : Signor Piatti carissimo, ho bisogno di cento piastre. Se volete prestarmele, ve ne farò la dovuta restituzione in due o tre mesi. Credo che non m’occorra dirvi di piú, per ottenere da voi questo picciolo favore. Il vostro amico L. Da Ponte.
Ed ecco la risposta: • Carissimo signor Da Ponte, chi presta il suo danaro perde quasi sempre e il danaro e l’amico; ed io non voglio perdere né l’uno né l’altro. State bene. Tutto vostro D. Piatti.
Questo «brav’uomo» mori giovine, e non sul letto: se finissero come lui tutti quelli che a lui somigliano, vi sarebbero meno ingrati nel mondo. Il rifiuto di costui mi fece perder la speranza di trovar grazie dagli altri. Cercai solo studiosamente di celare quanto potessi le dure mie circostanze al paese, per non far ridere i miei nemici. Il governatore di quella citta sarebbe stato capace di alleggerire i miei infortuni ; ma non osava scoprirgli i miei bisogni, per una certa ritenutezza, per cui egli ebbe poi la bontá di rimproverarmi. La mia desolazione era estrema. Un onoratissimo e generoso compatriotta, che solo non isfuggiva la conversazione d’un uomo che risguaidavasi con disprezzo, fu abbastanza accorto per avvedersene e per prestarmi una consolazione con offerte e coi benefici. Ma egli non era ricco, né io indiscreto: tutto quello, ch’io riceveva dalle sue mani, era un peso incredibile all’anima mia. Oltre a questo, io non era solo; e molte volte, nel momento stesso in cui alla mensa del mio benefico Filemone io aveva un alimento di vita, il cor mio lagrimava per tre bocche fameliche, a cui non aveva in quel giorno potuto somministrare che un po’ di pane. Ecco l’orribile pittura dello stato in cui vissi piú di tre mesi.
Capitò frattanto a Trieste la solita compagnia de’ cantanti di quella stagione; e l’impresario di quella, uomo, se non generoso, pure abbastanza saggio e discreto, mi dimandò d’assisterlo nella rappresentazione d^W Ape musicale , opera senza maestro di cappella, da me per Vienna composta; e questa piacque abbastanza perch’ei mi pagasse volentieri un certo prezzo accordatomi; prezzo, che, sebben modico, pur mi fu di conforto sommo nelle circostanze in cui era. Alla compagnia de’cantanti ne successe un’altra di comici; e i pochi amici ch’io aveva in quella cittá, tra’quali nominerò con orgoglio il governatore, il baron Pitoni, il conte Soardi e il mio compatriotta Lucchesi, vollero a forza ch’io facessi rappresentare qualche mio dramma, lo avea ricevuto dal fratei mio, alcun tempo prima della sua morte, i due primi atti d’una tragedia non limata né terminata. La limai, la terminai e ne feci dono a quella compagnia, bi tappi esentò con applauso, e il pumo a farne degli elogi straordinari fu il Colletti. Questa sua sfacciata doppiezza ridestò in me un risentimento, ch’io aveva fin allora soffocato prò bono pacis. Non credei però che fosse ancor tempo di dar foco alla mina; tanto piú che il mio core, parte per le speranze da me concepite per le promesse d’un imperatore, e parte per gli elogi prodigatimi per questo mio dramma e per la mia tragedia, cominciava non solo a ritranquillarsi, ma ad acquistare nuov’energia e nuova vita. La prima pruova, ch’io ebbi di questo, fu una potentissima ricaduta ne’ lacci d’amore, da cui poco tempo prima io m’era in modo mirabile liberato. Non t’incresca, lettor cortese, di leggeranche questa storia de’ miei amori. Io credo che sará rultima, di cui mi fia permesso fare menzione. Ma questa è di troppa importanza nella mia vita, perché io possa tacerne.
