Memorie (Da Ponte)/Parte terza (1792-1805)
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PARTE TERZA
(1792-1805)
Eccomi, o cortese lettore, in un calessino tirato da un sol cavallo, guidato da un giovinotto di quindici a sedici anni, e, come ti dissi, non solo. E vuoi tu saper chi era meco? la mia bella, fresca e amorosa compagna, che, dopo le sociali cerimonie e formalitá, mi fu consegnata da’ suoi genitori il dodicesimo giorno d’agosto dell’anno 1792, verso le due ore pomeridiane.
Con questo equipaggio, con questa compagnia e col capitale di sei a settecento fiorini, all’etá di quarantadue anni e cinque mesi, ina col coraggio, o, per meglio dire, colla temeritá d’un giovinastro di venti, osai pormi all’impresa di passar da Trieste a Parigi. Il padre della mia compagna mi domandò veramente, prima della mia partenza, come stava la mia borsa; ma io, che sentiva tuttavia suonarmi all’orecchio l’«ah! ah! vuol maritare la mia borsa, non la mia figlia, signor Galiano!», e che vedea volar in aria, cangiati in fiammelle, i pezzetti della lettera di quel mercadante, risposi senza esitare che la mia borsa stava benissimo di salute e ch’io era pienamente contento della sua figlia, senza pretendere un’oncia del suo danaro ; lieto nulladimeno che la madre, ottima donna e vera gemma della famiglia, regalasse poi alla sua Nanci una borsetta di monete d’oro del valore forse di cento fiorini: somma, che, sebben frivola in se stessa, pur tornommi a cert’epoca molto opportuna, come presto vedrassi.
Arrivammo la sera a Lubiana, dove ci fermammo la notte, e dove Amore ed Imene m’insegnarono a rasciugare le lagrime d’una tenera figliuola, che abbandonava parenti e amici, forse per sempre, per esser mia. Proseguimmo la domane il nostro viaggio, e per vari giorni felicemente. Traversando però la montagna di Lichtmessberg sull’imbrunire della sera, parve alla mia consorte di veder in qualche distanza due uomini armati di fucili. Come eravamo smontati dal calessino, per dar riposo al cavallo, nel discendere quel ripido monte, e ch’io aveva impiegata una delle mani a sostenere la mia sposa e coll’altra teneva in alto un’ombrella, per difendere lei e me da una pioggetta fina ch’allor cadeva; cosi ella, che fu impaurita da quella vista, dall’ora del tempo e dalla solitudine del loco, s’imaginò che quelle due persone fossero ladri da strada, cavò spensieratamente la borsetta datale dalla madre, me la mise tra il giustacuore e la camicia, credendo forse di metterla tra quella e la persona, e seguitammo il cammino. Le due persone frattanto ci si avvicinarono, ci salutarono cortesemente e se ne andarono per la loro strada. Vedemmo allora che i da noi creduti fucili altro non erano che due lunghi bastoni con punte di ferro, fatti per commodo de’ passeggieri ; i ladri, due lavoratori vecchissimi che tornavano a casa; e ridemmo non poco della nostra paura.
Ma, giunti in pochi minuti alla badia di Sant’Edmondo, situata al piede di quella montagna, cessammo affatto di ridere; e questo fu quando, chiedendomi essa la borsa, m’accorsi che se n’era ita. Tornammo subito sulla montagna con lanterne e fiaccole accese, cercammo per piu di un’ora ogni angolo di quella; ma, trovando che vane erano le nostre ricerche, tornammo afflitti e malconci all albergo. La mattina andammo a trovar l’abate della badia, che fece pubblicar subito, a chiesa piena, la perdita da noi fatta; ma anche questo fu vano. M’assicurò tuttavia quel buon sacerdote che. se alcuno de’ suoi parrocchiani trovata avea quella borsa, poteva esser certissimo d’udirne novelle da lui. Tale era la confidenza che avea nell’ illibatezza e nell’onestá di quella gente! Volle perciò ch’io gli lasciassi il mio indirizzo per le principali cittá, per cui io intendeva passare nel mio viaggio prima di arrivare a Parigi. Partimmo quindi da quella badia, e ci mettemmo novellamente in cammino.
Arrivato a Praga, mi vi fermai alcuni giorni, colla speranza, che fu poi vana, di ricevere novelle del padre abate. Ebbi frattanto l’opportunitá d’andar a vedere la rappresentazione delle tre opere scritte da me per Mozzari, e non è facile dipingere l’entusiasmo de’ boemmi per quella musica. I pezzi, che meno di tutti si ammirano negli altri paesi, si tengono da que’ popoli per cose divine; e quello eh’è piu mirabile si è che quelle grandi bellezze, che sol dopo molte e molte rappresentazioni nella musica di quel raro genio dall’altre nazioni scoprironsi, da’ soli boemmi alla prima rappresentazione perfettamente s’intesero. lo voleva allora partire per Dresda; ma, ricordandomi che Giacomo Casanova, il quale dovevami alcune centinaia di fiorini, stava poco lontano di quella cittá, risolsi d’andar da lui, per ottener tutto o parte del danaro che mi dovea. V’andai, fui ben ricevuto; ma, accorgendomi in breve che la sua borsa era piú smunta della mia, non volli dargli la mortificazione di chiedergli quello che non avrebbe potuto darmi, e, dopo una visita di tre o quattro giorni, decisi d’andar a Dresda. La mia disgrazia volle ch’egli chiedesse d’accompagnarmi fino a Toeplitz, cittá distante dieci a dodici miglia dalle terre del conte Waldstein, di cui egli era bibliotecario ed amico. Fui costretto a pigliare un altro cavallo e un altro condottiere ; e questo a mezza strada ci ribaltò. Fummo obbligati fermarci mezza giornata per far raccommodare il calesse; ma, con tutte le riparazioni fattegli, quando giungemmo a Toeplitz, trovai che non era possibile seguitare in quello, senza pericolo, il nostro viaggio. Vendei dunque per sessanta piastre un calesse e un cavallo che me ne costavano piú di cento; e Casanova, che ne fu il sensale, nel contarmi il danaro, prese due zecchini per sé: — Questi
— dicendomi — serviranno per farmi tornare a casa; e, come io non potrò mai restituirvi né questi né gli altri di cui vi sono debitore, cosi vi darò tre ricordi, che varranno assai piú che tutti i tesori di questo mondo. Da Ponte mio, se volete far fortuna, non andate a Parigi, andate a Londra; ma, quando vi siete, non entrate mai nel Caffè degli italiani, e non scrivete mai il vostro nome. — Felice me se avessi seguitato religiosamente il suo consiglio! Quasi tutti i mali e le perdite che soffersi in quella cittá (e vedrassi tra poco perché la preferii a Parigi) nacquero dall’aver io frequentato il Caffè degli italiani, e dall’aver segnato imprudentemente e senza intender le conseguenze il mio nome. Partito da lui, la mia sposa, che rimasta era stordita della vivacitá, dell’eloquenza, della facondia e di tutte le maniere di questo vegliardo straordinario, volle sapere da me la storia della sua vita; ed io l’intrattenni assai piacevolmente per molte ore, nel raccontarle quello che ne sapeva. Non dispiaccia al mio leggitore d’udirne parte: quella, cioè, che in alcuni rispetti ha qualche relazione con me, o di cui sono stato io stesso ocular testimonio. Nacque Giacomo Casanova a Venezia, dove, dopo varie vicende, fu per ordine degl’inquisitori di Stato fatto mettere sotto i Piombi, e questo perché certa dama si lagnò, con uno di quel tribunale che le facea il cicisbeo, che Casanova leggesse Voltaire e Rousseau co’ suoi figli. Fuggi da quelle carceri dopo otto o nove anni di prigionia in un modo mirabile. E la storia di quella fuga, che porta per titolo IL nuovo Trenk , si legge generalmente con maraviglia pari al diletto. Vide molte cittá d’Europa, tra le altre Parigi. Tra le innumerabili avventure accadutegli ne’ suoi viaggi, mi piace sceglierne or una, che, divertendo moltissimo i miei lettori, dará ad un medesimo tempo una giusta idea del carattere di un tal uomo. Come le passioni sue erano d’una tempra vivissima ed infiniti i suoi vizi, cosi per lo sfogo di quelle e di questi gli occorreva, come può credersi, molto danaro; e, quando questo occorrevagli, lutto divenia per lui lecito, onde ottenerlo. Essendo egli, dunque, ridotto una volta a poverissimo stato, ebbe casualmente la sorte d’esser presentato a una donna ricchissima, che, sebbene vicina a’ sessanta, amava follemente i begli uomini. Accorgendosi di ciò Casanova, cominciò a vagheggiarla con somma cura, e pretese d’essere eli lei innamoralo. E, perché la buona vecchietta, che pur vedea nel troppo sincero specchio le rughe della fronte e l’argento del crine, pareva credere poco alle sue amorose dichiarazioni, le disse un giorno secretamcnte e con gran mistero ch’egli era assai dotto nell’arte magica e ch ei non solo vedeva lei siccome stata era nell etá fresca, ma c’ne facilissima cosa gli era il far che tutti, anzi ch’ella medesima vedesse cogli occhi propri quel ch’era all’etá di sedici o diciotto anni. Convella ascoltava questa novella con maraviglioso diletto, cosi Casanova, senza perder un momento di tempo, propose di provarle col fatto le maraviglie di si bell’arte. Al che la credula femina consentendo, andò egli immediatamente per vaga cortigianella, la racconciò a modo suo, l’ammaestrò in tutto quel che far doveva, e le promise de’ ricchi doni, se la faccenda riusciva. Fatti allontanar dalle stanze tutti i domestici, si mise la vecchia in una camera secreta ad aspettare il suo giovine Atlante, che pochi momenti dopo arrivò colia finta vecchia, che parca, a ben guardarla, non aver niente meno di settanta anni. Trasse allor di saccoccia un’ampolletta, e, dopo aver mormorate certe parole, fattole bere il contenuto di quella, che altro non era che vino rosso, ma che, al dire di Casanova, era il liquore miracoloso di certa sua fontana, da cui dovea nascere il grande effetto, fece sdraiare la giovine sopra un sofá, la coperse d’un velo nero, e, dopo vari incantesimi da lui operati, ordinò alla finta vecchia di alzarsi; e quella, che sbarazzata giá s’era de’ cenci, de’ veli e delle tinte non sue, sbalzò con giovenil gagliardia nel mezzo della stanza, e appari, come appunto ella era. una fanciulla leggiadrissima di sedici a diciott’anni.
Lo stordimento, in cui rimase la vecchia, è piú facile a imaginarsi che a descriversi. Abbracciò, baciò, strinse al seno cento e cento volte la giovinetta, e dopo averle fatte varie questioni, a cui la sagace zitella con molta accortezza rispose, la congedò. Casanova finse d’accompagnarla ; ma, in poco tempo tornando, trovò la sua vecchia immersa in un entusiasmo di giubilo, di maraviglia e di pizzicore amoroso. Gli andò incontra in forma piuttosto di baccante che di donna, e, traendolo a un armadio vicino, l’aperse e gli mostrò una gran quantitá d’oro e di gemme preziosissime, giurandogli che tutte quelle dovizie e, unitamente a quelle, la sua mano e il suo core sarebbero suoi, se poteva operare in lei il bel prodigio di farla ringiovinire. Casanova, ch’avea giá disposte le cose aH’effetto sperato, s’offerse d’eseguire sul fatto la desiderata metamorfosi. Al che prestandosi con lieto animo la sciocca femina, dopo aver sorbita fin l’ultima goccia del liquore creduto miracoloso, si sdraiò sul medesimo sofá, dove s’era la giovinetta sdraiata, e il caro stregone cominciò il grande incantamento ; ma, come tutti i succhi e tutte le polveri mescolate in quel vino altro non erano che una buona dose di laudano, cosi in breve ora non mancò di fare il solito effetto. E, quando ei Ludi forte russare, andò al ricco armadio, ne fece un perfetto saccheggio, smorzò tutti i lumi e, carico d’oro e di gemme, parti. Alla porta di quella casa stava preparato Gioachino Costa a cavallo. Era costui un giovine che viveva da molti anni con lui in carattere di servo, di compagno, d’amico. Casanova, che in lui collocato aveva una confidenza che non meritava, gli diede questo tesoretto e gli commise di andarlo ad aspettare a certa osteria, distante dieci o dodici miglia di Parigi. Si dice ch’aneli’i ladri hanno certi articoli e certi momenti d’onore tra se stessi, a cui non ardiscon mancare. Questo uomo medesimo, che non aveva avuto scrupolo di rubare tutta questa ricchezza a una donna ingannata, non credette onesta cosa dover partire senza ricompensare la cortigiana che l’aiutò nell’inganno. Andò a portarle cinquanta luigi e a narrarle, tra i tripudi d’una gioia che fini presto in disperazione, il felice esito della burletta. Come questi cinquanta luigi erano tutto quello ch’avea tolto dal danaro involato, cosi rimase senza un quattrino, sicuro di dover raggiungere in breve Gioachino Costa, che l’aspettava all’albergo indicatogli. Ma, giunto all’albergo e non ritrovando né in quello né in molti Uri alberghi vicini alcuna traccia di lui, maladi la vecchia, la giovine, Gioachino e se stesso, che avea saputo con tanta astuzia ingannar altrui, e con tanta mentecattaggine poi s’era lasciato ingannare da un servitoraccio. E come si trovasse in quel caso, è cosa facilissima imaginarlo.
Fu allora che gli venne voglia di tornar a Venezia. Scrisse V Anli-Amelot, opera piena di spirito se non di giudizio, e dopo non molto tempo fu richiamato alla sua patria, ch’egli valentemente aveva difesa contra quell’atrabilarioscrittore. Fu nell’anno 1777 ch’ebbi occasione di conoscerlo e di conversare familiar niente con lui, in casa or del Zaguri or del Memmo, che amavano tutto quello ch’era di buono in lui e il cattivo gli perdonavano. M’insegnarono questi a far lo stesso; e, per esami latti, non potrei dir neminen ora da qual parte pendea la bilancia. Poco tempo prima ch’io partissi di Venezia, una controversia frivolissima di prosodia latina me l’inimicò. Quest’uomo "bizzarro non voleva mai aver torto. Partii da Venezia, e per piú di tre anni non udii nominarlo o parlare di lui. Dopo questo tempo, mi parve una notte, sognando, ch’io rincontrava nel Graben, in una cioè delle strade di Vienna dove io allora abitava. Mi parve che fissasse gli occhi in me attentamente e che mi corresse incontro lietissimo per abbracciarmi ; mi parve ancora che il mio amico Salieri fosse con me in quell’incontro. E la mattina, svegliandomi, narrai la bizzarria di tal sogno al fratello mio. Salieri, ch’era solito ogni mattina di venire da me, vi venne all’usata ora, ed io uscii con lui per andar in un pubblico giardino a passeggiare. Arrivato sul Graben, scorgo in qualche distanza un vecchio che mi guarda fiso e che mi par di conoscere. A un tratto vedo che spiccasi dal suo loco e che mi corre addosso con gran trasporto: — Da Ponte, Da Ponte caro — gridando, — con quanto piacere vi trovo! — E queste furono le precise parole, ch’egli, anche sognando, mi disse. Chi crede a’ sogni è matto; e chi non crede che cos’è? Rimase diversi anni a Vienna, dove né io né altri mai seppe quello che fece o come visse; ma io conversava assai spesso con lui. Egli trovò in ogni occasione aperta e la casa e la borsa mia; e, quantunque io non amassi né i suoi principi né la sua condotta, nulladimeno amava e stimava moltissimo i consigli e i precetti suoi, che, a dir il vero, eran aurei, e di cui ho profittato poco, ma avrei potuto veracemente profittare moltissimo.
Per tornar alla storia di Parigi e di Costa, passeggiando un di sul Graben con Casanova, lo vedo improvvisamente aggrottare le ciglia, squittire, incioccare i denti, contorcersi, divincolarsi, levar al cielo le mani e, staccandosi furiosamente da me, gittarsi addosso ad un uomo che mi pareva eli conoscere, gridando ad altissima voce: — Assassino, t’ho còlto ! — Come una quantitá di gente era corsa a quell’atto strano e a quel grido, cosi mi accostai a loro con qualche ribrezzo: pur finalmente, fatto coraggio, presi Casanova per mano e quasi a forza lo divisi da quella spezie di zuffa. Mi narrò allora con atti e gesti da disperato la storia della vecchia, e mi disse che quello era quel Gioachino Costa da cui era stato tradito. Questo Gioachino, che, sebben i vizi e le cattive pratiche avessero ridotto a servire e fosse in quel medesimo tempo cameriere d’un signore viennese, faceva anch’egli, o bene o male, il poeta. Era appunto uno di quelli che m’avevan onorato delle lor satire, quando Giuseppe mi scelse a poeta del suo teatro. Entrò costui allora in una bottega di caffè, e, mentre io seguitava a passeggiare con Casanova, scrisse, e gli mandò per un ragazzo i seguenti versi : Casanova, non far strepito: tu rubasti e anch’io rubai: tu maestro ed io discepolo, l’arte tua bene imparai : desti pan, ti do focaccia; sará meglio che tu taccia.
Questi versi produssero un buon effetto. Dopo un breve silenzio, Casanova rise, e poi mi disse pian piano all’orecchio : — Il birbante ha ragione. — Entrò nella bottega di caffè, fece cenno al Costa d’uscire: si misero a passeggiare insieme tranquillamente, come se nulla fosse accaduto, e si sepa.arono stringendosi piú volte la mano e in sembiante sereno e pacifico. Casanova tornò a me con un cammeo nel dito mignolo, che per bizzarra combinazione rappresentava Mercurio, dio protettore de’ ladri: questo era il suo principal valore, ed era tutto quello precisamente ch’era rimasto di quell’immenso bufino; ma quadrava perfettamente al carattere de’ due amici pacificati.
Avrò tra poco occasione di parlare novellamente di questo rarissimo misto di buono e di cattivo: torniamo adesso al viaggio. Arrivato a Dresda ebbi il dolce piacere di riabbracciare Mazzola e il padre Huber, ma nemmeno in quella cittá non udii novella della borsetta perduta sulla fatai montagnuoia. Mi vi fermai però dieci giorni, e questo diminuí per tal modo il mio piccolo erario, che mia intenzione era di rimandar a Trieste il mio giovine automedonte, che, avendo venduto calesse e cavallo, non piú occorrevamo Ma quel sempliciotto s’era talmente innamorato d’un paio di calzoni di pelle, ch’io avea promesso di dargli arrivando a Parigi e di cui allora serviami, che, per per ottenerli al dovuto tempo, s’ostinò, ad onta di tutte l’offerte fattegli, a voler seguitarmi. Presi dunque tre posti nella diligenza di Cassel invece di prenderne due, e anche questa spesa diede un colpo novello alla mia giá piú che dimezzata saccoccia. Giuseppe mi scelse a poeta del suo teatro. Entrò costui allora in una bottega di caffè, e, mentre io seguitava a passeggiare con Casanova, scrisse, e gli mandò per un ragazzo i seguenti versi : Casanova, non far strepito: tu rubasti e anch’io rubai: tu maestro ed io discepolo, l’arte tua bene imparai: desti pan, ti do focaccia; sará meglio che tu taccia.
Questi versi produssero un buon effetto. Dopo un breve silenzio, Casanova rise, e poi mi disse pian piano all’orecchio: — Il birbante ha ragione. — Entrò nella bottega di caffè, fece cenno al Costa d’uscire: si misero a passeggiare insieme tranquillamente, come se nulla fosse accaduto, e si sepa.arono stringendosi piú volte la mano e in sembiante sereno e pacifico. Casanova tornò a me con un cammeo nel dito mignolo, che per bizzarra combinazione rappresentava Mercurio, dio protettore de’ ladri: questo era il suo principal valore, ed era tutto quello precisamente ch’era rimasto di quell’immenso bufino; ma quadrava perfettamente al carattere de’ due amici pacificati.
Avrò tra poco occasione di parlare novellamente di questo rarissimo misto di buono e di cattivo: torniamo adesso al viaggio. Arrivato a Dresda ebbi il dolce piacere di riabbracciare Mazzola e il padre Huber, ma nemmeno in quella cittá non udii novella della borsetta perduta sulla fatai montagnuola. Mi vi fermai però dieci giorni, e questo diminuí per tal modo il mio piccolo erario, che mia intenzione era di rimandar a Trieste il mio giovine automedonte, che, avendo venduto calesse e cavallo, non piú occorrevami. Ma quel sempliciotto s’era talmente innamorato d’un paio di calzoni di pelle, ch’io avea promesso di dargli arrivando a Parigi e di cui allora serviami, che, per per ottenerli al dovuto tempo, s’ostinò, ad onta di tutte l’offeite fattegli, a voler seguitarmi. Presi dunque tre posti nella diligenza di Cassel invece di prenderne due, e anche questa spesa diede un colpo novello alla mia giá piú che dimezzata saccoccia. Venere la beltá, Mercurio l’arte, il senno Giove, e dièr ior grazie a lei Febo, Cintia, Giunon. Fallacie e Marte. Deh! perché Amor non fu tra gli altri dèi! Che s’ei nel gran lavoro avea sua parte, l’intero paradiso era in costei.
Gli lessi con enfasi il mio sonetto, ad ogni verso del quale parea rapito. Lo copiò vagamente, e dopo mille ringraziamenti mi pregò di non lasciarmi vedere dalla sua bella, perché non sospettasse che fosse lavoro mio. Mi regalò un bellissimo orologio con catena e sigilli d’oro, ch’io vendei a Rotterdam per duecento fiorini, che fur per me duecento angeli di paradiso, e mi promise di scrivermi l’effetto a Brussdles, per dove io credeva dover passare nel mio viaggio a Parigi 1 >.
Non fui però che poche miglia lontano da Spira, quando, fermatomi, ad un’osteria per dar riposo a’ cavalli, udii l’infelice novella dell’incarceramento della regina di Francia e dell’arrivo deH’armate francesi a Magonza Dopo brevi riflessi, risovvenendomi del consiglio di Casanova e accordandosi questo col desiderio della mia sposa, presi sul fatto la risoluzione d’andar a Londra invece d’andare a Parigi, e pigliai la strada d’Olanda. Da Spira a Londra nulla m’occorse d importante nel mio viaggio, se si eccettui il rischio eminente, in cui mi trovai, di vedermi rapir la mia donna. Arrivati a certa osteria (non mi ricordo bene quanto distante da Spira) poche ore prima di sera, ci fermammo alcuni minuti per dar la biada a’ cavalli. Nella stanza, dov’eravamo seduti, stavano a un tavolino due omacci di brutto cello, tracannando a iosa de’ gran bicchieri di vino. Ci gettarono questi gli sguardi addosso, e, credendo forse che nessuno di noi intendesse il tedesco, parlavano in questo linguaggio tra essi; e, sebbene tutto non capissi quel che dicevano, tra me e la mia compagna comprendemmo abbastanza per capire che (1) Mi scrissero entrambi e seppi ch’eran felici. lor disegno era di seguitarmi a cavallo e di togliermi la mia creduta figlia, ché tale la differenza d’etá la facea parere. Cominciai allora a parlar tedesco con essa, e diedi ad intendere ch’io era marito Domandai inoltre qualche palla di pistola al locandiere, e, come pareva essere ed era infatti uomo dabbene, gli narrai quel ch’aveva udito, ed egli francamente loro disse che guardasser bene quel che dicevano, perch’egli avrebbe i mezzi assai pronti da castigarli. — Signore — soggiunse allora, — io sono il giudice di questa borgata. Andate pure tranquillamente pel vostro viaggio, e sará cura mia che questi galantuomini rimangano questa sera a cenare meco. — Con questa sicurezza, partii tranquillo, e non so poi quello che ne adivenisse de’ due furfanti.
Arrivai dunque a Londra felicemente; ma tutto quello, ch’io possedeva a quel tempo, consisteva in sei luigi, un orologio con una catenella d’oro e un anelletto, che ho poi venduto per sei ghinee. Una sorella della mia sposa abitava a Londra con suo marito, ma non erano questi né ricchi né generosi. Alloggiammo con essi per pochi giorni, dopo i quali prendemmo una cameretta, dove in pochissimo tempo veduto ho il fondo della mia borsa.
Era a quell’epoca poeta del teatro italiano di Londra un certo Badini, e motore delle volontá di Guglielmo Taylor, proprietario di quello, Vincenzo Federici. Il primo di questi, che tra l’altre sue nobili qualitá possedeva quella di superar l’Aretino in satira e maldicenza, teneva Taylor pel collo col laccio della penna, come quello che, avendo imparata la lingua inglese, era impiegato a scriver pe’ gazzettieri, le cui opinioni si ricevono per buone in Londra assai piú forse che in alcun altro paese, e la riuscita dell’opere, de’ cantanti, de’ ballerini, de’ compositori dipendeva in gran parte da’suoi paragrafi. L’altro eia un vero emporio d’iniquitá, e bastava aver qualche merito o sol la fama d’averne, per esser odiato e perseguitato da lui; e, sebben Taylor lo conoscesse, pure era sforzato a servirsene, perché aveva trovati diversi modi e diverse strade da procurargli danaro, e perché non aveva scrupolo di fargli da Mercurio cogli anfitrioni teatrali. Parlerò piú diffusamente di questo in altro loco. Con questi due scellerati alla testa di quello stabilimento, io non aveva dunque nemmeno una lieve speranza di dover mai ottenere quell’impiego. Ridotto al verde siccome io era, non trovai segni di umanitá e d’amicizia che nel signor Pozzi, compositore di musica assai gentile e d’animo cortese, generoso e benefico, quantunque non ricco. Egli m’offri in varie occasioni la borsa, mi fece conoscere i suoi amici e, tra gli altri, la celeberrima Mara, che mi pregò di comporre un dramma per lei e mi regalò trenta ghinee, quando gliel portai, con mille ringraziamenti ed espressioni di cortesia, che per un animo non ignobile valevano assai piú che il danaro. Vedendomi in possesso di questa somma, che in grazia delle circostanze era considerabilissima, e vedendo che non spirava vento favorevole per me sulle rive del Tamigi, lasciai una parte di quel danaro alla mia consorte, e col rimanente pigliai la risoluzione di andare in Olanda, dove aveva udito dire che il teatro francese era chiuso. Pensai dunque che sarebbe stato possibile di stabilirne uno italiano, e non m’ingannai.
Non rimasi due settimane in Olanda, ch’ebbi le piú belle apparenze d’una felice riuscita. Trovai due zelanti fautori nel banchiere Hope, signore potentissimo di quelle province, e nel generale Butzeler, ch’oltre all’avere due figlie amantissime della musica, aveva una stima particolare della mia Nanci, ch’era stata per molti mesi colla sua famiglia in Olanda e di cui per mero accidente io gli avea narrata la storia. Con questi due protettori al fianco, offersi il mio piano. Piacque moltissimo; ed io allora domandai che mi fossero assicurati dugentomila fiorini da’ due teatri di Amsterdam e dell’Aia; e lo statolder fu il primo a sottoscriverne quarantamila per l’Aia sola, dove proposi di dare due recite per settimana. Questo buon principio incoraggi tutti gli altri, ed io stava sul punto d’avere un numero maggiore di sottoscriventi di quello che veramente occorrevami. Scrissi allora alla sposa mia di venire ad unirsi con me ; ma ella mi rispose che non aveva piú un soldo del danaro lasciatole. Anche le venti ghinee, ch’io aveva portate meco, erano vicinissime al fine; ed io non so veramente quel che addivenuto sarebbe di lei e di me senza un tratto visibile della provvidenza. (Jn giorno, mentre io stava narrando la storia mia ad un onesto italiano, che avrebbe ben voluto aiutarmi, ma che non aveva i modi da farlo, il servo della casa dov’io abitava mi presenta una lettera. Riconosco il carattere della mia sposa, l’apro coll’ansietá che ognuno può imaginare, e con sorpresa uguale a una gioia indicibile leggo queste parole:
Caro Lorenzo, ti mando ottanta fiorini, e venti ne tengo per venir a raggiungerti. Questa somma 1 ’ ho ricevuta ieri dal tuo amico di Praga, che l’ebbe dal buon abate della badia di Sant’ Edmondo. Un certo contadino, per nome Chersenboum trovò la borsetta sulla montagna di Lichtmessberg un giorno dopo la nostra partenza; portolla fedelmente a quel buon religioso, che gli regalò due zecchini, e che, non avendo ricevute molte delle tue lettere, non seppe che ultimamente che, invece d’andar a Parigi, eravamo andati a Londra. Vedi che non bisogna mai disperare degli aiuti della provvidenza. Prima che passino otto giorni sarò con te e ti dirò il resto. La tua Nanci.
