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che dagli occhi, dal volto e fin dal gesto spira l’empia lussuria ond’egli è invaso, qual satiro procace e disonesto : si, questo mostro, questo è la delizia de’ terrestri numi. Oh che razza di tempi e di costumi ! Quando s’accorse ch’io aveva terminato di leggerlo, mi diede un foglietto di carta e volle ch’il ricopiassi. — L’autografo — soggiuns’egli — lo daremo al conte Rosemberg, che volea regalarmi questo fior di virtú in loco del Metastasio. — Questa espressione ironica di «fior di virtú» mi richiamò alla memoria un sonetto, ch’aveva fatto pel dramma di Casti, intitolato Le parole dopo la musica, in cui aveva usata anch’io quella frase; e per quella frase sola osai recitarglielo, avendogliene prima detto la causa. Casti ier sera un’operetta fe’ (— Divina! — dice il conte), ove pensò satiretta gentil scriver di me; ma il pennel traditore il corbellò. Tutto quel ch’ei pingea, pingea di sé, d’amor, di gioco (il resto io noi dirò); e, quando in man al nostro sir lo die’, lui riconobbe il nostro sir, me no. Quindi il conte proporgli indarno ardi in luco mio quel fiore di virtú, ché il nostro sir gli rispondea cosi:

— Casti è un poeta che vale un Perú, ond’io gli do’l buon anno ed il buon di; ma, se Casti pur vuoi, piglialo tu. —

— Bravo! mi piace, datemene copia, ché lo farò leggere al conte con quel di Parini. — Al conte, Sire? — Si, al conte; ma non gli dirò che l’avete fatto voi. — Gli diedi il sonetto, ed egli mi regalò quindici sovrane, che trasse di tasca senza contare. Lasciamo Casti per ora: avrò occasione di parlare novellamente di lui al suo ritorno a Vienna.