Quando partii da Vienna per andare a Trieste, la donna, eh’ io amava, parti per Venezia. Mia intenzione era di abboccarmi con Leopoldo, di difendere e provare la mia innocenza, e di andar a Venezia anch’io. Ma, ad onta di tutte le pruove date di vera amicizia, ad onta de’ sacrifizi terribili da me fatti per lei, ad onta alfine di mille promesse, di mille giuramenti di amore e di gratitudine, un’aura vana di sperata ma non ottenuta prosperitá empiè la sua testa, naturalmente romanzesca, di mille chimere di vanitá e di grandezza; e, un poco per debolezza di carattere, un poco per seduzione d’un vile, che non merita esser nominato da me, pose in dimenticanza non solo ogni sentimento d’alTetto e di gratitudine, ma s’adoperò indegnamente per allontanare da me il dolce piacere di tornar in seno della mia patria. Quest’atto però d’iniquitá feminina vólto fu in breve dalla mia ragione alla mia propria salute. In meno d’un mese mi trovai libero di un’ignominiosa passione, che per tre anni continui mi tenne schiavo infelice di quella donna. Io non credea, dopo questo, che fosse cosa possibile l’innamorarmi. M’ingannai. Il mio cuore non era e non è forse fatto per esistere senza amore; e, per quanti inganni e tradimenti m’abbiano nel corso della mia vita fatto le donne, in veritá io non mi ricordo d’aver passato sei mesi in tutto il corso di quella, senza amarne alcuna, e amare (voglio vantarmene) d’un amore perfetto.
M’accadde dunque a que’ tempi d’essere presentato a una giovine inglese, figliuola d’un ricco mercadante, arrivato non molto prima a Trieste. Si diceva da tutti esser bellissima della persona e accoppiare a maniere gentili tutte le grazie d’uno spirito coltivato. Tenendo ella allora coperto il volto d’un velo nero, che m’impedia di vederla, io, che desiderava pur di conoscere se il fatto rispondeva alla fama, me le avvicinai un pocolino, e, per una certa baldanza che davami l’intrinseca famigliaritá da me contratta prima co’ suoi: — Madamigella
— le dissi, quasi scherzando, — la maniera ond’ella porta il suo velo non è alla moda. — Non accorgendosi del mio pensiero:
— E come dunque — soggiunse — è la moda presente? — Cosi, signorina. — E, prendendo il suo velo per le punte dei lembi, gliel misi sul capo. Non parve che le piacesse quell’atto, e parti pochi istanti dopo da quella stanza. Com’erami veracemente sembrata bellissima, cosi mi rincrebbe infinitamente averle per quello scherzo spiaciuto. Per vari giorni non ebbi piú occasione di vederla. Sebben la cognata di questa damigella, ch’aveva molt’amicizia per me, m’assicurasse che quel foco di collera passerebbe presto, io non osava nemmeno lasciarmi passare pel capo che ella potesse sentire alcun principio d’amore per me; e questo, non solo perch’io aveva non meno di venti anni piú di lei, ma perdié io era povero ed ella figlia d’un padre ricco, e piú ancora per la quantitá di vagheggiatori che aspiravano alla sua mano, tutti ricchi e assai piú gioveni di me.