Di fatti vi capitò, ma le nostre allegrezze durarono poco. Io aveva giá preparate diverse lettere per gli migliori cantanti e compositori d’Italia, e tutto era vicino ad essere concluso, con giubilo universale di tutti gli amatori di musica e di teatro, quando improvvisamente arrivò la novella terribile della disfatta totale degli inglesi sotto Dunkirk, e i pensieri di divertimenti e di feste diedero loco alla desolazione, ai pianti ed alle orazioni. Mi trovai dunque tra non molti giorni in uno stato il piú deplorabile della terra. Non amici, non roba d’alcun valore, non ripieghi Gli ottanta fiorini non durarono molto nelle mani d’un uomo che non ha mai imparata l’economia; e, per colmo della disgrazia, era difficilissimo ricevere lettere d’alcuno, pel freddo eccessivo che tenea impedita la navigazione di Londra, di dove io potea ancora sperar di ricevere qualche soccorso. In tale emergenza risolsi di scriver a Casanova, e, per meglio toccarlo, gli scrissi in verso, e gli feci una patetica pittura dello stato mio, chiedendogli qualche danaro. Ma egli non si curò di me, mi rispose bizzarramente, in ottima prosa, e cominciò la sua lettera cosi: «Quando Cicerone scriveva agli amici, non parlava mai d’alcun affare!». Cominciai allora a dar il sacco al bauletto di vestiti e di biancheria; ma anche quello fu presto vuoto. Aveva preso una cameretta nella casa d’un buon tedesco, dove con parsimonia sforzata vivemmo piú d’una settimana ed ella ed io: la nostra colazione era pane, pane il nostro pranzo, e qualche volta nemmeno pane, ma lagrime la nostra cena.
Non era però la mia compagna che spargea queste lagrime! Ella soffriva tutto con una pazienza angelica; procurava di ridere e di scherzare; mi obbligava a giocar agli scacchi con lei, volea giocare di grosse somme, e quei, che perdeva, dovea pagare con carezze e con baci il suo vincitore. Questi artefizi della sua tenerezza, ch’avrebbero in altri tempi formata la felicitá della vita mia, non facevan che accrescere il mio cordoglio e la mia disperazione.
Una sera, dopo aver fatta la solita cena di scacchi, di baci e di lagrime, il tedesco, che m’affittava la camera, entrò quasi lagrimando e mi disse queste parole: — Caro signor Da Ponte, capisco che non avete colpa nelle vostre presenti disgrazie e vi credo un uomo da bene; ma questo non basta a dar la mangiare a’ miei figli. Voi non avete potuto pagarmi la pigione della prima settimana e molto meno potrete pagarmi quella della seconda, che cominciò oggi. Ci vorrá pazienza pel passato; ma per l’avvenire la mia povertá non mi permetterebbe d’averne.
Vi piaccia dunque trovarvi un altro alloggio, e che Dio benedica ed assista e voi e me. — Parti cosi dicendo, e nel medesimo momento entrò un certo Cera, ch’era stato per molti giorni il nostro amico consolatore, ma che, poverissimo essendo, in altro modo non potea farlo che con parole. Mi domandò come andavan le cose, ed io gli narrai la storia di quel momento. — Fate coraggio — soggiunse egli con gran trasporto: — io ho fatto un bel sogno, e spero bene. — Ricordandomi del sogno da me fatto con Casanova, lo pregai di narrarmi che cosa sognasse; ed ecco quel ch’ei mi disse.
— Mi pareva di vedere voi e questa amabile donna in una oscurissima selva; mi parea che una brutta bestia andasse girando intorno di voi e di lei, mostrandovi tanto di zanne e del- ’unghie che parean fatte per far paura. Voi cercavate di schermirvi da lei quanto potevate, ma la bestia sempre piú vi si faceva vicino, ed era lá lá per ghermirvi: ma quasi improvvisamente quella oscura selva s’empieva di luce, e da una montagna altissima e assai distante si scagliava uno strale di foco, che colpia la bestia nel fianco, che vi cadea morta a’ piedi ed era un istante dopo dalla terra inghiottita. — Il sogno — replicai io — non può esser piú bello, e voglia il cielo che sia piuttosto una visione che un sogno! Ma questa poverina frattanto, nello stato in cui trovasi — ella era vicinissima ad esser madre, — non prese altro cibo che pane oggi, e questa sera nemmeno... — Non mi lasciò terminare, ma, uscendo prestamente di camera, altro non disse che: — Vado e torno,— e parti.
Rimase tanto tempo fuori di casa, ch’io non credea piú ch’ei tornasse: quando improvvisamente odo spalancare la porta della stanza, e veggo entrar il buon Cera con un fazzoletto in mano, cui deponendo gioiosamente sul tavolino: — Ecco — dice — un principio buono. — Cavò quindi da quello del pane, del burro, delle ova, del cacio e delle aringhe fumate, e, senza perdere un sol momento, corse in cucina, si fece dare un tegame ed una graticola, e, tornando con piedi di cervo nella nostra camera, si mise ei medesimo, fischiando e cantando, a fare da cuoco. Ci narrò poi, cucinando quelle vivande, che, ricordandosi d’aver prestato alcun tempo prima una piccola somma di danaro a un amico, andò da lui, lo trovò, fu pagato, e con quel danaro lece la spesa che vedevamo e che certo per quella sera credea che fosse bastante. Quando tutto fu cotto, stese, in mancanza di tovaglia, sopra un tavolino la carta in cui il burro, il cacio, lo zucchero, l’aringhe erano involte, trasse di tasca una bottiglietta di spirito di ginepro, mise tre sedie a’ propri lochi, ci fece sedere e sedette egli stesso. La giovialitá ed il diletto, che gli brillava nel volto, non potè far meno che destare nel nostro animo de’ simili sentimenti. Mangiammo allegramente, trovammo tutto squisito, e per lo tempo che spendemmo in quella cena parea che avessimo dimenticate del tutto le nostre orribili circostanze. Finita la cena, mescolò dello spirito con acqua e zucchero, me ne fece bever un bicchierino, e, bevendone un altro egli stesso: — Possa — esclamo vivamente, — possa avverarsi il mio sogno! — Parti poco tempo dopo, e si andò a dormire. Non si parlò piú di disgrazie per quella sera; ci addormentammo assai presto, e dormimmo placidamente. All’alba del giorno mi risvegliai:
10 mi sentiva nell’anima una certa tranquillitá, una certa gioia, che, per quanto studiassi, non potea intendere da che derivasse. Mi risovvenni nulladimeno clic quel giorno dovea partire di quella casa, e la mia tranquillitá cominciava a diminuirsi, quando, dopo aver picchiato blandamente la porta, vedo entrar 11 padron di casa, e, senza parlare, presentarmi una carta.
Credendo che fosse il suo conto e che con quella mattutina presentazione volesse intimarmi la subita partenza, stesi tristamente la mano per prenderla; ma egli allor, ritirando la sua:
— Ecco una lettera — disse; — ma non posso darvela, signore, se non mi date uno scellino. Il postiere è alla porla, e bisogna pagarlo. — Trassi di tasca il fazzoletto, che solo ancora mi rimaneva, e lo pregai di prenderlo e di pagare quello scellino per me. Parve impietosirsi quel vecchierello, e, rifiutando l’offerta fattagli del fazzoletto, mi diede la lettera e se n’andò. Guardai subito la soprascritta e m’accorsi che presso al mio nome v’erano tre parole, che dicevano: «Con venti ghinee».
Non può imaginare gli affetti che sorsero in un istante nell’animo mio, quando lessi queste parole, chi non si è mai trovato in circostanze simili a quelle in cui era io. Mostrai quella soprascritta alla mia Nanci, ed ella gridò, esultante a tal vista: — È mia sorella che scrive! — Tacque, ciò detto, per piú di cinque minuti, oppressa anch’ella e soprafatta al pari di me da quel nuovo e improvviso tratto della provvidenza.
Apersi alfine quel foglio, ed eccone il contenuto: Caro Da Ponte, le iniquitá di Badini obbligarono 1 ’impresario dell’opera di cacciarlo dal suo teatro. Occorrendogli un poeta, e udito avendo parlare di voi, mandò per me e mi commise scrivervi ed offerirvi il suo posto. Come il Badini gli ha scroccate sessanta ghinee a conto del suo salario, cosi vorrebbe che voi vi contentaste di pagargliele, scontandole dalle dugento ch’egli offre a voi. Io credo che lo farete, perché non è il danaro che deve muovervi, ma la buona occasione di farvi conoscere in Londra.
Con tale principio, osai assicurarlo che verrete. Mi diede per ciò venti ghinee per le spese del vostro viaggio. Venite: late presto: i vostri amici, tra gli altri Ferrari, Rovedmo, Kelly e la Storace vi aspettano ansiosamente; ed io muoio di voglia di riabbracciar la mia Nanci.
Alla lettura di questo foglio non potei trattenere le lagrime, che compensarono ben a gran doppi quelle che sparsi tanti di e tante notti, dopo la battaglia di Dunkirk, in Olanda.
Sbalzai allora dal letto, m’inginocchiai alla sponda di quello, e, alzando al cielo le mani e gli occhi, ripetei con perfetto sentimento di religiosa gratitudine i quattro versi di Atar nel mio Assur:
Dio protettor de’ miseri, tu non defraudi mai quelli che in te confidano, che speran solo in te.
Non passò un’ora, e Cera venne da noi. Io non sapeva da qual parte cominciare a dargli la lieta novella. Pensai alfine ch’era meglio di tutto dargli da leggere quella lettera, e feci cosi. La sola soprascritta, dov’era quel fortunatissimo «con» bastò a fargli mettere un lunghissimo grido di allegrezza, che s’udí, credo, da un polo all’altro. Ma, quando poi lesse quel che conteneva quel foglio, il suo gaudio, il suo tripudio di gioia fu tanto eccessivo, che ne fui in veritá spaventato. Cantava, ballava, saltava, abbracciava ora me, ora la mia consorte, e, dopo tutti questi atti di festivitá e di contento, si mise a piangere come un bambino. Restituendomi aifin quella lettera:
— Ecco — diss’egli, — o miei cari amici, verificato il mio sogno. L’Olanda è la selva oscura, il teatro di Londra è la montagna alta e distante, F impresario di quella è il sagittario che scoccò lo strale, la povertá è la brutta bestia che vi minacciava, e la provvidenza di Dio è la luce che venne al soccorso vostro. — Perché non vi son molti di tali amici nel mondo!
Non avendo a fare alcuna cosa in Olanda, due o tre giorni dopo l’arrivo di quella lettera partii per Londra. Non mancai appena giunto, di fare una visita all’impresario; ma, dall’accoglienza che fecemi, m’accorsi ch’ei non aveva grande amistá per le muse. Stava egli scrivendo ad un tavolino, quando il suo amico Federici in’introdusse nella sua camera. Aveva la schiena vòlta alla porta e la faccia alia finestra. — Ecco il signor Da Ponte — disse Federici. Il signor impresario seguitò a scrivere senza muoversi. — Signor Taylor, ecco il poeta — replicò allora in un semituono piú forte. Il signor impresario si volse, chinò un pocolino la testa e tornò a scrivere. Rimasi nella camera cinque minuti, e il signor Federici, passando il dito su dal mento al naso, mi fece, in atto di rispettoso silenzio, cenno di andarmene. Questo non era, a dir vero, un cominciamento di buon augurio, per uno che stato era dieci anni poeta di Giuseppe secondo, d’un principe ch’era il vero modello della affabilitá, della bontá, della cortesia. Mi ritenni nulladimeno dal formare alcun giudizio, avanti di fargli una seconda visita; il che giudicai che dovesse nascere ben presto. Per piú di tre mesi però né io vidi lui, né egli me. Fu alla rappresentazione del Don Giovanni di Gazzaniga, opera proposta dal Federici e data al pubblico per suo consiglio, a preferenza bestiale del Don Giovanni del Mozzart, portata a Londra e proposta da me, che Taylor, il quale si vide in rischio di vedere smantellato il suo teatro e sé rovinato per sempre:
fu allora solo che si compiacque di farmi chiamare, di chiedermi opinione su vari punti concernenti il teatro e di darmi ordine assoluto di chiamar a Londra il Martini, ch’impegnato era allora al teatro di Pietroburgo. Mancò poco però che la venuta di quel bravo compositore non mi costasse la perdita di quell’impiego. Era di giá passata la metá della teatrale stagione, quando capitaron a Londra due famose rivali, la Banti, ch’era a quell’epoca una delle piú celebri cantanti d’Europa nel serio, e la Morichelli, ugualmente celebrata nel buffo. Non erano queste piú giovani, e non erano mai state nel numero delle grandi bellezze: l’una però era ricercata e pagata esorbitantemente pel pregio d’una voce maravigliosa, ch’era il solo dono che avea ricevuto dalla natura; l’altra per quello d’un’azione vera, nobile, ragionata e piena d’espressione e.di grazia. Quindi s’erano rese ambedue gl’idoli de’teatri, ma il terrore insieme de’ compositori di musica, de’ poeti, de’ cantanti e degli impresari. Una sola di queste bastava a far tremare del nome il teatro dov’era impegnata. S’imagini il mio buon lettore qual doveva esser lo stato del teatro italiano di Londra al tempo in cui ambedue queste eroine della scena impegnate trovavansi. Qual d’esse fosse la piú pericolosa e la piú da temersi, non è cosa facile da decidersi. Pari ne’ vizi, pari nelle passioni, pari nelle iniquitá e nella cattiveria del core, essendo di un carattere tutto diverso, anzi pur opposto, andavano per istrade tutte diverse al conseguimento de’ lor disegni. La Morichelli, ch’avea molto ingegno e molta cultura di spirito, era una volpe vecchia, che copria tutti i suoi disegni col velo del mistero e della piú fina furberia. Prendea sempre da lontano le sue misure, non si fidava d’alcuno, non andava in collera mai, e, benché amasse gagliardamente i voluttuosi piaceri, sapeva nulladimeno far la modesta e la riserbata quanto una verginella di quindici anni, e quanto piú amaro era il fele che chiudeva nell’anima, tanto piú soave o melato le brillava il sorriso sul volto. Di qual tempera fossero le sue passioni non è necessario dirlo. Era donna di teatro, dunque le sue principali divinitá erano quelle di tutte le sue simili, ma in grado eccessivo: Orgoglio, Invidia, Interesse. La Banti, al contrario, era una femminaccia ignorante, sciocca e insolente, che, avvezza nella sua prima giovinezza a cantar pei caffè e per le strade, portò sul teatro, dove la sola voce la condusse, tutte le abitudini, le maniere e i costumi d’una sfacciata Corisca. Libera nel parlare, piú libera nelle azioni, dedita alla crapola, alle dissolutezze ed alla bottiglia, appariva sempre quello che era in faccia di tutti, non conosceva misure, non aveva ritegni ; e, quando alcuna delle sue passioni era stuzzicata dalle difficoltá o dalle opposizioni, diventava un’aspide, una furia, un demone dell’inferno, che avrebbe bastato a sconvolgere tutto un impero, nonché un teatro. Appena arrivate a Londra, andaron a gara ambedue d’impossessarsi del core dell’impresario. Di lui non credo che sia possibile a persona del mondo di dar una giusta e precisa idea, ma molto meno che a tutti gli altri è possibile a me. Tirato ca sualmenteda lui dal pericolosissimo passo in cui io mi trovava in Olanda, io ho avuti e conservati sempre per esso tutti i senti menti che la gratitudine, la pietá e l’amicizia sogliono inspirare nell’anime gentili e bennate. Vedrassi tra poro a qual segno portai questi sentimenti e come distrussi finalmente me e la famiglia mia, per assistere o salvar lui, che alfin, come tutti gli altri, pagommi d’ingratitudine. Questi medesimi sentimenti furono cagione ch’io non volessi mai esaminare troppo severamente e vedere troppo da presso i suoi difetti e le sue debolezze, cui cercai di difendere o di scusare, come un padre suol fare di quelle d’un figlio ; e, quando ferirono me, o tacqui o non feci altra vendetta che di lamenti. Senza pretender perciò di fare un’esatta pittura di lui, dirò quel che credo sapere o quel che mi sembra d’aver io stesso veduto di quest’uomo.
Guglielmo Taylor era o capitò a Londra assai povero, nel tempo in cui il teatro dell’opera italiana fu consumato dal foco. Invogliatosi di diventar proprietario d’un nuovo teatro, fece il suo piano, presentono a’ primi signori di quella metropoli, a cui vendendo un certo numero di logge per un certo numero d’anni, si trovò in grado di far fabbricare un teatro col prodotto di quelle; e pochi anni dopo, pagando una somma dovuta al suo predecessore, colla vendita d’altre logge e di cento biglietti serali ò) per vari anni o per una sola stagione, divenne padrone assoluto di quel dovizioso edifizio, e, per quel che si diceva, senza debiti e senza pesi. Come e per cagione di chi ( 1 ) In inglese «silver tickets». Guglielmo Taylor andò a terminare i suoi vecchi giorni in una prigione, lo vedremo nel corso della mia storia in Londra.
Questo uomo singolare era un misto perfetto di due contrarie nature. Lasciato a se stesso, era umano, nobile, generoso; condotto dagli altri prendea interamente le forme di chi conducevalo, e particolarmente della donna che amava e de’ di lei favoriti, che sul fatto diventavano i suoi. Giudichi il mio leggitore qual divenne un tal uomo, caduto in potere d una Banti! Non passarono molti giorni, e Federici, ch’aveva molto •ontribuito co’ buoni uffizi e co’ servigi di vario genere alla vittoria di quella femmina, mi diede ordine in nome dell’impresario di scriver due drammi, uno buffo da porsi in musica «lai Martini, chiamato a Londra da me, e l’altro serio per Francesco Bianchi, condotto seco dalla donna seria. Vedendo il cimento pericoloso in cui io mi trovava, studiai tutti i mezzi da tenermele amiche ambedue; ma come sperare di riuscirvi?
— Guai a te — mi disse un giorno la Banti — se la Morichelli piace piú di me nell’opera di Martini. — La Morichelli non diceva nulla. Ma i suoi sogghigni, le sue frasi tronche, qualche punto d’ammirazione ed un’accorta maniera di parlarmi spessissimo di due opere mie da lei con mirabil successo rappresentate a Vienna, mi facean capire abbastanza quel che le bolliva nel seno. Mi posi alfine tutto tremante al doppio lavoro. Scelsi i soggetti, scrissi i miei piani e li presentai ai due maestri.
Approvarono entrambi la scelta mia, e ciò confortommi alcun poco. In meno di tre settimane diedi La capricciosa corretti al Martini, che, abitando con me, non solo m’inspirava l’estro rii scrivere, col volto ognor gaio e colla rimembranza piacevole delle cose passate, ma, di mano in mano ch’io scrivea le parole, egli ne faceva la musica; e diedi al Bianchi tutto il primo atto della Merope , ch’egli lodò ed approvò senza alcuna riserva. Tutti credeano che l’opera buffa dovesse esser la prima a rappresentarsi ; ma, udendosi dalla Banti le lodi che prodigavansi tanto alla musica del Martini che alle parole mie. fece il diavolo a quattro con Taylor, e questi fece il diavolo a quaranta con me. M’ordinò di finir l’opera seria pel di seguente, minacciò «impokerarmi» 1 perchè sorrisi a tal ordine, ini disse che non mi pagava il suo danaro perché mi grattassi la testa; e, se il servidore non portava a tempo una bottiglia di vin d’Oporto, che gli fece dimenticare la zuffa, non so in veritá come finita sarebbe quella faccenda. Si mise a bere, la Banti segui l’esempio, ed io, mentre andavano borbottando in inglese delle cose ch’io allora poco capiva, andai alla porta, v’uscii frettolosamente, corsi a casa, mi chiusi nella mia camera e in ventiquattro ore terminai il second’atto e lo mandai al signor Bianchi. Anche questo secondo atto gli piacque, ma non ne compose che gran tempo dopo la musica. Propose alla Banti un’altr opera da lui fatta in Italia, e questa ebbe la sfacciataggine di dire all’impresario ch’era tutta nuova e di pretender che lo dicessero e lo credessero quelli ancora che l’avean veduta a Venezia molt’anni prima; e tutto improvvisamente s’annunziò con gran pompa su tutte le carte pubbliche che «madama Banti farebbe la seconda prova de’ suoi rari talenti r\z\Y Aci e Galatea , opera scritta per lei a Londra dal celebre Francesco Bianchi». Ma io aveva, sfortunatamente per me, il libretto d ’Aci e Gala/ea, stampato a Venezia, ed ebbi l’imprudenza di dirlo a Federici. Costui lo ridisse alla cantatrice, essa al compositore, il compositore all’ impresario, a cui si volle far credere che fosse un’impostura mia; e questi venne da me col viso p.ú rosso della cresta d’un gallo e mi domandò di vedere il libretto. Ma, come non tenea in mano il poker infocato, lo pregai di sedere, gli presentai la bottiglia invece del libretto richiestomi; e, quando mi parve un poco calmato, pigliai in mano quel dramma, lo consegnai alle fiamme e gli promisi non solo di tacere, ma di riparare subitamente al mai fatto. Taylor, che non sempre era cieco, ville, come si vede un raggio di luce tra le tenebre, che tanto la Banti che Federici l’aveano ingannato, e piú mesi dopo lo disse a Bianchi in presenza mia. Ma, quando volle parlarne alla Banti, gli mise la mano sulla bocca ed obbligollo a inghiottir in silenzio la pillola. ( 1 ) Da «poker». Io frattanto, che dovea stampare il libretto, annunziai l’opera come nuova e mandai allo stampatore il paragrafo stesso che pubblicato aveano ne’ fogli pubblici. Ma tutte queste precauzioni valsero poco. Si fece la prova dell’opera: i partigiani e gli adulatori gridavano: — Oh bello! oh sublime! oh divino! — ma, quando andò in scena, benché la sala fosse ripiena di mani pagate per battere, benché la Banti avesse mangiate prima della recita cento castagne arrostite e vuotata una intera bottiglia, nulladimeno non vi fu un pezzo solo di musica che piacesse, e, con tutti gli sforzi che si fecero, non si rappresentò poscia piú di due volte. Si corse subito dal Martini per l’opera buffa, e, ad onta di tutti i partigiani, ad onta di dugento e piu persone mandate al teatro a fischiare, adonta infine d’una satira che si fece scrivere e pubblicare (da chi? da Badini che, a quello che mi narrò poscia egli stesso, fu dall’impresario pagato per farla!), l’opera piacque e trionfò solennemente, a dispetto loro, Martini, il Da Ponte e, quello che piú importava, la Morichelli! Dopo il buon successo di questa prima opera, si diede tutta la fretta al Martini ed a me di scriverne una seconda; e fu questa L’isola del piacere , il cui primo atto riuscí maravigliosamente, tanto al compositor della musica che a me; ma non fu cosi del secondo.
Martini, che non era diffícilissimo in materia d’amore, s’incapricciò d’una servetta giovine, ma non bella né gentile, nel medesimo tempo in cui corteggiava e facea credersi innamorato della prima donna buffa, che poteva in veritá esser sua madre e quasi sua nonna. Scopertosi da questa Lalage attempatetta gli intrighi molto avanzati e ogni di crescenti con la non crudele servetta, ne fece dell’amare doglianze con lui; e il mio buono spagnoletto, non avendo via di scusarsi, disse all’orecchio alla sua matrona ch’era per coprir certo mio erroruccio ch’egli s’era dichiarato l’amante di quella ragazza. La matrona non tenne il secreto, in poco tempo si sparse per varie bocche, e alfin giunse a me. Ne volli parlar a Martini ; ma, appena apersi la bocca, capi da un — Come, signor Martini? — quel ch’io intendeva di dire, girò la faccenda in gioco e mandò venticinque ghinee alla servetta, il fulgor delle quali stuzzicò talmente l’appetito d’un vecchierello, che la sposò. Martini nulladimeno lasciò la mia casa, andò a star colla Morichelli.
e la nostra lunga, dolce ed invidiata amicizia si raffreddò. Il secondo atto dunque fe\Y Isola del piacere fu fatto interamente nell’isola del ghiaccio; e mi parea, nel comporlo, scrivere per Righini, non per Martini, o pel compositor della Cosa rara. Accrebbe di molto la mia freddezza certa pretesa insensata della prima donna, che, avendo rappresentato con grande effetto a Parigi Mina pazza per amore, volle a forza, nel secondo atto di quest’opera, una scena da pazza, che c entrava appunto com< Pilato nel Credo. Cadde perciò tutto lo spettacolo, e non bastarono a salvarlo alcuni bei duetti ed alcune belle arie, che assai piacevano e per la musica e per le parole. Credo eh una di queste meriti d’esser letta: ardisco perciò inserirla nelle mie Memorie.
Gira, gira intorno il guardo; mira il ciel. la terra, il mare: armonia tutto ti pare ciò erre in terra, in cielo, in mar.
Quelle stelle tanto belle stanno in dolce amico accordo ; quegli augei, se non sei sordo, non fann’altro che cantar. Il variar delle stagioni son concerti belli e buoni : canzonette son que’ fiori, minuetti que’ colori, queU’aurette, quelle fronde, e quegli árbori e quell’onde son rondò della natura, e il sol batte la misura coll’eterno suo rotar. E noi tutti che mai siamo? Piffaretti, clarinetti, tamburini, violini, e fagotti e chitarrini, che, concordi negli accordi delle parti componenti, vivi e armonici strumenti tra i gran timpani del mondo non facciamo che suonar.
A queste parole il mellifluo Martini fece una musica trivialissima, e non molto piú nobile a molt’altre parti del dramma! Ne’ due primi anni, dunque, del mio poetato in Londra ho composte tre opere, due buffe e una seria, che fu, come dissi, la Merope , e che non piacque guari piú che V Isola del piacere dello spagnuolo. Partito esso, partita la Morichelli, venne una donna in suo loco, che non bastava a dar gelosia alla «imperatrice di molte favelle» (I > e che faceva sperare una tregua tra esse e la tranquillitá nel teatro.
Ma per disgrazia non fu cosi. Viveva a Londra in quel tempo un certo Le Texier, uomo di un certo credito nelle faccende teatrali; credito acquistatosi per una singolare abilitá di recitar ei solo delle intere commedie francesi in una specie di teatrino eretto da lui: il che faceva egli con molta grazia ed effetto, cangiando la voce, i tuoni, l’enfasi e qualche volta il vestito. Non si sa se Taylor andò da lui per ottenere qualche danaro, o se Le Texier sia venuto ad offrirglielo sub conditione : il fatto fu che udissi dire improvvisamente: — Le Texier sará il direttore dell’opera. — Taylor allora ebbe due comandanti nella sua armata, che ambivano e pretendevano entrambi di comandar anche a lui. Per qualche tempo si facean guerra secretamente, ma non osavano farsela in palese: l’una sapeva che il suo rivale aveva per protettore Mercurio, dio dell’oro: e l’altro che la sua nemica avea la bella Ciprigna per protettrice. Nel tempo di questa tregua apparente Le Texier imaginú di far un gran colpo tanto nell’animo del pubblico che in quel dell’impresario e de’cantanti; e, come bisognava interessarvi (i) Recitò la Banti, alla sua prima comparsa al teatro di Londra, la Setmramtds di Bianchi con gran successo: indi fu detta «Semiramide». la sua rivale, andò un giorno da lei e, con una prosopopea degna di un Tullio: — Voglio farvi conoscere, signora Banti — diss’egli, — chi è Le Texier. — Cavò, dicendo questo, di sotto il mantello lo spartito di Sentirci e Azar con musica di Grétry, ammirabile pei tempi in cui fu scritta e piú che ammirabile per un timpano nato in sulla Senna; ed: — È questa 1 opera
— esclamò quindi — ove la Banti sará conosciuta. Altro che Semiramidi, altro che (ialatee , altro che Meropi ! Questa sará il tuo trionfo per tutti i secoli; per questa il nome di Brigida Banti vivrá nel mondo filarmonico finché vivrá quel di Grétrx e della Francia! — Le ne disse tante e poi tante, che colei, che non era mai stata l’inventrice della polvere, vi cadde alla rete e cominciò a gridare ad alia voce: — Semita, Sentirá.