Ella abitava allora con una signora inglese, di cui era strettissima amica, e venia qualche volta alla casa paterna per far una visita a’ suoi. Essendo familiarissimo in quella casa, domandai un giorno al padre e al fratello se consentirebbero di dar quella giovane a un merendante italiano, che viveva allora a Vienna e che, prima ch’io partissi di quella cittá, m’aveva palesato il suo desiderio di sposare un’inglese. Informatili dell’etá. del carattere e dello stato del giovine, ne parlarono alla damigella, e, pel consentimento di tutti, scrissi ed ebbi risposta favorevole: si mandarono ritraiti leciprocameme, e in quindici giorni tutte le parti parean contente. Ma tant’io che la damigella, che avea dimenticalo del tutto la faccenda del velo nero, che conversava meco familiarmente, che m’insegnava il francese, mentre apprendea l’italiano da me, cominciavamo a sentir un non so che di piacevole nelle nostre conversazioni, che duravano assai piú lungamente di quello che tra amici e maestri di lingua durare sogliono; un non so che. ch’operò in entrambi assai vivamente e fini con un vicendevole innamoramento tra la sposa futura e il non piú giovine mediatore. Né ella però mi parlò mai d’amore, né io a lei. Ma quel, che il labbro taceva, dicevan assai chiaramente i guardi teneri, i sospiri ardentissimi, le tronche parole e sopra tutto la necessitá di star sempre insieme e sempre vicini. Io aveva giá scritto all’amico mio di Vienna che i parenti acconsentivano di buon grado, che il suo ritratto piaceva e che la sua venuta a Trieste per ultimare tutte le cose era ansiosamente aspettata. Non mi capitò per diversi giorni la sua risposta, e furono questi tanti giorni di morte per me. Io stava una sera vicino a lei, quand’entra il fratello e mi presenta una lettera. Ne riconosco il carattere, e, con mano e piú ancora con cor tremante, l’apro e ad alta voce la leggo.
Ecco le precise parole: Caro amico, la giovane, se somiglia al ritratto, è bellissima; le informazioni di tutti gli amici miei, quanto ai costumi, al carattere e alle maniere della giovinetta, non posson esser piú favorevoli. Ma, come tutti mi dicono che il padre è assai facoltoso, cosi io, sebben abbastanza ricco, per non pregiudicar 1 possibili figli, vorrei sapere qual dote le accorderebbe al mio maritarla. Appena finite queste parole, il padre mi strappò il foglio di mano, lo squarciò in cento minuti pezzi e gittollo furiosamente nel foco, ripetendo con ira queste parole: — Ah! ah! il signor Galliano vorrebbe sposar il mio danaro e non la mia figlia! — (Galliano era il nome del mercadante). Rimase pochi momenti taciturno, fece tre o quattro passi per la camera; e poi, a me rivolgendosi: — Amico Da Ponte — mi diss’egli, — la volete? — Chi? — replicai ridendo. — La mia figlia — soggiunse. E come io seguitava a ridere: — E tu, Nanci, che dici? lo vuoi? — Abbassò essa gli occhi, sorrise, li rialzò, guardommi con amorosa modestia; e il padre, che credè vedere e nel mio riso e nel suo silenzio quel che di fatti era ne’ nostri cuori, prese la mia e la sua mano, le congiunse insieme assai strettamente, ed a me disse: — La Nanci è vostra; — ed a lei : — Il Da Ponte è tuo. — La madre, il fratello e la cognata applaudirono a questa scena improvvisa; ma la mia gioia, e credo la sua, fu tale e tanta in quel momento, che né ella nè io fummo capaci di piú parlare per tutto il rimanente di quella sera. Partii da quella casa in uno stato che non potrò facilmente dipingere.
Tutte le nne ricchezze a quell’epoca consistevano in cinque piastre; io non aveva impiego attuale né molta speranza d’averne; e la lettera squarciata dal padre della fanciulla per la domanda del pretendente non mi dava né coraggio né lusinga d’aver una fortuna da lui. Ma io amava, io era riamato; e questo bastò a farmi osar tutto in quella occasione e a farmi superare tutti gli ostacoli.
Intanto erano giá passati sei mesi dall’epoca del gran dialogo. Mi pareva che Augusto avesse avuto tempo bastante per diciferare le cose e per cancellar o smentire le cattive impressioni. Osai fargli ricordare il mio nome per mezzo di M*** S***, che godeva tuttora del favore cesareo. Mi rispose questi ch’era ancor troppo presto e che «Sua Maiestas haberet inde multas molestias, quns tu scine non potes». Replicai le istanze, dipinsi la mia situazione, scrissi e feci parlare dal veneto ambasciatore, che pareva proteggermi. Le risposte erano sempre vaghe, incerte, indecise; ma non si ommetteva mai il «siate sicuro che l’imperatore vi richiamerá», il «nondum venit bora tua» o simil altra cosa, che seguitava a tenermi in una fatale speranza e che mi condusse, alla fine, agli orli dell’imminente disperazione. Buon per me che il mio «saggio amico» me ne ha liberato! E chi fu questo amico? Il signor abate Casti! Devo alla sua acutezza la mia salute. Egli’era passato due mesi prima per Trieste, di dove poi portossi a Vienna, e m’era procacciato il piacere di conversar sovente con un uomo, la di cui bocca non soleva aprirsi che a sensi leggiadri e piacevoli. La mia venerazione pel vero merito m’aveva fatto dimenticare tutto il passato, e credeva che le mie vicende dovessero aver fatto dimenticare anche a lui certa letteraria avversione. Gli apersi dunque tutto il mio core, gli chiesi colla maggior fiducia un consiglio. — Cercatevi un pane in Russia, in Inghilterra od in Francia — mi diceva ognor seccamente quell’eminente politico. — Ma l’imperatore m’ha promesso di richiamarmi. — L’imperatore vi mancherá di parola. — Ma il suo segretario m’ha scritto che attenda. — Il segretario è un buffone. — Ma l’onor mio, i miei nemici...
— In Russia, in Inghilterra od in Francia farete vendetta dei nemici e ritroverete prestissimo dei magazzini di onore. — Io poteva capir facilmente donde nasceva l’ostinatezza di tal consiglio: non giudicai si debole il mio buon Casti. Ebbe egli stesso la caritá d’illuminarmi. — Sappiate — mi disse un giorno — ch’io era poeta titolato di Leopoldo come arciduca di Toscana; che, avendolo veduto in Italia, gli dissi che, come egli avanzato era di posto, cosi sperava con fondamento d’avanzare anch’io; ch’ei mi rispose essere giustissima la mia domanda, e che per conseguenza dovrei creder d’esser poeta cesareo appena arrivato in Vienna. — Mi fece poi l’onore di farmi leggere quattro «tragedie buffe» per musica, che aveva destinato di regalare a Leopoldo pel suo teatro. Non ebbi d’uopo d’ulteriori avvisi. — Casti — dissi allora fra me medesimo — non mi vuole a Vienna. — Non ardiva giá credere ch’egli mi ergesse all’onor di rivale. Io sapeva bene qual sublime opinione aveva il signor Casti del proprio merito, per non lasciarsi cadere tal debolezza nel capo; ma, in qualunque modo, pensava ch’ei non volesse ostacoli né grandi né piccioli alle sue mire, alle sue speranze, ch’egli pur credeva frustrate da me in altri tempi.
Che dunque risolvere? L’imperadore taceva : per quanto mi scrivesser gli amici, io trovava sempre deluse le mie lusinghe. La mancanza di mezzi onde vivere aumentava di giorno in giorno. A questo aggiungevasi il privato interesse d’un Casti, la cui eloquenza e politica potente e finissima io conosceva per prova, e m’era giá in altri tempi, benché viveva Giuseppe, tornata incomoda. Dopo molli riflessi, sospiri e maledizioni, risolsi d’abbracciar il consiglio del gran poeta. Il primo paese che mi venne allora nel capo fu Parigi. Io aveva una lettera di Giuseppe per la regina di Francia ( f ), che credeva dover bastare per farmi trovar un impiego analogo a’ miei studi. Scrissi perciò a Casti, e lo pregai di dire o di far dire all’imperatore che, vedendo cangiate le circostanze, mi ristringeva a chiedere qualche (i) MI die’ questa lettera quando congedò la truppa italiana, con queste parole:
— Antonietta ama molto La cosa rara scritta da voi. — suffragio per poter lasciare Trieste e partir per Parigi, dov’io disegnava di rifugiarmi, rinunziando alle speranze che m’avean fatto concepire le sue parole. Non m’ingannai nelle congetture. Il Casti ne parlò al conte Saur, e questi al sovrano, che seguitava a tacere. Io non avea piú consiglio. Disperazione mi cavò dalla penna la seguente lettera:
Maestá, le grida della mia disperazione dovrebbero essere arrivate a quest’ora all’augusto trono. Non so qual effetto prodotto abbiano, perché nessuno si prese la briga d’instruirmi. Le rinnuovo io stesso alla Maestá Vostra, incapace di piú tollerare l’eccesso d’una desolante miseria, ecostretto a implorar della sua giustizia un ordine definitivo, che mi tolga di speranza o di errore. Io non posso temere di non esser esaudito, portando con sé la mia supplica il conforto delle promesse di un re, i caratteri d’una paziente moderazione e il vero ritratto d’un uomo, che si trova agli estremi dell’ indigenza per la sua rispettosa fiducia nelle parole della Maestá Vostra.