Semira ! — Ma l’opera era in francese. Come tradurla, o chi deve tradurla? Lo scaltro Federici, ch’era presente e che fin da quel momento avea gettato l’invido sguardo sul profitto procedente dalla vendita de’ libretti, chiamò da parte madonna Brigida, le disse poche cose all’orecchio, ed essa tutta contenta strappò 10 spartito dalle mani di Le Texier, ed: — lo, io — disse ridendo — penserò a far tradurre queste parole. — Partito Le Texier. accontossi con Taylor e con Federici, e si deputò Giovanni Gallerini, iniquo degnissimo del suo nome, messaggero di Taylor a’ due famosi poeti Bonaiuti e Baldinotti (parlerò di costoro a’ dovuti tempi), per offrir loro venti ghinee per la traduzione di Semira e Alar, con patto che cedessero il diritto di copia a madama Brigida e a’ suoi favoriti. A capo di quindici giorni la musica era copiata, le decorazioni erano abbozzate, gli abiti preparati; ma i signori poeti non avevano portata nemmeno la prima scena. Va da lor Gallerini, vi va 11 Federici, la Banti li fa chiamare, Mr. Taylor ne chiede conto, Le Texier s impazienta; ma le muse di questi due ciabattini del teatro dormivano, come gli idoli di Baal con tutte le grida di que’ poveri sacerdoti; e, per mordersi le labbra, strabiliare, dicervellarsi, non venne loro fatto di tradurre una scena sola di quel dramma. Costoro eran due miserabilissimi poeti in tale materia. Bonaiuti pretese spesso di scrivere pel teatro, ma i suoi versi eran piú duri della sua testa, che avrebbe potuto cozzare con quella d’un caprone; e Baldinotti faceva l’improvvisatore per mestiere, e qualche volta disse delle cose assai spiritose, ma da’ suoi versi scritti Dio ce ne guardi! S’aggiunga a ciò che, per tradurre un’opera da una lingua in un’altra, vi vuol qualche cosa di piú che saper far versi. Bisogna farli in modo che gli accenti della poesia rispondano a quelli della musica, e questo si fa bene da pochi, ed è necessaria singolarmente un’orecchia musicale e una lunga esperienza. Mancando a costoro queste due cose, mandarono dopo tre settimane lo spartito al direttore che domandollo, con questa umiliante confessione: — Non possiamo. — Quid ageminitif Coni’io aveva avuta la pazienza di non parlare né poco né molto di questo fatto, cosi si credeva che questo segreto maneggio mi fosse ignoto. Venne dunque da me il direttore con Federici ed : — Ecco — mi disse, — signor Da Fonte, il momento di far brillare il suo bel talento. — Mi presentò, detto questo, lo spartito e mi disse di che cosa trattavasi. Questa sfacciata simulazione mi stomacò. Non sapea sul fatto che rispondere. Stava sul punto di dire : — Con simili canaglie non dee rimanere un galantuomo. — Amor di sposo, dover di padre e forse un po’ d’amor proprio vennero in brevi istanti al mio soccorso.
— Signore — risposi io, — non sono obbligato, per patti fatti, di tradurre opere che per musica nuova; ma, se la direzione vuol pagare cinquanta ghinee, tradurrò l’opera. — E di chi sará il profitto del libretto? — soggiunse il furbo Federici. — Di chi le piace — risposi. — E in quanto tempo ci dará l’opera tradotta? In otto giorni. — Federici disse poche parole a Le Texier. Consentirono entrambi e lasciaronmi lo spartito partendo. Mi misi sul fatto alla pruova, e in quarantotto ore feci tutta la traduzione. Andai a trovare un amico che sapeva bene la musica, feci la pruova delle parole, e con piccolissimi cangiamenti si trovò che quadravano perfettamente alle note del compositore. Mandai il terzo giorno lo spartito a Le Texier, annunziandogli che la poesia era tradotta e avvertendolo che mia risoluzione era eli non dargli le parole prima di aver in mia inano le cinquanta ghinee. Venne dame, parve sdegnato; ma io sostenni il mio punto, ed egli, cui preinea troppo di dare l’opera, da cui credea dover venirgli la piú gran gloria, mi condusse a casa, mi contò le cinquanta ghinee ed ebbe l’onestá di dirmi: — Signor Da Ponte, voi meritate queste cinquanta ghinee, ed essi il ha... — Non fini la parola, ed io dissi ridendo: — Il basto... e il bastone! — Si recitò l’opera cum omnibus fustibus et lanternis , e, per usare una frase scenico tecnica, «fece un fiascone». Toccò a Federici pagar le cinquanta ghinee a Le Texier, ché promesse gliele aveva pel profitto del libretto, la vendita del quale non fu bastante a pagar le spese della stampa. Gallerini perdette cinque o sei ghinee ch’aveva avanzate al «borsa-floscia» Baldinotti ; la Banti non grido piú «Semira» ma «Semiramide»; e Taylor pregò caldamente che si tornasse alla Capricciosa corretta , perché gli amici della musica e della veritá gli dicevano ch’era un’opera molto bella. Io rideva di tutto e gioiva, contando assai spesso le mie cinquanta ghinee, che mi parevano assai piú belle e lucenti di quante mai n’ho vedute in tutto il tempo della mia vita.
Il signor Taylor frattanto, fosse il felice esito della mia prima opera o fosse qualch’altra ragione poco a me nota e ch’io non ho potuto mai diciferare, pareva molto desideroso di famigliarizzarsi con me. Cominciò a venire spesso alla mia casa, faceva delle lunghe passeggiate con me; mi domandava consiglio su varie materie teatrali o pecuniarie, e parea compiacersi molto tanto delle mie osservazioni che de’ miei calcoli. Essendo io un giorno con lui e con la Banti, riscaldato dal vino anzi che no. mi chiese in tuono scherzoso s’i’credea di poter trovar del danaro per lui. — In qual maniera? — diss’io. Cavò allora di tasca varie cambiali indossate *) da Federici ed accettate da (i) «Indossare» è termine tecnico de’ mercadanti ; e non significa «addossarsi >•, ma segnar il proprio nome sul dosso della cambiale, e questo vuol dire : «Pagherò quella somma, se pagata non è dall’accettatore». Non trovai questo verbo se non nel Dizionario di Bareni, in questa significazione. lui. Ne presi in inano una di trecento lire sterline, e, senza molto riflettervi, soggiunsi che ne farei la prova e che sperava riuscirvi. — Se puoi far questo — disse la Banti, — è fatta la tua fortuna. — Uscito dalla sua casa: — Com’ho potuto — io diceami — intraprender tal cosa? Da chi troverò danaro, io che fo il mestiere di poeta, c’ ho un salario assai modico, e che appena capisco che cosa significa «accettazione», «indossamento» o cambiale? Non so se uno spirito buono o cattivo mi fece allora risovvenire che ne’ primi tempi della mia dimora a Londra io era stato obbligato a impegnare un anelletto di diamanti, ch’era entrato in un botteghino, sulla porta del quale scritto era «Money», e ch’un giovine assai cortese m’avea prestate sei ghinee per un anello che ne valeva almen dodici.
Corsi dunque a quel botteghino, trovai quel giovane stesso, gli presentai la mia carta, ed egli dissemi che, s’io voleva comperare un anello o un orologio da lui, egli m’avrebbe dato il rimanente in contanti. Mi offerse allora diversi oggetti, ed io scelsi una ripetizione, calcolata da lui ventidue ghinee e che ne valea forse quindici, e mi diede un ordine sul banco di Londra pel resto. Quando stesi la mano per prenderlo, mi porse invece la penna e mi commise di scrivere il nome mio dopo quello di Federici sulla cambiale recatagli. Io, che non sapeva il valore o le conseguenze di tale segnatura, credei ch’altro non fosse che una cerimonia o una ricevuta; ma, appena vidi il mio nome su quella carta, mi passò per la mente ch’uno de’ tre ricordi datimi da Casanova era stato di non iscrivere mai il nome mio su cambiali in Inghilterra. Ne tremai tutto come una foglia e parea che un presentimento funesto mi dicesse in quel punto:
— Tu sei perduto! — Tornai nulladimeno da Taylor e gli feci vedere l’ordine di Parker (cosi chiamavasi l’usuraio) e la ripetizione a me data. Taylor, ch’avea giá avuto danari sopr’altre cambiali per mezzo di Federici e di Gallerini, e ch’era avvezzo a perdere settanta, ottanta e fin cento per cento con tai furfanti, fu sorpreso piacevolmente nel veder la prontezza con cui fu servito e la picciolezza della sua perdita. La Banti esclamò con trasporto di giubilo: — Bravo poeta! — intascò graziosamente la ripetizione, che Taylor era sul punto di regalarmi, gridando con nuova gioia: — Oh! questa è buona per me. — La gazzetta scandalosa narra che questa ripetizione volò miracolosamente nel borsellino del signor Ferlendis, gran suonatore di flauto a traverso, stromento favorito di donna Brigida, che volle baciarmi e abbracciarmi, gridando novellameute : — È fatta la tua fortuna ! — In fatti il giorno seguente 1 impresario venne da me e mi portò un nuovo contraiti), dove m’accresceva di cento lire sterline il salario, e confermimi diversi altri favori, che per un certo spazio di tempo furun vantaggiosissimi a me ed a’ miei.
Questi favori e questi vantaggi, accoppiati a’ primi sentimenti da me concepiti in favor di Taylor quando chiamommi dall’Olanda, destarono e mantennero nel mio animo una tale benevolenza, un tal affetto per lui, che non perdite immense, non pericoli, non i suoi stessi rabbuffi ebbero forza di cangiare o di diminuire. Io seguitava a vederlo, ed egli me. Come mi confidava le cose sue, cosi un giorno mi disse che gli occorrevano tre o quattromila lire sterline e ch’egli non avea dubbio, da quello che da me avea veduto, di poter trovarle per mezzo mio. Intrapresi di farlo, e, in mal punto sia detto, vi riuscii. Come al momento in cui era per iscader la cambiale di Parker non v’era danaro, cosi fui costretto a ricorrere da un altro usuraio, e poi dal terzo, dal quarto, dal quinto; finché, ora per pagar il dovuto, ora per soddisfar a’ bisogni, a’ capricci e alle brame dell’insaziabile lupa teatrale, la somma, trovata in men d’un anno da me, giunse a seimila e cinquecento ghinee. Io era dunque il tesoriere, lo spenditore, l’agente, il pagatore e il favorito di Taylor. Bisogna andare alla campagna mentre il teatro sta chiuso? Da Ponte troverá danaro. — Non c’è vino in cantina — dicea la Banti. Da Ponte n’avrá a credito da’ mercadanti. Il signor Taylor ha bisogno di calzette, di camice, di fazzoletti, ecc. ecc.? Ditelo al Da Ponte. I servi del teatro, i suonatori, i ballerini, i cantanti chiedono danaro? Vadano dal Da Ponte. Questa mia intrinsichezza con Taylor, questo vedere ch’io faceva tutto per lui, senza negligere tuttavia i doveri di poeta, furon cagione per cui tutti venivano da me per ottenere le cose che desideravano. Con somma alacritá io mi prestava a’ servigi de’ miei nazionali: questo facea l’anima mia contentissima de’ suoi rischi e delle oramai prevedute sue perdite; giacché a poco a poco io avea ben potuto conoscere che cosa voleva dire scriver il mio nome sulle cambiali.
Io ebbi spesso occasione di render servigio a Taylor, nel renderlo a’ miei a torto chiamati amici. Era questi sul procinto di congedare dal suo teatro Bianchi, Viganoni, Weichsell gran suonatore e fratello della Billington. Era in un tempo in cui avea necessitá di danaro, e le mie fontane erano esaurite: pensando che tutti tre questi personaggi erano al teatro utilissimi, proposi loro d’avanzarmi del danaro per l’impresario, assicurandoli che avrei cura di farli pagare, siccome feci, e tutti e tre furono per piú anni riconfermati. Dirò a suo loco dell’altre cose a questo proposito, pregando istantemente il mio leggitore di perdonarmi la noia che dee procurargli la lettura di cose frivole; ma, come tutta la vita mia non fu che una serie di beneficenze e di servigi prestati a una masnada d’ingrati o di traditori, cosi mi piace di provar questa veritá in tutti i modi permessimi e somministratimi da’ vari casi della mia vita.
Passarono tre anni interi cosi. Una sola cosa venne a turbare un poco la mia pace e a involarmi parte di quegli emolumenti, che per ogni diritto paiono appartenere al poeta. La Banti, che aveva, a dispetto di Taylor, i suoi segreti adoncini, e che cangiava piú spesso che l’altre donne non cangiano di cappello, aveva allor dato il primo loco nella sua lista amatoria al scimmiotto Federici. ’Putti lo sapevano, fuori di Taylor.
Desideroso colui di scroccarmi il profitto ch’io traeva dalla vendita de’ libretti in teatro, fece creder alla sua dama che, s’ella potea ottenere questo dall’impresario, l’obbligherebbe a fare gagliardamente i piaceri suoi, e a Taylor (il che volea dir a lei stessa) troverebbe la grossa somma di mille ghinee e forse piú, con patto che permettesse a certo francese e alla sua nipote d’aver una loggia gratis per due o tre stagioni. (Nota bene. Una loggia contenea quattro cinque e sei persone. In una stagione si faceano da sessanta a settanta recite. Ogni persona pagava e paga mezza ghinea per recita. Chi sa la prima pagina d’aritmetica non ha bisogno de’ miei calcoli). Si decise dunque che il signor D. L. avrebbe la loggia, e il signor Taylor mille ghinee a titolo di prestanza senza interesse. — Ma il Da Ponte — osservò Taylor — che dirá? — Griderá un poco
— risposero a coro, — e poi tacerá. — Non fu cosi. Io stampai e vendei tutte l’opere fatte da me, cioè V Ève lina, tradotta dal francese, con musica di Sacchini, che piacque; un’operetta buffa in un atto per Bianchi, che fu una delle migliori cose scritte nel buffo genere da lui, VArmida, che piacque; e una cantata composta da me per le nozze del principe di Galles, e che poi si rappresentò per una vittoria. II profitto dell’altre opere fu per due anni interi di Federici ; ed io osservai e tacqui, aspettando il tempo opportuno di punirlo. Ma qual fu la mia punizione! porger nuova esca alla sua perfidia, alla sua ingratitudine.
La Banti frattanto, o vogliosa di nuovo adoratore (secreto, s’intende) o per qualche supposto oltraggio ricevuto da colui, gli divenne nemica si fiera, che non volle né piú vederlo né piú udir parlare di lui. Le grazie allora di questa femina capricciosa piovvero tutte su me. Non pareva contenta che quando io era con lei; non parlava che di me cogli amici e coll’impresario medesimo; lodava la bontá mia, la mia attivitá, il mio disinteresse, i miei talenti, e qualche volta facea l’elogio de’ miei begli occhi! Io aveva allora quarantanove anni, una donna che amava e che assai piú giovane e bella era di colei : non è dunque da maravigliarsi se feci il sordo, e non credo di meritar alcuna lode per esserlo stato. Ma piú ch’io voleva parere di non intenderla, e piú quella lonza parea vogliosa di farsi intendere. Taylor frattanto decise d’andare alla sua campagna e di condur seco la Banti e la sua famiglia. Appena fu ciò deciso, che la Banti mandò per me; e. com’ebbi la cattiva sorte di trovarla sola, cosi, correndomi incontra: — Signor poeta — mi disse, — bisogna prepararsi a venir alla campagna con noi. Ho qualche cosa di grande importanza da dirti... Vieni caro... fa’ questo piacere alla tua buona amica Banti. — Mi prese per mano, cosi dicendo, tirommi a sé, mi diede un’occhiata da spaventar il casto Giuseppe... In quel momento Taylor entrò. Rimasi pochi momenti con loro, mi diedero entrambi diversi ordini, mi ripetè la donna l’invito, l’impresario lo rinnuovò, ed io me ne andai. Il mio imbarazzo era immenso. Per salvare, come suol dirsi, la capra e i cavoli, risolsi pochi di dopo d’andarvi, ma vi condussi meco la sposa. Quando essa ci vide, fece una faccia da furia; ma, recatasi presto in se stessa, finse di farci buona accoglienza, e, quando fummo soli, mi disse con faccia tosta: — Anche la moglie!
Tanto peggio per te. — Io finsi di non capire, e non se ne parlò mai piú né da lei né da me. Dopo esservi rimasto tre giorni con Taylor ed aver avuto occasione di esaminarlo bene da presso, rimasi talmente convinto che Taylor, lasciato a sé e messo nell’affluenza, sarebbe stato un de’ migliori uomini del mondo, che in realtá mi caddero piú volte le lagrime per compassione. La Banti, che nel teatro era e rendeva lui una vera vipera, a Holywell era affabile, gentile e positivamente amabilissima. L’infinita attenzione di Taylor per lei, la sua generositá senza pompa, la sua semplicitá nelle maniere, la sua ospitalitá con tutti quelli che capitavano, avevano resa la Banti stessa una donna tutta diversa da quello ch’era.
Un giorno Taylor mi domandò se avrei amato d’andar in Italia. Io, che n’ardeva di voglia pel piacere di riveder il mio vecchio padre e la sua famiglia, che non avea veduta per piú di vent’anni, risposi senza esitare che pagherei tutto per andarvi. Mi disse egli allora ch’avendo tutta la fede tanto nell’onestá che nel gusto mio, mi offriva cento ghinee, che servirebbero per pagar parte delle spese di viaggio, s’io voleva partire subito e procurargli in Italia una delle migliori donne buffe ed un de’ migliori musici. Accettai con giubilo la proposizione, partii subito per New-Yorck, comperai un carrozzino e presi con me tra danaro e gioie la non piccola summa di mille lire sterline, e quando tutto fu pronto m’imbarcai per Amburgo. Il mio passaggio fu corto e felice. Partii di Londra il secondo d’ottobre; arrivai il decimo ad Amburgo, e senza il menomo sinistro il secondo di novembre mi trovai a Castelfranco.
Bramando di goder in tutti i possibili modi del mio viaggio, lasciai la mia compagna a Castelfranco e la pregai di raggiungermi a Treviso, che distante è dodici miglia, il quarto di novembre di buon mattino. Arrivai verso sera a Conegliano, che non è ch’otto miglia lontano da Ceneda, e in meno di un’ora mi trovai alla porta della casa paterna. Quando i miei piedi toccarono il terreno ove ebbi la cuna, ed io spirai le prime aure di quel cielo che mi nudri e mi die’ vita per tanti anni, mi prese un tremore per tutte le membra e mi corse pel sangue un tale spirito di gratitudine e di venerazione, che rimasi del tutto immobile per molto tempo, e non so quanto forse sarei rimasto cosi, se udita non avessi alle finestre una voce, che mi passò al cor dolcemente e che mi parea di conoscere. Io era smontato dalla carrozza di posta a qualche distanza per non dar sospetto, collo strepito delle ruote, del mio arrivo. M’era coperto il capo col fazzoletto, perché allo splendore delle lanterne non mi conoscessero dalle finestre; e, quando, dopo aver picchiato la porta, udii gridare da una finestra: — Chi è lá? — procurai d’alterar la voce, ed altro non dissi che
— Aprite! — e questa parola bastò per far eh’una mia sorella mi riconoscesse alla voce e, mettendo un altissimo grido, dicesse alle sorelle: — È Lorenzo! — Discesero tutte come fulmini dalle scale, mi balzarono al collo e quasi mi soffocarono colle carezze e coi baci, e mi portarono al padre, che, all’udire il mio nome, e piú al vedermi, rimase immoto per piú minuti.
Oltre la sorpresa e il piacere cagionatogli dal mio arrivo improvviso, v’era una circostanza anteriore che rese e la sorpresa e il piacere infinitamente piú vivo. Essendo il secondo giorno di novembre, ossia la festa di tutti i morti, un giorno solennizzato particolarmente ne’ paesi cattolici, tutti i parenti e gli amici si uniscono verso la sera e passano molte ore della notte in gozzoviglie e giochi innocenti. Trovandosi quindi anche il padre mio co’ suoi figli, generi e nipotini, invitolli a bere alla mia salute, e fu questo il suo brindisi : — Beiamo alla salute del nostro Lorenzo e preghiamo Dio che ci dia la grazia di vederlo prima ch’io muoia. — Non aveano ancora \uotati i bicchieri, che io picchiai alla porta e udissi suonare da tutti gli angoli della casa: — Lorenzo! Lorenzo! — Bisogna non aver un core per non concepire lo stato di un vecchissimo padre (egli avea giá passati gli ottanta) in quello straordinario momento. Io sovra tutti posso congetturarlo da quel ch’io stesso sentii. Rimanemmo avviticchiati insieme per molti minuti, e, dopo una gara reciproca di baci, di carezze, d’abbracciamenti, che durarono fin alle dodici della notte, sentii alla porta della casa degli urli di gioia, delle voci che chiamavano altamente :
— Lorenzo! Lorenzo! — onde, affacciatomi alla finestra, vidi allo splendor della luna una quantitá di gente, che domandava d’entrare. La porta s’aperse, ed ecco in un momento, nella camera dov’io era, i miei buoni amici di quella cittá, che alla novella del mio arrivo vennero tutti a vedermi. Conobbi quella sera di quanto piacere è capace un core e quanto veramente sia dulcis amor patriae, du/ce videre suos.
Sebben tutti cari mi fossero questi amici e compagni della mia gioventú, e gratissima fossemi la loro visita, pur non ricorderò qui che due nomi, come di persone che io amava e stimava singolarmente e dalle quali io era con pari tenerezza riamato : Antonio Michelini e Girolamo Perucchini, due angeli d’amicizia, di cui il mio core vuole ch’io parli a preferenza di tutti gli altri. La dolcezza de’ lor caratteri, la lor benevolenza per me, la stima che quindi faceano di me e de’ versi miei, me li avevan resi sicari, ch’io non era felice senza esser con essi, né essi senz’esser con me. Io era trattato da tutti due come fratello, e come figliuolo da’ loro genitori. Ci consigliavamo, ci confidavamo i secreti e ci aiutavamo negli amori. Il primo non era né letterato profondo né poeta, ma amava la letteratura, aveva buon gusto ed ottimo criterio, ed era dell’etá mia. Non so se ancor viva, ma lo desidero ardentemente; e, se queste Memorie gli cápitano mai alle mani, sappia quali sono i miei sinceri sentimenti, e sappia ancora che come li ho conservati fino all’ottantesimo anno della mia vita, cosi ancora conserverolli nel mio memore seno fin agli estremi momenti di quella. Il secondo, che, diis [aventibus, onora ancor delle sue rare qualitá la sua patria e da cui ho ricevute non ha guari novelle felici, a’ pregi d’un’anima nobile e gentile accoppia un fondo inesausto di dottrina e un gusto squisito in ogni maniera di letteratura. Compose e forse ancora segue a comporre de’ versi pieni di grazia e di brio; è legista profondo, gran politico ed eloquente oratore. Quai fossero gli effetti prodotti in me alla vista di questi due personaggi, che, con tanti altri poco meno a me cari, vennero a festeggiarmi dopo vent’anni di separazione, lascerò imaginarlo a tutti quelli che sanno quali siano le dolcezze della vera amicizia. Dopo alcune ore di tenera conversazione, ci separammo. Allora volle mio padre ch’io andassi a riposare, e mi chiese di dormire con lui. Mi coricai alquanto prima di quel buon vecchio, ed egli si mise al piede d’un crocifisso, che teneva al letto vicino, per dire le solite preghiere, che duravan circa mezz’ora, eli’in un suono di voce divota e flebile terminò con queste parole: — Nunc dimittis servimi luum in pace. — Finito ciò, venne a letto, mi strinse fra le sue braccia e ripetè in italiano: — Figlio mio, ti ho veduto ancora una volta: moro contento. — Smorzò i lumi, e tacemmo entrambi pochi minuti; ma, udendolo sospirare, lo pregai di dirmi che cosa avea.
— Dormi, dormi, figliuolo mio — rispose egli, sospirando novellamente: — parleremo domani. — Dopo qualche tempo, mi parve ch’egli dormisse, e anch’io m’addormentai.
La mattina, svegliandomi, trovai che piú non era nel letto. Egli s’era levato pian piano prima del sole, ed era ito al mercato per provvedere a tempo le migliori frutta e i piú delicati cibi della stagione per la colazione e pel pranzo. Le mie sorelline, i mariti, i figli di quelle ch’erano madri e i due miei giovani fratelli Paolo ed Enrico stavano tutti alla porta della camera, per entrarvi al primo romore che udissero. Non so s’ebbi occasione di sputar, di tossire o di far scricchiolare il letto movendomi: so che in un momento entrar vidi una falange d’uomini, di donne e di fanciulletti, spalancar le finestre e saltar sul mio Ietto per baciarmi, stringermi e quasi soffocarmi di carezze e di amplessi. Poco dopo, capitò mio padre. Quel buon vecchio era carico di frutti e di fiori, de’ quali si sparse dalla famiglia tutto il mio letto, e mi si coperse con quelli dalla testa alle piante, mettendosi de’ gridi d’allegrezza e di gaudio in quel tripudio festevole. Frattanto una servetta molto leggiadra portò il caffè; e tutta quella numerosa assemblea fece una corona al mio letto, sedette, e si mise in attitudine di prendere la colazione. In veritá non mi ricordo d’aver veduto né prima né dopo quella mattina un piú giocondo spettacolo. Mi pareva piuttosto d’esser nel centro d’un cerchio d’angeli che in uno di gente mortale. Queste mie sorelline erano tutte belle anzi che no. Ma la Faustina, ultima delle sette, era un vero angelo di bellezza. Proposi di condurla a Londra con me; mio padre n’era contento; ma essa non disse né si né no, ed io sospettai sul fatto che ella, benché non avesse allor piú di quindici anni, non fosse piú padrona del proprio core. Si passò a poco a poco ad altri discorsi. Come nessun mi parlava de’ due cari miei fratelli Girolamo e Luigi, rapitimi dalla morte nel fior degli anni, cosi mi guardava io medesimo dal parlarne, per non funestare con dolorose memorie l’ilaritá di quel giorno. Ma un nuovo sospiro, che mise mio padre, mi fece risovvenire de’ sospiri della notte e gliene domandai spiegazione. Egli non mi rispose; ma, accorgendomi che gli occhi suoi s’empieano di lagrime, ne indovinai la cagione e cangiai discorso. Come io non avea parlato né poco né molto della mia compagna, cosi credei che fosse un buon momento di farne un cenno; e, per ricondurre l’allegria, che quelle lagrime di mio padre avevano sbandita, parlai cosi:
— Signore sorelle, non credeste miga che sia venuto tutto solo da Londra: ho condotto meco una bella giovine, che ha ballato su quel teatro e che probabilmente avrò il piacere domani o posdomani di farvi conoscere. — È veramente bella ?— disse la Faustina. — Piú bella di te — ripigliai io con vivacitá. — Piú bella di me? Vedremo, vedremo questa bella gioia! — Questo discorso richiamò il buon umore; si rimase ancora alcun tempo insieme; alfine uscirono tutti per darmi tempo e libertá di vestirmi. Il solo padre restò con me. Come il suo cuore avea bisogno d’uno sfogo, cosi pensai che fosse bene parlargli de’ due perduti figliuoli. — Ah, se que’ due tesori fossero qui, qual sarebbe •-
— esclamò egli — la loro consolazione, quale la nostra! Ne piansi con lui, ma mi riusci alfine di consolarlo, promettendogli prima di partire da Ceneda di fargli veder cosa che compen sera la sua perdita, almen in parte...
Tornando a questi due miei fratelli, mi credo in dovere di correggere un errore commesso da me nel secondo volume della mia Vita, dove, parlando della morte d’uno di questi, annunziatami a Dresda, equivocai, non so come, ne loro nomi. Luigi e non Girolamo fu quello ch’allora cessò di vivere all etá di ventidue a ventitré anni: giovine pieno di talenti, di genti lezza e d’urbanitá, amato da’ suoi, rispettato e onorato dagli scolari di Padova, dove era vicino a ottenere la laurea dottorale in medicina, e adorato dal famosissimo dottor Della Bona, di cui era allievo predilettissimo. Girolamo mori due anni dopo : ed io rimasi a pianger la lor morte e la mia vita.