Lasciai correre tre settimane, e, non vedendo alcuna risposta né dall’imperatore né dai ministri, dopo essermi consigliato col governatore, «indocilis pauprriem pati» presi la risoluzione di andare io stesso a Vienna. Mancandomi i mezzi di fare il viaggio, scopersi modestamente il mio disegno e le mie circostanze al vescovo del loco, soggetto d’altissima riputazione per fama di santitá e di dottrina. Egli non mi vedeva volentieri in Trieste. Nemico atroce della memoria del non gesuitico Giuseppe, che m’aveva amato e protetto, contrario alle massime d’un poeta libero e non bacchettone, avrebbe (atto ogni cosa per mandarmi al di lá di Saturno, nonché a Vienna. Udí perciò santamente e caritatevolmente la mia perorazione, ne fu o parve essere molto intenerito; ma, avendo io, disse egli, avuta la disgrazia di dispiacere all’imperador, «suo signore e mio», tutto quello che poteva fare per me era raccomandarmi a Dio nelle sue sante orazioni. Ecco in che consiste spesso la religione e la caritá di certe sterili ficaie del santuario!
Partito dal vescovo, deliberai d’andar dal governatore e di palesargli la mia risoluzione e lo stato mio; ed egli, che non avea riputazione di uomo santo, ma che censurato ed odiato era da molti, udi la mia storia benignamente, approvò la mia deliberazione, e, senza esserne dimandato, entrò nel suo gabinetto e, a me in pochi minuti tornando, mi pose in mano venticinque zecchini, con queste parole : — Questi venticinque zecchini basteranno per le spese del vostro viaggio. Accettateli, caro Da Ponte, e siate certo che ve li do di buon core. Quando partirete? — Domani — soggiunsi. — Ebbene, venite da me prima di partire, e vi darò una lettera pel sovrano. — Andai da lui, ma egli aveva pensato che sarebbe stato meglio scrivere all’imperadore prima ch’io partissi, e attendere la sua risposta. Difatti gli scrisse: dopo dieci giorni, non vedendo risposta, partii, per consiglio suo, per la capitale. Giunto alle porte di quella, trovai che Leopoldo la mattina stessa era morto. Questa novella mi stordi; ma, dopo qualche riflessione, ripetei con Casti nel Teodoro :
Sia che si vuol : noi non starem mai peggio. È vero che da Leopoldo avrei potuto chieder giustizia, e non potea chieder che grazia dal figlio : ma il primo non mi teneva sul suo buon libro, il secondo parea favorirmi e credermi innocente. Andai dunque a Vienna con animo buono, e mi venne in testa d’andar immediatamente da Casti. Ne parve sorpreso; ma, udite tutte le cose, lodò la mia risoluzione e mi promise la sua assistenza. Difatto, detto sia a gloria del vero, non vi fu cosa che ei non facesse a vantaggio mio in quella occasione, e, qualunque fosse la ragione che il mosse, io né gli fui meno obbligato, né gli professai o gli professo, anche dopo morte, una men sincera gratitudine. Fu mio persecutore:
per sentimento d’uomo, ma piú pel dovere di storico ho dovuto nelle mie Memorie tale dipingerlo. Fu mio benefattore, e, come tale, è mio dovere di confessarlo e di professargli l’obbligazione c’ ha meritata. Si vedrá nel seguito di queste Memorie se a tempi oppurtuni ho saputo ricordarmi di questo dovere.