Torniamo per poco a gioire. Andai a visitare tutti gli amici che avevano me visitato la sera; andai a trovar alcune delle mie vecchie amasie, che mi rividero con una gioia e una cortesia pari a quella con cui io pure le vidi; e non fu che all’ora del pranzo ch’io dissi alla famiglia ed a pochi amici ch’io doveva partir la domane per Treviso e forse forse per Venezia. La mia súbita dipartita dispiacque; ma, come io promisi di tornar colla bella giovine, le sorelle (e la Faustina la prima) gridarono: — Bene! bene! — Si passò il rimanente della giornata in perfetta allegria. Accadendo di parlare di Bonaparte, mio padre narrommi una storiella, che veramente m’inteneri e che m’obbliga a venerare sovranamente la memoria di quel grand’uomo. Non molto tempo prima del mio arrivo a Ceneda, l’armata francese ottenuta avea una vittoria solenne sull’armata tedesca, non so se alle sponde del Tagliamento o a quelle della Piave. Bonaparte, generale di quella divisione, era venuto a Ce neda, ove, non essendovi trabacche, aveva ordinato che i suoi soldati e ufííziali avessero alloggiamenti nelle case de’ cittadini. La vista di quella gioventú francese, gaia per carattere nazionale e piena di foco per la ottenuta vittoria, affascinò al primo apparire le donne di quella cittá Appena il mio vecchio padre udi l’ordine di Bonaparte, chiuse le porte della sua casa e misesi ad una finestra per aspettare ch’ei passi. Questa casa e situata nel centro della gran piazza, e contigua del tutto al calfé da’ cittadini piú frequentato. Non passarono che pochi momenti, e Bonaparte vi capitò cogli uffiziali suoi, e s’assise al caffè menzionato per prendervi dei rinfreschi. Mio padre, senza perder tempo, colse un momento opportuno e domandò dalla finestra la permission di parlare. — Chi è il generale dei francesi?
— diss’egli allora. — Io — grido Bonaparte. — Mio generale, il vecchio ch’ora ti parla è padre di sette onorate figliuole, che da molti anni in qua hanno perduta la madre. Due sole son maritate, l’altre stanno meco. I loro fratelli piú attempati non sono ora con esse per custodirle, e io, che son il loro padre, son obbligato d’uscir di casa per procurar loro il pane. Chiedo rispettosamente che l’ordine tuo di ricettar nelle case nostre i tuoi bravi guerrieri non si estenda fino a me. Chiedo che questi miei bianchi capelli, l’innocenza di queste fanciulle e l’onor de’ figliuoli miei siano protetti da te. Se tanto mi vuoi concedere, pregherò Dio a’ piedi di questo crocefisso — e trasse dal seno, cosi dicendo, l’imagine d’un crocefisso ch’ognor portava — per la prosperitá tua e per quella delle tue armi: se non condiscendi a’ miei voti, io non aprirò le porte della mia casa, ma, al primo segnale che i tuoi soldati o ministri daranno d’aprirle, ho un bariletto di polvere in casa, e giuro a questo medesimo crocefisso di salvare con questa la pudicizia delle mie figlie. — L’enfasi con cui disse queste parole, il coraggio di quel buon vecchio e l’applauso fattogli dagli astanti piacque oltre modo a Bonaparte, e gli accordò graziosamente quel che chiedea.
La casa del padre mio fu la sola in Cetieda e ne’ paesi vicini che non fosse prostituita in que’ tempi da’ vittoriosi francesi. Piú di trenta donne cenedesi, che partite erano con quelli al loro partire, furono rimandate, pochi di dopo, alle loro case, a implorar perdono e pietá da’ loro padri, padroni e mariti. I buoni cenedesi furon pietosi. Han fatto piú di quello ch’avrei fatt’io. Il quarto giorno di novembre partii per Treviso. Come mia intenzione era di tornare tosto a Ceneda colla mia sposa, cosi proposi di condur meco la piú giovine sorella e suo fratello Paolo, che avea conosciuta la mia amica a Trieste. Appena si riseppe ch’io stava sul punto di partire, che tutta la gioventú di quella cittá circondò le porte della mia casa per aspettar che uscissi. Io credeva che fosse per augurarmi un buon viaggio e per presciarmi a ritornare. Oibò! Era per chiedermi ad una voce di non condurre con me la Faustina; e, come quelle preghiere aveano quasi un’aria di minaccia, cosi ho dovuto promettere e giurare di ricondurla a Ceneda meco, prima che passassero tre giorni. Arrivai verso sera a Treviso Ma la consorti mia non vi capitò che la mattina del quinto giorno tra le otto e le nove. Io stava alle finestre dell’albergo aspettandola. Quando vidi giungere la carrozza, discesi frettolosamente per incontrarla. Il fratello mio, che aveva scherzato meco per l’ansietá da me dimostrata nel ritardo suo di qualche ora e che non credea di dover vedere che una ballerina teatrale: — Ora vedremo — disse alla sorella — questa rara gioia piú bella di te. — Montammo nella sala. Come ella avea un velo che le copriva la faccia, cosi mio fratello, che si ricordava del velo nero di Trieste, fece l’atto medesimo ch’io feci allora. Egli amava la donna mia d’un amore sviscerato, m’avea domandato mille volte e mille cose di lei; ma io gli avea risposto sempre in termini generali, e senza lasciargli né sospettar né sperare di dover allora vederla fatta mia moglie. Qual fosse dunque la sua sorpresa non è fa cile imaginarlo e meno ridirlo. Quantunque la Faustina fosse bellissima e abbastanza orgogliosa per credersi tale, pur disse altamente al fratello: — È vero, è vero: è piú bella di me. — Questa improvvisata fu il primo piacere ch’ebbi a Treviso.
Ma n’ebbi degli altri forse maggiori in quella cittá. Appena si seppe del mio arrivo, il mio dolcissimo amico Giulio Trento venne da me, e non passarono venti minuti che una processione di gente vi capitò. La piú gran parte di questa consisteva in uomini giá maturi, che impiegati erano in cariche, professioni od uffizi importanti in quella cittá e che stati erano miei discepoli in quel rispettabile seminario. Lo loro etá poco differente dalla mia, il loro grado e i molti anni giá scorsi dopo quell’epoca non li trattennero dal venire da me con trasporto di giubilo e dall’onorarmi col titolo glorioso di «nostro caro maestro». Seppi da uno di loro che Bernardo Memmo era in quella cittá. Corsi sul fatto da lui, e la vista di queireccellente, dotto e nobilissimo personaggio non fu l’ultimo piacere da me provato in Treviso ed in tutto quel viaggio telice. Era con lui la Teresa. Vedova, brutta, grassa e invecchiata, era tuttavia l’idolo di quell’uomo e la signora assoluta della sua volontá! Io era sui punto di tornar a Ceneda, quando mi risovvenni ch’uno de’ primi oggetti del mio viaggio in Italia era Taylor. Udendo dunque che v’eran due prime donne di molto merito che cantavano a Venezia, ho presa sul fatto la risoluzione d’andarvi, e mandai a Ceneda con Paolo e la Faustina la mia consorte. Arrivato a Venezia nel tempo in cui ivi erano come dominatori i tedeschi, mi toccò vuotare due calici amari al core d’un buon cittadino. Il primo riguardava la misera patria mia, il secondo me stesso. Io aveva udito dir molte cose dello stato compassionevole in cui si trovava quella cittá; ma tutto quello che udii era un gioco allato a quello che vidi in una notte e in un giorno. Volli vedere la piazza di San Marco, che non aveva veduta per piú di vent’anni. V’entrai dalla parte dell’Orologio, dove alla sboccatura si vede tutta quella gran piazza, nel momento stesso in cui vi si entra, del tutto, e non prima. Giudichi il mio lettore della sorpresa e cordoglio mio, quando in quel vasto recinto, ove non solea vedersi a’ felici tempi che il contento e la gioia dell’immenso concorso del vasto popolo, non vidi, per volger gli occhi per ogni verso, che mestizia, silenzio, solitudine e desolazione. Non v’eran che sette persone, quando entrai in piazza. — Quommodo sedet sola civilas, piena populo! — fúr le sole parole ch’io potei proferire quel primo istante. Passeggiai sotto le cosi dette Procurane di San Marco, e crebbe di molto la mia sorpresa nel veder ch’anche le botteghe di caffè erano vuote. In undici di quelle contai in punto ventidue persone e non piú. Arrivato all’ultima, una faccia decorata da un naso di straordinaria grandezza feri in qualche distanza la vista mia. In veritá io vidi il naso prima della persona. Me le avvicinai e riconobbi Gabriel Doria, figlio del cuoco del Barbarico, di quello che perorato avea contra me per la tesi pubblicata a Treviso. Questo Gabriello, angelo di nuovo genere, non era giá quello che giú i decreti dal ciel porta, ed al cielo riporta de’ mortali i preghi e 1 zelo.
Era una fu spia degli inquisitori di Stato! Avea sposato costui, prima ch’io fossi da Venezia partilo, una certa Bellaudi, nella cui casa io aveva presa a pigione una camera. Il fratello della sua donna sposata aveva la figlia d’un fiorentino ch’abitava in quella cittá, giovinetta assai gentile e vezzosa e di maniere molto lodate. Ma le grazie della moglie non gli impediron d’ammirar quelle d’una non crudele venezianella, e alfine d’innamorarsene a segno da detestar la consorte e da desiderar la sua morte. Non so se per sospetti avuti o per altra causa, esaminando essa un giorno gli abiti del marito, trovò cucito nella fodera d’un giustacore un fagottino di lettere, una delle quali era del seguente tenore:
Mia amorosissima amica, il tempo della nostra felicitá è vicino. La femmina che abborro sará presto madre. Sarò io stesso la sua levatrice, e avremo finito di penare. Se questo non basta, la faremo dormire. Mia sorella è a parte del secreto. Il tuo fedele. L’altre lettere erano dal piú al meno del medesimo tenore.
Quando capitai a casa, la trovai sola nella saletta. Appena mi vide, s’affrettò a darmi quel fagottino, e mi pregò d’uscir e di leggere. Non potrei dire qual fu l’orror che m’invase a quella lettura! Quella donna era d’una dolcezza di carattere maravigliosa, amava il marito ed era savia e costumatissima lo aveva della stima e dell’affezione per lei. Forse in altri che in me questa affezione avrebbe potuto divenire pericolosa. Ma io m’era fatta una legge di non accompagnare mai l’amore e il delitto. Credei nulladimeno che sarebbe stato delitto di non cercar di salvare quella innocente. Corsi da suo padre, gli feci leggere que’ fogli; ma quel vecchio rimbambito e senza energia non sapeva che piangere. Oltre a ciò, ei non poteva darle asilo in sua casa, ch’era appena bastante per lui. Avend’io un cugino in Venezia maritato di fresco, ricorsi a lui, ed egli consenti di darle una camera. Alle sei della sera capitò in sua casa, e prima delle nove era madre. Andai allor dal Zaguri, gli narrai la storia e gli lasciai quelle lettere. Trovandosi egli la sera stessa a crocchio privato con uno de’ Tre, che faeean tremar a que’ tempi della sola voce tutta Venezia, il signor Gabriello vi capitò, fu ammesso a secreta udienza e fece la sua ambasciata. Tornò l’inquisitore al Zaguri e gli narrò con orrore che il suo protetto Lorenzo Da Ponte aveva sedotta la moglie d’un onorato cittadino, l’aveva fatta fuggire dalla casa del marito ed ito ad abitare con lei. Il Zaguri allora narrògli il fatto e gli diede le lettere dell’«onorato cittadino», che quel signore lesse fremendo e rivolgendo contra l’accusatore lo sdegno che avea concepito contra di me.
Andai verso le dieci della sera alla mia camera; ma trovai chiusa la porta della casa e udii una voce gridar da quella:
— Qui non s’entra. — Mi ritirai in un albergo per quella notte. La mattina tornai dal Zaguri, che gridò, appena videmi: — Buon per voi che mi lasciaste quelle lettere! — Mi raccontò quindi tutta la cosa, e mi disse di star tranquillo. Il marito frattanto seguitò a frequentare liberamente la casa della veneziana ed a conviver con lei. La moglie mandògli il figlio, ed ei lo mandò allo spedale degli orfani! Ed io?... Con tutta la legge fattami, con tutti i principi salutari stabilitimi nel corso della mia vita... deggio dirlo?... deggio confessare una debolezza, di cui mi son poi mille volte vergognato e pentito?... Si, la confesserò, e spero che il mio esempio servirá di scola a tutti coloro che si fidano ■ PARTE TERZA 219 troppo di se medesimi e che non voglion intendere la veritá della gran sentenza, dalla quale siamo avvertiti che non si vince amor, se non fuggendo.
Io feci tutto il contrario. La sicurezza inspiratami dal Zaguri, la stretta famigliaritá del marito colla veneziana, e sopratutto la mia propria inclinazione, ch’io chiamava pietá, mi fecero frequentare spessissimo la casa di quella donna, la quale, vedendo in me piuttosto un angelo tutelare che un amico, mi riceveva sempre con una riconoscenza si viva e con un tal trasporto di gioia, che non andò guari che tutti questi nobili sentimenti . Per un curioso accidente mancherá una pagina a questa stori,:. Io l’aveva giá scritta, quando per rasciugarne l’inchiostro colla sabbia, invece del polverino pigliai per isbaglio il calamaio e versai sopra quella l’inchiostro. Non avendo tempo di ricopiarla, lascerò che il mio leggitore vi scriva quel che gli piace. Questo signor Doria dunque mi si accostò salutandomi, ed 10 feci lo stesso. Dopo varie questioni reciproche, parlommi spontaneamente di quella donna, mi disse che riconciliatasi erasi col marito e mi indicò la sua abitazione. Non credendo aver ragione di temere di colui: — Andrò a salutarla — soggiunsi, e cosi feci. Fui ricevuto da lei con tutta quella gioia con cui si riceverebbe un fratello da una sorella amorosa. Anche 11 rimanente della famiglia e il marito stesso m’accolsero con cortesia e parver lietissimi di vedermi. Ci lasciammo con chiari segni non solo di riconciliazione ma d’amicizia. Andai allora a far poche visite ad altri amici, tra’ quali al mio carissimo Perucchini e all’ottimo ed umano Lucchesi, ch’era stato a Trieste il mio ospitale Filemone. Zaguri non era a Venezia, e Giorgio Pisani, ch’avea giá ottenuta la libertá, mi dissero eh era allor a Ferrara. Nel nominarmisi questa cittá mi ricordai della Ferraresi. Ebbi vaghezza di andar a vederla. Mi accolse con un «oh!» d’allegrezza, e, quando udí ch’io aveva la facoltá d’impegnar una donna pel teatro di Londra, parve voler farmi molte carezze. Per quanto però io bramassi di fare una delle mie solite vendette, rendendo a lei del bene pel malech’a me fatto aveva, non ho creduto né onesta né giusta cosa di darlene la minima speranza, senza udire prima come stava di voce/ Sapeva, oltre a ciò, ch’ella era giá stata a cantare nel teatro di Londra senza essere troppo applaudita. La pregai nulladimeno a cantar qualche arietta, il che fece ella senza fare smorfie; ma, sebbene io capissi ch’aveva ancor molto merito, pur non osai proseguir in quel discorso piú lungamente, per timor di accrescere le sue lusinghe. Cominciammo a scherzar in fatto d’amanti: mi disse ch’era senza cavalier servente, e mi pregò di andare la sera al teatro con lei. Presi, poco dopo, una gondola, e, mancando ancora del tempo alla rappresentazione, feci che il barcaiuolo si fermasse alle rive d’un caffè e che facesse portar de’ gelati. Quand’egli parti, mi prese ella per la mano, mi guardò fiso fiso nel volto, e mi disse con vivacitá teatrale: — Sai tu, Da Ponte, che sei piú bello che mai! — Lieto di poter fare una picciola vendetta de’ torti fattimi da lei : — Mi dispiace moltissimo — risposi — di non poter dire lo stesso di te. — Tacque, arrossi, e parea che le si empiessero gli occhi di lagrime. Me ne dispiacque: le strinsi allora con tenera espressione la mano e le dissi ch’avea scherzato, ma che, essendomi consecrato per tutto il rimanente della mia vita ad un’altra donna, credea che non mi fosse permesso parlar d’amore, particolarmente con lei. Questo «particolarmente» parve piacerle. Intanto il caffettiere portò i gelati, il gondoliere tornò, e non si parlò piú del passato. Andammo al teatro, dove si recitava II re Teodoro di Casti.
La prima donna era bravissima, ma seppi ch’ell’era impegnata pel carnevale futuro, e non cercai nemmeno parlare di Londra.
Dopo l’opera andammo a cena con due altre cantatrici assai belle, ma io aveva bisogno di canto e non di bellezza. Andai all’albergo, dopo averla condotta alla sua abitazione, contento delle mie visite e dell’accoglienze fattemi dagli amici.
Il giorno seguente, otto di novembre, fu pieno per me di memorabili eventi. Uscii di casa assai a buon’ora, e volli veder Venezia in tutti gli aspetti. Tornai alla piazza di San Marco e non vi trovai piú gente la mattina, di quello che vi trovassi il di prima. Entrai nella bottega d’un caffettiere che conoscevano, e domandai del caffè. V’erano in quella sei o sette persone, che prendevano la stessa bevanda e che parlavano di politica. Mi misi sul fatto a notare. — Stiamo freschi — dicea l’un d’essi — con questi nostri nuovi padroni! — Erano appunto in que’ giorni entrati i tedeschi in Venezia. — La carne, che, pochi di sono, vendevasi a otto soldi per libbra, ora si vende a dieciotto; il dazio del caffè è raddoppiato; la bottiglia di vino, che compravasi per tre soldi, or non puossi aver per meno di sei; e dicesi che sul tabacco, sul sale e sullo zucchero si porrá una gabella di sessanta per cento! — Tutto ciò non è niente
— soggiunse un altro: — stimo i due milioni che ci domandano!
— Due milioni di che? — replica un terzo — di conchiglie d’ostriche? — Di piastre d’argento — esclamò un quarto. Il bottegaio, che fremeva a tali parole, saltò in mezzo di questa gente, e: — Per caritá, miei signori! — esclamò tremando e con voce fioca — cessate di tenere tali discorsi. Io non ho voglia, e non credo che Labbia alcuno di voi, di sentire l’agilitá del bastone militare. — Ci condusse allora in un picciolo gabinetto, chiuse le finestre e le porte, e ci narrò come la sera antecedente alcuni giovani veneziani parlavano insieme in tuon d’allegria poco distante dalla sua bottega, e come alcuni soldati tedeschi, che vi passarono, credettero che disputassero, e, prendendone due, che piú forte degli altri parlavano, dopo due o trecento
- potztausendsackermcnt!», diedero loro tra coppa e collo diversi
colpi di bastone e li condussero al corpo di guardia, dove, non essendovi alcuno che intendesse L italiano, tenuti furono fin la mattina (*). Partii piú afflitto da quel caffè, che non parte un (i) La severitá de’subalterni non arriva quasi mai senza maschera fino al trono. Voglia Dio che questo volumetto giunga alle mani di lui, che tiene il freno delle belle contrade, e che qualche pietade alfin lo stringa. Lidi miei voti il ciel ! Si sovenga il lettore di questo verso. tenero figlio dalla sepoltura d’amata madre. Andai allora alla Piazzetta.
Avvicinandomi al mercato del pesce, ne chiesi il prezzo, per sapere se anche su quel dono del mare avevano messo novelle imposte. Un vecchio con volto pallido, smunto, sucido, affumicato, e ch’avea tutta l’apparenza d’un cercantino, udendo la mia domanda e credendo ch’io volessi veramente comprare del pesce, mi si fece vicino e mi chiese s’io volea ch’egli lo portasse alla casa mia. Nel volgermi a lui in atto di rispondergli, s’arretrò precipitosamente e sciamò in tuono di stordimento:
— Santo Dio, chi vedo! Lorenzo da Ponte! — Durai gran fatica a ravvisarlo; ma, dopo averlo ben bene guardato, mi parve di riconoscerlo, e con [tari stordimento ho proferito il suo nome. Non m’ingannai. Era il fratello di quella donna ch’io aveva amata tre anni interi piú della vita, e per la quale rinunziato avea alla bellissima Matilde e all’amabile figlia del «cercantino onorato». Lo stato, in cui vidi quel miserabile, destò tutti i sentimenti di caritá e di pietá nel mio cuore, e dimenticai in un momento, co’ capricci e le follie del fratello, tutti i delitti e l’ingratitudine della sorella. Vedendolo quasi ignudo, senza cappello in testa né scarpe a’ piedi, gli gettai addosso il mantello mio, lo feci entrar in una gondola meco e lo condussi alla mia locanda. Diedi ordine al barcaiuolo di andare da un rigattiere e di far che porti degli abiti a quell’albergo. Condussi intanto quell’infelice neUa mia stanza, gli feci bere del vino per dargli spirito e forza, gli diedi calze, scarpe, camicia e calzoni onde coprirsi, e, lasciandolo solo nella mia camera finché si lavasse e abbigliasse, andai a vedere se il rigattiere era giunto. Non tardò molto a venire. Comperai da quello tutto ciò che credeva poter occorrere in quel momento, e tornai nella stanza mia, dove trovai quello sventurato in un altro aspetto. S’era non solo lavato, ma sbarbato, e, quando gli diedi il rimanente de’ vestiti che portati avea il rigattiere, non so dire veracemente se la sua contentezza fosse maggiore o la mia. Feci portare diversi cibi e diversi liquori, e lo pregai di sedere, mangiare e bere con me. Cominciò piú volte a parlare; ma egli era oppresso talmente da sentimenti di piacere, di maraviglia e di gratitudine, che non potè finire per molto tempo la frase incominciata. Dopo alcun tempo però prese ardire, e, pigliandomi per la mano, volle per forza imprimervi un bacio, e gridò piangendo dirottamente: — La mia sorella è morta: ah, fosse ella qui a veder e conoscere quel c’ha perduto! — Lo scongiurai di cangiar discorso e di dirmi per qual disgrazia o per quale accidente egli era ridotto a quella deplorabile miseria. Parlò allora cosi. — Voi capite, signore, di qual famiglia son io. — Egli era fuor d’ogni dubbio d’una delle piú antiche e nobili di Venezia. — Sapete che usciron da questa dogi, procuratori di San Marco, generali d’armate, prelati conspicui e magistrati di altissima» grido. Mio zio era inquisitore di Stato, e mio avolo ambasciatore a Costantinopoli. Ma nessuno de" miei fu mai ricco, e tutto quello, che avevano, veniva dagli uffici che esercitavan nella repubblica. Quando la repubblica cadde, piú di trecento famiglie, che dalla sorgente medesima traevano la lor principale sussistenza, caddero, al par della mia, nell’indigenza e neH’umiliazion che vedete, lo sto peggio di tutti gli altri, perché nella mia gioventú fui vizioso, scapestrato e poco instruito; e quindi mi trovo con una moglie bella ed onesta, quattro figli ed una sorella da mantenere, senza mestiero, senza talenti, senza ripieghi; e, se non fosse la caritá della buona gente e quella sportella, con cui guadagno ora due, ora tre lire al giorno, si morrebbe di fame. Per caritá, signor Lorenzo, partite presto da questa cittá! Un uomo da bene, come voi siete, non potrebbe rimanervi gran tempo senza pericolo. Questa non è piú quella Venezia che voi vedeste. Una volta tremavasi al nome d’inquisitore di Stato: ora si trema a quello di soldato; e, dove un veneziano avea tre padroni sul dosso, or n’ha trentamila, e non con un zecchino in fronte e con un bastone in manosi, ma con baionette e fucili. Siam circondati (1) Il ministro degli inquisitori avea ex officio una berretta rossa con un zecchino, dove eravi l’impronta di San Marco, e, quando si mettea in testa quella berretta, bastava perché tutti, dal piú grande al piú piccolo, l’ubbidissero. inoltre da masnade di genti, che per timore e per odio distrussero ogni commercio, annientarono le manifatture, raddoppiarono in infinito i bisogni, tolsero tutti i mezzi, crearono mille opinioni, mille interessi, mille partiti diversi e condussero tra’ cittadini le rivalitá, il rancore, le nemicizie, la malafede e la misera necessitá di far di tutto per vivere.
Per colmo de’ mali, la sana e robusta gioventú, che potrebbe coll’industria e colla fatica assistere le famiglie, appena capace di portar l’armi è obbligata di correre e di morire alle baracche, dove se le insegna a combattere lontano dal l’adorata sua patria. Quelli, che rimangon con noi, sono le donne, i fanciulli, gl’infermi ed i vecchi; e che si fa per mantenerli? Quel che fo io, e qualche volta molto di peggio. Ecco Venezia ! — Mentre ei parlava, gli balenava in tutta la faccia un tal foco di risentimento, d’indegnazione, di veritá, ch’io non vedeva piu in lui il giocatore di faraone dall’«Eccellenza, si» ed «Eccellenza, no», o il cencioso mendico dalla sportella di pesce; ma mi parea di vedere e d’udire in lui un Davide o un Geremia, che versasse lagrime od ergesse lamentazioni sulle ruine di Babelle o di Gerosoliina. Io non aveva mai immaginato che costui possedesse una tal acutezza d’ingegno, un si giusto criterio ed un sentimento si nobile e delicato ; ma vexalio dal mtellcctum. Rimase piú di due ore con me, gli feci con dolce forza accettare in dono alcuni zecchini (credo dodici), e parti caricandomi di benedizioni e di ringraziamenti. Non seppi piu nulla di lui Se i detti di questo nobile sventurato mi squarciassero il core, lo pensi chi legge. Da quanti pensieri e riflessi non fu agitato allora il mio cuore, acceso come fui sempre d’ardentissimo amore per una patria, che, a dispetto de’ torti fattimi, io riguardava come la piú chiara, la piú illustre e la piú famosa del mondo, o si ricorra alla sua origine o si esamini il suo incremento, le sue leggi primitive, le sue vittorie, la sua forma e situazione ed i suoi monumenti, o si consideri finalmente il carattere de’suoi abitatori, che «boni Veneti» fin da’primi tempi della lor esistenza nazionale chiamati da’ principi e dalle nazioni b), boni non solamente, ma cortesi, ospitali, umani e caritatevoli conservaronsi, ad onta del lusso e de’ vizi introdottivi dal commercio e dalle ricchezze immense che accumularono, e ancora piu dal tempo, che tutte cose guasta e distrugge. Le miserie di quel paese mi straziavano il cuore, mi disperavano. Io prevedeva inoltre che i mali suoi col tempo s’aumenterebbero a dismisura. Mentr’io stava immerso in questi tristi pensieri, sento alcuno che picchia la porta della mia camera. Apro, e mi s’affaccia un giovanotto di vaga apparenza, che con bel garbo domandami se volea farmi pettinare o sbarbare. La sua urbanitá mi piacque, e, quantunque non mi occorresse né l’una né l’altra cosa, gli dissi d’entrare e gli commisi ili radermi. Mentr’egli affilava i rasoi, gli chiesi come andavano le cose in Venezia. — Come va le cosse, la me domanda? — E qui depose il rasoio.
— E come vorla che le vaga, cara Eia, con questa xente che no ne capisse, né nu capimo? che se tiol tuto quelo che avemo, che no ispende un soldo che li pica, e che, se se lamentemo, i ne bastona? — E i francesi — soggiunsi io allora, — come vi trattavano quando stavano in Venezia? — 1 francesi, i francesi! Oh! Dio li benediga dove che i xe. Dio li fazza tornar presto in questa cittá. Almanco capivimo qualche parola de quel che i diseva; li vedevano rider, scherzar, star aiegri; se i sugava le borse dei richi, i spendeva generosamente coi poveri, coi boteghieri e coi artesani; e le done, la me creda, ghe voleva piú ben ai francesi che a una gran parte dei veneziani. — Riprese allora il rasoio, m’accostò l’asciugamani e il bacile al mento e cominciò il suo lavoro. Dopo aver taciuto pochi minuti, mi domandò se mi piacevano i versi. — Un poco! — risposi. — Se mel recordo — ripigliò egli, — vogio rccitarghe un soneto che la fará rider. — È vero, mi fece ridere. Mi recitò de’ versi da barbiere, ma non simili a quelli del Burchiello. (1) Quando insorgea alcuna querela o controversia tra le nazioni: — Eamus ad bonos yme ics — dicevano, per essere da lor giudicati. Tuttavia ne recitò due, che son degnissimi, a mio credere, d’esser letti, e ch’io ritenni e riterrò sempre nella memoria: Napoleon nell’Adria entrò coi galli, ma prese al suo partir quattro cavalli.