Mi consigliò dunque l’abate Casti d’andare dal conte Saur, ch’era suo amico particolare e di cui conosceva la bontá, l’integritá e le buone disposizioni a mio favore: egli era, oltre a ciò, potentissimo pel suo uffizio, come quello ch’era direttore della polizia. Il Casti volle accompagnarmivi, e divenne mio difensore, mio apologista e mio encomiatore zelantissimo. Seppe riscaldare per si fatto modo l’animo del conte, che mi promise d’ottenermi dal nuovo regnante un’udienza privata, o almeno di fare si che condiscendesse senza riserva a tutte le mie dimande ; e cosi fu. Francesco, che non potea, per la morte del padre, dar udienza ad alcuno, mandommi pel conte Saur cento sovrane, un’ampia permissione di restare in Vienna a mio ben placito e di pubblicare sui fogli di tutti gli Stati austriaci la mia riconosciuta innocenza. Quali rimanessero i miei nemici a questo colpo, non è necessario dirlo. Restai tre settimane in quella cittá. Piú di cento italiani vennero a visitarmi, ma io ne ho ricevuti pochissimi. Nelle facce di questi io ben potea vedere la costernazione, la invidia, il dispetto e sopra tutto una divorante curiositá di sapere come fosse accaduta tal metamorfosi. 10 mi divertia mirabilmente alle loro spalle. A chi diceva una cosa, a chi l’altra, e a nessuno la veritá.
Il nuovo poeta del teatro era sovra tutti ansiosissimo di sapere s’io intendea partir da Vienna o rifermarmivi. Io conosceva le sue opere, ma non lui. Egli n’aveva scritto un numero infinito, e, a forza di scriverne, aveva imparato un poco l’arte di produr l’effetto teatrale. Ma, per sua disgrazia, non era nato poeta e non sapeva l’italiano. Per conseguenza i’opere sue si potevano piuttosto soffrir sulla scena che leggerle. Mi saltò il capriccio in testa di conoscerlo. Andai da lui baldanzosamente. Quand’arrivai alia sua abitazione, egli stava parlando con un de’ cantanti alla porta della sua stanza. Me gli affacciai : mi domandò il mio nome, gli dissi ch’io aveva avuto l’onore d’essere stato il suo antecessore e che il mio nome era Da Ponte.