Questa doppia allusione, del nome della nazione francese e de’ quattro cavalli di bronzo portati via da Venezia, mi parve spiritosissima, e in veritá tutto quello, ch’ei dissemi, mi diverti sommamente ed alleggerí - in qualche parte la mia tristezza. Quando fini di radermi e di pettinarmi gli offersi una piastra; ma egli, credendo ch’io gii chiedessi cambio di quella moneta per dargli poi il prezzo solito di pochi solili: — Per san Marco! — gridò ridendo — dove vorla che trova diesi lire per darghe cambio?
No guadagno diese lire in quindese zorni ! — Come? — soggiunsi. — Non si radon piú la barba a Venezia? — Sior si
— replicò egli — i se rasa una volta per setimana; e i ve paga do soldi, o i ve dise: — ve pagarò domati, — e questo doman noi vien piú. — Gli dissi allora ch’io gli regalava quella moneta pel tempo che avea perduto con me e pe’ be’ versi che m’aveva recitati. È difficile imaginare la sua sorpresa e la sua consolazione. Io non poteva piú fargli lasciar la mia camera: • alfin parti, ed io ricaddi novellamente nelle mie dolorose meditazioni. E, sebben la dolcezza da me pruovata nell’esercitare degli atti di umanitá e di beneficenza temperasse alcun poco l’amarezza che m’opprimeva alla vista di miserie si straordinarie, in cui immersa era la patria mia, nulladimeno risolsi sul fatto di non rimanere piú di quel giorno a Venezia.
Io era sul punto d’uscir di casa per andare a fare alcune altre visite, quando entrar vidi da me, con mia somma sorpresa, i due sposi riconciliati. Dopo una breve conversazione di cerimonia, gl’invitai a rimaner a pranzo con me, ed essi accettaron l’invito. Tra le vivande e i bicchieri mi narrarono entrambi delle storielle, da cui veramente rimasi commosso. Quel Doria, di cui poco prima parlai, n’era il principale soggetto. Non vuol la decenza né la delicatezza mia che io ardisca narrarle. Dirò solamente come dopo poche parole intesi che colui era cavalier servente attuale di quella donna; che, appena mi vide in Venezia, divenne furente per gelosia ed assicurò tanto la moglie che il marito che io non rimarrei gran tempo in quella cittá. Ripetendomi allora le cose udite dal cercantino, non dubitai che non fosse assai facile a costui di riuscire nel suo malnato disegno; e, se l’ora non fosse stata giá tanto avanzata, sarei partito sul fatto da un misero paese, dove nemmeno il piú onesto ed innocente uomo del mondo potea piú tenersi sicuro. Rimasero con me qualche tempo e sarebbero rimasti forse fino alla notte; ma, vedendo ch’io stava pensieroso e poco parlava, mi chiesero la libertá di partire. Gli accompagnai fino alla scala, dove essa, nel porgermi la mano con un addio di partenza, mise cautamente nella mia una lettera, che conteneva queste parole:
Dopo venti anni di lontananza vi ho veduto ancora una volta, o mio veneratissimo benefattore, salvatore ed amico. Permettete eh’ io vi renda le piú vive e distinte grazie del favore che mi faceste ; favore che aggiungerá mille nuovi sentimenti di gratitudine e d’affezione a quelli ch’io giá nudriva per voi. V’ho veduto, mi pare che siate felice, non domando di piú. Partite, signor Da Ponte, partite subito da questa cittá, che non fu mai, e molto meno e adesso degna di voi. Oltre il pericolo che vi sovrasta, fermandovi qui, per P insidie d’un traditore geloso di voi, sareste sforzato a veder cose nella mia propria casa da farvi fremere e inorridire, senza poter rimediarvi. Il maladetto Doria è il tiranno mio. Egli ha i voti di tutta la famiglia, egli ha quelli della sua moglie, egli ha quelli di mio marito. Parte per bisogno, parte per iniquitá, ei m’ha venduta al piú inumano di tutti gli uomini della terra, ch’io odio piú che la morte e che devo tinger d’amare, per non lasciar di nuovo i miei figli e per non morir di fame con essi. Voi dovete aver veduto in casa mia... Egli e il padre... Ah! partite, signor Da Ponte, e ricordatevi della povera Angioletta.
Conveniva aver un’anima di sasso per non bagnar di qualche lagrima questa lettera. Ma io vedeva assai bene ch’altro non avrei potuto fare che dar a lei delle lagrime. Rimasi nella locanda fin dopo le sette. Uscii allora di casa, andai ad un caffè, indi al teatro dell’opera. Ma si ingombra era la mente mia d’idee tristi e di neri presentimenti, che non udii una parola o una nota di quello che si recitava o cantava. Verso l’ultima scena una voce, che mi parea di conoscere, gridò dalla loggia alla mia vicina: — Da Ponte! Da Ponte! — Mi volsi e vidi e riconobbi con mio infinito contento l’abate Artusi, amico mio di molt’anni, uomo ornato di talento, di spirito e di cognizioni, non ultimo de’ buoni poeti e primo tra gli ottimi cittadini. Egli era entrato in quella loggia un momento prima per trovare un amico. Nel voltarsi, mi vide, mi riconobbe, corse ad abbracciarmi, e, finita l’opera, usci con me dal teatro e m’accompagnò alla locanda. Quando arrivammo alla porta di quella, vedemmo due persone appostate, una delle quali s’allontanò, ma non tanto presto ch’io non riconoscessi Gabriel Doria. L’altra, facendomisi vicina, mi chiese s’io era il signor Lorenzo Da Ponte, e quando risposi esser quello il mio nome: — Signor Da Ponte
— mi disse, — ho qualche cosa da dirle. — Andai senza rispondere nella mia camera: mi seguitò, e l’abate fece lo stesso. Quando fummo nella stanza, trasse una carta di tasca e lesse : «D’ordine di Sua Maestá imperiale e reale, il signor Lorenzo Da Ponte si contenterá di lasciare Venezia domani, prima di sera». Gli domandai se m’era permesso di chiedere qual fosse il suo nome o l’uffizio suo, ed ei mi rispose ch’era un messaggiero di Sua Maestá imperiale e reale, al magistrato della pulizia. Mi domandò se doveva mostrarmi le sue credenziali; ma l’amico Artusi, che conoscevalo, mi fece un cenno ch’io ben intesi, e soggiunsi che questo non occorreva, ma ch’io 10 pregava d’assicurare tanto Sua Maestá imperiai e reale che 11 signor magistrato alla pulizia che i raggi del nuovo sole non mi ve Irebbero in Venezia.
Quand’egli parti, mi misi a rider si forte, che 1 oste entrò nella stanza mia, per dirmi pian piano che il signor Gabriello era nella camera contigua col messaggiero di Sua Maestá imperiale reale al magistrato della puiizia, e che forse il mio riso potrebbe esser considerato un disprezzo. Lo ringraziai dell’avviso, lo pregai di portarmi da cena, e mi misi a parlar di teatro col buon Artusi. Uscimmo dopo la cena, e, quando poi fummo soli, mi narrò cose di quel paese, che accrebbero a dismisura la voglia ch’io avea di partire 0).
Non volli però andarmene senza qualche picciola vendetta La moglie del capitano Williams, valoroso inglese, e caro all’imperatore, che fatto l’avea comandante d’una flottiglia, era intrinseca amica della mia sposa. Egli stesso mi conosceva e avea molta amicizia per me. Non era allora, per disgrazia, a Venezia, ma s’aspettava di giorno in giorno. Scrissi e lasciai all’amico la seguente lettera per lui.
8 novembre. Stimatissimo signore, io son venuto colla mia Nanci in Itali?
per vedere mio padre, e a Venezia per adempiere certe commissioni datemi dall’impresario del teatro di Londra. Rimasi due soli giorni in questa cittá, vidi pochi amici e sperava di poter fermarmivi alcuni altri giorni per veder lei. Ma in questo momento (dodici della notte) un ufficiale della pulizia mi portò un ordine di Sua Maestá imperiale reale (che sta a Vienna) di lasciar prima di domani a sera Venezia. Vuol Ella al suo ritorno cercar un po’ addentro di questo affare, e dar si a me che alla sposa mia un nuovo segno della sua protezione e amicizia? Il suo devotissimo servitore L. Da Ponte.
Si vedrá tra poco come fui solennemente vendicato da quell’onoratissimo inglese. La domane, prima che sorgesse l’aurora, lasciai Venezia. Presi una gondola per Fusina e andai a Padova. Appena arrivatovi, udii non senza gran pena che una rottura aspettavasi d’ora in ora tra Parme imperiali e francesi in que’ contorni. L’armate non eran divise che da Verona, e, in caso d’una rottura, il mio passaggio si sarebbe reso diffícilissimo. Risolsi dunque sul fatto di non andar piú a Ceneda io stesso, (1) Il mio cortesissimo encomiatore fiorentino (Montani) non trovò niente di bello e di lieto in queste storie. Quanto al niente di lieto, purtroppo è vero; ma, quanto al niente di bello, si piange. La cagione però del pianto è tanto bella per un onoralo veneziano quanto la caduta di Gerosolitna per un israelita per timor d’esservi da’ miei trattenuto, ma, inviandovi un messo per le poste, vi richiamai senza indugi la donna mia e disegnai di prender con essa la via di Bologna. Eravamo appena montati nella carrozza, quando udimmo gridare per varie parti. — Hall! Hall! — Si fermò subito il cocchiere, e due soldati tedeschi con un uffiziale pure tedesco s’affacciarono alla finestrella della car rozza per riesaminare i nostri passaporti, che poco prima avevamo ottenuti. Quando li consegnai all’ufhziale, li guardò, e diede ordine al cocchiere di seguitarlo Fermossi alla porta d’un pubblico uffízio, e ci commise di entrarvi.
Cotn’io era abbastanza conosciuto in quella cittá, cosi non fu a me che volsero le loro osservazioni. Ma, avendo udito parlar della mia compagna come di giovane di qualche amabilitá e di un certo spirito e brio, vi fu alcuno che sospettò esser essa una spia de’ francesi, particolarmente perché avevano udito dire che parlava diverse lingue. Difatti cominciarono a esaminarla, uno le parlava in francese, un altro in italiano, ed ella rispondeva a ciascuno nella lingua in cui le parlava.
— Questa signorina — disse uno d’essi ironicamente — è molto dotta in diverse favelle! — Oh signore — soggiunse ella — io ne parlo dell’altre, e tra queste la mia. — Di che nazione è Ella, signora?— Io sono inglese, signore! E parlo francese, perché sono stata alcun tempo in Francia; tedesco, perché mio padre ebbe a Dresda i natali; olandese, perché vissi in Olanda alcun tempo; e italiano, perché è la lingua del mio consorte. — Eran sul punto di farle dell’altre questioni, quando entrò in quella stanza il generai Klebeck, che conosceva benissimo e me e l’opere da me fatte a Vienna. Corse subito a me, mi diede la mano e domandommi di che trattavasi. Gli narrai in breve la cosa; e quel bravo signore, da’cui comandi dipendea quell’uffizio, ordinò che ci lasciasser partire, e aggiunse di proprio pugno de’ titoli onorevolissimi e delle vive raccomandazioni al nostro passaporto.
Partii allora da Padova, e m’avviai a Bologna, eh’è la citta ordinariamente ove tutti i teatri d’Europa trovano un fondaco di cantanti, di ballerini e di musici d’ogni genere. Passando per Ferrara mi vi fermai alcuni giorni per gioir della compagnia del mio antico protettore ed amico Giorgio Pisani, che aveva ottenuta la libertá. Mi vide egli veracemente con trasporto di giubilo, ma pari al suo non fu il mio nel riveder lui.
Le disgrazie, la prigionia di tanti anni, la caduta della repubblica e le peripezie della sua famiglia l’aveano per tal modo cambiato, ch’ei non pareva piú il saggio, il sapiente cittadino della repubblica, ma un furente, un disperato revoluzionario. Lo vidi però sovente, conobbi per lui tutta ruffizialitá francese e i primi signori di qui Ila cittá, da cui fui festeggiato e onorato, parte per favor del Pisani e parte pel piacere che vi faceano le mie opere, che anche in quel magnifico teatro da molli anni rappresentavansi. Voleva il Pisani chi’ io mi fermassi in Ferrara, e avea in vista di farmi dichiarare poeta della allor repubblica cisalpina; ma io mi credeva felice in Inghilterra, non avea molta fede nella permanenza di quella repubblica, e ancor meno nel giudizio del povero Pisani, ch’io udii una volta aringare il popolo, ma che non osai udir la seconda. Tutta diversa fu la cosa con Ugo Foscolo, giovane fin d’allora d’altissime speranze, ch’io udii varie volte parlare pubblicamente in Bologna, con maraviglioso diletto. Il suo dire era pieno di foco, di veritá, di energia; il suo stile vago ed ornato; purgatissima la sua lingua, e le sue imagini vive, nobili e luminose. Ebbi vaghezza di conoscerlo e di conversare con lui. Mi fece gentilmente piú visite, ed io profetizzai con baldanza qual figura farebbe un giorno tra i primi letterati e poeti del suo secolo e dell’Italia. Ei deve essersi ricordato di me almen per qualche anno, dopo l’ultima visita ch’ei mi fece a Ferrara b). Io mi ricordai sempre e mi ricordo ancora ogni giorno di lui, quando leggo le incomparabili Lettere di Iacopo Ortis, e forse piú ancora i suoi Sepolcri, egli altri divini suoi versi, ch’io solo ebbi la gloria di far conoscere, ammirare e gustare a’ piú svegliati spiriti (1) Ebbe vaghezza Ugo Foscolo di alcune camice di tela finissima, che vide nelle mie stanze: ecco perché mi parve che dovesse almen per qualche anno ricordarsi di me. di questa illustre e (mi sia permesso dirlo a mio vanto) da me solo italianizzata cittá.
Passai deliziosamente piú giorni con questo nobile letterato e con alcuni altri colti e gentili personaggi di Bologna. Io avea quasi dimenticata la mia principale missione, qual chi per buon soggiorno obblia il viaggio; ma una lettera capitatami da Londra, che mi annunziava tra l’altre cose la riconciliazione della Banti e di Federici, mi scosse subito da quel piacevole sopore e mi fece pensar seriamente a’ veri interessi di Taylor. Come non v’era alcuna cantante di grido in Bologna, risolsi immediatamente d’andar a Firenze.
Oltre al bisogno ch’io aveva d’andarvi per faccende teatrali, io n’era spinto gagliardamente da un vivissimo desiderio di vedere quella famosa e da me non pria veduta cittá. Il freddo era eccessivo, ed io non osai pigliare meco la mia consorte.
Corsi aU’uffizio della posta, per vedere se v’era occasione per Firenze. Mi fu risposto che poteva partire sul fatto, se non mi dispiacea che una donna venisse meco. Il padrone della posta mostrommi allor una giovane d’apparenze gentili, vestita con decente semplicitá e quasi avvenente. Mi parve un poco strano che una donna tale viaggiasse cosi ; ma, un poco per curiositá di sapere chi fosse, un poco per non perder tempo, accettai la sua compagnia.
Partimmo da Bologna verso le quattro pomeridiane, e per ben due ore né ella parlò a me, né io a lei. Fu essa la prima a rompere il silenzio; e fúr questi i suoi primi detti.
— Ho un gran sonno! — Anch’io in veritá — replicai. Tacemmo entrambi per molti minuti. Ruppe novellamente il silenzio, per dirmi che non poteva dormire. — Nemraen io — dissi allora. — Non vorrebbe che cianciassimo un pocolino? — soggiunse ella allora. — Molto volentieri, madama. Dialoghktto bizzarro.
— Di che paese è lei, mio signore?
— Veneziano, per servirla.
— Ed io sono fiorentina.
— Due bei paesi.
— I piú belli di tutta l’Italia. Io sono stata molte volte a Venezia È bella. Ma Firenze! Ci vuol altro per agguagliare Firenze! Vi è stata lei a Firenze?
— Signora no ; non ci sono mai stato.
— Vedrá, vedrá che paradiso! Le donne poi!... Son tanti angioletti. Le piacciono le belle donne?
— Quanto è permesso a un uomo della mia etá, che ha giá una moglie.
— Lei ha una moglie?
— Si, ho una moglie; ed è quella che vide alla porta del mio albergo, dove montammo in carrozza.
— Quella giovine? Quella, sua moglie?
— Quella, mia moglie!
— Mi perdoni, ma io l’ho creduta sua figlia. Bravo! È di buon gusto. Ma è sua moglie veramente?
— Come! V’hanno delle mogli veramente e dell’altre mogli non veramente?
— Oh ! avrebbe potuto essere la sua dama, ed Ella il suo cavalier servente.
— Scusi, madama. Mia moglie non è italiana, ma nacque in Inghilterra.
— Non hanno serventi le inglesi?
— No, non hanno serventi.
— Quanto le compiango !
— Per qual ragione?
— Perché un cavalier servente è la piú dolce bestia del mondo.
— Mi par che un marito, che soffralo, è una bestia molto piú dolce. È maritata, signora?
Lo fui, ma, grazie al cielo, noi sono piú. La morte me ne ha liberata in sei mesi.
— Una donna del suo merito troverá presto un altro marito.
— Io, un altro marito? Signore, questa è una pillola che si può inghiottir una volta, ma non due, da una femina ch’abbia un’oncia di cervello.
— Avrá dunque de’ cavalieri serventi.
— Ne ho avuto, e spero d’averne ancora; ma adesso, in veritá, sono senza del tutto. Vuol lei farmi da servente fino a Fiorenza?
— Madama, non ci avrei grazia.
— Io sarò la sua maestra, e l’assicuro che, se comincia, ci troverá gusto.
— lo non ho voglia, madama, di diventar quella dolce bestia... che piace tanto a madama. — Eravamo a questo punto della nostra conversazione, quando udimmo gridare in qualche distanza: — Ferma! ferma! — Erano due giovinotti, che chiedean se non v’era un posto per essi nel calessino, per venir con noi sino a Pietramala; ed io, che bramava molto di non trovarmi piú solo con quella donna, non sol condiscesi, ma pregai il cocchiere di prenderli, giacché loco eravi anche per essi; il che volentieri egli fece per un certo prezzo accordatogli. La scena cangiò sul fatto. Non pensò piú madamina a far suo cavaher servente un uom ch’avea passati i cinquantanni ; volse i suoi vezzi e la sua civetteria a’due giovinotti, abbastanza esperti in quell’arte, e, prima che giugnessimo a Pietramala, la loro domestichezza era si avanzata, che si sarebbero presi da ognuno per amici familiari ed antichi. Cenammo insieme la sera, e la mattina mi fecero tutti e tre la buona grazia di lasciarmi partire tutto solo nel mio calessino da quattro posti, ove ebbi tutta la comoditá di far delle riflessioni morali su questa bagattelluccia.
Un pensiero tra gli altri occupò la mia mente. — Se un di quei viaggiatori — diceva io — c’ hanno tanta parzialitá, tenerezza e caritá pelosa per l’onore dell’ Italia, incontrato avesse per avventura una siinil femina ne’ suoi viaggi, che cosa avrebbe egli scritto, nelle sue relazioni instruttive, delle donne il’Italia? — Chiunque lesse Smollet, Sass o qualche altro viaggiatore di simil conio, può indovinar facilmente quel che costui avrebbe detto. Per me non ne dirò niente, né farò alcun lungo comento a questa sto riella, lasciandone il doppio carico a chi leggerá queste pagine Dirò solamente che per una pazzarella, che si dicea fiorentina, e ch’io avrei tolta piuttosto per una femmina di Porcile, di Pietramala o d’altro simil loco di Toscana, cento e cento ve n’hanno in quella cittá, che per gentilezza, per grazie di spirito e per tutti que’ pregi e quelle virtú che adornano sopra tutto il lor sesso, gareggiar possono senza timore colle piú colte e amabili donne del mondo. Io l’ho trovate ospitali senza ostentazione, instrutte senza pedanteria, affabili senza bassezza, vivaci senza ciarlataneria, cortesi senza immodestia, manierose senza affettazione; aggiungasi a queste pregevoli qualitá lo zucchero d’uti parlar che nell’anima si sente; e non si desideri poi di vivere e morire a Firenze!
Non ho potuto trattenermi che pochi giorni in quella cittá; ma quello, che vidi in fatto di fabbriche, di giardini, di pitture, di statue e di monumenti d’antichitá, mi dilettò sommamente, e mi diede molto dolore di dover partire si tosto. Quello, che mi colpi sopra tutto, fu la maniera di conversare praticata da una gran parte delle piú illustri dame di Firenze. Fui introdotto una sera nella conversazione d’una delle prime matrone. Accoppiava questa alla nobiltá del sangue tutte le grazie d’uno spirito coltivato e naturalmente sublime. Era vedova, ricca, giovane e bella. La sua casa era sempre aperta a tutti i forestieri di un carattere distinto, ma, insieme con questi e con principi, duchi e pari di tutte le parti del mondo, ammesse v’erano, festeggiate e onorate tutte le persone di talento, particolarmente poeti, pittori, scultori, antiquari, medici ed avvocati,ecc. La musica non era ammessa che una volta per settimana, tranne in occasioni particolari ed alla prima presentazione di qualche professore eminente; la danza non era permessa che una volta al mese. Si parlava di politica raramente, e il gioco eravi del tutto sbandito. Il soggetto principale di quelle assemblee era la letteratura. Vi si leggevan tutte le sere delle poesie, delle dotte dissertazioni, de’discorsi piacevoli, e due o tre volte per settimana vi si recitavan delle commedie o delle tragedie. I personaggi, tanto uomini che donne, si traevano a sorte. Non potendo oppormi al costume, dovetti consentire che il mio nome fosse con quello degli altri messo nell’urna, e mi toccò legger la parte d’Aristodemo nella bellissima tragedia di Monti. La seconda sera fui invitato a legger qualche poesia da me composta, e lessi il mio ditirambo Sugli odori , che parve esser applaudito. La terza sera udii con infinito diletto recitarsi il Saul d’Alfieri. Rimasi stordito Non era però da maravigliarsi. Tutti quelli, che recitaron quella tragedia, erano stati allievi di quel gran poeta nel declamare.
Io diceva allor fra me stesso: — Se fossero qui quelle damine inglesi, che consumano tanto tempo in menar le calcagna e le gambe al cattivo suono talvolta d’un pessimo violino, qual idea formerebbero delle donne d’Italia e che direbbero di se stesse? — Quel, ch’io diceva allora tra me delle inglesi, potrei osare presentemente, pieno di rispetto e di riverenza, dirlo all’orecchio a’ prediletti americani? E, per stringermi a un piccolissimo numero, potrei chiedere per qual ragione queste tanto a me care giovinette, ch’ebbi ed ho la dolce ed onorata incombenza d’instruire nella bella lingua dell’Arno, e che leggono con tanta dilettazione e con tanta grazia le deliziosissime opere de’ nostri poeti, non hanno la permissione di dar pruove del loro spirito e delle cure del loro institutore, col recitare qualche volta a uno scelto numero d’amici queste opere stesse che tanto pregiano? Non si permette a queste sonar e cantare pubblicamente? Non si permette loro danzare? E perché non leggere? Ho fatto il quesito: senza aspettar la risposta, torno a Firenze. Dopo aver veduto con mia gran doglia che nenimen in quella cittá non v’erano soggetti che convenissero al teatro di Londra, decisi di tornar a Bologna. Il mio viaggio fu piú ridicolo che disgraziato. Il freddo era eccessivo e la neve altissima per tutto il cammino. Partii la notte con un vetturino, che aveva un cattivo calesso e due pessimi cavalli; ma fu il solo che per un prezzo esorbitante s’offerse di condurmi fino a Bologna, e, come si seguitava a parlare d’una eminente rottura tra Tarmate, cosi m’affrettai a partire a rischio di tutto. Prima d’arrivare a Pietramala, il mio legno si ribaltò, mentr’io dormiva saporitissimamente; onde io mi trovai, allo svegliarmi, in un tenerissimo letto di neve, per veritá un poco troppo freddo, e col calessino addosso in loco di coperte, senza mezzo alcuno di uscirne. Era di notte, ma per buona ventura il cielo era serenissimo e splendeva la luna. Il mio auriga, vedendo il pericolo in cui io era, Non cadde no, precipitò di sella e, con un «affé di dua!» (») che gli veniva dal core, tagliò i tiratori del cocchio con maravigliosa prestezza, affine che il movimento de’ cavalli non mi soffocasse, e, confortandomi alla pazienza, corse a una casuccia poco distante per qualche assistenza, e, tornando in pochi minuti, coll’aiuto di due contadini gli venne fatto di trarmi illeso, ma interizzilo e battendo la diana, da quella bolgia nevosa. Mi portarono a Pietramala piú morto che vivo, dove la cortese ostessina, che mi riconobbe, mi pose subito in un buon letto, e, dopo avermi strofinato con della neve le gambe e le braccia per ben mezz’ora, mi fece bere dell’ouimo via di Chianti e due o tre bicchierini d’alehermcs, liquore squisito e di virtú prodigiosa, che non si fa che a Firenze, e in men di tre ore mi trovai in istato di ripartire. Ma il mio vetturino era ito a letto e aveva lasciato ordine all’oste di dirmi che il suo calesse ed i suoi cavalli non avrebbero potuto condurmi a Bologna senza pericolo, ch’io gli dessi quel che credeva giusto ed onesto pel viaggio fatto, e che mi provvedessi d’altra vettura.
Consigliommi allor l’oste di pigliar due cavalli, uno per me e l’altro per una guida che m’accompagnasse fino a Bologna, e al sorger del sole partii avendomi l’oste stesso somministrati i cavalli e la guida. La bestia, ch’io cavalcava, non era piú grande d’un somare-ilo, ma docile e forte; sicché arrivai felicemente a Bologna verso la sera. Andai il di seguente da certo Tamburini, sensale famoso a que’ tempi, che provvedea di soggetti quasi tutti i teatri (l’Europa, e impegnai PAllcgranti e Damiani, due cantanti di primo ordine e i soli che mi riuscí (1) Spezie di giuramento ch’usano i fiorentini. di trovare disimpegnati in Italia. Il remore frattanto d’una rinnovazione di guerra tra gl’ imperiali e i francesi cresceva ogni giorno di piú in piú; onde pensai di partire per Londra senz’altri indugi, e l’Allegranti fu lieta di partir meco col marito ed un figlio. Lasciammo Bologna verso la fine di dicembre, e arrivammo felicemente il primo di gennaio ad Augusta. Ivi trovammo il capitano Williams, quel medesimo di cui feci menzione quando partii da Venezia. Fummo accolti da lui co’ maggiori segni di sincera amicizia, c, dopo le prime accoglienze:
— Da Ponte — mi disse — v’ ho vendicato. Colui, che arbitrariamente vi fece partir da Venezia, ha perduto per mio mezzo l’impiego, e lo spione Doria ha dovuto lasciare la carica. — Volle a ogni modo che ci fermassimo un paio di giorni ad Augusta, ma la sua ospitalitá fu quasi cagione di ruine irreparabili. Il figlio della Bariti, che non era ancor giunto all’anno duodecimo, e un giovinetto di pari etá, ch’era meco, per un fanciullesco capriccio, mentre eravamo a pranzo con Williams, partirono dall’albergo dove fatti restare gli avevamo, e, pigliando molti effetti di valore, presero la fuga. Non fu che dopo molte ricerche, fatte da alcuni soldati spediti dal signor Williams, che ci fu possibile ritrovarli nella casa d’un contadino, che lor diede ricovero per una notte in grazia di molte favole che gli raccontarono. E cosi quella fuga non ebbe altra cattiva conseguenza che quella di ritardare un poco il nostro viaggio.
Proseguimmo allor il nostro cammino senza alcun disastro non solo, ma in perfetta armonia; finché arrivammo a un villaggio tedesco non molto distante da Brunswick che era stato bruciato alcun tempo prima da’ francesi, in cui non v’erano che poche case ed una sola osteria. Essendo vicina la notte, fummo obbligali fermarvisi, quantunque avesse l’aria d’una bicocca e nessuna delle camere avesse ancora le invetriate alle finestre. La sola camera a pianterreno e la contigua cucina erano abitabili. V’entrammo cogli altri, e dopo un breve tempo chiedemmo da cena. Ci domandò la padrona che cosa volevamo, ed io risposi:
— Del brodo, se ne avete. — Di carne? — replicò quella. — Si, di carne o di pollo, se piú vi piace. — Carne di venerdi? — gridò quella donna furiosamente. — Fuori di questa casa, eretici maledetti! — Il marito di questa femmina, considerato lo stato delle donne e quello della mia specialmente, procurò di placarla, ma invano. Prese con sé le chiavi delle camere e se n’andò fuori di casa ella ctessa. Per buona sorte lasciò le chiavi della dispensa, e l’oste, scrupoloso a metá, le consegnò alla mia donna e la consigliò di servirsi. Si cenò; ma, quando pregammo di darci de’ letti, c’informò che la moglie sua partita era dopo aver chiuse le camere e portate seco le chiavi. Risolvemmo allora di porre le donne e i fan iulli nelle carrozze, ed io col signor Harrison (tale era il nome del marito di quella virtuosa) ci stendemmo sul fieno presso i cavalli, in una spezie di stalla. Ma il freddo, da eu : non ri p ,tevamo difendere nemtncn con do; pi mantelli-, e l’immensa quantitá di ratti i un’enorme grandezza, che ci cominciavano a rosicchiar gii stivali, ci obbligarono a ritornare nell’osteria, dove il vario odore di trenta e piú fiati, riscaldati da una grande stufa di ferro abbronzita, mancò poco che non ci soffocasse. Queste respirazioni eran accompagnate dalla sollazzevole musica di semifischi di boccile e di nasi, che a guisa di coro russavano, ed erano queste di persone che dormivano su varie tavole, da tutte le parti di quella stanza, sostenute da corde, e queste tavole cosi cariche ci pendevan diritte sul capo, con rischio continuo ed eminente di caderci addosso e di fracassarci.
Sul fare del giorno partimmo e arrivammo salvi fino ad Arburgo. L’armonia e la concordia però, che conservossi mutualmente fino allora, cominciò da quel momento ad intorbidarsi. Osservai che, per lo spazio di sette o otto eiorni, nel giungere alle locande il signor Harrison, che avea piú fumo che senno nella testa balzana, cercava di tratto in tratto occasioni di liti. Tacqui per aver pace, ma vedremo tra poco qual fu la fine di questo suo strano capriccio Dopo esserci fermati due giorni ad Arburgo, chiedemmo di passar l’Elba: ci dissero ch’era gelata, ma che si potca viaggiare sul ghiaccio fino ad Amburgo. Vedendo molte altre persone ciò fare, risolvemmo di farlo anche noi; benché pochi di prima, il ghiaccio aprendosi a un certo loco. quel fiume avesse inghiottita una carrozza a tiro sei con diversi passeggieri. Quando fummo presso a quel loco, vedemmo una parte della carrozza sporgere fuor del ghiaccio, ed è facile imaginare di qual orrore empiè gli occhi nostri quella veduta. Giungemmo tuttavia salvi ad Amburgo. Le buone locande erano piene zeppe di gente. Trovammo per somma grazia due stanze in una delle men cattive, e risolvemmo di fermarvisi.
Come la mia carrozza fu la prima a giungere, cosi fui io il primo ad entrar nell’albergo ed a vedere le camere. Ebbi la precauzione di scegliere la migliore, osservato avendo che colui scelto aveva per tutto il viaggio la migliore per sé. Quando si accorse della mia scelta, mi chiese con un’insolenza da pazzo con qual diritto il signor poeta aveva ardito ciò fare. — Con quello — risposi — che Ella, signor semi - virtuoso, ha ardito farlo finora. — Essendo colui d’una famiglia nobile d’Irlanda e una volta uffiziale nell’armata dell’imperatore, s’era per viltá e per bisogno abbassato a sposare la donna di teatro che venia meco. Una parola ne menò un’altra, e dopo una lunghissima lite mi sfidò alla pistola. M’avea giá mezzo sfidato tre o quattro volte negli ultimi otto giorni di quel viaggio. Io, parte per non atterrir la mia compagna e parte per una avversione naturale al duello, finsi fino allora di non intenderlo; ma dopo tutto mi scappò la pazienza e, prendendo nella mano una delle due pistole che in quel momento deposte avea sull’armadio:
— Animo! — gridai — prendi l’altra, vigliacco! — Le donne tremanti e piangenti si posero in mezzo; ma egli con una placidezza maravigliosa: — Non temete — soggiunse: — io non mi batto con uno che non è nobile. — Le due donne risero, ed io n’ imitai l’esempio. Con un codardo di tal genere credei che fosse meglio finirla cosi. Dopo due o tre giorni di serietá vicendevole, fu egli il primo ad offrirmi la mano, dicendo che conoscea d’aver torto, ed io diedi la mia senza renitenza.
Rimanemmo ancor un mese ad Amburgo, dove la spesa fu si enorme, che m’asciugò quasi affatto la borsa; e di mille ghinee, ch’io aveva prese con me alla partenza, non ne portai meco cinquanta, quando arrivai alla capitale dell’Inghilterra. Questa immensa spesa però né allor mi rincrebbe né mi rincrescerá in alcun tempo della mia vita, giacché tali e tanti furon i piaceri e le gioie ch’io provai in quel viaggio, che tutto l’oro dell’universo non avrebbe bastato a pagarle. Provai, è vero, tratto tratto qualche disgusto; ma quello non era che ciò ch’è un poco troppo di pepe in una vivanda squisita.
Verso la fine di febraio il ghiaccio si ruppe, e il primo di marzo p.rtimmo per Londra, e arrivammo a Dover felicemente.
Coni’io avea scritto a Taylor alcuni giorni prima, di mandarci i passaporti a quella cittá, cosi corsi subito a\Y AHeti office, per vedere se giunti erano. Chi ’l crederebbe? V’eran per tutti fuori che per me! M avevan giá scritto da Londra che Federici s’era colla Banti riconciliato, e questo bastò per farmi credere che il mio nome fosse artatamente stato ommesso nel passaporto. Come mi riusci di proseguire cogli altri il viaggio? Io aveva condotto con me dall’Italia un figlio di quella rea donna, dell’etá di undici anni, il cui nome era scritto male; ed un direttore di quell’uffizio, che eonoscevami, lesse «Ponti» in vece di «Banti», aggiungendo che per un fanciulletto di quell’etá non occorrevano passaporti. Io credo nulladimeno di aver dovuto il mio passaggio alla sua onestá piuttosto che al suo sbaglio, giacché, al mio partire da lui, mi strinse la mano e mi disse con lieto viso: — Andate, andate, signor Da Ponte! — Questo fatterello bastò a farmi antivedere tutto quello che mi doveva aspettare tanto dall’impresario che da’ suoi consiglieri, per maneggio de’ quali s’era ommesso il mio nome ne’ passaporti. Si può pensare come fui ricevuto! Un saluto freddo, poche parole, faccia tosta e sguardi ora di volpe ora di basilisco furono i dolci forieri delle mie future agonie. Non passarono tre giorni e il signor Taylor mandò per me. Mi chiese conto dell’operato e non trovò niente da disapprovare, benché Federici* detto gli avesse che l’Allegranti era troppo vecchia e Damiani un cantante di seconda classe. Dopo un secco «allwcll», venne il «bui». — Dove sono i miei conti? — La confidenza, ch’avea collocata in me per piú di tre anni tanto negli affari di teatro che ne’ suoi propri, non m’avea permesso di prendere tutte le precauzioni che si soglion pigliare generalmente in tali faccende. Fui nulladimeno abbastanza fortunato da trovar tutte le carte e tutti i documenti necessari a provargli ch’io avea maneggiata colla piú rigida esattezza per lui la somma di sei a settemila lire sterline, ch’ei non avea perduto in questa piú di cento lire oltre l’interesse legale (0, e che dopo tutto ei mi rimanea debitore di duecentocinquanta lire, ch’io aveva avanzate per lui. Coloro, che erano avvezzi a truffarlo, gli avean fatto credere ch’io fossi uno della loro schiera. Non fidandosi quindi di se medesimo, prese uno de’ suoi avvocati pel liquidamento de’ conti, e questi, sebben pieno di sospetti, trovò i miei conti si chiari, che fu obbligato di dir a Taylor in presenza mia: — Se tutti i vostri ministri fossero come il Da Ponte, le cose andrebbero molto meglio. — Il signor Taylor cominciò a fischiare, prese la penna e mi segnò un ordine per duecento e cinquanta lire, pagabili dal suo banchiere, ch’allor fortunatamente avea de’ fondi in sua mano che al suddetto Taylor appartenevano. Fatto questo, salutò me e l’avvocato e parti. Non mi parlò né poco né molto del poetato, ed io non sapeva qual conseguenza trarre dal suo silenzio.
Fermiamoci qui, ch’ora viene il buono! 11 decimo giorno di marzo, tra le sei e le sette della mattina, mentr’io giaceva tranquillamente nel coniugale mio letto e ricevea le congratulazioni della mia sposa pel mio compleanno, sento improvvisamente aprirsi la porta della mia camera, entrarvi una persona, e, senza parlare, spalancar la finestra, indi venir al mío letto, comandarmi di sorgere, di vestirmi e d’andare con lui. Prendo immediatamente una pistola, che tenea appesa vicina al letto, e con un grido terrifico gli ordino d’uscire. Vedendomi risoluto, usci, ma si piantò fuori della porta ad attendermi, e mi fece dir che aveva una citazione contra me, per una cambiale di trecento lire da me indossata M pel signor Taylor (r) Taylor ha perduto, in tre cambiali scontate dal Gallerino, duecentocinquanta sterline, e la somma non era che di settecento! (2) «Indossare» per «guarentire un pagamento» è voce adottata dall’uso, e Baretti 1 ’aminette nel suo Visionario. e non pagata da lui. Mi condusse alla sua casa, dove, per la prima volta in cinquantadue anni di vita, confinato mi vidi in una cameretta, in cui varie altre persone chiuse erano, e le finestre assicurate da grosse sbarre di ferro. Scrissi a Taylor, ma non vidi né risposta né lui per tutto quel giorno. Mi convenne star ivi la notte. La mattina però mi venne fatto di trovar due persone che dessero sicurezza per me <*), e verso le dodici uscii. Non aveva fatti che pochi passi, quando un secondo uffiziale mi presentò un’altra citazione per un’altra cambiale di quel signore; e, data sicurezza anche per quella, prima ch’arrivassi a casa mi fu presentata la terza. Di maniera che in men di ventiquattr’ore ho avuto l’onore d’esser arrestato tre /ohe pel mio degno signor impresario, che, per esser allora membro di parlamento, aveva il privilegio di non poter esser imprigionato per deb ti. Conobbi quel giorno tutto il valore d’uno de’ tre ricordi di Casanova. Questo però non fu che un preludio della strepitosissima sinfonia, clic mi suonarono dopo per piú di tre mesi la Banti, Federici, Taylor, gli usurai, gli avvocati e gli uffiziali di tutte le corti di Londra, da’ quali non fui arrestato meno di trenta volte in tre mesi pei debiti di Taylor. Io m’era alfine ridotto a non poter lasciarmi vedere in pubblico che la domenica. Si pensi qual era la vita mia! Io non potea ricorrer ad altri che a Taylor; ma non ricorsi, non preghiere, non lagrime mi servivano. Dopo aver consumato fin l’ultimo soldo per pagar le spese de’ giudici, degli uffiziali, delle locande, degli avvocati prò e contra, di carrozze, di messaggi, ecc. ecc., dopo aver dato la piú gran parte de’ mobili della mia casa a’ creditori di quell’uomo crudele, fui costretto a fallire; e credo d’aver dato il primo esempio all’Inghilterra d’un misero che falli senza dover un quattrino ad alcuna persona del mondo.
Allora fui liberato dal pericolo degli arresti ; ma che cosa (1) Non s’assicura il pagamento del debito, ma la comparsa, a certo tempo, del debitore. (2) ■«Arrestare» è usato assai propriamente. Lo sbirro arresta il debitore per forza, dovunque lo trova. mi rimaneva per vivere? Vero è che mi era riuscito di salvare la stamperia, di cui, essendo ipotecata pel medesimo Taylor, i suoi creditori non avevan potuto impadronirsene; ma le chiavi della camera ove piaceva erano nelle mani di quello ch’aveva avanzato il danaro, e non fu che piú mesi dopo, e pagando una ghinea per settimana, che ho potuto servirmene. Tutte le mie speranze, dunque, si restringevano nel salario di poeta e nella vendita de’ libri d’opera composti da me. Ma questo stesso salario dato era in ipoteca ad un mercadante, ch’aveva avanzato il danaro a Taylor; e al teatro non si rappresentavan ch’opere vecchie, perché tutto il profitto fosse di Federici, che continuava nella carica ili primo ministro di teatro e di ciamberlano secreto della Messalina filarmornica.
Fu questa l’epoca, se pur non isbaglio. che tanto Federici che Gallerini furon messi in prigione per gli indossamenti da loro posti alle cambiali dell’impresario ; e furon tutti tre abbastanza vili da implorare l’assistenza mia per essere liberati! Ma quanto essi furono vili, altrettanto fui io condannabile e stolto d’adoperarmi per due infami malvagi, ché tale in veritá era anche Gallerini, come vedremo tra poco. Caddi dunque nella mia massima favorita, sebben per me sempre fatale, di far del bene a’ nemici per la speranza di cangiarli. Ma conosco finalmente che i benefici, che si fanno agli iniqui, altro non sono che nuovi stimoli all’impunita iniquitá e nuovi incoraggiamenti all’ofTese; e che sarebbe assai piú facile smorzar un incendio coH’olio o collo spirito di vino che corregger la malizia d’uno scellerato colle beneficenze. In men di due mesi, per opera mia solamente, costoro usciron dalle carceri. E qual fu la mia ricompensa? Federici, che, al momento in cui fu libero, mi giurò eterna gratitudine ed obbligazione, corse lo stesso giorno dall’impresario e chiese ed ottenne, oltre un nuovo contratto, la solita vendita de’ libretti, in compenso de’ danni sofferti! E Gallerini, dopo avermi rubati e venduti diversi libri a un libraio, che nel rivendermeli palesato m’ha il ladro, si gittò a’miei piedi. implorò ed ottenne pietá e vita, e, pochi mesi dopo, divenne falso testimonio a favore d’un assassino, che mi scroccò mille ghinee e che fu cagione del mio totale esterminio e della mia partenza da Londra. E qual fu la mercede ch’ebbi da Taylor?
Per tre settimane intere cessò di vedermi! Gli mandai due lettere: egli le abbruciò senza leggerle! Invano cercati tutti i mezzi possibili onde ottenere giustizia, se non pietá, scrissi la storia di questi fatti e gliene mandai una copia stampata.
Sebbene io avessi studiata tutta la moderazione nel mio rac conto, nulladimeno questo bastò a farlo montar sulle furie ed a meditare vendetta Nascondendo in silenzio il suo mal animo, mandò persona da me, che, un poco colle carezze, un poco colle minacce, mi cavò tutte le copie di quella storia di mano, mi fece promettere sull’onore di bruciare l’originale, prese i miei conti e le mie domande pecuniarie contra Taylor, mi diede a conto cinquanta ghinee, ch’eran forse la decima parte di quello ch’io aveva speso per l’impresario, e mi lasciò. Assicurato da questa mia promessa, credette Taylor di poter cavarsi la maschera e vendicarsene. Tre giorni soli dopo un tal fatto, mandò il suo avvocato da me e mi fece dir perentoriamente che non aveva piú bisogno de’ miei servigi al teatro; e, non soddisfatto di questo, altri due giorni dopo mi fece mandare un ordine dal V A/ien office di partire da Londra. Non sentendo che la coscienza mi rimordesse d’alcun delitto di politica, e sicurissimo essendo che i miei principi non poteano dispiacere al governo, ebbi il coraggio di presentarmi al preside di quell’uffizio, che con mirabile cortesia si compiacque d’accogliermi e di far ritirare quell’ordine indegno, che alcuni subalterni, a istigazione di quell’uom feroce, avevano osato arbitrariamente mandarmi.
E facile credere che il mio allontanamento dal teatro piacesse a molti. Piú che a tutti però piacque alla cara Brigidina, ch’oltre all’odio che allora portavami per la protezione del suo secreto vagheggiatore e per l’ingiuriosa memoria spretae fortnae , aveva una grandissima ragione di staccar Taylor da me in quel momento. Bisogna sapere che la seconda o terza passione predominante di quella femina era, come giá dissi, il buon liquore di Bacco. Io aveva comperate alcun tempo prima, con una delle solite cambiali, tre botti d’ottimo vino, e la chiave della cantina, dove giacevano, stava in mia mano. Cercò piú volte quella baccante d’averla da me, per cavarne, diceva ella, qualche bottiglia per Taylor; ma io, che ben conosceva l’immensa profonditá della insaziabile sua voragine, aveva sempre negato di dargliela, e tutto quello che aveva potuto ottenere fu di averne cinque o sei dozzine in diversi tempi. Sperava dunque che, perdendo, col poetato, la confidenza di Taylor, si potria impossessar facilmente e delle chiavi e del vino. Cosi fu la cosa. Un di dopo il mio congedo, un servo di quella donna venne da me, e mi chiese quella chiave ed alcune carte dell’impresario, ch’erano ancora in poter mio. Mostrandomi tardo ad ubbidire, mi presentò un ordine in iscritto di Taylor medesimo, ed ubbidii. Ma, avendo preveduta la cosa, io aveva giá venduto due botti di quel vino il giorno medesimo del mio congedo, e pagate aveva due cambiali di cinquecento lire sterline, che per buona sorte scadevano il medesimo giorno in cui mi chieser le chiavi. Non trovando nella cantina che la botte giá in parte scemata, il sussurro e le grida di quella furia s’udirono fin nella strada. Pochi minuti dopo, il medesimo servo tornò da me, domandandomi che cosa fatto aveva dell’altre due botti. — Il signor impresario — risposi — troverá tra le carte che gli mandai la spiegazione che chiede da me. — Trovò allora queste due cambiali: egli bestemmiò, la Banti pianse ed io risi. Terminiam la storiella. Ottantaotto galloni di vino erano rimasti nella botte invenduta, e di cui le chiavi si diedero a madama Trincomala.
Quanto durarono? Ventotto giorni! Il ventinovesimo si mandò a comperarne qualche dozzina da certo Badioli, mentre io mi trovava casualmente nel suo magazzino! Si bevvero dunque trentasei bottiglie di vino per giorno, da madama Banti, da Taylor e da’loro amici beoni: con tal proporzione, quante furon in piú di cinque anni? Laseiam che i creditori di quell’infelice ne facciano il calcolo! È per essi ch’io pubblicai questo aneddoto.
Torniamo al congedo mio. Come io poteva aspettarmi tutto da un uomo del suo carattere, debole per se stesso e allor da Amore e da Bacco fatto piú debole, cosi questo colpo di scelleraggine non mi sorprese. Seppi nulladimeno che Taylor respinse per lungo tempo tutti i raggiri della piú infame cabala, prima di condiscendere al passo indegno, che gli costò poscia tanto rimorso e finalmente la sua distruzione. L’Allegranti i_ Damiani avevano fatte le loro comparse in teatro, e, a forza d’intrighi, non avevano piaciuto, o voluto non avevasi che piacessero. Allor lo scaltro Federici cominciò a rinforzar le sue trame. Fece creder a Taylor che, sapendo io bene il poco merito di que’ due cantanti, m’era lasciato sedurre da un regalo di Cento ghinee, che entrambi dato m’avevano (l’infame era solito ad accettar tali doni!), e che quindi contra la mia propria coscienza gli avea impegnati pel suo teatro. La Banti, a cui Taylor ripeteva talvolta le perdite da me fatte per lui, assicurollo ch’io era ricchissimo e lo stimolò a venir da me per convincersi. In fatti ci venne, e domandò di veder la camera della mia stamperia Accorgendomi delle sue intenzioni, gli dissi che la chiave di quella era nelle mani di William Fox, che m’aveva avanzato duecentoeinquanta lire sterline alcun tempo prima, con cui pagai una delle solite cambiali, non pagata da lui. E, perché dubitar non potesse del vero, gli feci veder la ricevuta del creditore e la sua cambiale pagata da me con quella ipoteca. Non servendo dunque nemmeno questo, gli cominciarono a dire che il mio salario come poeta era esorbitante. Lord Keinard, uno de’ commissari del teatro, favori quell’economia; il signor Serafino Bonaiuti fu proposto al signor Taylor; un salario di cento lire sterline, senza pretesa a’ libretti, fu proposto e accettato dal signor Serafino, e il signor Lorenzo Da Ponte fu congedalo!
Mi trovai dunque improvvisamente senza roba, senza impiego, senza credito e senza altri amici che il mio coraggio e la provvidenza. La mia sposa aveva bene qualche danaro, che avea risparmiato in certa intrapresa da me medesimo procurata per lei e per sua sorella; ma questo non era in sua mano, e la persona, che se n’era impadronita, lo tenea... Strappiamo qui un’altra pagina e non rinnoviamo * infandum dolorem», che non produrrebbe che nuove lagrime e nuove angosce senza alcun frutto, tanto al mio cuore che a quello... Insomma io mi trovava in una desolazione, che è difficilissima cosa descrivere. Richiamai allora alla mia memoria tutti i tratti di provvidenza esperimentati da me nella vita mia, e mi parve che un presentimento interno mi dicesse: — Non bisogna disperare. — Domandai a titolo di prestanza cinquanta ghinee, non serve dire a chi: mi furono negate. Santo Dio! quanto volentieri vorrei potere dimenticarmene! Io non credo che la morte sia tanta amara quanto fu ed è a me, quando me ne ricordo, quel crudele rifiuto! Uscii allora di casa, e, dopo due o tre lagrime, mi misi a passeggiar per le vie di Londra senza sapere dove e perché. Camminando a guisa di macchina, e ripetendo in me stesso sovente: — Non bisogna disperare — mi trovai senza accorgermi nello strami poco lontano da Tempie bar , dove mi recò in me un bue fuggito dal macello, seguitato da molti cani e da immenso popolo. Non era che pochi passi lungi da me, quando, per salvarmi da quell’animale, entrai sollecitamente in una bottega di libraio, la porta della quale era aperta. Passato il tumulto, mi cadde l’occhio sopra un volume assai ben legato, e la curiositá mi spinse a vedere che libro fosse. Era Virgilio. Risovvenendomi allora delle sorti virgiliane, l’apro, ed ecco il primo verso che mi si presenta:
O passi graviora, dabit deus bis quoque finem. Questo verso accordavasi ottimamente col motto da me adottato: «Non bisogna disperare», lo aveva piú volte avuto in mente il pensiero di stabilire una libreria italiana in quella metropoli. Questo pensiero mi ripassò allor per la testa, e l’esecuzione di quello mi parve possibilissima. Chiesi allora al padrone di quel negozio s’aveva’ alcuni libri italiani. — Troppi
— mi rispose egli. — Verrò a vederli — soggiunsi. — Mi farete piacere se verrete a liberarmene. — In tanto discredito erano i libri italiani in Londra l’anno i8co! Esco allora da quella bottega pien d’un certo coraggio e quasi d’un nuovo spirito di speranza, che non intendeva io medesimo da che procedesse.
Dissi nulladimeno a me stesso: — Voglio credere a Virgilio: «dabit deus bis quoque finem». Bisogna pensare a stabilire in questa cittá un magazzino permanente di libri italiani, bisogna far rinascere il gusto della nostra bella letteratura. — Ma, ricordandomi poi dello stato mio, rideva di me e del mio disegno. In questo momento incontrai un cantante di teatro, Benelli, il quale, prendendomi per la mano, mi disse queste parole:
— Amico Da Ponte, ho gran piacere di incontrarvi. Dovendo io domani o posdomani partir per Napoli, avrei bisogno di vendere una cambiale ch’ebbi da Taylor in bilancio della mia paga teatrale. Andava dal mio avvocato per questo effetto; ma, se voi potete trovare chi mi dia cento lire sterline per una tal carta di centosettantacinque, son contentissimo di fare tal perdita, pel bisogno che ho di tal somma per ire a Napoli. — Presi la cambiale, e gli promisi di dargli una risposta in un’ora. Corsi allora da certo usuraio ch’io conosceva, gli offersi quindici ghinee di regalo, e, a condizione ch’io vi aggiungessi la mia guarentia, apponendovi il mio nome sul dosso, mi diede il danaro. Mi trovai dunque in un punto con sessanta lire sterline in tasca, che in buona coscienza credei di poter ritenere, in grazia del pericolo, a cui m’esponea col mio indossamento, d’esser poi obbligato a pagar il tutto. Mi parve tuttavia cosa onesta informar Benelli del fatto, il quale, dopo avergli 10 date le cento lire: — Son molto lieto — mi disse — che queste sessanta lire vengano in tasca vostra; e, se mai Taylor non pagasse la cambiale, ripagherò io volentieri la suniina stessa che voi mi date. — Senza perdere un solo istante, volai dal libraio nello strenui. M’accolse con faccia ridente e mi condusse in una cameretta nel primo piano, e parlò cosi: — Qui non vi sono che libri italiani. Se volete comprarli in massa, ond’io possa servirmi di questa camera, di cui n’ho gran bisogno, ve li vendo a un buon prezzo assai volentieri. Sentite: datemi trenta ghinee sulla mano, e i libri son vostri. — Mentr’egli parlava, sebben tutti que’ libri coperti fossero di tignuole e di polvere, mi fu facile nulladimeno di leggere i titoli d’alcuni nel dosso. Il primo che mi si offerse al guardo fu la Vita di Michelangelo in foglio, 11 secondo quella di Tasso di Serassi, il terzo quella di Cellini, e quella di Petrarca il quarto. Gli feci ripetere la somma chiestami e gli contai sul fatto le trenta ghinee. Corse nella bottega, scrisse una ricevuta e me la portò sorridendo, pregandomi di spicciarmi. Quel sorriso, a dir il vero, mi fece un poco di paura; ma, quando guardai piú minutamente quelle scanzie, che non contenevano meno di sei o settecento volumi di varia forma, e che vidi i tesori che v’erano, quanto sorrisi aneli’io dell’ignoranza di quel libraio, altrettanto m’afflisse il vedere la deiezione in cui era in quel paese caduta la nostra letteratura. Per non intertenere in cose frivole il mio leggitore, non farò l’enumerazione dell’opere preziose che contenea quella stanza. Basterá dire che non mi fruttarono meno di quattrocento ghinee, quando le vendei nella mia bottega. Questo tratto novello della provvidenza creò mille speranze nel mio spirito, e mi fu di buon augurio per la riuscita del mio disegno favorito di tornar al lustro primiero la letteratura d’Italia, che piú non era nel pregio in cui esser soleva in quella nobilissima cittá ai tempi di Gray, di Spencer, di Dryden, del gran Milton e di tanti altri della bella scola dell’altissimo canto.
Andai allora a tutte le botteghe de’ librai di Londra, ove spesi l’altre trenta lire sterline, comperando degli ottimi libri, clic parimenti mi si vendettero a prezzi disfatti. Il primo di marzo dell’anno 1801 io aveva nella mia bottega novecento volumi d’ottimi libri, che giunsero presto al numero di mille e seicento, per altri acquisti fatti da me alle pubbliche vendite e per una buona partita di libri moderni, che capitò dall’Italia al signor Nardini, ch’egli non potè allora o non volle tenere per conto suo. V’era tra questi il Muratori, il Tiraboschi, il Fabroni ed il Signorelli, scrittori di sommo merito, che m’aiutaron a infiammar gli animi de’ piú svegliati ed eruditi inglesi colla lettura delle incomparabili loro opere, e tra gli altri i celebri e benemeriti Roscoe e Walker, a cui tanto deve la gloria letteraria d’Italia ed a’quali ho potuto io stesso somministrar molte opere nell’esecuzione della lor magnanima impresa. che mi giovò poi moltissimo a rimettere nel posto che lor era dovuto le lettere e i letterati del mio paese. Feci immediatamente un catalogo, cui pubblicai colle stampe, ed ebbi il supremo diletto di veder per piú giorni nel mio magazzino di libri i primi sapienti ed i primi signori di Londra, che approvarono e protessero colla borsa il mio nuovo stabilimento. Fra questi citerò con orgoglio i nomi venerabili di lord Spencer, William Payne, lord Douglas e lady Devonshire, che in men d’otto giorni spogliaron la mia bottega di quattrocento volumi almeno, ma arricchirono la mia borsa di altrettante ghinee, in cui ebbi due terzi e piú di profitto. Scrissi sul fatto a Venezia, a Firenze, a Livorno, a Parigi, e da tutte queste parti trassi un numero immenso d’opere classiche tanto antiche che moderne.