Parve colpito da un fulmine. Mi domandò in un’aria molto imbarazzata e confusa in che cosa potea servirmi, ma sempre fermandosi sulla porta. Quando gli dissi ch’avea qualche cosa da comunicargli, trovossi obbligato di farmi entrar nella stanza, 11 che fece però con qualche renitenza. Mi offri una sedia nel mezzo della camera: io mi assisi, senza alcuna malizia, presso alla tavola, dove giudicai dall’apparenze ch’ei fosse solito a scrivere. Vedendo me assiso, s’assise anch’egli sul seggiolone e si mise destramente a chiudere una quantitá di scartafacci e di libri, che ingombravano quella tavola. Ebbi tuttavia l’agio di vedere in gran parte che libri erano. Un tomo di commedie francesi, un dizionario, un rimario e la grammatica del Corticelli stavano tutti alla destra del signor poeta: quelli, che aveva alla sinistrai, non ho potuto vedere che cosa fossero. Credei allora d’intendere la ragione per cui gli dispiaceva di lasciarmi entrare. Mi ridomandò che cosa comandava da lui, ed io, non avendo altra scusa in pronto, gli dissi che andai a visitarlo pel piacer di conoscere un uomo di tanto merito e per pregarlo di darmi un esemplare delle mie opere, che alla mia partenza da Vienna aveva dimenticato di prender meco. Mi disse in aria di dispregio ch’egli non aveva a far nulla co’ libri miei, ma che si vendevano, per conto della direzione, dal custode delle logge del teatro. Dopo essere stato altri dieci minuti con lui e aver conosciuto per tutti i versi che il signor poeta Bertati altro non era che una bòtta gonfia di vento, mi congedai e andai a dirittura dal guardiano delle logge. Trovai con altrettanta sorpresa che compiacenza che i libretti di nove delle mie opere eran tutti stati venduti, che per un anno continuo s’eran queste con uguale successo rappresentate, e, quando un dramma nuovo non piaceva, il che succedeva assai spesso, si ricorreva immediatamente ad uno de’ miei, particolarmente a quelli di Mozzart, di Martini e di Salieri. Nemici miei di Vienna, se non siete tutti giá iti al fondo di Malebolge, smentite, se vi dá l’animo, le cose ch’ora asserisco!
Andai un’altra volta a trovar Casti. Gli parlai della visita ch’aveva fatta a Bertati, dell’apparato della sua tavola, della maniera con cui m’accolse; ma, dopo avermi ascoltato per pochi minuti, altro non mi rispose che questo: — È un povero ciuccio . Sta facendo un’opera per Cimarosa: non merita tanto onore.
Vi scriverò e dirovvene l’esito. — Partii da Casti come si parte da un amico ; e a suo tempo gli diedi prove di esserlo, come vedrassi a suo loco. Presi congedo da’ miei buoni amici di Vienna e tornai a Trieste. Come avea risoluto di partir subito per andare a Parigi, cosi colsi quell’occasione per dar una lezioncella poetica al mio buon amico Colletti, la cui stomachevole falsitá e adulazione raddoppiavan in me la collera ed il disprezzo. Egli aveva giusto a que’ giorni infettata la cittá di poesie, tutte del medesimo calibro. Scrissi anch’io una canzone burlesca, la diedi a un amico, da leggerla agli amici suoi; ma egli invece la pubblicò colle stampe. Voglio ripeter il primo verso di quella al mio lettore: sappia il Colletti ch’io son l’autore della canzonetta Mio caro Colletti, non far piú sonetti.
So che tutti i signori triestini ne risero, e so che il signor Colletti non ne rise. Ma nemmen io non risi a Dresda, la prima sera che v’arrivai!
Io stavo sul momento di lasciare quella cittá, quando mi capitò una lettera di Casti, nella quale, tra l’altre cose di cui parlavami, mi dava delle novelle dell’opera di Bertatti. Ecco le sue parole:
Iersera si rappi esentò per la prima volta II matrimonio secreto. La musica è meravigliosamente bella, ma le parole riuscirono assai ai di sotto deiiaspettazione, e tutti ne sono scontenti, particolarmente i cantanti. Tutti dicono: — Il Da Ponte non lascerá impunito questo arrogante. — Vi mando il libretto, perché veggiate e impariate a fare de’ bei versi !
Ecco la mia risposta : Signore, la ringrazio del libretto da lei mandatomi, ma non seguo il consiglio. Ella ha buon’unghia da cavare la castagna dal foco. I versi di Bertatti son quello che dovevano essere.
Vienna se li goda. E, quanto a’cantanti, la prego di dir loro: «victrix provincia, plora.» Questa fu la prima ed ultima opera che il signor poeta Bertatti diede al teatro di Vienna! Non andò guari ch’ei riparti per l’Italia, per dar loco al Gamerra, ed io partii per Parigi, e non solo. E chi vuol sapere con chi partii, legga la terza parte di queste Memorie.