10 seguitai a frequentare le vendite, e per molti mesi non ebbi competitori.
A poco a poco però tutti i librai di Londra cominciarono a fiutar il dolce, e il prezzo de’ libri italiani crebbe a dismisura, e particolarmente deH’antiche edizioni. Io frattanto, camminando di questo passo e lieto di veder proceder le cose con tanta prosperitá, giunsi ad arricchire in modo incredibile la mia collezione. In meno di un anno ebbi nel mio negozio piú di ottomila volumi d’opere scelte, molto ricercate e meglio pagate. Levai allor l’ipoteca della stamperia e feci imprimere varie operette italiane, tra le quali un piccolo saggio delle mie proprie poesie. Altra ragione io non ebbi di pubblicarle che un certo bisogno di dar del lavoro a due giovani stampatori, di cui bramava conoscere la capacitá. A questa edizione però devo 11 piú puro ed il massimo de’ piaceri da me in tutto il corso della mia vita sperimentato, l’amicizia, cioè, deH’amato, rispettato e riverito da me piú che tutti gli uomini della terra, Tommaso Nlathias. La storia di questo illustre letterato, per quel che riguarda me, è troppo importante, perch’io non mi creda obbligato di parlarne diffusamente. Conoscitore perfetto della lingua greca, latina, inglese, francese e italiana, dottissimo, eruditissimo e pieno di genio e di gusto per la bella poesia, egli aveva un’opinione assai svantaggiosa di tutti gli scrittori d’opere buffe italiane, e per quelli singolarmente che pel teatro di Londra scrivevano. Avea palesata questa opinione e questo disprezzo in diverse opere, e sopra tutto nel Demogorgone , componimento grazioso e pieno di piacevolezza e di spirito.
Fu il signor R. Zotti, maestro di lingua italiana in quella cittá, uomo di molto merito nelle lettere (e allora piú amico del vero e mio di quello che non fu pci (I )), che gli parlò in modo di me, da fargli desiderar di vedermi. Entrò nella mia bottega, senza dirmi chi fosse, e mi chiese diversi libri. Mentre io di quelli stavii cercando, vide un volumetto di versi sul banco della bottega, e, prendendolo in mano, si pose a leggere la prima canzone. Pareva che gli occhi ed i movimenti di quel signore dessero segni di soddisfazione non solo, ma di maraviglia ad ogni verso ch’egli leggeva, lo aveva giá trovati i libri che ni’avea chiesti, ed ei seguitava tuttavia a leggere. Quando fu alla quarta strofa di quella canzone, fermossi e, a me volgendosi, mi domandò con vivacitá chi era l’autor di que’ versi. A un tempo medesimo lesse nel frontespizio: Saggi poetici di Lorenzo Da Ponte. — Con cui — disse allora — ho il piacere di parlare. — Per obbedirla — soggiunsi. — E non è Ella — replicò egli — il poeta del nostro teatro? — Lo fui — replicai. — Ella — esclamò — il poeta del teatro, ed Ella l’autore di questa canzone? — Era l’oda da me composta per la morte di Giuseppe secondo. — Vuol farmi la grazia — disse seguitando — di venir domattina da me e di permettermi intanto di pigliar meco queste poesie? — Risposi che sarei altèro dell’onore.
Prese la penna, scrisse il suo nome, la strada e il numero della sua casa e parti.
All’ora prefissami, andai da lui. Egli m’accolse colla cortesia e gentilezza, ch’era propria d’un personaggio suo pari, fece portare la colazione, e mi domandò com’era possibile ch’io (i) Lo Zotti, a quel che dicono, non è piú. Rimanga sepolta con lui la memoria di alcuni falli, de’quali, s’or lo accusassi, non potrebbe difendersi, essendo morto. Dirò solamente a chi l’udi parlare di me, ch’ei mi divenne nemico senza ragione. mi fossi avvilito a segno di scrivere de’ drammi per quel teatro, dove si rappresentavano generalmente cose tanto miserabili.
Gli domandai s’aveva letto o veduto rappresentare alcuni de’ miei drammi. Non mi sovviene se detto m’abbia no, o se siasi sottratto dal rispondermi, con dire che, credendo anche i miei simili a tutti gli altri, non aveva fatta attenzione alcuna alle parole di quelli, contentandosi d’udire la musica. Gli narrai allor brevemente la storia de’ principi della carriera mia teatrale; gli dissi ch’io aveva composte varie opere tanto pel teatro di Vienna che per quello di Londra; lo pregai di leggerne alcune, non perché le credessi cose perlette, che questo o non si può fare per la natura della cosa che non ammette perfezione, o non si potè fare da me per mancanza di tempo, di talento e per altre circostanze particolari ; ma perché sperava che qua e lá avrebbe trovata qualche scena non indegna del tutto d’essere letta, o almeno bastante a fargli fare la pace co’ poeti del teatro di Londra, benché non fossero né tanti Zeni né tanti Metastasi. Mi promise di farlo; ma, dopo un’oretta di tale conversazione, cominciò a parlare della mia canzone, volle ch’io stesso gliela leggessi, la lesse anch’egli novellamente, e mi disse cose di quella da farmi per veritá insuperbire. Cominciò da quel momento ad amarmi, a stimarmi, a proteggermi, e per tre anni continui non fece che versare su me le grazie e i favori d’un’amicizia e d’una generositá senza limiti. Vedremo tra poco a qual segno giunse per me e per gli versi miei la bontá d’un si grande e risp ttabile personaggio.
Ma non fermossi qui la mia prosperitá e il favore della fortuna. Verso il comincinmento della nuova stagione teatrale, quella femina sciaurata, che. quanto piaceva col canto, altrettanto atterriva colla scelleratezza, e che fatto avea piangere un infinito numero di brava gente per due o tre perfidi ch’avea fatto ridere, prese la santa risoluzione di ritornar in Italia. Taylor, che accompagnarla volle fino a Parigi, vi si era fermato alcun tempo per ragioni che non fa mestiero di dire; e, in loco di quella donna, avevano impegnata al teatro la bravissima Billington e la Grassini, che aveva seco condotto un maestro di cappella di grandissima fama e di merito reale, Winter. Frattanto i creditori del teatro italiano, poco contenti della direzione di Taylor, ottennero di porre il teatro stesso in mano d’altre persone; e queste, che non avevano al fianco né i Federici né le Banti né altri Achitofelli di simil razza, diedero un cordialissimo saluto al signor Serafino e richiamarono me al posto mio. Non esitai ad accettare l’ofTerta, che mi fu veramente fatta in una maniera assai nobile; e non fu tanto per lo vantaggio pecuniario, di cui io non aveva allora certo bisogno, quanto per mortificare quel serafico pipistrello, a cui un poco la protezione di lord Jdolland, un poco la ignoranza di Taylor e de’ suoi ministri, avean fatto credere di aver le penne dell’aquila. Mi dieder ordine immediatamente di scriver due opere serie per quelle due virtuose, e fu allora ch’io composi II ratto di Proserpina per la prima e II trionfo de II’amor frate rito per la seconda, che furono a un tempo stesso il trionfo mio, perché fecer prendere un’idea meno svantaggiosa de’ poeti di teatro al signor Mathias, a cui sopra tutto importavami di piacere.
Le cose frattanto del mio negozio progredivano con mirabile prosperitá. Bisogna però eh’io renda giustizia a un gran numero di colti, dotti e onorati italiani, tra’ quali mi si permetterá di dar il primo loco a Leonardo Nardini e a Pananti, eccellenti filologi, ottimi grammatici e buoni poeti, collocando subito dopo loro Polidori, Boschini, Damiani e Zotti, per tacere di molti altri, che, invece di calunniar o invidiare, more latronum , lo zelo e il disegno mio di diffondere e rialzare la lingua nostra, con patria cordialitá e non senza loro ed altrui vantaggio, ogni mezzo posero in opera per favorirlo. Non contenti d’insegnar agli altri con molto valore le bellezze, le grazie e la proprietá dell’idioma italiano, composero delle belle ed utili opere, ne pubblicarono molte de’ nostri piti celebri autori, e trasportarono dall’ Italia quanto v’uscia di migliore in ogni genere della nostra letteratura. Ma chi sopra tutti cooperò al fortunato successo del mio disegno fu il sopralodato signor Mathias, che ripubblicò colle stampe un considerabile numero de’ nostri classici, che vi fece delle dottissime prefazioni ed osservazioni, e che persuase colla colta ed eloquente penna i suoi saggi compatriotti utilissima cosa essere a’coltivatori delle umane lettere l’unir a’greci e latini tesori le preziose gemme dell Arno !
Tra un gran numero di prose e di poesie de’ piú chiari ingegni d’Italia, clic l’ardente suo zelo per la gloria letteraria di quel paese ripubblicò in leggiadrissima forma e co’ nobili caratteri bulmeriani, la sua infinita bontá per me non ebbe ribrezzo di pubblicare quella stessa canzone, che fu l’origine fortunata della nostra conoscenza, e di corredarla di bellissime note ed osservazioni, in veritá tali, che indotto forse avrebbero me medesimo a crederla cosa buona, se non sapessi per prova che quanto sogliono deturpare il bello ed il buono l’anime guidate dall’invidia, altrettanto l’accrescono ed ingrandiscono quelle che si lasciati gabbare da una soverchia benevolenza, lo non posso però non sentir il peso e il valore di tanta bontá; e per quanto il precetto «uosa’ tc ipsum» m’impiccolisca agli occhi miei, altrettanto le lodi d’una bocca si venerabile mi fanno spessissimo inorgoglire. Mentre tutto arrideva alle fatiche e alle viste mie, caddi sgraziatamente in due falli, che dopo tutto apportarono la miseria e la desolazione nella mia famiglia e mi condussero alla piú fiera disperazione. Il primo fallo fu quello d’imbarazzarmi con Domenico Corri, uomo di buon talento nella musica, ma leggero visionario e qualche volta bugiardo. La necessitá d una stanza capace di contenere tutti i miei volumi, che ascendevano allora al numero di dodicimila, e piú ancora l’ottima situazione della casa dov’egli abitava, m’indussero a prendere in affitto parte della sua bottega, ch’era vastissima, e aitine tutta la casa. Egli componeva della buona musica ; il famoso Dussek era suo socio e suo genero, e le sue bellissime suonale si vendevano nella bottega di questo Corri con tacile smercio ed a cari prezzi.
Ad onta di questo, tanto Corri che Dussek erano carichi di debiti e pareva che né l’uno né l’altro avesse senno bastevole da condur bene le cose. Sedotto da molte belle apparenze, e molto piú dalle parole e promesse loro, entrai con entrambi in una spezie di societá, mi caricai di tutti i loro debiti, cui pagai puntualmente; ma in men di sei mesi mi trovai ingollato in un orribile abisso, da cui non mi fu possibile uscire senza lasciarvi gran parte della pelle. Ho perduto in punto mille ghinee con questi due sciaurati. Dussek insalutato hospi/e andò a Parigi; Corri nelle prigioni di Newgate, da cui usci in poco tempo con un atto di grazia; ed io rimasi con un fascio di cambiali, di cui potrò servirmene per accendere il foco in mancanza di zolfanelli. Molto maggiore però fu il secondo errore. Bisogna sapere che quel Gallerini, che aveva trafficate per vari anni le cambiali di Taylor, ritenute avea nelle mani tutte quelle che avea rinnuovate, senza cancellare né la data né il nome. Non apparendo perciò che fossero state pagate, si potean novellamente porre in circolazione, e l’accettatore di quelle era obbligato di ripagarle. Tale fu l’opinione di lord Kenyon in un processo fatto contra Taylor, il quale provò ch’era frodato; ma il giudice disse che il ricevitore di quelle cambiali non dovea patire, perché l’agente dell’impresario era un ladrone. Era sul-punto (’ostili di venderne un numero considerabilissimo, quand’io, informato del tradimento, corsi da Perry, editore del Morning chronicle ed allor amico e agente di Taylor, e l’informai della cosa. Mi scongiurò di cercare qualche ripiego, ed io, per un avanzo di pietá per quell’uomo ingannato e piú ancora per amor di giustizia, mi maneggiai con colui tanto bene, che gli cavai dalle mani venticinquemila lire sterline di tale carta per regalo fattogli di cinquanta ghinee, che il signor Perry poscia ebbe l’onestá di ripagarmi. Questo solo servigio avrebbe dovuto bastare a farmi considerare per sempre il suo vero salvatore, e per obbligarlo a darmi pel corso di tutta la vita delle pruove d’affetto e di gratitudine. Ma quanto di piú non ho io fatto per lui, e quale fu poi la maniera con cui m’ha egli pagato? Dopo esser stato alquanti mesi a Parigi, colla speranza che tra Perry e Gould, ch’era divenuto suo socio, s’accomodassero gli affari, prese il partito di tornar a Londra secretamente. Non essendo piú membro di parlamento, questa segretezza gli era necessarissima; ma non gli giovò. Gallerini, ch’avea giá passate delle sue cambiali nelle mani di Hill, avvocato il piú perfido di tutte le corti di Londra, seppe del suo arrivo, scoperse la sua abitazione, e Io diede in mano agli sbirri. Io non sapeva nulla né del suo ritorno né della sua carcerazione. Un cantante di quel teatro udi tutto il fatto, venne da me e me ne fece il racconto, a cui aggiunse queste parole: — Ecco il momento di confonder Taylor e di far conoscere citi è Da Ponte. Bisogna andare a liberarlo. — Questi pochi detti furon un foco elettrico pel mio core. Mi ricorse allo spirito in un istante lo stato in cui io era in Olanda, il sogno di Cera, il pane, le aringhe, gli scacchi, le lagrime, i versi ripetuti da me in quel momento felice in cui mi capitò l’invito al poetato di quel teatro, e, a malgrado delle strida di mia moglie, di tutta la famiglia e di molti amici, dimenticando perdite, ingiurie e ingiustizie, volai col medesimo cantante e con un fratello mio alla casa cicli’ufficiale dov’cra chiuso, e domandai di vederlo. Ando il cantante nella sua camera e portogli l’ambasciata. Quando udi il nome mio, rimase attonito e appena voleva crederlo. Egli era stato condotto in quel loco verso le dieci della mattina, ed erano giá suonate le sette della sera quand’io son andato da lui. Aveva scritto e rescritto a tutti quelli che gli si vantavano amici, ma nessuno gli aveva risposto. La durezza degli altri doveva per conseguenza piú dolce rendergli e piú inaspettata la mia volontaria venuta. Entrai nella stanza, gli stesi la mano, ed egli mi stese la sua. Io non so qual di noi avesse il core piú chiuso, se io dal piacere ch’avea nella speranza di liberarlo, o egli dalla sorpresa e dall’ammirazione di si straordinaria e poco aspettata bontá. Dopo aver taciuto pochi momenti, lu il primo egli a parlare. Ecco il nostro corto dialogo.
— Signor Da Ponte, voi qui?
— Si, mio caro signore, io qui, per soccorrervi, per liberarvi.
— È possibile?
— Se mi vedete qui, bisogna bene che sia possibile.
— E cosa h) deggio dire? (1) «Cosa», in loco di «che», non è di buon conio. L’ho trovata però nelle lettere di Eoscolo e ne’nobilissimi scritti del mio Pananti. Sarebbe error l’imitarli ?
— Niente dire, ma fare. — Mi riprese la mano, me la strinse con molto affetto, si pose a sedere e di nuovo tacque. Dopo aver ripigliato fiato e coraggio, mi narrò che Hill era quello die l’aveva fatto imprigionare per una notaci di seicento lire sterline e un’altra di trecento. Che si potea dar sicurtá per la prima, perché stromento semplice; ma che la seconda era necessario pagarla subito o prima che uscisse, perché accompagnata da un certo atto legale, che gli inglesi chiamano «warrant of attorney». M’aggiunse che, se i suoi creditori scoprissero ch’egli era in carcere, vi sarebbe la mattina una tal quantitá d’azioni contra lui, che la sua prigionia diverrebbe eterna. Non indugiai un momento a pigliare il mio partito. Spedii Rovedini e il fratello mio in traccia di Gould, ed io m’accontai frattanto coll’ulíiziale ch’aveva il mandato d’arresto, e lo disposi a ricever una nuova cambiale ili Taylor, indossata da me per la semplice, c, per l’altra, metá in contanti e l’altra metá a trenta giorni, con un’obbligazione di Gould. il quale verso le dieci capitò e, dopo qualche difficoltá, segnò l’obbligazione da me offerta aH’uffi/.iale. Gli regalai venti ghinee, e il signor impresario era prima delle undici della sera neH’Haymarket. Rimase meco pochi momenti, e con queste parole lasciommi: — Signor Da Ponte, quello che avete ora fatto per me non si può pagare con delti. Ma il fatto vi proverá se so esser riconoscente. — Questa riconoscenza pero ad altro non s’estese che a sugger l’ultima goccia ilei mio sangue e alfine immergermi nella piu desolante miseria!
Come la seduttrice sirena era partita da Londra e Federici era stato costretto a fuggire, io eretica bene che questo mio ultimo servigio non dovesse essere per alcun tempo dimenticato. Saputo dunque il loco di sua dimora, seguitai ad essergli da quel momento piú padre che amico. Io solo per piú di sei mesi gli somministrai quanto è necessario alla vita; io solo (i) «Noia» invece iti «cambiale» è pure parola tecnica de’niercadanti, ma non adotlata da’ cruscanti. m’esposi a ogni rischio, ad ogni cimento per accomodare le sue faccende; io solo comperai moltissimi de’suoi debiti per quattro, tre, due e fino uno scellino per lira; io solo ottenni del e grosse somme da Gould per addormentar uffizioli, per concigliargli avvocati, per ottener dilazioni; io quello fui, finalmente, che pagò la cambiale data all’uffiziale, onde liberarlo, per sua propria confessione, dal pericolo di rimanere prigione tutta la vita.
Ma come la pagai? Permetti, generosissimo amico, ch’io paghi di parole e di sentimenti ili gratitudine l’atto magnanimo, di cui tu, e tu solo nel mondo, eri, a mio giudizio, capace. Io aveva ricevuto notizia dal notaio pubblico che la cambiale di Taylor a Hill non era stata pagata. La somma di quella montava a seicento lire sterline, ch’io allor non aveva al comando mio; e, per non perder il mio credito, ch’era assai buono in quel tempo, risolsi di vendere per incanto una parte de’ libri miei, procurando di farmi avanzare la somma necessaria da un banditore all’incanto. Imballati giá erano i libri, e Stuart libraio dovea venire ila me a tale oggetto verso le dodici della mattina. Mi risovvenni frattanto ch’io aveva promesso al signor Mathias d’andar a fare colazione da lui. Verso le nove v’andai. Appena mi vide, s’accorse dalla mia faccia del mio turbamento e ne chiese la causa. Cercai di schermirmene; ma egli tanto insistè, ch’alfin gli dissi la storia intera. L’udi con pietá, mi rimproverò della mia debolezza, fece portare la colazione e, quella finita, m’invitò a leggere il Petrarca. Leggemmo la divina canzone che incomincia Quell’antico mio dolce empio signore, che produceva degli effetti maravigliosi nell’anima di quell’insigne letterato. Quando arrivammo al verso Tal merito ha chi ingrato serve:
— Ecco — gridò in un tuono di voce flebile che parca venire dal core, — ecco il caso del mio povero Da Ponte! — Non ricordossi piú allor del Petrarca; ma, pieno solamente di sensi di pietá e di benevolenza per me : — E che pensate di fare adesso, mio povero amico? — L’informai della mia risoluzione, ch’egli udir parve in atto di disapprovazione, e, dopo un breve silenzio, riprese in mano il Petrarca, diede un’occhiata al suo orologio e volle ch’io terminassi di leggere la canzone. Riguardò allora l’orologio e mi congedò con queste parole:
— Andate a casa e fermatevi una mezz’ora. — Feci cosi. Stuart non era ancor capitato, e. quando capitò, io non avea piú bisogno di lui. Il mio secondo angelo tutelare, prima che la mezz’ora fosse passata, mi mandò pel suo servo quanto occorrevano in quell’urgenza, con un biglietto del seguente tenore: Mio caro amico, eccovi l’occorrente per la cambiale di Taylor. Voglia Dio che sia l’ultimo danaro ch’avete a pagare per un tal uomo. Venite a vedermi domattina. Il vostro amico T. Mathias.
Tale generositá mi stordí; ma, come io sapeva troppo bene lo stato precario in cui allor mi trovava e gl’immensi imbarazzi in cui involto io m’era per Taylor, cosi, prevedendo la impossibilitá o almeno la difficoltá somma di fargliene la restituzione, rimasi qualche tempo irresoluto e sospeso, prima di accettar quel danaro. Una lieve speranza nulladimeno, che in me sorgeva in grazia delle belle parole che Taylor mi disse la sera della sua liberazione, sfortunatamente sedussemi e mi fece tisolvere d’accettarlo. Oh quante volte poscia n’ho maledetto e ne maledico il memento! Io ho ricevuto da te, gene rosissimo amico, uno di que’ benefici che un animo bennato sa di non poter mai ripagare: e a che servi? A impinguar la borsa di due assassini, a render l’ingratitudine di Taylor piú vergognosa e a trarre dalle tue nobili mani una somma considerabile, che avresti adoperata in un miglior uso e che ad altro non giovò che a ritardare per poro la mia ruina e a far che alfine divenisse piú lamentevole, anzi pure senza riparo. Passata quella burrasca, io seguitai ad attendere con maggior cura che mai all’incremento del mio negozio. La stamperia di Dulau e Nardini, che aveva per molti anni fiorito e dalla quale diverse nobili edizioni uscite erano, stava sul punto di chiudersi per un fallimento del primo socio. Nardini proposemi un’associazione in loco di Dulau, ed io accettai la sua offertaci. Pubblicammo diverse opere, tra le quali, a mie proprie spese, gli Animali parlanti di Casti, poema che trovò molti partigiani anche nella capitale dell’Inghilterra.
Mentre si stava stampando, l’abate Michele Colombo, letterato di vaglia, gran filologo, colto poeta e particolarissimo amico mio, capitò a Londra, in carattere di aio e custode di duenobili giovanetti italiani. Vennero questi varie volte nella mia bottega. Accadde che un giorno, inentr’essi v’erano, mi si portò un foglio di quel poema per correggerlo ; e questi giovinetti, vedendolo, mi chiesero l’opinion mia. Dopo aver soddisfatto alla lor domanda: — Mi pare — soggiunsi — che questo poema sarebbe piú ricercato se la metafora fosse piú intesa; il che si potrebbe fare assai facilmente, a giudizio mio. Si dovrebbe altresí — dissi seguitando — cangiar od almeno ommettere alcuni versi, ora troppo sconci, ora troppo liberi, per rendere la lettura di quello piú generale. — Parvero approvare quel ch’io diceva; ma, quando poi trovarono Casti a Parigi, dissero tali cose a quel buon vecchio, che non potè trattenersi dallo scrivermi una severissima lettera, che si leggerá, a quel che parmi, con molto interesse.
Parigi, li 29 novembre 1802. Amico caro, è piú d’un mese che ricevei a nome vostro da un tal Maniaco, se non erro, tre volumi elegantemente impressi, contenenti una raccolta di poesie de’ migliori nostri autori. Ho differito di ringraziarvene, perché il Maniaco mi fece sperare che fra qualche giorno avrei ricevuto una vostra lettera. Quella non e comparsa ancora. Non credo di dover piú lungamente differire a farvene i miei ringraziamenti. L’edizione è nitida e beila, e fa piacere a vederla e a leggerla, lo non ignorava il vostro buon gusto; ma, vedendone le prove, me ne congratulo con voi. (1) Fui dunque socio del signor Leonardo Nardini e non di Dulau, come asserí per equivoco lo scriltor áe\Y Antologia fiorentina: è bene che ciò si sappia. So da gran tempo che avete impreso a far l’edizione de’ miei Animali parlatili , e son sicuro che la farete egualmente bella. Mi han detto che pensate di farvi alcuni cangiamenti, sostituendo altre espressioni a quelle che credete non poter costi riuscire troppo gradite, quasi contrarie alla modestia del linguaggio inglese. In veritá si approva e si loda la ritenuta delicatezza di cotesto linguaggio; ma, quando si scrive in altro linguaggio, se un autore si conforma talvolta a certe frasi usate dai suoi classici, non mi pare che uno straniero debba scandalizzarsene. E in fatti è stato piú volte stampato costi l’Ariosto, e, nonostante che non abbia scrupolo di dire apertamente «p.», lo che non ho io mai fatto ne’ miei Animali parlanti , non solo si è stampato, ma ha avtito costi un grande spaccio. Lo stesso dite del Dante che nomina «c...» in una maniera molto meno decente della mia ; perché finalmente io non nomino «c...» che in certe espressioni proverbiali e che escludono qualunque indecenza, e d’Ariosti e di Danti e d’altri molto meno contegnosi autori è piena l’Inghilterra. Che se si volesse dai lettori inglesi stare rigorosamente a questa ritrosia, non dovrebbero leggere autori greci e latini, perché nelle loro lingue le cose si nominano coi vocaboli loro. Che se riguardarsi soglia la maggior facilitá dello spaccio, voj sapete in quanto maggior pregio si abbia l’originale genuina lezione d’un’opera, in preferenza delle altre con alterazioni e correzioni, per quanto migliori esse esser possano dell’originale. Se, ciò non ostante, si fosse creduto indispensabile di cangiare delle espressioni che tutti i classici usano, e perché non scrivermelo francamente? Io non avrei avuta difficoltá alcuna di cangiar quelle parole che voi m’aveste indicate, acciò l’opera non possa esser tacciata d’un impasto di piú mani. E, se sopra tutto crediate potervi recar profitto, io, che vi ho amato sempre, vi servirò volentieri. Pur anche gran tempo un romor sordo è pervenuto agli orecchi miei, che voi pensiate di pubblicare le interpretazioni e allusioni personali, che voi, o chiunque sia, s’imagini di trovarvi. Tanto è lontano che io v’abbia creduto capace d’una si infame idea, che non ho voluto mai scrivervene neppure una parola, persuaso di poter vivere tranquillo sul conto vostro a questo riguardo. Come è possibile che io possa indurmi a credere tal cosa, io che sempre ho avuta della considerazione per voi, che vi ho sempre voluto bene, che ho procurato di giovarvi se ho potuto, che v’ho tenuto sempre per mio amico, e che so che lo siete, e in conseguenza incapacissimo di farmi un tradimento tale, pubblicando cose che mai assolutamente, sull’onor mio e sulla mia piú sacrosanta parola, non ho mai pensato, e che potrebbero farmi passare considerabilissimi guai per parte di quelli che si crederebbero attaccati e che non disprezzano c non dimenticano mai tai cose, e forse porre anche la vita in pericolo? Tanto, ripeto, è lungi ch’io ve n’abbia creduto capace, che mi sono ostinato a sostenere, con qualcheduno che mi faceva tali discorsi, che la cosa era assolutamente falsa. Né io mai ve ne avrei scritto, se, dovendovi scrivere, ciò non me ne avesse dato occasione, acciò, occorrendo, possiate voi stesso difendervi da simili calunnie, se mai vi si facessero, e che procurerebbero di darvi maliziosamente un carattere infame ed esecrabile. Mio caro Da Ponte, son sicuro che voi stesso non ne sarete esacerbato meno di me.
E in veritá le satiriche allus oui personali indicano un carattere vile, calunnioso, maligno che io non credo d’avere. Oltre di che, un autore, che a torto o a dritto adotta la speranza che le opere sue possano passare alla posteritá, tosto che si rivolga ad allusioni personali, pare che rinunzi a questa dolce lusinga, perché le personalitá non hanno che un interesse passeggierò e temporaneo, come temporanei e passeggieri sono gli oggetti che esse riguardano ; poiché, dopo piú o meno di tempo, che sparite sieno dalla superficie della terra le persone prese di mira, giusta la maggiore o minore importanza loro, nessuno piú s’interessa di quelle, nessuno piu vi pensa, e non resta all’autore che il carattere di maldicente; la qual maldicenza può inoltre divertir qualcheduno nel presente, ma mai essere approvata, sopratutto dall’onesta gente. Quindi è che ho posto ogni studio, nei miei Ammali parlanti , di non dare occasione o motivo a chichesia di fare si maligne interpretazioni, e, per tórre a qualche mio nemico perfin il modo di calunniare, come chiaro apparisce a chiunque vorrá darsi la minima pena di esaminare qualunque animale attore nel mio poema, io ho avuta in mira unicamente la cosa e non le persone, i vizi e i difetti dei governi e non dei governanti. Certamente vi sono e vi saran sempre nel mondo alcuni caratteri piu marcati degli altri, perché piú esposti all’occhio critico del pubblico, come i corpi, che s’elevano sopra una superficie piana, sono i primi a saltar sugli occhi, conforme ho detto nella mia prefazione; e a questi, anche dopo molti e molti secoli, si potranno fare delle applicazioni da quelli che avran voglia di farle: ma non bisogna attribuirle all’autore, che se ne protesta affatto ignaro. Rilevare i difetti grandi e interessanti è impresa degna d’un autore probo e d’onore, e vi metta pure tutta la franchezza e il coraggio, che inspira la veritá e la difesa d’una buona causa; ma le personalitá sono indegne non solo d’un autore, ma d’un uomo onesto. Questi sono i miei indelebili sentimenti.
Che se in altri tempi ho mai fatta, sempre per altro con precauzione, qualcuna di tali allusioni, non è stato mai per produrla in pubblico, ma per tenerla occulta e leggerla al piú in privato crocchio a qualche amico. Cosa anche questa per altro pericolosissima, perché la mala fede e l’imprudenza degli amici stessi può far si. come pur troppo accade, che senza intesa dell’autore tali cose sien pubblicate da stampatori, che hanno piú a cuore qualunque vile benché minimo guadagno che qualsisia doveroso riguardo. Io ho voluto darvi questa lunga seccatura, perché non solamente non ho la minima diffidenza in voi, ma tutta la fiducia che per la veritá vogliate essere all’occasione il mio avvocato; e perciò vi ho accennate alcune ragioni, come armi di cui possiate voi stesso servirvi contro i miei calunniatori, per togliere a me la disgustosa briga di purgarmi da tali imposture, nel caso si pubblicassero, non solo con pubblici manifesti, ma anche con impiegare tutti i mezzi possibili e piú efficaci, e per le vie offlziali e ministeriali presso i respettivi governi, tanto da per me stesso che coll’appoggio di potenti amici. Lo che quanto disgustosa e increscevol cosa sarebbe per me alla mia etá, lo lascio considerare a voi, che conoscete il mio carattere, che non ama di far torto e pregiudizio a veruno, anche mio calunniatore, come non mancherebbe di farlo un mio si giusto reclamo; poiché voi sapete meglio di me che in Inghilterra esiste senza dubbio constituzionalmente la libertá, ma non autorizza la calunnia e la menzogna, né permette a chichesia d’attribuire agli autori criminose e infamanti intenzioni, che non hanno mai avuto, ecc.
Ecco la risposta cli’a questa lettera diedi: Riveritissimo signor abate, la lunga ed aspra guerra da me sofferta in Vienna l’ho quasi affatto dimenticata, ora che sono a Londra, siccome un uomo, che, ricuperata la salute, dimentica le pene d’una malattia giá curata; ma delle grazie, eh’Ella m’ha fatte, non solamente non me ne sono dimenticato, ma me ne ricordo, coni’è dovere, e le ne sono gratissimo. Fu solo per questo che intrapresi di ripubblicare Gli animali parlanti , poema superbo, col quale ho sperato diffondere piu e piú la gloria letteraria e la fama poetica del signor abate Casti, e convincer a un tempo stesso tutti quelli, che sanno pochissimo dell’Italia, che il vere» genio della bella poesia non mori e non morrá mai nel paese nostro, e che, fin a tanto che Dio o la natura, se non tocca a lui, non crea un altro cielo ed un altro sole per quella prima «gemma dell’universo», cné tale chiamar mi piace l’Italia, vi fioriranno i piú maravigliosi poeti. Come potrebbe or credere, o veneratissimo signor mio, che per una vii brama di vendetta o per un imprudente capriccio io potessi o volessi intorbidare la pace de’ suoi vecchi giorni, o espoila a delle mortificazioni assai serie e forse fatali? No, no, non mi creda, caro signore, capace per alcun modo di tal viltá! Io ho rispettato e rispetto troppo i suoi rari talenti, mi son pregiato e mi pregio d’aver meritato, qualche volta, la sua stima ed il suo favore; e, se mi sono lagnato colla penna quando mi dolse, questa è la sorte dell’umana fragilitá: ma odio non mai, e molto meno vendetta.
Viva dunque tranquillo sul conto mio, e le piaccia credere che il signor conte Maniaco o ha male intese le mie parole o male interpretate le mie intenzioni. Le manderei una copia dell’edizioncella fatta da me degli Animali parlanti ; ma non riuscí né tanto bella né tanto corretta quanto avrei desiderato. Se mai però le cápita alle mani, ed Ella la legge, vedrá bene che vi ho fatti de’ cambiamenti, ma vedrá ancora che questi cambiamenti erano tanto pochi e di si piccola importanza, che non ho creduto valere il prezzo dell’opera il darne la briga a lei. — E perché largii?
— mi dirá Ella. Perché, fra tanti maestri di lingua italiana che abbiamo in Londra, non uno avrebbe osato leggere quel poema senza que’ cambiamenti, co’ giovanetti e colle damigelle a cui insegnano l’italiano; ed è appunto per quelli e per queste ch’io intrapresi di fare questa edizione, sapendo che per gli altri amatori della poesia v’erarto l’edizioni genuine di Parigi e d’Italia. M’incoraggiò ancora non poco a far queste piccole alterazioni un’edizione purgata de\YOrlando furioso , che si fece alcun tempo fa nella mia stamperia dal signor Nardini ; edizione, ch’ebbe un grandissimo spaccio e che fece leggere quel divino poema da una infinitá di persone che non avean ardito leggerlo prima. E, s’io mai dovessi stampare la Divina commedia di Dante, o la Gerusalemme del Tasso per l’uso medesimo, credo che oserei, con tutto il rispetto dovuto a que’ grandi uomini, cangiar tre o quattro versi del primo e dieci o dodici del secondo: perché né Dante né Torquato diverrebbero men famosi per questi, né i versi miei, per cattivi che fossero, scemerebber la luce di tintigli altii; ma i maestri di lingua ed i lor allievi non si troverebbero imbarazzati e confusi al suono d’una «trombetta» assai sporca de’ demòni di Dante o alle troppo vive pitture delle bellezze d’Armida. Quanto alla ristampa delle sue leggiadrissime ed impareggiabili novelle, non credo, a dirle il vero, che sia intrapresa buona per me. La ringrazio nulladimeno della offerta eh’Ella mi fa, e della sua buona intenzione. E il famoso «merendante di corna» (0 che fa a Vienna? Ha Ella novella di lui? Vuol farmi la grazia di parlarmene la prima volta eh’Ella mi scrive? Son desiderosissimo d’udire da lei se vero è che quel cornutissimo animale sia stato la causa primaria per cui Ella dovette partire da Vienna. Ho l’onore di essere suo devotissimo servo ed amico - Lorenzo Da Ponte.» Non ebbi fatalmente il piacere di ricever una sua risposta a questa mia lettera; ma, pochi di dopo, un amico scrissemi da Parigi che quel vecchio straordinario era morto d’indigestione, nella casa, credo, di Giuseppe Bonaparte, che favoriva e proteggeva mirabilmente quel raro genio poetico. Egli aveva passati gli ottanta, quando terminò di scrivere quel poema. Fece molto strepito, auando vide la luce. Sotto il velo della favola, contiene delle pitture vivissime de’ primi personaggi d’Europa, (i) Quand’io partii da Vienna. Leopoldo prese Bertali a poeta nel suo teatro. Un’anno dopo capitò Casti, e quel povero ciabattino drammatico fu congedato. Ma Casti, che non amava molto la fatica, domandò ed ottenne a coadiutore il signor Gamerra. poeta assai nolo per la sua Coi-nfide, poema in sette o otto volumi assai grossi, dove pai la di tutte le corna che apparirono in terra ed in cielo, dalla nascila di Vulcano x quella del suo signor nonno. Questo ingratissimo comincio non fu un anno in Vienna, che si mise a cozzare col suo benefattore; l’accusò di giacobinismo; e il povero Casti ebbe improvvisamente una visita simile a quella ch’ebb’to a Moedliug. Gli presero tutte le carte e gli commisero di partir immediatamente di Vienna. Casti a Vienna ci perdé molto in simile esigilo; ma il mondo letterario guadagnò il bel poema degli Ammali pallenti. Ora ch’ei piú non è, è lecito dirlo. e la storia critica, per cosi dire, degli eventi piú importanti della Rivoluzione. Colla morte di quelli e colla fine di quella rivoluzione, l’interesse di quel poema parve scemare, e non si legge cosi universalmente come solevasi ; ma chi conosce la vera poesia, lo legge e lo leggerá sempre con maraviglia e vi troverá de’ tratti pieni di brio, di vivacitá, di robustezza e di grazia, degnissimi d’un Monti, d’un Foscolo e di qualunque altro poeta che abbia mai prodotto l’Italia (0.
Fu verso la fine dell’anno 1S03 che accaddero queste cose, e fu allora che la mia biblioteca era giunta all’apice della prosperitá. Io contava allora nel mio magazzino quindicimila volumi di scelti libri, tanto antichi che moderni, tra’ quali un numero considerabile di libri rari, di classici di prima edizione, d’aldini e d’elzeviriani. Londra non vide e, ardisco dire, non vedrá piú una tal collezione nella bottega d’un sol libraio. Ma appena le passate mie piaghe erano rimarginate ed io cominciava a prender fiato ed a far rinascere le speranze di una dolce e tranquilla vita, tante disavventure s’accumularono sul mio capo, che, dopo una lunga battaglia tra la fortuna e la mia costanza, fui costretto a cedere ed a lasciar l’Inghilterra. Si vedrá, spero, da tutti, che non per leggerezza di mente, non per cattiveria di principi o di pratiche, non finalmente per mancanza di coraggio o di costanza ho perduto Londra, ma ben per una serie di combinazioni e di fatti, a cui né umana forza potea resistere, né consiglio porr’argine. Fu nulladimeno volontá imperscrutabile di Chi anche da’ mali sa trarre i beni, che per queste combinazioni e per questi fatti io mi trovassi quasi sforzato a venire in America, felicissima parte del mondo, dove procurerò condurre il mio lettore per le medesime vie per cui me condusse la provvidenza. Il primo colpo portatomi dalla sua da me combattuta mano fu una farragine di nuove cambiali di Taylor, guarentite tutte (1) l^egga il canto diciassettesimo di questo poema chi vuol conoscere il foco d’un poeta italiano d’oltaula e piú anuil da me, che i creditori maligni vendettero o posero in mano ai piú iniqui, artefiziosi e crudeli avvocati di Londra, fc difficile dipingere o dare di ciò una scarsissima idea agli americani, le cui santissime leggi impediscono intieramente servirsi di tali pratiche, inventate dalla umana perfidia a distruzione de’ miseri. Tra le altre infernali invenzioni di sintil razza una vo’ dirne, eli’a mio credere non è nota in America, e della quale principalmente m’è toccato, negli ultimi tempi in cui era a Londra, divenir vittima. Quando una cambiale è dovuta, e dall’accettatore di quella non è pagata, tutti quelli che l’«indossarono», dopo una breve notizia che lor s’invia, sono per legge soggetti alla carcerazione, e la spesa, che non è lieve e ch’entra per la maggior parte nella tasca dell’avvocato persecutore, cade alla fine sull’accettante o su quello che è piú abile a pagare. Trovai perciò molto spesso, sulle cambiali di Taylor o d’altri, tre, quattro e fin otto e dieci nomi d’«indossatori», che non valevano un soldo, ma che a sedo oggetto di triplicare e quadruplicare la spesa della legge (che dal governo permettesi, perché n’ha anch’esso una parte) s’eran fatti, per questa frode, segnare dall’avvocato. Per una cambiale di trenta lire, non pagata per due soli giorni dalle parti, al mio caro fratello Paolo toccò pagarne piú di trenta di spesa! E, avendo egli avuto ricorso alla legge, credendola una sopraffazione, gli toccò poi pagarne piú di cento; il che costò a quell’ottimo giovine, dopo un anno di afflizione, la vita. Vive presentemente in una cittá dello Stato di Pensilvania l’infame avvocato che mi rapi sul primo fiore degli anni un fratello virtuoso ed adorabile.
Io fui dunque tormentato novellamente dai creditori di Taylor, che, per dire la veritá, avrebbe ben voluto, ma gli era affatto impossibile, darmi soccorso. Ebbi perciò ricorso al primo mio progetto, vergognandomi di farne il minimo cenno al mio protettore e benefattore Mathias. Deposi piú di duemila volumi di scelte opere nelle mani del giá menzionato Stuart, che mi avanzò il danaro che m’occorreva, non a pagar il debito, ma le spese degli avvocati, degli sbirri e degli usurai, e, pochi di dopo, li vendette all’incanto per meno della metá di quello che mi costavano e per men della quarta parte di quello che valevano. Il danaro, ch’ei trasse da questa vendita, non bastò a ripagare tutto quello ch’aveva avanzato per me: ne prese allora altri mille volumi, ch’ebbero la medesima sorte de’ primi, che levarono il fiore di quel negozio e die non fecero altro bene che quello di ritardare per qualche tempo la mia intera caduta. Mentre io andavo vacillando per l’orribile percossa di questo colpo, un altro ne sopraggiunse, che crederei delitto tacere.
Il signor Nardini, socio, amico c compare mio, era entrato in un’operazione mercantile con un coito Cuthbert, da cui speravano e l’uno e l’altro degli immensi vantaggi. Avcano per tale effetto un agente in Roma, sulla cui onestá e intelligenza fondavano la loro fede. Non so qual ragione ebbero di chiamar in dubbio la fedeltá del sudetto agente: so che in un tratto cangiarmi linguaggio, e Cuthbert, assai piú scaltro di Nardini, dopo molti imbrogli, liti e minacce, propose di vendergli la sua parte, ed ei la projio.se a me, jier quel ch’io credo, innocentemente e con buona intenzione: ma io, che forse con trojijia facilitá mi lasciai persuadere, in brevissimo tempo mi ritrovai in un tale imbarazzo, che non mi fu jiossibile uscirne senza jierdite immense, che dojio la mia jiarienza da Londra furon seguite da quelle del frate! mio, cui le belle jiarole di quel furbo negoziante mostrarono facilmente lucciole jier lanterne. E lúr tali e tante le perdite di quel caro ed onesto giovine, che doj>o tutto mori, due anni soli dopo la mia partenza da Londra! Con tutti questi rovesci, il mio credito in piazza era ancor buono, le mie cambiali correvano e si scontavano facilmente ne’ banchi di Londra; e, come tutti gli imbrogli miei vernano da’ creditori di Taylor, cosi io era a un tempo medesimo e biasimato e compatito. Come [le^ò il numero de’ mici libri era sommamente diminuito, cosi risolsi di prendere un’altra casa a legione, che mi costasse assai meno, e di vedere se a jioco a jroco non m’era possibile di j^orre in nuovo sesto gli affari. Ma, appena io cominciava a pigliar fiato, le maladette sanguisughe forensi co’ lor subalterni e ministri mi saltavano addosso e ricader mi faceano nella desolazione. Fu in queste circostanze che la mia sposa, ricevuto avendo un invito dalla sua madre, che vivea fin d’allora in America, ottenne il mio consenso d’andarvi, e, per il solo desiderio di farla felice, 10 le permisi di pigliar seco i suoi quattro figli, uno de’ quali non aveva allor piú d’un anno. È vero che naturale tendenza alla pace e il bene che avea udito dire di quel paese m’avca latto passar per la mente la possibilitá d’andare un giorno a raggiungerla; ma questo non era che un lampo passeggierò, e lo staco mio, il mio impiego a Londra, i miei libri, le mie connessioni mi facevano parer poscia impossibile la nostra unione in America, e, quando io ne parlai come di cosa lontana al mio fedel consigliere eri amico Tommaso Mathias: — Che farai, Lorenzo, in America? — fu la sua risposta. Vedrai a suo tempo, anima generosa, quel che vi ho fatto e quello che sedici lustri sul dosso non m’impcdiseon di fare.
Si fissò il giorno della sua partenza, e positivamente il 20 di settembre dell anno 1S04 parti co’ suoi quattro figli da Londra. Andai ad accompagnarla fino a Gravesand, dove s’imbarcò sopra un vascello che doveva partire per Filadelfia coH’otiimo capitano Collet. Da Londra a Gravesand il nostro viaggio non fu che lagrime; ma nel momento in cui lasciai qirel vascello a cui l’avea accompagnata, nel momento in cui le diedi l’ultimo abbracciamento e l’ultimo addio, e un’occhiata a lei, un’altra a que’ quattro figli, mi parve di sentir al core una mano di gelo che me lo strappasse dal seno, e il mio pentimento, il mio dolore fu tale che per piú di mezz’ora rimasi in dubbio se dovea ricondur la famiglia a Londra o andar in America anch’io e lasciar il resto alla provvidenza. L’anima mia era in questo stato, quando tra le cose ch’io doveva lasciare mi ricordai di Taylor e del cantante Rovedini. Costui aveva avuto alcun tempo prima ricorso a me in materia pecuniaria, ed io aveva condisceso d’assisterlo, scontando un certo numero delle sue cambiali, colla promessa di rinnuovarle alla scadenza due o tre volte, per dargli il tempo opportuno a pagarle. Dissi dunque a me stesso: — Che fará Taylor senza me, che fará Rovedini? — Questo riflesso bastò a larmi tornar a Londra e a • staccarmi da cinque oggetti, che portavano con sé quasi tutto il mio cuore. Direi «tutto» ; ma v’era meco il mio Paolo, che mesceva alle mie le sue lagrime, che procurava di consolarmi, che poi ritornava a piangere, e che al fin di tutto avea al pari di me bisogno anch’egli di consolazione. Il vascello parti, ed è impossibile dire che cosa fu il movimento suo primo a un padre, a un marito amoroso, che avea pronunziata egli stesso la sua durissima sentenza nella permissione del loro allontanamento e d’un viaggio si lungo. Tornai a Londra, come imo credersi, sconsolato c infelice, lo aveva permesso alla moglie mia di rimanere un anno in America; ma, appena mi trovai senza lei e senza i cari miei figli, la casa dove abitava, la cittá in cui viveva, in veritá tutto quello che circondnvami mi divenne si odioso ed insopportabile, clic fui varie volte al procinto di lasciar andar tutto e di volare in America. Il fratello mio ed il signor Mathias, ch’io amava quanto me stesso, e il cui affetto per me e per gli miei meritava tutto, furono i due soli oggetti che m’impedirono di far questa risoluzione e che mi tennero inchiodato per altri sei mesi in una specie d’inferno. Non ispero di poter dare che una leggera idea di quel che mi è convenuto soffrire in que’ pochi mesi; ma quel che dirò son certo che basterá per chi ha un core. Le mie perdite, le mie persecuzioni, le mie calamitá furono tante e si grandi ad un tempo stesso, che non so in veritá da qual cominciarne la narrazione.
Era giorno festivo quello in cui parti la famiglia mia; tornai a Londra verso le due pomeridiane, e il rimanente di quella giornata mi fu lasciata del tutto libera alle lagrime ed al dolore. Non fu cosi il di seguente. Poco dopo il levar del sole e prima ancor ch’io mi fossi rizzato, udii picchiar la porta della mia casa. Corro alla finestra e vedo un uomo che mi par di conoscere. Mi vesto in fretta e vado ad aprire la porta, dove trovo il servo d’un avvocato (batchellor), che mi presenta la notizia di tre cambiali indossate da me e non onorate lo scorso sabbato dagli accettatori. Una di queste era di Rovetiini, di quell’uomo appunto per ch’io il giorno prima rimasi a Londra, e l’altre di Taylor. La somma montava in tutto a quattrocento lire. Corsi da Rovedini per una cambiale nova; ma egli due giorni prima s’era nascosto per timore della prigione, e nessuno sapea o volea dirmi dov’egli fosse. Quanto a Taylor pochissima speranza rintanevami di ripieghi. Andai dunque dall’avvocato, che tra i piú rigidi e crudeli era rigidissimo e crudelissimo, e a forza di promesse e di preghiere ottenni una dilazione di quattro giorni (acconsentendo per altro ch’ei facesse tutte le spese possi hi 1 i contra gli accettatori) ; e, mettendo in vendita altri mille volumi, ebbi abbastanza da pagar quelle somme, con quindici lire sterline di spesa in quattro giorni !
Appena salvatomi da tal fulmine, me ne cadde un altro non men tremendo sul capo. Aveva venduto a certo Gameau e compagno, librai francesi in quella cittá, una grossa partita di libri da portar in America per esperimento, e per cui data avevanmi una cambiale a due mesi: non mancavano clic pochi di alla scadenza, quando il signor Gameau, che prese a NewYorck il nome di Devillaret, parti per l’America, cd io, che l’aveva negoziata, ho quindi dovuto sacrificare degli altri libri per ritirarla. Poche settimane dopo, anche il libraio Dulau seguitò l’esempio del suo campatriotto, e, sebben qualche mese dopo m’abbia quasi intieramente pagato, nuiladimeno il suo fallimento costommi e spese e travagli immensi, de’ quali e delle quali né fui né chiesi d’esser compensato da lui.
Dopo tutto questo, potrá credersi per alcuno che rimanessero altre pillole da inghiottirsi? Si signori: ne rimanevano molte e non indorate. L’infame Federici trovò il mezzo di cacciarmele nella strozza fin dell’Italia, di dove scrisse diverse lettere a Taylor e a tutti gli amici suoi; e, fattosi credere nell’estrema miseria, ottenne che obbligassero me a pagargli cinque ghinee al mese, che dedur si dovevano dal mio salario, in compenso de’ libretti che non potea piú scroccarmi! Scrissi allora una tal lettera a Taylor, che, non so se per timore o per un sentimento di giustizia, si risolse di vedermi. Fissò l’ora ed il loco, cd andai da lui. Comrie, quell’avvocato medesimo di cui poco prima parlai, era in svia compagnia b). Dopo essersi scusato alla meglio per la soprafazione che mi si faceva per lavorir Federici, mi domandò s’io aveva meco i miei conti. Mi parve cosa assai strana ch’avesse preso quell’avvocato per esaminarli. In fondo però n’ebbi un piacer sommo, perché quell’avvocato trovò tutto giustissimo. Taylor fece delle osservazioni su diverse domande fatte da me e sulle pretese segnate per compenso di danni, ed 10 cancellai sul fatto tali pretese; ma al fin de’ conti si trovò ch’egli doveami seicento lire sterline, anche calcolando le cose a suo modo. Ed allora soggiunse: — Seicento ne devo, e cinquecento ne dono al signor Da Ponte, come un picciol compenso de’danni da lui sofferti e de’servigi a me resi; e per questa summa gli assegno la loggia N..., ch’è in mano del signor Comrie. e ch’egli avrá cura di vendere e di pagare il signor Da Ponte. — Sebbene questa non valesse la terza parte delle perdite che indirettamente io avevo fatte per lui, avrebbe bastato nulladimeno a darmi un conforto e forse, col tempo, a ripormi nel mio pristino stato Ma dove andò a finire si bella pompa?
Fra un’altra gran quantitá di cambiali di Taylor, di Corri e di Rovedini, che quotidianamente scadevano e veniano a me solo per pagamento, e diversi altri piccioli fallimenti di librai ed altri, che insieme faceano una grossa summa, io mi trovai in breve tempo in tale imbarazzo, che, non vedendo piú la strada d’uscirne, risolsi di chiamar tutti i creditori, di far lor vedere 11 mio vero stato, di porre il tutto nelle mani di due onesti pers maggi, i quali a conti chiari avrebbero avuto abbastanza da pagar tutti fin all’ultimo soldo. Si fissò un giorno pel loro incontro, ed io frattanto ebbi cura di veder Taylor per udire la sua opinione. Edito il progetto mio. trovollo ridicolo. — In tanti anni — diss’egli — che siete a Londra, non conoscete quelli con cui, piú che con tutti gli altri, avete bazzicato. — Di fatti tutti (1) Questo signor Comrie aveva tutta l’apparenza del galantuomo Io mi fidai ciecamente di lui e fui, come al solito, anche da lui barbaramente ingannato. In ventiquattro anni non mi venne fatto d’udir novella di lui. Vorrei sapere s é vivo o morto, e chiedo la grazia di tanto a qualche anima giusta. i creditori miei, o, per meglio dire, di Taylor, Corri e Rovedini, erano o avvocati o usurai. — Potete — disse seguitando — fare una pruova; e, se non giova, come non gioverá, andate in America, restate finché s’accomodano le mie faccende (e sapete che, quando le logge vendute per un certo tempo tornano a me, si devono accomodare), e allor tornerete a Londra senza timori.
Vi prometto frattanto di mandarvi, finché vi rimarrete, tutto il vostro salario come poeta, e voi potrete mandarmi qualche opera pel mio teatro. — Queste parole mi piacquero: nulladimeno volli pruovare s’era possibile di far intendere ragione a que’ duri animi. Il giorno primo di marzo dell’anno 1805, verso le sei della sera, si unirono tutti insieme. Il mio avvocato presentò loro i miei conti, s’offerse di riscuotere quello che a me era dovuto e di pagare quello che agli altri io dovea. Ascoltarono con pazienza, bevvero dodici bottiglie di vino, che, per farmi una grazia, mi permisero di pagare, e, dopo molti «vedremo», «calcoleremo», «parleremo» e simili ciance insignificanti, mi diedero la buona notte, e verso le nove partirono. Cominciai a sospettare che vero fosse quello che Taylor detto m’aveva, andai a casa, mi misi a letto e dopo qualche ora m’addormentai. Sul piú bello del sonno una picchiata di porta mi sveglia: vo a veder chi picchiava, ed odo una voce a me nota, che diceami : — Aprite, signor Da Ponte. — Conosco ch’era un uffiziale di corte, ma, come era il solo fra tanti ch’io sapeva esser onesto, sincero e capace di caritá e di amicizia, andai sul latto ad aprirgli, e fu allor che colle lagrime agli occhi mi disse che la mattina prima delle dicci egli avrebbe undici writs contra me, che i miei creditori (dodici in tutto) gli avean promesso un bel premio, se prima delle dodici egli m’avea nella sua casa d’arresto; ma la crudeltá di que’ perfidi aveva talmente commosso il suo core, che veniva ad informarmene e a consigliarmi di lasciar Londra. Lo ringraziai quanto meritava, gli offersi alcune ghinee ch’ei (1) Mandati d’arresto. rifiutò con disdegno, e voleva per forza ch’io n’accettassi alcune da lui. Non occorre dire i diversi affetti che m’assalirono in quell’istante. M’abbracciò, parti ; ed io, non essendo ancora la mezzanotte, mi vestii sollecitamente e corsi alla casa di Gould. che dirigeva allora il teatro. Gli narrai tutto il fatto, gli esposi la mente ili Taylor, e gli chiesi cento ghinee a conto del mio salario, ch’egli senza renitenza mi diede. Tornai a casa, mi ricoricai per poche ore e verso l’alba mi vestii ed andai sul fatto in cittá per passaggio. Non ebbi a cercare molto: nella medesima bottega, ove entrai per informarmi se v’eran vascelli che partissero per l’America, trovai il capitano Hyden, che aveva affissato un cartello per dar avviso della sua partenza per Filadelfia, che doveva seguire il quinto giorno del mese stesso. Non v’era tempo da perdere. Andai all ’Alien office , m’abboccai col direttore di quell’uffizio, gli narrai tutto il fatto, ed egli, con una grazia ed una bontá degna di lui, ordinò che mi si desse subito un passaporto e che nessuno di quell’uffizio parlar osasse della mia partenza. Presi quindi un calessetto di posta e andai a Gravesand col fratei mio. Quando gli dissi che andava in America, il suo dolore fu tanto grande, ch’io credea ch’ei morisse. Ma, a forza di preghiere e di ragioni, parve un poco ritranquillarsi, sopra tutto quando gli diedi solenne promessa di tornar a Londra in sei mesi o di f^rlo venire meco in America. Ma non fu né l’una cosa né l’altra. Egli mori a Londra due anni dopo la mia partenza ; ed io sono ancora in America.
FINE DEL VOLUME PRIMO.